DON ANTONIO

domenica 28 agosto 2011

Enzo Bianchi. Speranza

Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: "Dov'è, cristiani, la vostra speranza?". Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese
di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (lPt 3,15: "siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi"). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del
Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite
concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare
che vai la pena di vivere e di morire per Cristo? Sa
chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché
abitata dalla speranza, sull'esempio della vita di Gesù di
Nazaret? Queste domande non possono essere eluse,
soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una
profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a
lunga durata, capaci di reggere una vita.
Nella "società dell'incertezza" (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell'epoca posta sotto il segno della "fine" (di secolo, di millennio, della modernità, delle
ideologie, della cristianità), nel tempo della
frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita,
suona ormai in modo drammatico la domanda: "Che cosa
possiamo sperare?". E colpisce che l'insistenza
sull'avvento del nuovo millennio si accompagni nella
chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso
il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di
speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere
presenza significativa soprattutto per coloro che nel
futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.
L'impressione è che oggi il nemico della speranza sia
l'indifferenza, il non-senso o quantomeno l'irrilevanza del
senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla
carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi,
anche l'aspetto del ripiegamento sul presente, sull'oggi,
sull'azione da compiere nei confronti del bisognoso; il
tutto all'interno di una scelta che è a tempo e può
sempre essere ritirata, che non impegna futuro.
Di fronte a tutto questo si situa la domanda: "Dov'è, cristiani, la vostra speranza?". Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che "è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani" (La città di Dio 6,9,5), Cioè, il
cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma

sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire
la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la
speranza è "un'attiva lotta contro la disperazione" (G.
Marcel), è "la capacità di un'attività intensa ma non
ancora spesa" (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all'uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo
viator, spe erectus: è la speranza che tiene l'uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro. Il cristiano trova in Cristo la propria speranza ("Cristo,
nostra speranza": 1 Lettera a Timoteo 1,1), cioè, il
senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In
questo senso, la speranza cristiana è un potente
serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante
che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto.
La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all'uomo, non hanno l'ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il
perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l'evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Lettera a Timoteo 2,3; 4,10; Lettera a
Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la
logica pasquale. Quella "logica" che consente al credente
di vivere nella fraternità con persone che non lui ha
scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l'antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove
e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al
martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in
Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa,
inquietante, ma concretissima e convincente narrazione.
Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto:
"La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà
eternità" (Commento ai Salmi 103,4,17).
ENZO BIANCHI, Le parole della spiritualità, Rizzoli, 1999 pp.161- 164

Memoria Dei
Due testi biblici chiedono al cristiano di pregare
"sempre", "senza interruzione". Nel vangelo di Luca Gesù pronuncia una parabola sulla "necessità di pregare sempre, senza stancarsi" (Luca 18,1) e Paolo comanda: "Pregate senza interruzione" (1 Lettera ai Tessalonicesi
5,17). Com'è possibile? E com'è possibile conciliare
questo comando con l'altro che chiede di lavorare (2 Lettera ai Tessalonicesi 3,12) e con l'esempio di Paolo
stesso che afferma di lavorare "notte e giorno" (2
Lettera ai Tessalonicesi 3,8)? E com'è possibile pregare
mentre si dorme? Questi interrogativi hanno traversato il
cristianesimo antico, soprattutto il monachesimo,
ricevendo diversi tentativi di risposta. Da quello radicale
ed estremista dei "messaliani" (o "euchiti", "coloro che
pregano") i quali, rifiutando assolutamente il lavoro,
pretendevano di dedicarsi unicamente alla preghiera, a
quello, altrettanto estremista e altrettanto votato
all'impossibilità, degli "acemeti" ("coloro che non
dormono"), che cercavano di ridurre il più possibile il
tempo di sonno per consacrarsi solamente alla
preghiera. Altre risposte, più estrinseche, e tipiche del
monachesimo cenobita, hanno cercato di moltiplicare le
ore di preghiera liturgica e di assicurare, mediante
appropriati turni e rotazioni dei monaci del monastero,
una continua preghiera liturgica, una laus perennis.
Altre risposte hanno battuto la via dell'interiorità, della
preghiera ritmata sul battito del cuore, sul ritmo del respiro, sulla ripetizione di un'invocazione rivolta a Dio, fino a giungere alla cosiddetta "preghiera monologica", che cioè ripete instancabilmente una sola parola, p. es.,
il nome di Gesù.
Frutto di questa concentrazione dello spirito dell'uomo sul nome del suo Signore, di questa attenzione che vuota il cuore di ogni altro pensiero e lo fa inabìtare solamente dal pensiero dì Dio, è la cosiddetta mnéme
theou, la memoria Dei, il "ricordo di Dio". Espresso soprattutto dall'insegnamento spirituale dello Pseudo - Macario, il ricordo di Dio è un atteggiamento spirituale profondo di unificazione del cuore davanti alla presenza di Dio interiorizzata. E' ricordo nel senso di custodia nel cuore, cioè nella mente e nell'intimo della persona, della presenza di Dio così che alla luce di tale presenza venga
unificata e integrata nella vita interiore anche la vita
esteriore dell'uomo. E' ricordo alla cui luce si vive e si ri
comprende il presente giudicandolo nella fede. La
memoria Dei diviene così la matrice del discernimento
che forgia la sapienza spirituale e rende l'uomo capace di
vivere ogni atto e ogni parola alla luce del terzo che il

credente fa regnare in ogni relazione: Dio. L'uomo
spirituale autorevole nasce da questa vivificante
memoria. E' memoria che si associa ad amore, carità,
zelo, ardore, compunzione, nei confronti di Dio stesso.
Dice lo Pseudo-Macario: "Il cristiano deve sempre
custodire il ricordo di Dio, perché non deve amare Dio
solamente in chiesa ma anche camminando, parlando,
mangiando". Questa memoria diviene presenza interiore,
dunque preghiera, cioè vita davanti a Dio e nella
coscienza di tale presenza. Il credente è così reso
"dimora del Signore", come afferma l'apostolo Paolo.
Ovvio allora che tale memoria non sia semplicemente un
movimento psicologico: in effetti essa è azione dello
Spirito santo.
Il quarto vangelo, per cui lo Spirito ha la funzione di "insegnare e ricordare" (Giovanni 14,23), afferma che lo Spirito insegnerà e ricorderà "tutto" ciò che Gesù ha
detto e fatto. Sempre lo Spirito appare memoria di
totalità. Dove questa totalità non è data dalla somma di
gesti compiuti e di parole pronunciate e fissate nella
Scrittura, ma dalla presenza stessa di Gesù. E' memoria
delle parole e del silenzio di Gesù, del detto e dei non
detto, del compiuto e del non-compiuto, del già e del
non ancora, dunque anche di ciò che ancora non vi è
stato. Opera dello Spirito, questa memoria è anche profezia. Essa guida a quella consonanza profonda con Cristo, con ciò che sta a monte del suo parlare e del suo agire, che infonde nel credente la capacità di obbedire creativamente all'Evangelo, guidato dallo Spirito che fa
abitare in lui il Cristo. Questa memoria Dei cela in sé un'attitudine di riconoscenza e di ringraziamento, di
fedeltà e di impegno, di dedizione e di speranza. E'
memoria che unifica il passato, dà luce e senso al presente e apre all'attesa e alla speranza per il futuro. Capiamo perché Gregorio il Sinaita (XIV secolo) abbia potuto affermare che il comando "Ricordati del Signore tuo Dio in ogni tempo" sia il più fondamentale di tutti i comandi. E' grazie a esso, infatti, che gli altri possono
essere adempiuti.
tratto da:
ENZO BIANCHI, Le parole della spiritualità,
Rizzoli, 1999 pp.83-86

Preghiera di lode
La preghiera cristiana avviene all'interno dei due poli del lamento e della lode. Di quest'ultima credo sia particolarmente difficile parlare. Essa giunge a noi carica di un giudizio di eccellenza rispetto alle altre forme di
preghiera, giudizio ripetutamente formulato dalla
tradizione cristiana adducendo la sua purezza, suo
disinteresse, la sua gratuità. Io credo che la logica del
confronto e del paragone, del giudizio di superiorità, e
dunque di quello relativo di inferiorità, non si addica alla
gratuità della lode, la quale va piuttosto compresa all'interno del movimento relazionale e dialogico della preghiera. Lode e domanda sono inclusivi l'una all'altra, ed è la loro polarità, la loro complementarità che rende
equilibrata e autentica la preghiera come relazione. Questa non è pretesa (esclusività della domanda), né adulazione (esclusività della lode), ma incontro reale (e non ideale) che avviene nella storìa, nella concretezza della vita, di un uomo con il Signore che in tale storia si fa presente con i prodigi del suo amore suscitando la risposta laudativa oppure si nasconde dìetro agli enigmi
della sofferenza, della morte, dell'angoscia provocando la domanda, il lamento, la supplica, Nelle relazioni umane
interpersonali la lode è linguaggio che esprime
l'accettazione e la positiva valutazione dell'altro; anzi,
normalmente, è il linguaggio degli amanti. Nella
preghiera, potremmo dire che la lode è amore che
risponde all'amore: all'amore di Dio riconosciuto in eventi dell'esistenza si risponde lodando, riconoscendo cioè l'Altro nella grandezza delle sue opere e dei suoi doni. E la lode ha sempre come destinataria la persona
di Dio, non i suoi doni: la preghiera di lode è teocentrica.
La lode è l'Amen, il "sì" dell'uomo a Dio e al suo agire: "sì" totale e incondizionato. E' questa la lode di Gesù stesso: "Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e
della terra, poiché hai nascosto queste cose ai sapienti e
agli intellettuali, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre,
poiché così è stato il tuo beneplacito dinanzi a
te" (Matteo 11,25-26). E la lode del cristiano ripete
questo movimento trovando in Cristo suo catalizzatore: "Tutte le promesse di Dio in Gesù Cristo sono diventate "sì". Per questo sempre attraverso Cristo, sale a Dio il
nostro Amen per la sua gloria" (2 Lettera ai Corinzi 1,20). La liturgia, magistero della preghiera del cristiano, caratterizza il tempo pasquale con l'insistita ripetizione dell'esclamazione "Alleluja" ("Lodate il Signore"), e così mostra che il grande dono di Dio è il Figlio stesso, morto e risorto per la salvezza degli uomini. E' l'azione salvifica
del Dio trinitario manifestata pienamente nell'evento pasquale che suscita la dossologia, la lode della chiesa. Questo aspetto della lode come "Amen" rivolto a Dio, come confessione della sua alterità e della sua presenza,

ci porta a comprendere la fondamentale sinonimia di lodare con credere: la lode esprime l'aspetto celebrativo
della fede. Non a caso nella Bibbia essa spesso sorge dopo il discernimento di fede di un intervento di Dio nella storia: così, per esempio, il cantico di Mosè che segue la
confessione dell'azione di Dio che aveva fatto uscire i
figli d'Israele dall'Egitto (cf. Esodo 15), Più che di
superiorità della lode rispetto alla supplica occorre allora
parlare della lode come orizzonte inglobante della stessa
supplica!
La supplica suppone la lode e tende alla lode: essa si fonda sulla lode in quanto confessa e invoca Nome di
Dio e riconosce di non poter contare su altri che lo
stesso Dio che ha abbandonato il credente ("Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?": Salmo 22,2); essa
tende alla lode perché spera di rivedere il volto noto e
amico del Signore. Ecco perché spesso i salmi di supplica
sfociano nella lode (Salmo 22; 31; 69; ecc.); ed ecco
perché il salmista, nel lamento per il suo esilio, per la
sua lontananza da Dio, può esclamare: "Ancora lo
loderò" (Salmo 42,6.12; 43,5). Questo aspetto di
speranza, di lode futura, è particolarmente accentuato
nelle dossologie neotestamentarie dell'Apocalisse che parlano della vita eterna caratterizzandola con la lode dei credenti: si tratta evidentemente dell'affermazione della relazione di presenza senza più ombre del credente nei confronti di Dio. Ma se la lode sintetizza in forma orante le dimensioni della fede, della carità e della speranza, è
chiaro come essa sia la vita stessa che il credente è
chiamato a vivere: noi siamo destinati a essere "lode
della gloria di Dio" (Efesini 1,14). La lode vuole
diventare la vita stessa del credente: poiché si ama Dio
con tutto il cuore e il prossimo come se stessi, si vuole
lodare con tutto il cuore, cioè vivere e morire alla
presenza di Dio. Significativamente la tradizione cristiana
ci presenta il martire come esempio di lode vissuta fino
alla fine, quasi un "Amen" personificato. Questa
dimensione così pregnante e basilare della lode
all'interno della preghiera, ci mostra come si nutra di
un'estesa gamma di linguaggi, personali e comunitari. Dal canto al sussurro, dal giubilo all'esultanza interiore, dalle parole al silenzio: "Per te anche il silenzio è lode, o
Dio" (Salmo 65,2). Allora, nel silenzio, la lode diventa
presenza cor ad cor dell'amato al suo Amante.

ENZO BIANCHI, Le parole della spiritualità,
Rizzoli, 1999 pp.131-134

Nessun commento:

Posta un commento