DON ANTONIO

martedì 29 novembre 2011

«Il Dio dei Padri»Introduzione al libro della Genesi. Temi di Teologia Biblica trattati da don Claudio Doglio.28 NOVEMBRE 2011





LA SAPIENTE TEOLOGIA SULL’ORIGINE DEL MALE
«Io porrò inimicizia tra te e la donna» (Gen 3)

Il secondo racconto della creazione (Gen 2,4b–3,24) costituisce un unico meraviglioso quadro, costruito come un “dittico” e composto di due tavole, distinte ma congiunte. Nella prima tavola (Gen 2,4b-25), come si è già visto, è stata presentata l’armonia delle relazioni umane secondo la volontà buona del Creatore; ma al quadro luminoso e sereno succede il dramma della disarmonia.
La seconda tavola del dittico
L’altra faccia della medaglia è costituita dalla seconda tavola del dittico (Gen 3,1-24), che presenta gli elementi negativi della realtà umana L’antico autore, infatti, compone questa prima pagina della storia di salvezza con l’intenzione di rispondere a una domanda fondamentale: «Perché il male?». In particolare gli preme capire perché mai esista la disarmonia nel mondo, se è vero che Dio ha fatto buone e belle tutte le cose; vuole spiegare perché non funzioni la relazione dell’uomo con Dio, perché sia così faticosa la relazione dell’uomo con la natura, perché produca amarezze e dolori anche la tanto desiderata relazione dell’uomo con la donna.
Il racconto dunque vuole ricercare le cause al di là della nostra storia contingente e attuale, vuole risalire alle origini del problema: per questo si parla in gergo tecnico di “eziologia metastorica”. Il secondo quadro narrativo concentra quindi l’attenzione sul fattore che ha turbato la splendida armonia del creato: la libertà umana, messa alla prova, ha fallito; l’uomo ha travalicato il proprio limite umano, pretendendo di usurpare il ruolo divino, e si è scoperto “nudo”!
Proprio l’esperienza della nudità costituisce l’indizio esplicito di cambiamento: mentre alla fine della prima parte veniva sottolineato come l’uomo e la donna non provassero vergogna per il fatto di essere nudi (2,25), ora viene sottolineato il drammatico sopraggiungere di una tale vergogna, che sigilla la rovina delle precedenti buone relazioni (3,10-11). E questa è la condizione comune dell’umanità: la nostra esperienza infatti riguarda solo la seconda tavola del dittico, quella della disarmonia. Il primo quadro, invece, non costituisce tanto il ricordo di un’era felice scomparsa, quanto piuttosto la rivelazione del progetto di Dio. Il racconto del giardino e della grazia precede quello del peccato e rappresenta l’intenzione divina, il motivo per cui Dio ha creato il mondo e l’orizzonte a cui tende la storia della salvezza.
Dunque, tutt’altro che una pagina pessimistica! Si tratta invece di un racconto di speranza, che rifiuta di accettare come “normale e naturale” che le cose vadano male: se per i pensatori mesopotamici l’uomo è nato per soffrire, il testo biblico rivela che il destino dell’uomo è di superare la presente situazione di sofferenza e disarmonia.
Il racconto della seconda tavola si struttura in tre momenti successivi: anzitutto il quadro della tentazione e del peccato (3,1-7); poi l’indagine (3,8-13); quindi la sentenza divina (3,14-21). In questi tre momenti il narratore segue un ordine artistico: anzitutto presenta i personaggi nella sequenza serpente–donna–uomo; poi nella sezione dell’inchiesta l’ordine viene capovolto (uomo–donna–serpente); infine nel giudizio si riprende l’ordine iniziale (serpente–donna–uomo). Bisogna riconoscere che il racconto è costruito bene, cesellato anche nei particolari: la donna è sempre al centro, perché rappresenta l’elemento centrale di tutti i passaggi.
La narrazione si chiude con la drammatica conclusione della cacciata dal giardino (3,22-24), riprendendo i temi della prima tavola ed evidenziando la differenza della situazione storica rispetto al progetto divino iniziale.
Il serpente “sapiente”
Il capitolo 3 inizia con un personaggio nuovo che prima non era stato nominato: il serpente (ha–nachásh). Eppure è indicato con l’articolo determinativo e presentato come se i destinatari lo conoscessero: evidentemente costituisce un simbolo tanto complesso, eppure tanto noto, che il narratore non si preoccupa di chiarirlo.
Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio (3,1a).
Fine narratore e abile cesellatore di termini, l’autore crea un gioco letterario fra due vocaboli ebraici: nel versetto precedente l’uomo e la donna erano stati presentati “nudi” (‘arûmîm), ora il serpente è detto “astuto” (‘arûm). Solo una piccola differenza vocalica distingue i due termini che segnano il passaggio: la nudità degli uomini ha da fare con l’astuzia del serpente.
Tradurre ‘arûm con “astuto” serve per evidenziare una sfumatura negativa, eppure l’aggettivo ebraico ha anche un valore positivo e indica l’intelligente fra gli esseri viventi creati dal Signore Dio: il serpente è saggio, sapiente. Proprio nel libro dei Proverbi, nato nell’ambiente sapienziale della corte, questo aggettivo era adoperato per caratterizzare l’uomo prudente in contrasto con lo stupido (vedi ad esempio Proverbi 12,16.23; 13,16; 14,8.15.18; 22,3; 27,12). Non è quindi da escludere che l’autore voglia alludere con una velata polemica alla mentalità razionalista di quel contesto culturale.
Ma chi è questo serpente che parla e poi sparisce dalla circolazione, senza che il racconto lo prenda più in considerazione? Subirà la condanna, senza reagire e senza parlare, per non comparire più in altre vicende. La nostra abitudine interpretativa deriva dalla rilettura posteriore fatta dalla tradizione giudaica e poi da quella cristiana: quindi pensiamo tranquillamente che il serpente sia il diavolo. Ma l’identificazione non è così semplice. L’autore antico non aveva ancora l’idea del diavolo come realtà spirituale di un angelo ribelle che tenta gli uomini; usa invece un simbolo molto conosciuto nella cultura mitica del suo tempo. Il serpente quindi non è pensato come il demonio; eppure l’identificazione tra il serpente e il diavolo è relativamente antica. Nella Scrittura questo rapporto viene suggerito per la prima volta nel libro della Sapienza (fine I sec. a.C.), dove il diábolos, il “divisore”, è abbastanza chiaramente accostato al serpente di Gen 3, colui grazie al quale la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,24). Nel Nuovo Testamento questo accostamento diviene ancor più esplicito in Ap 12,9 e 20,2: «il drago, il serpente antico, cioè satana, il diavolo». La piena identificazione del serpente genesiaco con il diavolo nasce tuttavia soltanto in epoca post-biblica. Sia la tradizione giudaica che quella cristiana immagineranno sempre più decisamente il serpente come il demonio stesso, origine del peccato e di ogni male (cf. l’Apocalisse di Mosè, 16-19; Giustino, Dialogo con Trifone, 124).
Per comprendere bene il significato di questo antico simbolo dobbiamo riflettere, osservando anzitutto che viene presentato come uno degli “esseri viventi della campagna”, uno di quelli “fatti” dal Signore Dio: dunque una delle creature! Non è affatto una sorta di anti-dio.
Nella tradizione mitica mesopotamica il mostro primordiale è immaginato come un serpente, giacché i vari mostri e i draghi hanno nell’immaginario comune qualcosa del rettile: è normale quindi che il serpente sia collegato con il caos e il disordine, che Dio domina per creare l’ordine. Talvolta però nei racconti mitici orientali i serpenti hanno pure una valenza positiva, svolgendo il ruolo di custodi del giardino degli dei. In questo caso dunque il narratore potrebbe aver pensato al serpente in quanto immagine di chi fa la guardia all’albero.
Ma c’è di più. Nel mondo egiziano il serpente è simbolo di potere e di sapienza: il faraone porta sulla tiara, proprio per significare la sua qualità di potente e sapiente, la figura di un serpente ureo eretto, simbolo dell’onnipotente occhio del dio solare. Così il serpente è connesso alla raffigurazione del potere umano e della prepotenza faraonica, con sottile allusione alla cultura di Gerusalemme, che in certi casi rischiava di essere pericolosamente filo-egiziana. Per il mondo cananeo, invece, il serpente è figura “ctonica”, cioè legata alla terra e connessa ai culti della fertilità: diventa pertanto un segno di idolatria, giacché era venerato come una divinità capace di donare fecondità. In tal modo esso rappresenta la tentazione di idolatrare le forze della natura, con un complesso riferimento sessuale e religioso insieme. Sappiamo che addirittura nel tempio di Gerusalemme era stato introdotto un idolo a forma di serpente (detto nechushtán) eliminato poi dalla riforma del re Ezechia (2Re 18,4). Inoltre la radice verbale che in ebraico ha le stesse consonanti del nome serpente (n-ch-sh) significa “fare incantesimi”: forse perché il rituale idolatrico delle alture cananee era connesso con l’oscuro mondo della magia e delle divinità infere. Perciò il serpente rappresenta un pericolo per la fedeltà di Israele all’alleanza con il Signore Dio.
A queste molteplici simbologie antiche i moderni hanno aggiunto ancora altre spiegazioni, fra cui una si presenta interessante: il serpente sarebbe un simbolo dell’uomo stesso, non una realtà esterna, ma il lato oscuro della coscienza umana. In fondo il ruolo del serpente nel racconto di Gen 3 è quello di fare domande, porre problemi, suscitare dubbi: proprio ciò che fa l’uomo stesso. Inoltre se è vero che è il più sapiente delle creature, anche questo si adatta bene all’intelligenza dell’uomo. Si dice poi che il serpente è legato alla polvere e deve mangiarla tutti i giorni della sua vita (3,14): ma la polvere è l’elemento stesso di cui l’uomo è costituito (2,7) e a cui tende (3,19). In qualche modo, dunque, questa complessa simbologia può essere connessa all’uomo stesso, alludendo al suo oscuro modo di ragionare che dubita di Dio e a lui si ribella, invece di riconoscerne la benevola signoria di Creatore.
Il racconto biblico denuncia la presenza del male, ma non la spiega: indica che il serpente c’è già e l’umanità l’incontra, senza esserne l’origine ma rimanendone sedotta.
La libertà alla prova: sospetto e sfiducia
Quindi, parlando del serpente, dobbiamo considerare in controluce tutte queste variegate immagini: non si tratta certo di un semplice animale parlante, come nelle favole, ma di un complesso simbolo sapienziale, un personaggio del dramma che mette alla prova la libertà dell’uomo e lo provoca alla rivolta.
Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”» (3,1b).
Il serpente semplicemente parla e stravolge il precetto divino con una subdola domanda: il divieto riguardava un solo albero (2,17), mentre tutti gli altri, compreso quello della vita, erano concessi (2,16). Ma questa “legge” era stata data all’uomo, quando la donna non c’era ancora! Lei ha ricevuto la norma per tradizione e il dubbio ingigantisce la proibizione, determinando un’idea di legge oppressiva che blocca la libertà umana.
Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (3,2–3).
La donna risponde al sospetto ripetendo il testo dell’alleanza, ma con alcune modifiche: omette di dire che la facoltà di mangiare riguarda tutti gli alberi; attribuisce la collocazione in mezzo al giardino all’albero della conoscenza, mentre prima era stato detto dell’albero della vita (2,9); aggiunge l’imperativo di non toccare l’albero, assente nel precetto (2,17). La donna sta confondendo i due alberi? Comunque, a questo primo tentativo resiste, richiamando la legge divina.
Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (3,4–5).
La seconda aggressione psicologica è più penetrante e riguarda la verità delle parole divine e la sua intenzione profonda: il serpente afferma che non è vera l’affermazione di Dio sui danni prodotti dall’albero della conoscenza. Egli fa sorgere il dubbio che Dio menta e quindi inganni: ha invitato a non mangiare di quell’albero per un motivo diverso. E qui sta il secondo sospetto, ancora più grave e pericoloso: Dio inganna l’uomo per invidia malevola, perché non vuole che l’uomo conosca e cresca, soprattutto non vuole che diventi come Dio. Il ruolo del serpente dunque è quello di dar voce al grande sospetto che alberga nel cuore umano: di Dio non ci si può fidare, perché è nemico dell’uomo e cerca di fargli del male! La tentazione per eccellenza dunque è l’autonomia umana: non fidandosi di Dio, l’uomo sceglie di decidere con la propria testa e di rendersi indipendente da Dio. Con la pretesa di difendere la propria libertà l’umanità si mette contro il Signore: vuole essere libera di decidere qual è il bene e qual è il male.
Questa dinamica di dubbio e sospetto è l’origine del peccato, tale ragionamento sta alla base di ogni peccato come rivolta contro Dio. Il serpente fa sorgere il dubbio sulla verità e la bontà di Dio: in altre parole a mettere l’uomo contro Dio sono la pretesa di potere e di autonomia etica, la mentalità magica e naturalistica, l’istinto stesso dell’uomo, il ribelle “ostacolatore”.
Dopo che la donna ha concepito questo pensiero, il passaggio alla trasgressione è cosa elementare. Con finezza psicologica il narratore evoca il progressivo cambiamento nel modo di vedere:
Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza (3,6a).
Sono tre gli elementi significativi. Comincia col vedere che l’albero è buono da mangiare, esattamente il contrario di quello che aveva detto Dio: mangiarne produce morte (cf. 2,17). Il linguaggio è chiaramente simbolico, giacché non si vede cogli occhi se un frutto è buono da mangiare: ma il narratore vuole significare il modo di vedere e valutare la realtà. Dubitando della bontà di Dio, la creatura umana vede le cose nel modo opposto: anche ciò che è intrinsecamente negativo, sembra buono. Il frutto poi appare «un piacere per gli occhi»: l’aspetto estetico assume un valore etico, per cui ciò che piace diventa buono. Infine l’oggetto proibito diventa oggetto del desiderio, desiderabile proprio per una conoscenza alternativa e indipendente dal Creatore. Dal dubbio nasce la voglia di distacco e il desiderio matura come pretesa di dominare la morale: in quest’ottica “perversa” acquistare saggezza equivale a diventare padrone dei valori, arbitro del bene e del male.
Questo significa mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Uno schema di peccato “salomonico”
L’uomo saggio sa come va il mondo, conosce i principi della realtà e riconosce il divino modo di agire; eppure l’uomo può sfociare facilmente nella tracotanza del sapiente che pretende anche di determinare la realtà, stabilendo in modo autonomo il giusto e l’ingiusto. Il modo di raccontare seguito dall’autore biblico e la stessa scelta delle parole sembra richiamare uno schema di tipo “salomonico”.
Alla corte di Salomone si sviluppò la crisi del regno di Davide: la grandezza, la prosperità, la benedizione e il benessere raggiunti decaddero rapidamente. La riflessione biblica individua la causa di questa decadenza politica e soprattutto morale in due elementi: le donne e la cultura. Non due elementi negativi in sé, ma due elementi potenzialmente devianti.
L’harem notevolmente fornito era segno di ricchezza e di potenza: perciò Salomone arrivò ad aveva 700 mogli e 300 concubine (1Re 11,3). Un simile fatto non dice solo lusso, ma anche comunicazioni internazionali e grande sviluppo del sincretismo religioso. Infatti, spiega il teologo biblico: «Le sue donne gli pervertirono il cuore e l’attirarono verso dèi stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre» (1Re 11,3-4). La corte di Gerusalemme con Salomone divenne internazionale e si adattò facilmente alle altre culture, assumendone anche i culti e le religioni, col risultato di un comodo sincretismo. In questo atteggiamento i teologi deuteronomisti nei secoli seguenti riconobbero una tragica apertura all’infedeltà religiosa di Israele e nella sapienza corrotta di Salomone additarono un principio di rovina:
Il Signore perciò si sdegnò con Salomone, perché aveva distolto il cuore dal Signore Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dei, ma Salomone non osservò quanto gli aveva comandato il Signore. Allora disse a Salomone: «Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito» (1Re 11,9-11).
Una vicenda analoga è narrata all’inizio di tutta la storia. Il narratore infatti ha astratto e assolutizzato uno schema per evidenziare la radice costante della ribellione umana contro la rivelazione di Dio: nonostante i doni, l’uomo non custodisce l’alleanza. In tutto questo viene sottolineato l’importante ruolo della donna, non per misoginia, ma al contrario per evidenziare quale rilievo abbia la figura femminile. Si può addirittura affermare che il personaggio principale di questa scena iniziale sia proprio la donna: è lei infatti a legare insieme il quadro della creazione e quello del peccato ed è sempre lei a dominare nell’ultima scena, diventando la «madre».
Alla corte di Gerusalemme la regina madre aveva un ruolo importante, era definita col titolo di Ghebiráh, cioè la «Potente», e saliva al trono insieme al figlio, comparendo alla destra del re. La prima regina fu proprio la madre di Salomone (cf. 1Re 2,19), colei che aveva avuto un ruolo rilevante nella successione al trono di Davide e nella sua esperienza di peccato. Questo fatto rimase impresso nella memoria di Israele e portò, ad esempio, a valorizzare negli antichi racconti patriarcali le figure significative delle madri, quali Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Così la donna all’inizio diventa il prototipo della grande madre, figura rilevante e importante per le scelte e le conseguenze.
L’altro aspetto del peccato salomonico era stata la cultura, cioè la sapienza che si allontanava dal Dio dell’alleanza: la scuola di corte, infatti, rischiava di diventare col tempo orgogliosamente laica e pericolosamente indipendente dalle antiche tradizioni di Israele. Un simile cambiamento influenzava in modo negativo la cultura del popolo e lo allontanava praticamente dalla fedeltà al Signore.
L’autore di Gen 2–3 è un sapiente e compone un racconto di tipo sapienziale, eppure ha polemicamente di mira proprio l’atteggiamento presuntuoso di una mentalità umana troppo orgogliosa e il rischio di una cultura indipendente da Dio. Un tale modo di vedere la realtà è contrario al progetto divino e porta a compiere come buone le azioni che erano state indicate come dannose.
Prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò (3,6b).
Non ci sono sottolineature volute da parte dell’autore nel raccontare la consumazione della trasgressione. La figura della donna è emergente, ma non è colpevolizzata; l’uomo sembra piuttosto dipendente, ma in ogni caso connivente.
La “mela” non c’entra!
Nell’immaginario comune la “mela di Eva” è considerata un’ovvia immagine del racconto della creazione. Molti ancora si sorprendono, scoprendo che Gen 2-3 non parla affatto di mele, anzi, non ci dice affatto di che specie fosse l’albero della conoscenza del bene e del male e lascia così la nostra curiosità a bocca asciutta. In realtà, già l’iconografia cristiana antica tende a raffigurare l’albero della conoscenza del bene e del male come un melo; un punto sul quale la predicazione popolare ha spesso insistito.
La tradizione giudaica antica si è interrogata sul nome dell’albero misterioso; le risposte sono le più varie. L’albero non avrebbe un nome perché è l’albero che ha portato il male nel mondo. L’albero secondo alcune opinioni è una vigna, perché è il vino che causa mali all’uomo, oppure un fico (Gen 3,7!). Secondo il commentatore ebraico medievale Rashi l’albero era invece un ethrog, ovvero l’albero di cedro che viene usato per la festa delle Capanne, il cui frutto è considerato di forma e bellezza perfette. Altri commentatori antichi hanno pensato al grano, che pure non è un albero. Il pane, infatti, è l’alimento umano per eccellenza, il segno della civiltà; la tradizione giudaica stabilisce così uno strettissimo rapporto tra pane e conoscenza; il pane mangiato nel rito della Pasqua restaura la vera relazione tra l’uomo e il pane stesso del quale l’uomo si era appropriato. La tradizione popolare giudaica ha visto poi nell’albero della conoscenza del bene e del male anche un melo, perché è buono, bello, attraente. Nella festa del capodanno ebraico (Rosh ha-shanah) si è conservata l’usanza di mangiare mele in ricordo del melo della creazione.
È molto difficile dire se la tradizione cristiana, identificando l’albero dell’Eden con il melo, abbia attinto a quest’ultima tradizione giudaica. Forse è più facile pensare a un gioco di parole, evidente in latino, tra malus (il melo) e malum (il male). I padri della Chiesa non sembrano ancora conoscere questa identificazione, che tuttavia, progressivamente, si farà strada.
La vergogna e la paura
Ecco ora il passaggio alle conseguenze: pensare Dio come ostile e agire contro le sue indicazioni rovina l’armonia delle relazioni. In parte il serpente aveva ragione: mangiando non muoiono e i loro occhi si aprono.
Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture (3,7).
Eppure si rivela subito che il serpente aveva torto ed era stato lui a ingannare l’uomo: la conseguenza infatti non è diventare come Dio, ma proprio il contrario. L’umanità si accorge della propria debolezza e del limite: nel linguaggio biblico la nudità è segno di estrema povertà e quindi di perdita della dignità. Quel frutto produce una conoscenza e apre gli occhi, ma solo per mostrare il limite e la debolezza dell’umanità: perciò l’uomo e la donna, accorgendosi di come sono, non più capaci di accettarsi, se ne vergognano. La presenza dell’altro sveglia la coscienza della propria miseria e la presenza di Dio diventerà addirittura fonte di paura. Non muoiono fisicamente, ma sperimentano una tragica rovina che segna la loro esistenza e si può proprio paragonare alla morte.
Per rimediare alla propria nudità non sanno fare di meglio che una cintura di foglie: è il tentativo quasi ridicolo dell’umanità di riparare al guaio fatto, un palliativo insufficiente e incapace. Una lettura non simbolica del testo, sottolineando troppo l’aspetto fisico della “nudità”, ha deformato l’interpretazione del racconto e ha visto in quell’evento una vicenda sessuale: pur senza ammetterlo in modo esplicito, una simile interpretazione sessuale del peccato di Adamo ed Eva circola comunemente fra la gente, così come il riferimento alla “mela” e al suo doppio senso. È bene chiarire in modo deciso che il testo non dice affatto questo!
Il proprio limite scoperto dall’uomo e dalla donna suscita vergogna e poi, nei confronti di Dio, diventa paura e determina la fuga e il nascondimento:
Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino (3,8).
In questa splendida scena il narratore descrive il Signore Dio come un sovrano orientale che scende a passeggiare nel giardino, quando il caldo sta passando e comincia a sentirsi la brezza della sera: al giardino vengono ancora riconosciuti i valori di familiarità, confidenza e amicizia. Dio va a passeggiare nel giardino per incontrare l’umanità in dialogo amichevole; ma l’umanità ha paura del Signore e cerca di evitarlo. La relazione con Dio è evidentemente rovinata: «Il peccato fa sì che l’uomo perda la capacità dell’ospitalità» (E. BIANCHI).
L’indagine
Invece il Signore che passeggia nel giardino vuole entrare in relazione ospitale con l’umanità: Dio va a cercare l’uomo.
Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?» (3,9).
L’uomo ormai è in fuga da Dio e cerca di nascondersi. È il Signore stesso che prende l’iniziativa: va a cercarlo e gli chiede di uscire fuori dal suo nascondiglio. La domanda così semplice e profonda non esprime un’ignoranza, ma un velato rimprovero e un desiderio di consapevolezza: non è che Dio non sappia dove si trovi l’uomo, ma vuole risvegliare la sua coscienza, perché si renda conto della nuova situazione in cui si è venuto a trovare.
Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (3,10).
La risposta dell’uomo esprime tale consapevolezza: dubitando di Dio e non fidandosi di lui, l’umanità ha scoperto la propria naturale debolezza e considera tale creaturale limitatezza cosa non amata da Dio, quindi fonte di vergogna e di paura. Scoprendosi “nudo” l’uomo vuole interrompere la relazione con Dio, perché ha paura che tale relazione sia negativa per sé. La seconda domanda divina vuole andare in profondità e far sì che l’uomo riconosca la causa di tale nuova situazione.
Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (3,11).
Il racconto si presenta ora come una specie di istruttoria giudiziaria; l’obiettivo però non è trovare il colpevole, ma evidenziare la causa della disarmonia. È Dio stesso che propone la soluzione: l’uomo sa di essere nudo perché ha disobbedito al Signore, non si è fidato di lui e ha preteso di fare di testa propria. A questa domanda così importante l’uomo non risponde, ma scarica la responsabilità sulla donna.
Rispose l’uomo: «La donna che tu mi ha posta accanto, mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato» (3,12).
L’inno di giubilo è rotto e la bella relazione originaria non esiste più. Con una sola frase l’uomo prende le distanze da Dio e dalla donna: la colpa – dice – è della donna e, in ultima analisi, di Dio stesso, perché è lui che gliel’ha messa accanto. Con saggezza il narratore evidenzia come il peccato rompa la solidarietà e porti l’uomo alla de-responsabilizzazione: egli si difende, accusando gli altri. Questa reazione è il segno evidente dell’armonia infranta. Dio prosegue la ricerca e interpella anche la donna.
Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?».
Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato» (3,13).
La donna a sua volta scarica la responsabilità sull’altro elemento: il serpente. Notiamo l’insistenza sul verbo “mangiare”, perché in esso simbolicamente è racchiusa l’idea del preteso dominio, dell’arroganza umana che vuole impadronirsi della morale, radice e origine del peccato.
La sentenza contro il serpente
Finalmente l’attenzione è portata sul serpente, da cui era partita la tentazione; ma a lui Dio non chiede spiegazioni, formula solo una grave sentenza di condanna e di maledizione.
Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita» (3,14).
Un simile linguaggio di maledizione deve essere compreso nel contesto “mitico” in cui il racconto lo situa con intento teologico: né l’uomo, né la donna sono maledetti per il loro peccato, ma lo è il serpente. Se dunque la benedizione è dono di vita e capacità di trasmettere la vita, la maledizione si pone diametralmente all’opposto ed equivale alla sterilità, cioè l’incapacità di produrre un frutto buono e vitale. Pertanto vengono dichiarati sterili ed esclusi dalla dinamica della vita tutti gli elementi simboleggiati dal serpente: prepotenza umana e arroganza della sapienza, culti della fertilità e magia, caos primitivo e lato oscuro dell’uomo.
Inoltre il fatto dello strisciare viene riletto come simbolo della massima umiliazione: in modo analogo “mangiare la polvere” è indizio di abbattimento. Dal linguaggio epico della sconfitta dei nemici il narratore ha preso queste immagini che si adattano bene al simbolo del serpente per esprimere la disfatta delle forze oscure. Non vuol dire che prima i serpenti avessero le zampe, ma che il Signore resta fedele al suo progetto buono per l’uomo e riuscirà a realizzarlo, nonostante l’opposizione del male. Questo afferma il vertice della sentenza:
«Io porrò inimicizia tra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (3,15).
Nel momento stesso in cui umilia il serpente, Dio afferma e preannuncia una lotta futura, voluta da Dio stesso, fra i figli del serpente e i figli della donna, cioè fra l’umanità e il male (non fra il bene il male!). E l’esito di questo scontro è già annunciato come promessa di vittoria per l’umanità: in questo senso la tradizione cristiana vi ha riconosciuto un “Proto-vangelo”, cioè un primo annuncio buono di salvezza.
Il “Proto-vangelo”
Il fatto che Dio ponga inimicizia fra il serpente e la donna non è una punizione: è invece un intervento provvidenziale e benefico che mette nella donna, che rappresenta l’umanità, l’ostilità nei confronti del serpente. Non viene teorizzata la lotta tra il bene e il male, ma fra l’umanità e la bramosia, fra l’umanità (la donna e la sua stirpe) e l’atteggiamento disobbediente nei confronti di Dio. Viene annunciato l’ininterrotto conflitto che l’uomo ingaggerà con il male.
Questa è la realtà: l’autore sapiente conosce bene la condizione concreta dove l’uomo lotta con una tendenza negativa che è fuori di sé, ma che è anche dentro; lotta contro gli istinti che lo portano a commettere il male; l’uomo che vuole vivere bene si trova a dover combattere per vivere bene. Questo desiderio di vivere bene e di combattere il male – insegna il testo biblico – è stato messo da Dio nell’uomo fin dall’inizio. Ma non solo viene annunciata una lotta continua fra i due schieramenti, viene promessa anche una vittoria, il superamento da parte dell’umanità.
Notiamo la stranezza della formula, che parla del “seme” della donna. La traduzione dice “la stirpe”, forse perché è sentito come strano il concetto di seme della donna; eppure il testo originale dice proprio così. È il seme della donna che schiaccerà la testa del serpente, non la donna. La traduzione italiana ha voluto giocare sull’equivoco: ha usato la parola stirpe che è femminile e quando dice “questa ti schiaccerà la testa” lascia che il lettore interpreti come vuole ed è facilissimo pensare che sia la donna il soggetto che schiaccia la testa del serpente.
Il senso del testo originale però è inequivocabile, perché in ebraico c’è un termine maschile per indicare il seme e c’è un pronome maschile per designare colui che schiaccerà la testa. Così anche la traduzione greca non lascia ombra di dubbio e tutta la tradizione giudaica pre-cristiana ha letto questo versetto come un autentico oracolo messianico. Il seme della donna che schiaccerà la testa del serpente è il Re Messia; questo è un tema comunemente predicato in sinagoga, ben prima di Gesù.
Il seme della donna è un paradosso, che nella persona di Gesù – concepito in modo straordinario, senza il seme umano – si realizza veramente. È il seme della donna, il Messia Gesù, che sciaccia la testa del serpente, che domina la bramosia di possedere Dio. «Pur essendo di natura divina si svuotò, non considerò harpagmón cioè “preda da possedere” l’essere come Dio» (cf. Fil 2,6). Egli non prese, non tenne per sé, ma diede la propria vita per l’umanità. Nell’atteggiamento di Dio che si svuota, si annienta, si dona totalmente per amore viene schiacciato il serpente. Lì l’umanità domina l’animalità che ha dentro e nel Cristo in croce noi contempliamo il vincitore: non l’uomo morto, ma il Dio vivo che vince donando se stesso, che morendo sconfigge il serpente.
Le applicazioni mariologiche sono posteriori e hanno un loro valore, tenendo conto che nella persona di Maria la redenzione si è realizzata pienamente. Non è però Maria che sconfigge il serpente, è il Cristo che vince il male; ma il frutto migliore di questa redenzione si vede nella madre Maria. In lei l’umanità ha già mostrato quanto può essere bella. Questa è l’impostazione corretta. Quindi, fin dall’inizio della Genesi, c’è una buona notizia di vittoria: il male che è entrato nel mondo e che rovina il mondo non è più forte, non avrà l’ultima parola. Alla fine – grazie al Messia Gesù – vincerà il bene.
Le sentenze per la donna e per l’uomo
Dopo la solenne condanna del serpente, il testo propone altre due sentenze rivolte alla donna e all’uomo: nel contesto letterario del racconto bisogna riconoscere che tali parole non esprimono condanne e punizioni per i colpevoli, ma vogliono interpretare la disarmonia che storicamente si percepisce nelle relazioni fondamentali come conseguenze del peccato. Qui sta la grande novità teologica del narratore biblico: a differenza dei miti mesopotamici che davano la colpa agli dei, il racconto della Genesi evidenzia la responsabilità della stessa umanità e presenta la ribellione umana a Dio come chiave di interpretazione del male che è drammaticamente presente nel mondo, nella vita di tutti e di ciascuno.
Nelle sentenze primordiali dunque la disarmonia viene presentata con quattro immagini, due per la donna e due per l’uomo.
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze; con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16).
Nella vita della donna le due disarmonie più forti sono individuate nel dolore del parto e nella relazione con l’uomo, che colpiscono la donna come madre e come sposa. Il momento meraviglioso del parto, inizio della vita, è anche momento terribile e doloroso, con pericolo di morte: tale stridente dissonanza è emblema di un dramma in atto. Per questo spesso nel linguaggio biblico i dolori del parto sono adoperati come segno misterioso dell’intervento salvifico operato da Dio (cf. Is 26,17-19). Così pure la dimensione della sposa, legata affettivamente allo sposo, è segnata dal dramma della violenza e della sottomissione: l’armonia originaria voluta da Dio resta un profondo desiderio dell’umanità, eppure storicamente il rapporto uomo-donna è dolorosamente caratterizzato da incomprensioni, lotte e predominio.
All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato “Non ne devi mangiare”, maledetto sia il suolo per causa tua: con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita; spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai» (3,17-19).
Nella sentenza rivolta all’uomo ritorna il concetto di maledizione, ma essa non è rivolta all’umanità (’adam) bensì al suolo (’adamah): strettamente legata all’uomo, la terra è solidale con lui e subisce le conseguenze della sua ribellione. Ma proprio nel rapporto con la terra vengono indicate le due principali disarmonie che segnano l’esperienza umana: esse colpiscono l’uomo come lavoratore e come mortale. Il lavoro è nobile vocazione per l’uomo a dominare il mondo e governare sapientemente il creato, eppure esso è caratterizzato da fatica e frustrazioni: infatti la “durezza” della terra e la violenza dei fenomeni naturali denunciano il dramma della rivolta umana, che ha stravolto l’ordine divino. Così come il destino di morte, che riporta l’uomo, fatto di terra, alla condizione della terra: qui è evidenziata non la fine dell’esistenza, ma l’angoscia per la morte, sentita come tragica e irreparabile fine proprio a causa del rapporto di sfiducia con Dio.
Subito dopo le sentenze, il racconto accenna ad un particolare che segna l’avvio delle relazioni disarmoniche: l’uomo impone un nome alla donna.
L’uomo chiamò la moglie “Eva”, perché essa fu la madre di tutti i viventi (3,20).
Aveva dato un nome a tutto il bestiame, ma non alla donna, perché l’aveva riconosciuta uguale a sé (Gen 2,20.23). Ora invece le impone un altro nome, la sente distinta da sé e comincia ad esercitare un dominio su di lei. La forma italiana del nome “Eva” è adattamento dell’ebraico “Hawwáh”, imparentato con il verbo “vivere” (hayah): evoca perciò la “vita” stessa e caratterizza la donna come madre, capace di trasmettere la vita. Al fatto negativo di imporre il nome si affianca però il valore positivo del nome, auspicio e speranza di benedizione: nonostante il peccato, Eva fu la prima regina madre.
La conclusione misericordiosa
Il racconto termina con l’espulsione dell’umanità dal giardino, ma il narratore che vuole spiegare le cause “metastoriche” del male storico intende sottolineare anche la misericordia e la fedeltà di Dio. Conviene quindi ribadire che la disarmonica situazione attuale non è quella voluta da Dio. Il testo non dice affatto che il Signore ordina all’uomo di dominare la moglie, ma al contrario rivela le conseguenze del peccato: avendo rotto il buon rapporto con Dio, anche i rapporti umani si deteriorano e divengono negativi. Il testo non dice affatto che il Signore impone all’uomo la dura fatica del lavoro, ma al contrario gli fa notare il danno arrecato al mondo col suo atteggiamento: avendo alterato la buona relazione con Dio, anche le relazioni col creato sono degradanti e mortifere.
In tutto il racconto la grazia è intrinseca alla stessa sentenza: «Il fatto sorprendente non è che i due siano puniti, ma che venga loro risparmiata la vita» (Brüggemann). In chiave positiva infatti la rivelazione biblica vuole evidenziare come l’intenzione originale di Dio fosse l’armonia cosmica delle relazioni e, proprio in forza della fedeltà del Signore, il racconto è una promessa fiduciosa nella realizzazione del progetto e nel ristabilimento dell’ordine armonico (cf. Is 11,8).
Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì (3,21).
In questo gesto simbolico l’autore mostra l’intervento di Dio con un’opera di misericordia: mentre l’uomo era stato capace solo di coprirsi con una foglia di fico, il Signore Dio confeziona da buon sarto tuniche di pelle e li riveste. La nudità dell’uomo – cioè la debolezza del suo peccato – viene coperta dalla misericordia di Dio e alla fuga dell’uomo il Signore risponde con un dono di grazia. Anche ciò che segue, l’allontanamento dal giardino, è spiegato dall’autore come un intervento misericordioso di Dio, necessario in vista della salvezza.
Il Signore Dio disse allora: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre» (3,22).
L’autore biblico sa – come gli altri pensatori antichi – che l’uomo non ha accesso all’albero della vita, ma la sua spiegazione rivela la responsabilità dell’uomo in tale interdetto e anche il piano salvifico di Dio: egli non vuole che l’uomo, divenuto ribelle, viva sempre nella ribellione e si stabilizzi nell’opposizione.
Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Esiliò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita (3,23 24).
Anche se nel linguaggio comune si presenta questo racconto come “caduta”, in realtà esso narra l’allontanamento dell’uomo. L’immagine della “caduta” è di origine platonica e deriva dal mito della caduta dell’anima, narrato nel dialogo «Fedro»: il linguaggio abituale rivela una lunga storia di contaminazioni! Ma il giardino non viene abolito e l’albero della vita non viene tagliato: anzi viene custodito e difeso da figure simboliche, comuni nel mito orientale. L’uomo è mandato in esilio: perde la bellezza del giardino e torna alla terra che è il suo ambiente primordiale. Lo stesso capitò a Israele, popolo dell’alleanza, infedele all’alleanza: perse il dono della terra e finì in esilio.
Ma questa non è l’ultima parola, anzi è solo l’inizio del grande racconto biblico: il seguito mostrerà l’impegno di Dio per riportare l’uomo alla santità della sua prima origine, progetto che finalmente si è compiuto nell’opera di Gesù Cristo. Una splendida antifona della liturgia bizantina canta con gioia commossa nella notte di Natale:
«Il muro di separazione è abbattuto: la spada di fuoco si volge indietro e i cherubini si ritirano dall’albero della vita e anch’io godo del giardino di delizia, da cui ero stato scacciato per la disubbidienza».

lunedì 28 novembre 2011

PADRE NOSTRO un commento di Bruno Forte

Gesù disse: "Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro…" (Matteo 6,7 ss).

Padre
Tu non sei un Dio lontano e straniero, ma il Padre, Colui cui il Figlio eterno, fatto uomo per noi, si rivolge col nome della tenerezza, della confidenza, dell’abbandono fiducioso e pieno: “Abbà”! Con Lui anche noi possiamo chiamarTi Padre, sapendo che lo sei: perché il Tuo amore non si fonda sui nostri meriti, ma unicamente sulla Tua bontà, mai stanca di cominciare ad amare. Tu sei Padre - Madre nell’amore perché il Tuo amore è gratuito e sempre nuovo: veramente, Tu non ci ami perché siamo buoni o belli, ma ci rendi buoni e belli perché ci ami! A Te, Dio eterno, altissimo onnipotente e buono, ciascuno può dire con fiducia totale: Padre mio, io mi abbandono a te. Fa’ di me ciò che Ti piace. Qualunque cosa Tu faccia di me, Ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la Tua volontà si compia in me e in tutte le Tue creature: non desidero nient'altro, mio Dio. Rimetto la mia anima nelle Tue mani, Te la dono, mio Dio, con tutto l’amore nel mio cuore, perché Ti amo ed è per me un'esigenza d’amore il donarmi e rimettermi nelle Tue mani senza misura, con una confidenza infinita, perché Tu sei il Padre mio (preghiera di Fr. Charles de Foucauld)

nostro, Tu non sei un padre generico, per cui i figli sono indifferenti, tanti da non poterli amare uno per uno. Tu sei il Padre “nostro”: e in questo aggettivo c’è ognuno di noi, con la sua piccola, unica, grande storia, che è tale ai Tuoi occhi come agli occhi di nessuno. Per Te ognuno di noi è importante, quale che sia il colore della sua pelle, la cultura da cui viene, la storia cui appartiene, la lingua che parla, le conoscenze o i mezzi che ha. Per Te nessuno sarà mai dimenticato: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Isaia 49,15-16). Qualunque cosa Tu faccia, Padre, siamo scritti sul palmo della Tua mano: perciò, non ti dimenticherai mai di nessuno. E perciò ognuno di noi può dirTi veramente: “Padre mio!”. E questo ci fa sentire fratelli, vicini perché custoditi da uno stesso amore: il Tuo. Siamo accomunati nella gioia e nel dolore, perché affidati ad uno stesso Padre - Madre di tenerezza e di misericordia. È il Tuo amore personale per ciascuno che fa di noi la Tua famiglia, il popolo del Tuo amore ricevuto e donato.
che sei nei cieli, Tu non sei un padre - madre come lo si è in questo mondo. Certo, per ognuno di noi è importante avere un padre e una madre. Chi non ha avuto questo dono, o non ha conosciuto l’amore di chi gli ha dato la vita, porta nel cuore una grande sofferenza. Eppure, proprio perché ci sei Tu, che sei nei cieli e così scruti e conosci nel profondo tutti e ciascuno e sempre, nelle notti e nei giorni della nostra vita, nessuno sarà mai veramente abbandonato e solo. Tu sei lì a custodirci nell’amore, a vegliare per noi, ad aspettare con trepida attesa il nostro ritorno, dopo tutte le avventure della nostra libertà. Veramente, lassù qualcuno ci ama: Tu! E questo ci basta per avere speranza, per sapere che un giorno le Tue braccia ci accoglieranno, come quelle del più tenero, della più tenera fra i padri e le madri. Perché Tu dai cieli infiniti vegli su tutti e ami ciascuno di amore infinito!
sia santificato il tuo nome, Santo vuol dire ciò che è separato, separato per Te, o Padre. Santificare il Tuo nome, allora vuol dire separarci per Te, perdutamente consegnarci a Te, perché Tu sei la vita, la sorgente e la patria, il grembo adorabile e provvidente della nostra esistenza. Santificheremo il Tuo nome quando anteporremo l’adorazione e l’amore per Te a tutto: come affermava il gesuita tedesco Alfred Delp, messo a morte dai nazisti, “il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la costante fedeltà e l’adorazione mai tradita”. Se noi ci separiamo da tutto per Te, Tu ci darai tutto il nostro vero bene e ci restituirai a tutti, facendoci partecipi del Tuo amore per ognuna delle Tue creature: è così che ci chiami a farci solitudine per diventare amore! Ci inviti a stare nascosti con Cristo in Te, per fare compagnia al Tuo amore e al Tuo dolore per ogni essere vivente. Tu santifichi in noi il Tuo nome perché ci rapisci a noi stessi e ci restituisci al mondo, ricchi di Te, donati agli altri da Te, prigionieri d’amore che da Te imparano sempre di nuovo a farsi servi, per irradiare a tutti l’amore con cui Tu ci ami. Tu, il Santo, separato per noi, perché noi, poveri peccatori, possiamo essere santi, separati per Te, in Te offerti a ogni creatura.
venga il tuo regno, Il Tuo regno non è nell’ordine del potere di questo mondo: è la signoria del tuo amore nei nostri cuori, ed è la nuova umanità che nasce dove la legge dei rapporti umani non è più quella della forza e della sopraffazione, ma quella della giustizia, del reciproco perdono e della pace. Perciò, il Tuo regno è già venuto in Colui, che in persona è la nostra pace, il Tuo Figlio Gesù; e deve ancora venire, perché quanto in Lui ci è stato rivelato ed offerto prenda corpo nella nostra vita, nella vita dei popoli e nei rapporti fra le nazioni. Il Tuo regno è venuto nella forma del dono e della promessa, viene nella carità vissuta e nella fede, che cambia il cuore e la vita, verrà quanto Tu sarai tutto in tutti e il mondo intero sarà la Tua patria. Verso quell’ora di luce e di bellezza siamo tutti in cammino: e invocare l’avvento del Tuo regno ci aiuta a restare vigili nella speranza, a misurare la scena delle cose penultime sulla bellezza promessa dell’ultimo orizzonte, sospirato ed atteso, quello della città celeste.
sia fatta la tua volontà La tua volontà per ognuno di noi e per il mondo è il bene vero per tutti: “E in la sua volontade è nostra pace: / ell’è quel mare al qual tutto si move / ciò ch’ella cria o che natura face” (Dante, Paradiso, Canto III). Invocare che la tua volontà si compia, significa domandare che la tua bellezza trionfi sull’intera scena del nostro cuore, della nostra vita e della storia del mondo. Aiutaci, allora, a comprendere la tua volontà per ciascuno di noi, e dacci la forza e la gioia di realizzarla. Liberaci da ogni attaccamento o paura, che ci impedisca di realizzare il tuo disegno nella nostra vita. E donaci la pazienza di attendere i tempi e i momenti che tu hai preparato per noi, senza mai pretendere di forzarti la mano e senza mai confondere le nostre pallide luci con la grande luce che hai fatto risplendere per noi nel Tuo Figlio Gesù. Insieme con lui, aiutaci a dirti con fiducia e pace: “Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Ebrei 10,7: cf. Salmo 40,8-9). E insegnaci ad adorare la tua volontà su ogni creatura, affinché sappiamo rispettarla in tutti.
come in cielo così in terra. Nel compimento della tua volontà non siamo soli, Padre: ci circonda un nugolo di testimoni, sulla terra, come nel cielo. “Anche noi, dunque, circondati da un così gran nugolo di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede” (Ebrei 12,1-2). Guardando a Colui, che è in persona l’alleanza della terra e del cielo, il Tuo Figlio e Salvatore nostro Gesù, e imitando Lui, noi sappiamo di poter fare la tua volontà nella gioia della comunione dei santi, tirando nel nostro presente l’avvenire della patria promessa. Aiutaci a camminare in questa compagnia bella, che unisce l’eternità e il tempo, e fa della terra anticipo del cielo, permettendoci di vivere i giorni feriali col cuore della festa.
Dacci oggi Il tuo dono non ci è stato dato una volta soltanto: anche se quello che è avvenuto nella vita, passione, morte e resurrezione del Tuo Figlio è unico e definitivo, ogni giorno abbiamo bisogno di nutrircene. Ogni giorno dobbiamo affrontare la sfida più grande: sostenere la lotta e conservare la fede! Dacci allora proprio oggi, in questo nostro concretissimo oggi, l’aiuto di cui abbiamo bisogno: forse non quello che avremmo voluto o pensato, ma quello che realizza il tuo bene per noi. E fa’ che ogni nostro oggi divenga il tuo, ora di grazia, istante di salvezza, bellezza pregustata del tuo oggi eterno: “Guidami, Luce gentile, nel buio che mi avvolge, guidami Tu! La notte è oscura, e io sono lontano da casa: guidami Tu! Custodisci i miei passi! Non Ti chiedo di vedere l’orizzonte lontano: un passo alla volta è sufficiente per me!” (John Henry Newman).
il nostro pane quotidiano, Dacci il nostro pane quotidiano: il pane, cioè, che è sufficiente per oggi. Non ti chiediamo, Padre, di accumulare ricchezze: sappiamo quanto questo sia illusorio, perché davanti a te che vieni come un ladro nella notte non sono i tesori del mondo a renderci pronti e felici. Il solo pane di cui abbiamo bisogno è quello che ci viene da te: è il pane della vita che tu hai imbandito per noi alla mensa del Tuo Figlio Gesù; è il pane onesto frutto della terra e del nostro lavoro; è il pane condiviso della bontà e della giustizia per tutti; è il pane cotto del regno, di cui questo pane di fatica e di amore è anticipo e promessa. “Signore, dacci sempre questo pane. Gesù rispose: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Giovanni 6,34-35). Nel tuo Figlio e con lui potremo trovare sempre il pane, di cui abbiamo veramente bisogno per questo nostro oggi: lo crediamo, Padre, perché è lui che ci ha insegnato a chiedertelo e sappiamo che tu non darai mai una pietra al figlio che ti chiede del pane “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra? O se gli chiede un pesce, darà una serpe? Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano” (Matteo 7,7-11). E aiutaci a condividere il pane che ci doni con chi non ce l’ha.
rimetti a noi i nostri debiti Certo, sappiamo di non meritare in alcun modo i tuoi doni. Con te, siamo sempre e solo debitori, creditori mai. Dacci però la gioia del tuo perdono, quello che ci fa sentire liberi e felici, come mai nulla al mondo potrebbe darci di esserlo. Nessuna colpa è troppo grande ai tuoi occhi, perché il sacrificio del Figlio, che hai consegnato alla morte per noi, lava il peccato di tutti. Tu ci chiedi solo di chiederti il perdono, di aprire cioè il nostro cuore indurito alla dolcezza della tua misericordia, che riversata in noi vuole espandersi come misericordia per tutti. Tu ci aspetti alla finestra e ci corri incontro quando ci vedi venire da lontano: il tuo amore umile rispetta le nostre scelte, ma attende sempre con speranza il nostro ritorno alla tua casa. Prepara, allora, il banchetto della festa: eccoci, siamo qui davanti a te, a chiederti perdono, a gioire con te nella gioia dell’amore ritrovato, a scoprire che tu ci attendi da sempre, e che il tuo desiderio di abbracciarci supera ogni nostra capacità di desiderare l’abbraccio, che libera e salva, e la tua gioia per il nostro ritorno alla vita viene prima perfino della gioia di averci ritrovati. “Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15,21-24).
come noi li rimettiamo Solo chi ha conosciuto il perdono, può anche veramente perdonare. Chi nella vita ha sperimentato la tua misericordia, chi veramente è stato toccato dal tuo dono, non vorrà più stare sul trono del giudice, ma amerà riconoscersi lì dove la tua misericordia l’ha incontrato, dalla parte dei poveri e dei peccatori. Insegnaci, Padre, a perdonare ed amare come tu ami e perdoni. Donaci un cuore di misericordia, che sia umile riflesso del tuo e ci aiuti ad accogliere chi non si sente accolto da nessuno o teme di non avere diritto ad alcuna accoglienza. Facci creare relazioni liberanti, solidarietà che non creino dipendenze, prossimità nutrite di delicatezza, di rispetto e di attenzione. Rendici apostoli della misericordia, che dicano al mondo con la forza umile della verità ciò di cui hanno fatto esperienza ricevendo il tuo perdono e la pace.
ai nostri debitori, Davanti a te, Padre, ci inviti a ricordare quanti da noi aspettano il perdono. Sarebbe certo strano che noi chiedessimo a loro più di quanto tu hai chiesto a noi per perdonarci: ti è bastato vedere un’ombra di pentimento, un barlume di desiderio, un passo mosso dalla speranza, per correrci incontro. Aiuta chi ci avesse fatto del male ad avere in sé ciò che ci hai donato di avere in noi: e fa’ che il nostro amore lo accolga, il perdono lo sani, la gioia della festa condivisa nella tua casa lo appaghi oltre ogni misura di dare o avere, di calcoli, di offese o di pretese. Aiutaci a dire a tutti e a ciascuno, lo sguardo nello sguardo, che il male è scomparso, che è bello sentirsi amati tutti da te ed amarci con la semplicità e la fiducia di figli dello stesso Padre, il Padre di misericordia.
e non abbandonarci alla tentazione, Non vogliamo illuderci, Padre, che tutto questo sia facile, che il cuore sia cambiato per sempre e il male del mondo non sia più in agguato. Ti chiediamo perciò di non esporci alla tentazione, che sia più forte della nostra capacità di superarla: sappiamo, peraltro, che è quello che tu stesso ci hai promesso. “Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Corinzi 10,13). Aiutaci a non cedere all’attrazione del male, a quell’angelo di Satana che vorrebbe farci credere che il male sia bene, o che vorrebbe giustificarci con le parole del compromesso e dell’infedeltà: “Che male c’è? Lo fanno tutti!”. No, Padre: aiutaci a ricordare sempre che il male non solo è male, ma fa male, e che solo il bene libera e salva. Aiutaci a credere nella sola forza sanante dell’amore, che è giustizia, misericordia, perdono e riconciliazione, condivisione e solidarietà nell’accogliere e offrire il tuo dono. E anche quando ci sembra che la tua risposta sia solo il silenzio, aiutaci a comprendere che non è così: “Non permettere che dimentichiamo: Tu parli anche quando taci. Donaci questa fiducia: quando siamo in attesa della Tua venuta, Tu taci per amore e per amore parli. Così è nel silenzio, così è nella parola: Tu sei sempre lo stesso Padre, lo stesso cuore paterno e ci guidi con la Tua voce e ci elevi con il Tuo silenzio” (Søren Kierkegaard).
ma liberaci dal male. Sì, Padre: liberaci! Liberaci anzitutto dall’assalto di chi è la potenza del male, l’Avversario sempre pronto a separaci da te, l’Angelo della perdizione, il Diavolo di tutte le nostre sventure, il Maligno che raccoglie in sé il male oscuro del mondo, la forza cattiva pronta a scatenarsi se solo ci separiamo da te. E liberaci dai suoi frutti velenosi, dai peccati che portano alla morte dell’anima, ma anche da quelli che indeboliscono la fedeltà e tolgono la gioia del cuore che riposa in te. E aiutaci a liberare gli altri dal male, a essere testimoni coraggiosi di fedeltà, operai umili e perseveranti della vigna, che attingono alla preghiera rivolta a te, Padre, la forza della vittoria sul male, della perseveranza nel bene. Fa’ che le nostre labbra non cessino mai di invocarti, con queste parole di luce e di vita che il tuo Figlio ci ha messo sulle labbra, e che lo Spirito grida dal più profondo del nostro cuore. Nell’ora della prova, donaci questa fiducia, che basterà pronunciare queste parole per essere liberati, illuminati nella mente, toccati nel cuore, capaci di cominciare sempre di nuovo ad amare e di perseverare nel bene iniziato. E nell’ora della nostra morte, insieme a Gesù, nel conforto dello Spirito Santo, fa’ che possiamo dirti ancora una volta: Padre nostro… Allora, gli occhi che si chiudono all’incanto del mondo, alla dolcezza degli affetti, alle memorie e alle attese, si apriranno sulla tua bellezza infinita, nella gioia della comunione dei santi in cui nessuno sarà dimenticato, nell’eterno presente del tuo amore sempre nuovo e fedele. Amen!

domenica 27 novembre 2011

Il paradigma dell’amore. Sintesi armonica di Scienza e Speranza di Guido Tascini ( Università Politecnica delle Marche )

Introduzione.
È ragionevole pensare ad una società che evolva verso scenari completamente diversi da quelli attuali, da quelli che la storia ci ha abituato a vedere? Una società in cui l’aggressività e la legge del più forte non siano dominanti? In una parola è possibile pensare ad una evoluzione ‘buona’ della società verso stati che siamo abituati a relegare nel mondo dell’utopia? Uno sviluppo armonico della società che ci permetta di sperare in un futuro migliore?
È quanto nelle note che seguono mi accingo a esaminare cercando di capire se esistono degli strumenti di pensiero, scientifici, che giustifichino una tale domanda e se esista una possibile risposta. In una parola se, nonostante le apparenze, preoccupanti, della società odierna possiamo essere ottimisti.
La domanda che ci facciamo diviene una domanda relativa alle relazioni sociali: è possibile ipotizzare uno scenario in cui le relazioni interpersonali, quelle tra gruppi e tutte le relazioni umane in genere siano prevalentemente di tipo collaborativo? Ha senso pensare ad una evoluzione della specie umana che non sia cieca ma che, in determinate condizioni e con un contesto ottimale, possa sfociare in una società attesa, che in termini etici chiamiamo Società dell’Amore?.
Si fa un gran parlare di evoluzione, di evoluzionismo contro creazionismo. Ma noi qui, semplicemente, ci chiediamo se sia ipotizzabile un processo di trasformazione della società umana che, partendo da uno stato iniziale primitivo, tenda verso una forma socialmente evoluta. E se questa forma evoluta di arrivo passi non necessariamente attraverso una selezione cieca, ma attraverso una "selezione per", ossia una selezione finalizzata Si veda a questo proposito la critica, riportata più sotto, che fa al Neo-Darwinismo puro Fodor, filosofo della mente, allievo di Noam Chomsky: questi asserisce che il neo-darwinismo ortodosso fa uso, al suo interno, di nozioni che presuppongono ciò che pretendono di spiegare; Ad esempio la corrispondenza tra organi e funzioni che l’evoluzione cieca non può fornire: il cuore è stato selezionato per pompare il sangue. Se poi parliamo non di evoluzione biologica, ma di evoluzione sociale, a maggior ragione, la critica di Fodor si rafforza.
Non è impossibile piegare una serie di visioni scientifiche attuali ad una visione di progresso che conduca verso una società dell’Amore e della Misericordia. Ipotesi e congetture, quando sono ragionevoli e non logicamente falsificabili, hanno diritto di cittadinanza nel consesso del pensiero umano come tutte le altre. È risaputo del resto come la creatività aiuti a formulare congetture e teorie scientifiche. Un largo margine di ipotesi creative è diffuso nella scienza moderna [Big Bang, il Big Crunch, la rovesciabilità del tempo, lo «spazio curvo» ecc.] e questo vale anche per l'evoluzionismo. Certo esso è universalmente accettato. Ma l'evoluzione e i suoi corollari sono lontani dallo spiegare tutta la storia dell’umano consesso e della vita. E c’è ampio margine per ipotesi e congetture a correzione dell’ipotesi di selezione "casuale pura", come evidenziato da più parti.
Potremmo parlare di paradigma dell’Amore , a significare un insieme di teorie evoluzioniste non ortodosse, che adottino non una selezione cieca ma una selezione-per l’altruismo, per la cooperazione, o per la condivisione. Spesso una comunità di scienziati tende a riconoscersi entro un determinato insieme di teorie che viene detto paradigma40. Ora definire l’ approccio che stiamo analizzando un paradigma ha un sapore un po’ provocatorio. Tuttavia l’uso di tale definizione non è del tutto peregrina, come vedremo in seguito.
Esiste un gran fermento all’interno delle teorie evoluzioniste e non si tratta solo di favole, come qualcuno ha detto, ma di studi e di ipotesi, congetture e analisi scientifiche. Vediamo di seguito alcuni punti di vista che possano supportare la nostra visione paradigmatica e renderla meno utopica di quanto uno possa essere condotto a credere.
Sul piano etico già Giovanni Paolo II, nella sua lettera Enciclica "Dives in Misericordia"37 parlava di Misericordia come ‘correttivo’ della giustizia, nel senso che non basta la giustizia umana per dirimere le complesse controversie dell’umanità contemporanea. La presente generazione, sostiene, privilegiata dal grande progresso scientifico e tecnologico, si avverte impotente a superare gli abissi di disumanità che la caratterizzano senza far ricorso ad un "add-on" che provenga dal profondo dell’essere, che illumini le teorie scientifiche. E sul fronte scientifico c’è chi pensa ad un correttivo all’evoluzionismo, un correttivo insito nel trend, nell’intenzionalità che si insinua a diritto nell’evoluzione sociale.
Esiste un paradigma, quello della Sistemica, che introduce una serie di processi di generalizzazione che vanno oltre quelli introdotti dalla Cibernetica, quali adattività, armonicità, comportamento collettivo, sinergetica, emergenza, ecc. a cui attingere. Il concetto di emergenza, in particolare, nato in campo evoluzionista, che in senso più ampio caratterizza la Sistemica. Nelle diverse tappe, attraversate da una società in evoluzione, appaiono delle situazioni nuove che vengono chiamate emergenze. Queste emergenze segnano il percorso che conduce a nuovi scenari. La nostra domanda è: è possibile prevedere scenari ideali di tipo altruistico?
La nostra analisi si svilupperà toccando i seguenti punti:
1. L’Ordo Amoris di Scheler
2. Giochi di simulazione: evoluzione virtuale
3. L’evoluzione sociale umana
4. L’Emergenza e l’osservatore.
5. Lotta per la sopravvivenza o societa’ armonica? ipotesi per una societa’ non solo virtuale.
6. Conclusioni
7. Bibliografia

1.l’Ordo Amoris di Scheler1,2,3
Max Scheler, nei suoi due maggiori lavori "Essenza e Forme della Simpatia" e "Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico" effettua uno studio approfondito sui sentimenti umani, sull’amore e sulla natura della persona. In esso mostra come l’Ego, la Ragione e la Coscienza presuppongano, in modo inequivocabile, la sfera della Persona e nega la possibilità che possano sussistere un Ego Puro, una Ragione Pura e una Coscienza Pura.
In sintesi , Scheler, criticando la posizione di Husserl, Kant e dell’Idealismo Tedesco asserisce che l’essenza della natura umana non si appoggia sull’Ego Trascendentale, la Ragione, la Volontà o la Sensibilità, ma piuttosto sul "cuore" umano, intendendo con ciò la sede dell’Amore. Nella sua analisi distingue vari tipi di sentimenti, la maggior parte dei quali è nascosta e personale; e tra questi centrale è l’amore umano. Per Scheler L’uomo è un "ens amans"; i sentimenti hanno una logica di per sé, diversa da quella della Ragione, in ciò rifacendosi al pensiero di Pascal.
Ora i sentimenti si sperimentano attraverso la percezione dei valori. I valori percepiti sono paragonabili ai colori e come i colori sono indipendenti dalle cose colorate, così i valori sono indipendenti dalle cose con cui si percepiscono. Ad esempio il valore della Santità può essere percepito nel rapporto con Dio, ma anche con un feticcio, oppure associandolo alla madre terra delle culture indiane americane.
Esiste un ordine nei valori dei sentimenti: l’"ordo amoris". Ciascun livello di questo ordine è percepito con particolari tipi di sentimenti, sperimentabili da tutti gli uomini. Il livello più basso corrisponde ai sentimenti dei valori sensibili, seguono a salire: i valori prammatici di utilità e necessità, poi quelli della vita, quindi i valori mentali (estetici, giuridici, conoscenza del vero) e, infine, i valori della santità.
L’Etica di Scheler è basata in larga parte sulla propensione istintiva verso i valori, o come lui la chiama preferenza pre-razionale. Se una persona liberamente tende verso un valore più alto di quello percepito al momento, la differenza fra le altezze di questi valori è pre-razionalmente intuita, anche se in seguito potremmo giudicare contraddittoria questa differenza. Comunque sia realizzato, un valore più alto istintivamente preferito, fa emergere sempre un bene: ad esempio un bambino che tende ad abbracciare la mamma anziché continuare a giocare realizza un valore più alto del giocare, e questo anche se non ne è cosciente.
Particolarmente interessante è il pensiero di Scheler come filosofo della Religione. Nel suo lavoro L'eterno nell'uomo (1924) Scheler asserisce che l’Assoluto è presente in una "sfera" o regione della nostra mente che offre due alternative: (1)o è riempita di fede in Dio, o (2)è riempita di credenze negli idoli. Vi sono casi in cui la sfera dell’Assoluto in noi può essere inutilizzata rimanendo vuota, come nel caso dell’agnostico o del nichilista. Questa sfera rappresenta il legame tra l’esistenza e la parte dell’essere coinvolta negli atti religiosi. Rientra in questa visione la sua concezione del Tempo Assoluto, che non è misurabile con orologi come il tempo della scienza e della vita abituale: assomiglia al tempo che passa quando non pensiamo ad esso. Il concetto di tempo di Scheler è diverso da quello di Einstein, Heidegger, Husserls, Kant, Newton. Egli asserisce: senza una vita auto-rigenerativa non c’è tempo. Il tempo assoluto è la condizione per il tempo misurabile, che abbiamo usato per identificare il tempo di per sé. Il Tempo Assoluto è inerente tutti i processi di autorigenerazione, invecchiamento, auto-modifica; processi atomici, piante e animali inclusi Associa ad esso una espansione 4-dimensionale, così che il suo concetto di tempo assoluto appare vicino alla teoria generale della relatività di Einstein.
Il processo di un tempo assoluto, universale, cosmico e diveniente ha due poli che si compenetrano mutuamente : (1) una energia vitale increata, detto "Impulso" e (2) lo Spirito. Senza vita, che è la forma dell’impulso, lo Spirito è impotente a portare alcunchè all’esistenza. Lo Spirito ha bisogno di fattori realizzativi quali condizioni di vita, storia, economia, geo-politica, condizioni sociali e geografiche che permettono allo Spirito di realizzare le idee. Sono tali fattori realizzativi che permettono alle idee di funzionare in pratica; ma talvolta, come ben sappiamo, non lo permettono. Questa posizione di Scheler si inquadra nel pragmatismo di W. James, secondo cui le idee valgono in quanto hanno degli effetti pratici.
Secondo William James l’approccio pragmatista supera molte controversie metafisiche irrisolvibili in quanto cerca di interpretare ogni concetto sulla base delle sue conseguenze pratiche: si cerca di "misurare" con certezza il valore di un concetto, basandosi sulla sua utilità pratica. Il pragmatismo si adatta particolarmente alla forma della scienza contemporanea, in quanto la sua forza è basata su ciò che è utile all'uomo. Per quanto riguarda la metafisica si può asserire che : solo giudicandone i suoi effetti pratici si può giudicare la bontà di una verità. La conoscenza, in generale, non deve essere "soluzione immutabile di un enigma" (come lo è stato per le metafisiche passate), ma strumento di ricerca aperto alle possibilità del reale. Dice James: "Con il Pragmatismo dunque, le teorie diventano strumento di ricerca, invece di essere la risposta a un enigma e la fine di ogni ricerca. Esse non ci servono per riposare, ma per andare innanzi; e, se occorre, ci consentono di ricostruire il mondo. Le nostre teorie erano tutte cristallizzate: il Pragmatismo ha dato loro un'elasticità che non avrebbero mai avuto e le ha messe in movimento." 39 .
Non a caso Scheler viene citato da Giovanni Paolo II 36 come pensatore a cui ha attinto nella sua formazione scientifica fenomenologica.
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2.Giochi di simulazioe: evoluzione virtuale
Gli studiosi in genere e non solo gli informatici amano giocare con il computer. Giochi che sono normalmente delle simulazioni di leggi, teorie, procedure varie che trasferiscono in un mondo virtuale situazioni e realtà non altrimenti sperimentabili. Questo è anche il caso dell’evoluzionismo che costituisce il riferimento per tutto un filone informatico che va sotto il nome di Algoritmi Genetici, o Evolutionary Algoritms e simili. Dal punto di vista Informatico-Cibernetico l’evoluzione è vista spesso come processo di ottimizzazione. Gli Algoritmi Genetici prevedono la definizione di cromosomi, di meccanismi di mutazione, di solito casuale e di selezione di individui per ricavare popolazioni e la possibilità di simulare generazioni successive. L’ottimizzazione è raggiunta applicando una funzione di fitness, che deve essere massimizzata. Dal punto di vista informatico, gli algoritmi genetici possono essere visti come delle meta-euristiche o strategie per la ricerca della soluzione ottima di un problema, laddove l’approccio algoritmico semplice si scontra con quella che gli informatici chiamano intrattabilità. Adottando questo metodo si è visto come, partendo dalle ipotesi del modello evoluzionistico, si può simulare l'evoluzione di più specie. Sono stati realizzati svariati programmi per computer che simulano un ecosistema per diversi scopi: divertimento, studio dei meccanismi evolutivi naturali, studio degli algoritmi genetici, ecc.. Tali algoritmi sono usati anche per evidenziare la plausibilità dell’approccio evoluzionistico. Va aggiunto però che con alcune varianti si possono simulare evoluzioni anche molto diverse da quella darwiniana. Inoltre sono applicabili in campi anche lontani dalla biologia.
Dal punto di vista del valore probatorio delle ipotesi virtualizzate si può affermare: né la Matematica, né l’Informatica provano che sia andata, o vada così, ma solamente che è possibile che sia andata, o che vada così; cioè provano che il modello evoluzionistico simulato non ha difetti logici. Ma nella scienza non è possibile provare una ‘verità assoluta’, che eliminerebbe il dubbio cartesiano, ma che qualcosa non è sbagliato allo stato attuale delle conoscenze. Mentre è possibile formulare altre ipotesi plausibili. Il terreno su cui si decide per una teoria piuttosto che per un’altra è quello della falsificabilità e quello pratico di James39: le teorie, che resistano al tentativo di falsificazione, vanno saggiate sul piano delle possibilità del reale.
È particolarmente istruttivo, per capire l’approccio cibernetico, vedere come sono organizzati gli algoritmi di simulazione genetici. I metodi informatici di simulazione basati sugli algoritmi genetici, sulla programmazione evolutiva e sulla programmazione genetica si rifanno alla teoria dell’evoluzione. Ad esempio nel modello di Holland gli Algoritmo Genetici sono procedure, adattive, finalizzate alla risoluzione di problemi di ricerca e ottimizzazione: in pratica sono strategie che cercano il punto di massimo di una certa funzione, quando questa funzione è troppo complessa per essere massimizzata con tecniche analitiche veloci ed è impensabile esplorare casualmente lo spazio delle soluzioni. L'AG seleziona le soluzioni migliori e le ricombina con diverse modalità affinché esse evolvano verso un punto di massimo. La funzione da massimizzare è detta Funzione di Fitness. Il termine assume diversi significati con sfumature diverse : "adattabilità", "successo biologico", "competitività", ecc..
Il modello simula l’evoluzione di una popolazione di n stringhe; le stringhe sono costituite di l bit e sono generate in modo casuale. Il numero delle possibili stringhe, secondo il calcolo combinatorio, è pari a 2l e rappresenta lo spazio delle soluzioni del problema. Ogni stringa (detta genotipo) rappresenta la codifica binaria di una soluzione candidata (detta fenotipo).
Ad ogni genotipo gi della popolazione iniziale P(t=0), all’istante t=0, è associato un valore Fi=F(gi) che rappresenta la capacità dell'individuo di risolvere il problema dato. Per determinare il valore di adattività, la funzione di fitness riceve in input un genotipo, lo decodifica nel corrispondente fenotipo e lo testa sul problema dato. Conclusa la fase di valutazione degli individui della popolazione al tempo t, P(t), viene generata una nuova popolazione al tempo t+1 , P(t+1), di n nuove soluzioni candidate: ciò si ottiene applicando gli operatori di selezione, di mutazione, di crossover e di inversione descritti di seguito.
Selezione. L'operatore di selezione genera un numero casuale c tra 0 e 1 che determina quale individuo verrà scelto. L'individuo selezionato viene copiato nel cosiddetto mating- pool. Il mating-pool è così riempito di n copie degli individui selezionati, al tempo P(t=0). La nuova popolazione P(t+1) è ottenuta attraverso gli operatori di crossover, mutazione e inversione. L'operatore di selezione sceglie gli individui che hanno la possibilità di generare discendenti con fitness alta, e, nell’algoritmo genetico, gioca il ruolo della selezione naturale per gli organismi viventi.
Mutazione. Con probabilità bassa p viene invertito il valore dei bit di ogni individuo (da 0 a 1 e viceversa). Esempio:



La mutazione corrisponde alla variazione naturale, rara, di elementi nel genoma degli esseri viventi durante l'evoluzione. Nell’ambito della simulazione essa aggiunge un "rumore" o una certa casualità all'intera procedura; questo per assicurare che, partendo da una popolazione generata casualmente, non vi siano punti dello spazio delle soluzioni che non vengano esplorati.
Crossover. Vengono scelti a caso due individui, detti genitori, entro il mating-pool; viene poi scelto un punto di taglio comune. La porzioni di genotipo alla destra del crossover vengono scambiate: questo genera due discendenti. Si veda in proposito la figura seguente:


L’applicazione del crossover può essere di tipo one point: l’operatore viene applicato n/2 volte e dà luogo a n discendenti in base ad una prefissate probabilità p. Nel caso in cui il crossover non sia applicato, i discendenti coincidono con i genitori.
Oppure può essere di tipo two points: in questo caso l’individuo è rappresentato con una stringa circolare, anziché lineare e gli individui non sono rappresentati da stringhe lineari, ma da circoli. Vengono scelti due punti di crossover che individuano due porzioni di circolo che vengono scambiate. Quindi si sostituirà una porzione di circolo di in individuo con quella di un altro selezionando due punti di crossover.
In fine il crossover può essere di tipo uniform: per ogni coppia di genitori si genera una stringa binaria della stessa lunghezza di una maschera. Il discendente viene generato copiando il bit del padre o quello della madre a seconda che nella corrispondente posizione della maschera ci sia uno 0 o un 1.
Il crossover rappresenta metaforicamente la riproduzione sessuale, in cui il materiale genetico dei discendenti è una combinazione di quello dei genitori.

Inversione. Si scelgono a caso, con una prefissata probabilità p, due punti nella stringa che codifica l'individuo e si invertono i bit tra le due posizioni. Si veda la figura seguente:


È difficile stimare quali valori della probabilità di crossover e della probabilità di mutazione daranno le migliori performances. L'uso di questi algoritmi dimostra che esiste una forte dipendenza dal tipo di problema studiato con l’algoritmo genetico. Generalmente nelle simulazioni si adotta una probabilità di crossover è tra il 60 e l'80%, mentre quella di mutazione va da 0,1 a 1%.
Adottando una probabilità di selezione di un individuo, per la riproduzione, proporzionale alla sua fitness f e chiamando F la somma di tutte le fitness della popolazione, il loro rapporto f/F ci dà la probabilità; allora si ha una probabilità alta quando è migliore l’adattamento e quindi, in seguito al crossover, gli individui migliori possono essere facilmente ricombinati: quindi avremmo la perdita del cromosoma migliore. Per far convergere l’algoritmo più rapidamente, evitando ciò, spesso la simulazione ricorre alla clonazione dell’individuo migliore di una generazione. Questa tecnica è detta elitismo.
Come si vede, in sede di simulazione genetica le possibilità, soprattutto quelle legate alla distribuzione di probabilità degli individui generati sono molte e la loro scelta può dar luogo a soluzioni differenti. Ora strumenti di questo genere possiamo usarli per verificare la plausibilità di ipotesi genetiche varie. Simulare e verificare la plausibilità non vuol dire dimostrare. La dimostrazione passa ovviamente per la verifica rigorosa dell’aderenza alla realtà.
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3.L’evoluzione sociale umana
L’evoluzione sociale umana viene spesso, almeno in parte, ricompresa nell’evoluzionismo. Vale la pena sottolineare, con i biologi, come il tradizionale concetto di "organismo", come tipo distinto di entità vivente, venga considerato utilizzabile solo in domini limitati. Vi sono molti esempi, quali i virus, alveari, muffe e altre relazioni simbiotiche e parassite che tendono a sfumare la distinzione tra organismi viventi e comunità come sistema vivente elementare. Comunque anche se assumiamo l’esistenza di organismi distinti, gli studiosi di evoluzionismo riconoscono che la gerarchia dell’evoluzione neurale è marcata da transizioni metasistemiche (MTS), ossia salti nella continuità evolutiva, tra gli organismi. E contemporaneamente accadono transizioni metasistemiche che portano gli organismi a raggrupparsi: esempi elementari sono la riproduzione di popolazioni, la dinamica delle colonie di pesci e quella degli stormi di uccelli. La visione cibernetica asserisce che quando il controllo di questi gruppi è molto forte si hanno le transizioni più marcate (ad esempio si sviluppano organismi multicellulari). Mentre quando il controllo del gruppo è debole abbiamo l’esistenza di società di organismi. La forma più integrata di tale società si può trovare negli insetti sociali: formiche, api e termiti.
Ma passando alla società umana, tutti riconoscono che questa è molto meno saldamente integrata e molto più complessa delle società di insetti. Le società di livello più elevato sono contraddistinte dalla cultura, che si trasmette da un gruppo all’altro con modelli informativi in un modo non genetico. Esiste una teoria che definisce tale informazione non genetica, trasmessa tra le persone, che introduce il concetto di memo. I memi sono strutture informative, assimilati ai geni, che possono subire trasformazioni che somigliano alle variazioni e selezioni di tipo evoluzionistico: queste sono caratterizzate da mutazioni e ricombinazioni di idee, come pure dalla loro diffusione e riproduzione o arresto di tipo selettivo. Questa teoria prevede una evoluzione sociale umana di tipo cognitivo in cui il pensiero è l’abilità a controllare la produzione, riproduzione e associazione di memi nella mente degli uomini. Ne segue la possibilità di evoluzione a livello di memi. Secondo questa teoria il pensiero umano costituisce una ‘emergenza’ di tipo sistemico; questa emergenza fa apparire un nuovo meccanismo di evoluzione: lo sforzo umano cosciente, anziché la selezione naturale. La variazione e la selezione necessarie per aumentare la complessità dell’organizzazione ora ha luogo nel cervello umano; esso diviene inseparabile dagli atti liberi dell’essere umano. Sempre secondo questa visione, l’emergenza dell’intelligenza umana e l’evoluzione memetica generano una ulteriore, attualmente operante, transizione metasistemica che rappresenta l’integrazione della gente nella società umana. La società umana, qualitativamente differente da quella animale, tra le caratteristiche distintive possiede l’abilità a creare il linguaggio, il quale da un lato permette agli individui di comunicare tra loro, dall’altro permette agli uomini di creare modelli della realtà.
La teoria affronta il problema della gerarchia dei raggruppamenti: i vari livelli sono raggruppati e organizzati in termini di lavoro. E a ciascun livello c’è un problema di transizione metasistemica(MTS). A ciascun livello, si asserisce non c’è solo competizione tra gli interessi dei gruppi allo stesso livello, ma anche tra le unità più piccole e quelle maggiori. I gruppi vis-a-vis, sono incorporati in città-stato organizzate e le città-stato in nazioni. Ciascuno di questi livelli sono i luoghi dove può avvenire la selezione e la competizione.
Dal punto di vista cibernetico molti biologi evoluzionisti contestano l’efficacia della selezione biologica di tipo altruistica dei gruppi. Si tratta di individui che presentano tratti ‘altruistici’: cioè gli individui agiscono per la preservazione del gruppo rischiando la propria sopravvivenza e la possibilità di beneficiare della "fitness inclusiva"(rappresentazione dei propri geni nelle future generazioni). Questi sostengono che gli altruisti diminuiscano le loro possibilità pagando un prezzo per il rischio che corrono e quindi sono svantaggiati nella competizione genetica tra gruppi. Ma come si è visto prima l’eventuale evoluzione sociale avviene grazie allo sforzo umano cosciente. Questo apre una breccia nel processo di selezione strettamente darwinista, che finisce per non essere più cieco. Quindi anche la visione cibernetica non può fare a meno del libero arbitrio.
Esiste tutta una letteratura a proposito dell’altruismo21,22,23,24,25,26 in ambito evolutivo. Ma vediamo quali sono i punti attorno a cui si muove la critica all’evoluzionismo forte e se si possa definire una forma di evoluzionismo debole come base dello sviluppo umano. E infine vediamo se un’impostazione sistemica del tutto possa illuminare l’emergere di una società amans, che espanda l’ens amans di Scheler e trasferisca le spinte dello Spirito nello sforzo umano cosciente, facendo evolvere il Sistema Civile Umano verso una "Civiltà dell’amore".
Jerry Fodor e il Darwinismo
Una critica al neo-darwinismo forte viene da Fodor, allievo di Noam Chomsky, filosofo della mente 28,29. Questi asserisce che il neo-darwinismo ortodosso fa uso, al suo interno, di nozioni che presuppongono ciò che pretendono di spiegare. Ad esempio la corrispondenza tra organi e funzioni che l’evoluzione cieca non può fornire: il cuore è stato selezionato per pompare il sangue.
Il problema per l’evoluzionismo è scegliere tra: attribuire una micro-intenzione alla natura, o tentare di prevedere i risultati della selezione naturale. La biologia moderna ha scoperto molti casi di processi evolutivi diversi da quelli basati sulla selezione dell’individuo più ‘adatto’. Addirittura la selezione del più adatto sembra marginale nella generazione di architetture biologiche.
Ad esempio, in tutti gli esseri viventi esistono geni-master organizzati in reti complesse che controllano lo sviluppo e le funzioni di più organi dello stesso individuo. Selezionare una di tali funzioni comporta la mutazioni in tutte le altre: sono state scoperte mutazioni di un organo che si trascinano la mutazione di altri organi e connessioni. È noto l’esempio del becco del fringuello: la metà superiore si trascina quella inferiore, le ossa del cranio, i nervi e i muscoli del collo. Secondo Marc Kirschner31 esiste un «dialogo tra i tessuti viventi». Secondo questi punti di vista la selezione cieca della natura, che perfeziona organi, meccanismi vacilla.
Vengono citati casi del mondo biologico di risultati ottimali che non sembrano selezionati a partire da tentativi casuali. Non sembra ragionevole pensare a milioni e milioni di generazioni di scimmie il cui cervello ha tentato a caso tutte le soluzioni possibili giungendo a quello dell’uomo.
La selezione ha dovuto, dice Fodor, procedere entro binari stretti. Quindi evoluzione si, ma non adattamento.
Per Fodor nella teoria di Darwin si devono distinguere due parti: la filogenia e la selezione naturale, con l’adattamento. La filogenia è accettabile mentre l’adattamento non lo è. In pratica del Darwninismo viene contestata la selezione naturale: la teoria della selezione naturale, conduce a caratterizzare il meccanismo non già di formazione della specie, ma di tutti i cambiamenti evolutivi nelle proprietà innate degli organismi. In accordo con la teoria della selezione, un fenotipo di una creatura – l’inventario dei suoi tratti ereditari, inclusi i suoi tratti mentali ereditari - è un adattamento alle domande della sua situazione ecologica. Adattamento sta per il processo con cui le variabili ambientali selezionano, tra le creature di una popolazione, quelle le cui proprietà ereditabili sono le più adatte alla sopravvivenza e alla riproduzione. Così la selezione ambientale per l’adattamento è (più o meno un bit) il processo per eccellenza che percorre l’albero evolutivo.
Ma se i fenotipi sono selezionati per niente, allora non c’è niente in particolare da selezionare. Questo si applica ai fenotipi psicologici tra gli altri.
Infatti c’è un apprezzabile numero di biologi perfettamente ragionevoli che stanno giungendo a pensare che la teoria della selezione naturale non può più essere presa in considerazione.È fuori questione come sia in atto una rivoluzione scientifica, dice Fodor, una revisione generale della teoria evolutiva. Diversamente dalla storia che le nostre menti sono adattamenti anacronistici, questa novità non sembra avere avuto molto seguito al di fuori dei circoli professionali.
Ironia della sorte, nel momento in cui la teoria della selezione naturale è divenuta un fatto di cultura popolare, essa viene affrontata dalla maggiore sfida che abbia avuto fin’ora. I Darwinisti hanno sempre detto che l’ adattamento è un idea geniale. Ma questo potrebbe ridursi a un bel gioco se l’idea non è valida. Molta parte della storia della scienza si è svolta in un mondo che gioca all’interno di teorie protette.
Due tipi di considerazioni vanno fatte, sempre secondo Fodor, per rimuovere la selezione naturale dalla sua posizione centrale nella teoria evolutiva; una è più o meno concettuale, l’altra è empirica.
- Considerazione concettuale. C’è un equivoco al cuore della teoria della selezione questo trascina giù l’intero paradigma. Il problema diventa: si può leggere l’adattamento come affermazione che sono gli ambienti a selezionare le creature per il loro adattamento, oppure che sono gli ambienti a selezionare i tratti per il loro adattamento. Appare che la teoria vada letta in entrambi i modi per funzionare: da un lato le forze di selezione devono agire sulle creature individuali perché sono queste che vivono, soffrono, si riproducono e muoiono. Dall’altro lato le forze di selezione devono agire sui tratti perché sono i fenotipi- fasci di tratti ereditabili- che con la loro evoluzione spiegano la teoria.
Non è ovvio, tuttavia, che la teoria della evoluzione possa sostenere entrambe le letture. I Darwinisti concordano sul fatto che i fenotipi evolvano perché gli individui adatti sono selezionati per i tratti che li rendono adatti. Questo modo di porre la questione evita l’ambiguità, ma se questo è possibile vuol dire che l’adattamento è in grado di provvedere la "selezione per"; e sembra che, riflettendoci, questo non lo possa fare. Di qui la corrente perplessità.
In conclusione affermare che l’evoluzione ha selezionato un organo per una determinata funzione corrisponde ad una affermazione intenzionale. Inserire il per significa introdurre uno scopo.
Questo può pensarsi ottenuto con due tipi di soluzione:
• la prima ricorre ad una intenzionalità di livello superiore. Madre natura, il gene egoista, o Dio Creatore che ha inserito nella vita una tensione.
• La seconda introduce il concetto di legge, che è appunto intenzionale. Ma non è possibile trovare una legge per la selezione naturale: le maggiori possibilità riproduttive non sono descrivibili con una legge. La riproduzione dipende dal contesto e uno può solo cambiare contesto.
Questo è quindi ciò che viene dall’interno della teoria evoluzionista, che di fatto delegittima la selezione casuale.

Selezione naturale o patologica?
Decisamente sconvolgente è l’ipotesi di Voeikov6, docente di biofisica presso la Facoltà di Biologia dell’Università di Mosca. L’evoluzione dei biologi viene messa in discussione nella sua forma tradizionale5.
Secondo la teoria di Darwin tutta la natura compreso l'uomo, è il risultato di una evoluzione naturale. Attraverso processi di qualche miliardo di anni, organismi microscopici sono divenuti più complessi e finalmente è comparso l'uomo. Questa trasformazione, nel tempo, dalle forme semplici alle più complesse anzichè evoluzione, sarebbe meglio chiamarla processo di sviluppo, secondo Voeikov6. Tutti i viventi posseggono un codice genetico e i figli possono somigliare più o meno ai genitori: le eventuali diversità e i cambiamenti, possono rafforzarsi e quindi trasferirsi ad altri individui. E questo, secondo la teoria darwiniana dura, avviene per caso; esistono processi fisici e biologici che portano alla mutazione e quindi distruzione di alcuni geni. In conseguenza di queste mutazioni genetiche vivono solo quelli che sono più capaci e più veloci ad usare tutte le risorse esistenti, gli altri muoiono. Questo processo, detto di selezione naturale, fa sì che il mondo biologico ingaggi una continua lotta nell'ambiente e tra le specie. In pratica da una serie di cambiamenti casuali derivano 'priorità casuali' di sopravvivenza.
Voeikov afferma che tale teoria contraddice la realtà quotidiana. Consideriamo, ad esempio, un organismo vivente complesso, che nasca da una cellula-uovo. Esistono in esso le varie differenziazioni cellulari; ma la cosa che ci meraviglia è vedere come tutte le cellule lavorino in sinergia, l’una per l’altra, in simbiosi-collaborativa4, come si dice, e contemporaneamente ognuna per se stessa. Se queste cellule si comportassero secondo la teoria Darwiniana, asserisce Voeikov, dovrebbero moltiplicarsi in progressione geometrica, secondo i processi evolutivi casuali che si instaurano in mancanza di risorse e in deficit di energia e di sostanze. In realtà quando questi processi si instaurano , nella vita quotidiana, li chiamiamo cancro. Infatti, nel caso del tumore, le cellule si sviluppano in modo diverso da quelle da cui sono derivate per mutazione e non si somigliano affatto: sono più aggressive e più ingorde delle cellule di provenienza sane; si alimentano consumando più energie e più sostanze e in modo meno efficace. Questo modello rappresenta la teoria di Darwin.
Altro esempio emblematico, quello delle locuste: compaiono all’improvviso, sviluppandosi da un altro tipo di insetti che vivono senza arrecare alcun disturbo; sono costituiti da una quantità di popolazioni limitata, soggetti a riproduzione regolata, che viene mantenuta in equilibrio per un periodo di tempo caratteristico del tipo di inetti. Poi lo squilibrio. Lo squilibrio non si crea perché non hanno da mangiare, ma è il risultato di processi che ancora non conosciamo, collegato col clima e all'attività solare. All'improvviso si distrugge la regola della moltiplicazione. Se questo fattore di disturbo dura per 2-3 generazioni, da insetti normali cominciano a moltiplicarsi altri insetti, come un tumore, che raggiungono una grande dimensione dimostrando che esiste abbondanza di risorse di alimentazione e di energia. Successivamente emerge un comportamento anomalo: il branco generatosi comincia a muoversi e a spostarsi in una certa direzione, non per cercare cibo. Prosegue sempre in quella direzione senza fermarsi mai o invertire rotta. E se lungo il cammino incontra piantagioni, le distrugge e prosegue. Prima o poi finisce per raggiungere il mare e si suicida.
Questo comportamento folle potrebbe anche, dice Voeikov, riguardare l’uomo: se gli uomini useranno metodologie di concorrenza selvaggia senza sosta, con la selezione come lotta di sopravvivenza, dopo un periodo che sembrerà di grande splendore, la fine sarà sempre quella del tumore e della follia, come per le locuste. Questo comportamento sembra più una violazione delle leggi della natura, che un comportamento naturale. È una trasgressione all'interno dell'organismo che è Unità Armonica. Sappiamo che nel corpo vivente ci sono sempre cellule che degradano, ma il corpo sano è capace di individuarle e isolarleQuando invece l'organismo si indebolisce, gli errori genetici si moltiplicano, e si origina un cambiamento qualitativo che porta alla formazione del cancro.
Voeikov ipotizza anche una relazione tra cancro biologico e cancro psichico: l’uomo è una struttura trina fatta di spirito, anima e corpo7; lo spirito domina il corpo che è strumento e che ha bisogno dello spirito per vivere. Se si eccettuano i traumi fisici, tutte le malattie sono collegate con i disturbi che interessano spirito e anima e solo poi si evidenziano nel corpo. Il Sistema Uomo, può trasgredire lo sviluppo evolutivo. Lo sviluppo dei viventi è un processo contrario a quello descritto da Darwin: è un processo di sintesi, di unione di parti più semplici che creano via via parti più complesse e più resistenti, adeguate alla influenza dei fattori di disturbo. L’unione di due strutture diverse può avvenire solo se diventano meno indipendenti. In termini chimici diremmo che le strutture, per unirsi, dovrebbero avere valenza e radicali liberi, non uniti in sé stessi, ma più disponibili al contatto con gli altri, più aperte verso l'esterno a unirsi e scambiarsi con altri. In verità qualunque struttura biologica, segue sia l'uno che l'altro approccio: singolarità e scambio. Noi cerchiamo di essere individuali ma anche di comunicare. Questo dualismo è la vita, è un equilibrio tra perfezione dell'unità e l'apertura verso l'esterno. L'errore è stato per alcuni di credere più importante l'individualità e per gli altri il processo dell'unione totale che tende a cancellare l'individualità. Da qui nascono tutti i nostri problemi. Per es. la teoria di Darwin descrive il processo di distruzione della struttura individuale e la caoticità del sistema che praticamente è la tappa necessaria per lo sviluppo continuo. Però, se questa tappa si prolunga molto, porta alla distruzione. Per questo è necessario fermarsi in tempo.
Il segreto della vita sta nel rapporto inscindibile del tutto con l'uno e dell'uno col tutto, in una collaborazione che va ulteriormente indagata. Ma fino a quando non comprenderemo a pieno le Leggi Naturali, le dobbiamo semplicemente rispettare, pena la non sopravvivenza.
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4.L’emergenza e l’osservatore
Analizziamo brevemente il concetto di emergenza e associato a questo il concetto di osservatore. L’osservatore possiamo ipotizzarlo a livello meta-genetico. Il prefisso meta normalmente si usa per denominare le teorie di livello superiore a quello che si sta esaminando. Per livello meta-genetico intendiamo un livello superiore a quello dove avvengono i processi genetici: adattamento, selezione.
Ha senso una evoluzione se non c’è nessuno che la osserva? È noto come una teoria non spiegabile al suo interno, ha bisogno di fare una salto di livello e salire alla meta-teoria. Questo accade in Logica Matematica, come ad esempio nella teoria di numeri la cui incompletezza è stata dimostrata da Gödel. Ad esempio il mentitore dice"io sto mentendo": se la frase è vera allora sta mentendo, se è falsa sta dicendo la verità. È questo un classico paradosso. Se ci fosse un osservatore esterno che potesse vedere da un punto di vista superiore come stanno le cose il paradosso scomparirebbe. Qualcosa di simile accade nella sistemica: non è possibile definire una emergenza se non esiste un osservatore esterno al sistema.
L’emergenza si attua quando l’osservatore rileva proprietà di un sistema non deducibili a livello dei singoli componenti. In effetti, il concetto di emergenza nasce nella teoria evoluzionista, tra i biologi, ma costituisce una proprietà fondante della Teoria dei Sistemi 9,10,11. Il passaggio da insiemi di elementi in relazione tra loro a sistemi emergenti da elementi in interazione tra loro é alla base del concetto stesso di sistema.
Un sistema può essere visto come meccanismo, come dispositivo. Tale astrazione fa sempre riferimento a complessi di parti assemblate e funzionanti ma essa permette generalizzazioni. Per cui un dispositivo può essere inteso anche come procedura, come software. Qui il riferimento è alla teoria degli automi, alla Cibernetica (Ashby 1956): il problema su cui si focalizza l’attenzione è quello del controllo, dell’autogoverno e dell’autoregolazione. Questi ed altri approcci furono sintetizzati nella Teoria Generale dei Sistemi introdotta da Ludwing von Bertalanffy (1901-1972) nel libro General Systems Theory8.
Per agire sul comportamento di un sistema si rivelano inefficaci strategie di intevento sui singoli componenti. Esiste l’impossibilità matematica di prevedere aprioristicamente i dettagli dell’evoluzione degli stati di un sistema addirittura di semplici sistemi meccanici (si veda il classico problema dei tre corpi). La formalizzazione permette la modellizzazione e la simulazione di sistemi usando diversi approcci e tecniche basate: sulle reti neurali, sugli automi cellulari, sugli algoritmi genetici e altro 14,15,16,17,18,19,20. Il concetto di emergenza è stato di grande aiuto nell’impostare approcci per individuare e gestire proprietà sistemiche. L’ emergenza e l’ "evoluzionismo emergente" furono introdotti per la prima volta da C. L. Morgan nel libro Emergent Evolution, nel 1923. Contemporaneamente il filosofo C. D. Broad parlò di proprietà emergenti, presenti a certi livelli di complessità. La tematica dell’emergenza fu ritenuta per molti anni di pertinenza del contesto biologico. Questo in quanto nell’evoluzione biologica è spesso possibile osservare l’apparire di alcune caratteristiche in modo discontinuo, imprevedibili sulla base di quelle precedentemente esistenti,. Qui l’attributo "emergente" fu considerato sinonimo di "nuovo", "imprevedibile". Successivamente in differenti contesti disciplinari, si comprese che questa concezione di emergenza era implicita nelle Teoria Generale dei Sistemi12,13.
Una definizione formale di proprietà emergente contribuirà a fare chiarezza. Chiamiamo:
- S1, una struttura con proprietà primitive osservabili a livello dei componenti, cioé a livello micro (ad esempio il volo di un singolo uccello);
- S2, una struttura del secondo ordine, ad esempio un sistema, risultante dalle interazioni tra i componenti e avente proprietà osservabili solo a livello macro(ad esempio il comportamento di uno stormo).
Allora una proprietà P di S2 è emergente se e solo se è osservabile in S2 ma non a livello più basso, cioè in S1 (ad esempio osservando il volo di singoli uccelli non è possibile prevedere l’assetto di uno stormo).
Bisogna notare che il termine osservabile fa riferimento all’ osservatore come parte integrante del fenomeno e non come generatore di disturbo, come ad esempio in Fisica. Non è un caso che il tema dell’emergenza sia apparso in un periodo in cui un altro fondamentale aspetto stava ponendosi al centro dell’interesse degli scienziati: il ruolo attivo, teoricamente integrato con il fenomeno in studio, dell’osservatore. In altre parole si deve supporre l’esistenza di un osservatore che abbia costruito un modello di un dato sistema, dando ad esso una forma corrispondente alle proprie finalità, introducendo in esso regole e simmetrie tali da soddisfare i principi generali ritenuti validi. Un modello di comportamento è quindi emergente se non rientra nella categoria di quelli che erano gli obiettivi del progettista del modello stesso.
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5.Lotta per la sopravvivenza o societa’ armonica? Ipotesi per una societa’ non solo virtuale.
Guardando le cose allora dal punto di vista dell’emergenza, possiamo ipotizzare una società ( un sistema) in cui gli elementi costituenti siano gli esseri umani (altri sistemi ) la cui interazione fa emergere comportamenti complessi, la cui natura è stata studiata dagli evoluzionisti, filosofi, biologi, etc..
Come abbiamo visto le ipotesi sono diverse: si va da una evoluzione di tipo darwinista forte, in cui, perfino la religione è considerata punto di arrivo del processo evolutivo27, ad una evoluzione in cui lo sviluppo sociale è visto come sviluppo armonico di unione ed in cui il processo darwinista forte viene considerato patologico.
Stando così le cose c’è abbondante spazio per una visione ottimistica di evoluzione in cui la società, superando l’approccio locale della selezione casuale dei comportamenti, abbia,all’interno dei singoli, una visione globale, che superi il livello genetico, che possa influenzare il trend positivo della sua evoluzione ( evoluzionismo debole ): in parole povere una evoluzione in cui il libero arbitrio dica la sua. Su questa base possiamo costruire delle teorie, sociali, cognitive, psicologiche, ecc.. L’insieme di queste teorie può, a buon diritto, essere considerato un Paradigma. E la possibilità che queste teorie rimangano un bel ‘gioco’ intellettuale oppure che diventino spiegazione della realtà dipende dal fatto che possiamo o meno mettere in piedi una dimostrazione rigorosa di esse. E, comunque, una teoria rimane valida finchè non venga contraddetta dalla Logica (falsificata) o dalla realtà.
Queste considerazioni ci incoraggiano a formulare una ipotesi di società che si sviluppi da uno stato competitivo ad uno stato armonico. E per la verifica della plausibilità di questa congettura, possiamo pensare di utilizzare strumenti di simulazione informatici. Quindi studiare una Società Ideale Virtuale, in attesa di vederla un giorno realizzata nell’ambito del consesso umano.
Ora, siccome nessuno può proibire ad uno studioso di concepire una teoria, così nessuno può impedirci di formulare la seguente congettura: la società umana può gradualmente evolversi (o svilupparsi) verso una forma di convivenza in cui le relazioni interpersonali siano basate sulla cooperazione e sull’amore reciproco. Società sognata da Santi e Spiriti illuminati in cui «Il lupo dimorerà insieme con l'agnello » (Is 11, 6). La Società dell’Amore.
In pratica possiamo concepire un algoritmo evolutivo che, partendo da una visione cibernetica, introduca: intenzionalità nell’evoluzione da un lato e sintesi armonica dall’altro. L’algoritmo agisce su una popolazione che si evolva non con selezione casuale, ma con selezione intenzionale, guidata dal libero arbitrio dei singoli. Si prevedono MTS (transizioni metasistemiche) come eventi singolari che originano dalla volontà dei singoli. Possiamo impostare una simulazione in due modi che possiamo chiamare:
i. ‘Fate-driven’, cioè di tipo darwiniano puro, in cui la selezione degli individui sia di tipo casuale.
ii. Free-will driven, di tipo ‘intenzionale, in cui la selezione degli individui avvenga in modo armonico, in cui l’osservatore assume un ruolo attivo non solo nel valutare l’emergenza, ma anche nel guidarla.
Utilizziamo la seconda. Che vuol dire dal punto di vista dell’algoritmo evolutivo non lasciare mutazioni spontanee ma forzarle. L’intenzionalità può essere ottenuta: punendo l’evoluzione cattiva e premiando l’evoluzione buona e non lasciando tutto alla dinamica competizione-risorse. Dipende tutto dal criterio di ottimizzazione: la ‘fitness function’ può essere studiata in questo modo. Infine la selezione anziché essere casuale, può essere mirata alla selezione di fenotipi con caratteristiche particolari: appunto carichi di "benevolenza" verso gli altri individui. Viene bloccata la competizione sulle risorse ma avvantaggiata la cooperazione e la generosità. Nella nostra simulazione c’è un certo numero di individui che è in grado di esercitare la volontà personale: non segue il comportamento ‘tipico’ ( che potremmo chiamare istintivo) ma un comportamento di non-contrasto, di offerta, di collaborazione.
Nella visione cibernetica certi comportamenti, anche molto complessi, dipendono da un approccio locale( ad esempio gli stormi che disegnano figure complesse a partire da regole locali semplici: mantenere una certa distanza dai vicini). Qui ipotizziamo che i singoli abbiano, al loro interno, una visione globale (tipica dell’osservatore) ereditata che influenza la fitness in modo intenzionale, tendendo ad una società perfetta in cui, ad esempio, tutti possano accedere alle risorse, una risorsa raggiunta venga distribuita e gli individui cooperino. Questa società per noi rappresenta una società dove l’uomo non è più guidato dall’istinto dell’ homo-homini-lupus ma dalla benevolenza verso il proprio simile: una società la cui organizzazione emerga dall’amore reciproco.
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CONCLUSIONI
Simulare una società dell’Amore è divertimento, utopia, o speranza?
Conclusione scientifica
A conclusione di questo studio sui diversi approcci allo sviluppo della società umana, possiamo individuare alcuni punti fermi. E non me ne vogliano certi ‘chierici’ della scienza che difendono le loro ipotesi scientifiche costruendo, attorno ad esse, vallati di disprezzo per chi osi metterle in dubbio, dimenticando che è il processo di falsificazione quello che dà sicurezza alle ipotesi.
• L’uomo può essere considerato un "ens amans".
• L’evoluzione appare come un paradigma plausibile, ma suscettibile di aggiustamenti, anche basilari, in particolare riguardanti la casualità cieca. C’è chi recupera una visione armonica della vita e relega l’emergenza di strutture con progressione geometrica nel patologico.
• L’approccio sistemico amplia il concetto di emergenza facendogli superare i confini dell’evoluzionismo con una definizione del tutto generale: l’apparire di proprietà e comportamenti del tutto imprevedibili. In questa visione è fondamentale il ruolo dell’osservatore: è l’osservatore meta-genetico, al di fuori del sistema che evolve, con i suoi modelli e le sue aspettative a riconoscere i processi di emergenza, che non sono riconoscibili all’interno del sistema stesso.
• Infine lo sviluppo della società umana può dar luogo ad emergenze di comportamenti, non casuali e la presenza di certi semi all’interno dell’uomo possono, sfruttando la libertà dei singoli nell’interazione sociale, far emergere una società migliore dell’attuale, non caratterizzata dall’"homo homini lupus", ma "amans" quale quella sognata dai grandi spiriti di tutti i tempi. Una società che sia in grado di svilupparsi a partire da uno stato in cui domina la selezione dei singoli e dei gruppi umani basato sulla lotta per la sopravvivenza, giungendo ad una società armonica: processo questo risultato di una ‘intenzionalità’ positiva che porti i gruppi a fondersi in strutture concorrenti, sinergetiche e quindi armoniche.
• Su di un piano meta-scientifico l’Armonia corrisponde alla Bellezza e la Concorrenza e la Sinergia corrispondono all’ Amore.
Conclusione meta-scientifica.
Amore e Misericordia
L’Amore e la Misericordia possono essere ipotizzati come principi di comportamento sociale. Allora il problema della evoluzione spontanea o guidata viene risolto a favore di questi. Non è peccato (laico) pensare un’evoluzione che tenda ad un fine e questo fine sia preordinabile dall’ individuo: il seme è interno all’essere e lo guida. Pensando all’uomo costituito di Corpo – Mente – Spirito non è difficile collocare questo seme nello Spirito. Nessuno ci impedisce di pensare che tale seme sia la somiglianza con Dio e che l’uomo non abbia pace finchè non introduca nei rapporti sociali la proprietà somma che caratterizza Dio 32,33 . Possiamo pensare il comportamento umano continuamente interagente con questo seme: quando il comportamento è consonante l’uomo tende al fine preordinato, quando è dissonante si allontana dal questo.
Consideriamo ora la Misericordia come principio di comportamento sociale. La Spiritualità della Misericordia contempla un Dio che non tiene in conto, dissimula, è felice quando un individuo riconosce la Sua Grandezza e dimentica il comportamento offensivo umano 34,35,37. Pensate ad un individuo che si comporti così nei rapporti con i simili. Provate anche a introdurre un tale comportamento in un modello che simuli l’interazione tra individui. La Misericordia ha una logica e una ratio tutta da scoprire (nelle sue conseguenze sociali). L’individuo che accetta questa logica cambia prospettiva nelle azioni minute di ogni momento della sua vita: Il pensiero lo porta a seguire l’impulso interiore positivo; di quì il superamento del conflitto inevitabile per il proprio tornaconto: programma di favorire il prossimo; di perdonare chi lo offende; quando agisce nei rapporti interpersonali non taglia le gambe al prossimo, ecc.. Questo comportamento può essere ereditato dalle generazioni future, a patto che venga previsto l’inclusive fitness (trasmissione alle generazioni future delle proprietà emergenti). Provate a pensare l’influsso sugli aspetti minuti del comportamento sociale: contenzioso legale, liti , gossip, traffico e incidenti stradali, rapporto moglie marito, rapporto: genitori – figli, fidanzato – fidanzata, dirigenti – dipendenti, Datore di lavoro – lavoratori, Cittadino - immigrati, Insegnati – allievi, Parlamentari, Autorità-Cittadini, Condomini, Attori –spettatori, Giornalisti lettori, registi TV- Spettatori, ecc., ecc..Se poi immaginiamo di simulare una società del genere, utilizzando quanto ci viene fornito dalla tecnologia informatica ecco spuntare quella plausibilità che sta dietro ad ogni buon modello e lo rende scientificamente ‘interessantÈ…

L’IMMAGINE DI DIO
• La dimensione religiosa dell’uomo, secondo i maggiori filosofi della religione, si armonizza in pieno con la visione scientifica. Laddove si ferma il paradigma scientifico, senza entrare in contrasto con questo, l’uomo può attingere al metafisico. Non c’è nulla di scandaloso nel fatto che le intenzionalità, nello sviluppo armonico del consesso umano, si appoggino sul libero arbitrio e che questo attinga agli Impulsi dello Spirito. E che lo Spirito attinga a sua volta a semi inseriti nel suo profondo. Il processo del seme viene ripreso più volte nei Vangeli e sembra essere quello privilegiato da Gesù. Quindi possiamo fare una congettura[come si usa dire nel mondo scientifico]: che Dio Creatore, facendoci a Sua Immagine e Somiglianza, abbia messo un seme dentro di noi destinato a fruttificare e, attraverso l’uso della nostra libertà personale, destinato a condurre la nostra umanità a livelli vertiginosi di santità e di amore reciproco. Tutti sappiamo come andò a finire. Ma quel seme è rimasto. Gesù ha provveduto a rinnovarlo con la Sua Divina Parola. La nostra umanità decaduta stenta non poco a riconoscerlo. Non a caso nelle sue parabole Gesù parla delle difficoltà che ha un seme a dare buoni frutti che giungano a compimento: deve dapprima avere un terreno ben preparato, poi deve macerare…poi ancora deve superare una serie di ostacoli, quali i tentativi di soffocamento e solo allora si ha il definitivo insediarsi nell’uomo del paradigma spirituale che cambierà la sua vita. Ora questo seme potrebbe avere un nome: Amore. L’Amore Divino, "L’Amor che move il sole e l’altre stelle"che si riflette nell’amore dell’uomo verso il suo Creatore e verso il suo prossimo. Questi semi rappresentano la ‘scintilla’ che Dio ha messo nell’uomo, all’atto della Creazione e sono la risposta a coloro che, guardando l’uomo contemporaneo, carico di difetti e di perfidie, di stoltezza e di viltà, misero e guerrafondaio, lacero e dimenticato, disprezzato, si chiedono sconcertati ma dov’è l’Immagine di Dio?:
• Dio è Amore33 e l’uomo ha profonde in sé le potenzialità per mostrare questa Immagine nella sua vita di relazione.

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