DON ANTONIO

giovedì 31 maggio 2012

Riflessioni sulle letture 3 giugno 2012 (Manicardi) MONACO A BOSE




Dt 4,32-34.39-40; Sal 32; Rm 8,14-17; Mt 28,16-20


Il Dio biblico si rivela a Israele mediante la parola, dunque come Padre che pone i credenti in posizione di figli (I lettura); il Dio Padre, rivelato dal Figlio, il Cristo morto e risorto (vangelo), crea comunione con l’uomo mediante il suo Spirito, sicché i credenti lo invocano “Abbà” (II lettura).
Accanto alla rivelazione di Dio, i nostri testi presentano il tema della signoria di Dio sulla storia e sull’uomo. La prima lettura parla di Dio evocando la creazione, la rivelazione, l’elezione e la liberazione, quindi ammonisce i figli d’Israele a osservare i precetti del Signore; il vangelo mostra il Risorto che detiene autorità in cielo e in terra e che invia i discepoli a narrare e insegnare tutto ciò che egli ha loro comandato; la seconda lettura mostra che l’universalità della signoria di Dio si esprime nella ricezione del dono dello Spirito che guida l’uomo a vivere da figlio di Dio.
Il comando che il Risorto dà ai discepoli di battezzare le genti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, è anche il mandato perenne che il Signore dà alla sua chiesa: e non si tratta semplicemente di attuare un rito, ma di introdurre gli uomini nella relazione con Dio Padre per mezzo del Figlio Gesù Cristo nello Spirito santo. Questo il senso dell’esserci della chiesa: far conoscere la vita divina e introdurre in essa gli uomini. Altri compiti e mandati che la chiesa svolge occorre che siano passati al vaglio del vangelo perché non è detto che discendano da esso.
La chiesa investita di questo mandato è e sarà sempre una povera chiesa. Matteo presenta non i Dodici, ma gli Undici: è una comunità monca, che ha conosciuto l’infedeltà, il tradimento e l’abbandono e la sorte tragica (cf. Mt 27,5) di Giuda. Inoltre è una comunità di credenti che però anche dubitano. Il passo di Mt 28,17 può essere tradotto: “Vedendolo, si prostrarono, però dubitavano”. La contemporaneità del gesto “liturgico” della prostrazione e del dubbio che abita il cuore è eloquente. La fede si accompagna alla non-fede. Gli “evangelizzatori” sono chiamati anzitutto a custodire e a nutrire la loro fede che anche in loro è “poca” e incerta.
In questa parzialità e mancanza la chiesa è chiamata a farsi testimone della totalità di cui il Risorto è depositario. Il testo parla di quattro totalità: totalità dell’autorità che Cristo ha ricevuto da Dio in cielo e in terra (v. 18); totalità delle genti a cui sono inviati i discepoli (v. 19); totalità di ciò che Gesù ha comandato ai discepoli e che questi devono insegnare alle genti (v.20); totalità del tempo e della storia che vedrà la vicinanza del Risorto ai suoi discepoli e inviati (v. 20). Dunque la chiesa svolge la sua missione non contando su un proprio potere o su una propria forza, ma sul fatto che con la resurrezione ogni potere è stato dato (da Dio) a Cristo: “A me è stato dato ogni potere: andate dunque…”. È proprio questa liberazione dal potere, dall’assillo di darsi un potere umano, che fonda la possibilità della missione. È questo che consente agli inviati di raggiungere ogni gente, in una missione che deve essere rinnovata in ogni generazione e che ha un’estensione non tanto spaziale, quanto cronologica, “fino alla fine del mondo”. La missione e l’annuncio saranno dunque compiuti da inviati a loro volta obbedienti alla parola e ai comandi del Signore. Promessa e consolazione per i credenti sono poi le parole del Signore: “Io sono con voi tutti i giorni”.
Il tutto del Dio trinitario manifestato nel Cristo risorto impegna la chiesa alla fede e all’obbedienza. Le concrete situazioni di povertà ecclesiale possono allora essere colte come occasioni per far spazio alla presenza del Risorto. La missione della chiesa è infatti sacramento della missione che il Risorto stesso, nella potenza dello Spirito, compie. Come vaso fragile, la chiesa custodisce come tesoro prezioso, con la fede e l’obbedienza, la presenza che sola può dissetare e saziare chi ha fame e sete di giustizia. Come sta scritto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.

mercoledì 30 maggio 2012

LA MALATTIA È UNA VISITA DI DIO



1. A voi, carissimi fratelli e sorelle, che portate nel corpo e nello spirito i segni della sofferenza umana, rivolgo con affetto il mio pensiero nella significativa ricorrenza della Giornata Mondiale del Malato.

Saluto in particolare voi, malati che avete la grazia della fede in Cristo, Figlio di Dio vivo, fatto uomo nel grembo della Vergine Maria. In Lui, solidale con tutti i sofferenti, crocifisso e risorto per la salvezza degli uomini, voi trovate la forza di vivere la vostra sofferenza come "dolore salvifico".

Vorrei poter incontrare ciascuno di voi, in ogni luogo della terra, per benedirvi nel nome del Signore Gesù, che passò "facendo del bene e sanando" gli infermi (At 10, 38). Vorrei poter stare accanto a voi per consolare le pene, sostenere il coraggio, alimentare la speranza, così che ciascuno sappia fare di sé un dono d’amore a Cristo per il bene della Chiesa e del mondo.

Come Maria ai piedi della Croce (cfr. Gv 19, 25), desidero sostare presso il calvario di tanti fratelli e sorelle, che in questo momento sono straziati da guerre fratricide, languono negli ospedali o sono in lutto per i loro cari, vittime della violenza. La Giornata mondiale ha quest’anno il suo più solenne momento celebrativo nel santuario mariano di Czestochowa, per implorare dalla materna intercessione della Beatissima Vergine il dono divino della pace, insieme col conforto spirituale e corporale delle persone ammalate o sofferenti, che offrono in silenzio alla Regina della pace i loro sacrifici.


2. In occasione della Giornata Mondiale del Malato desidero richiamare l’attenzione di voi infermi, degli operatori sanitari, dei cristiani e di tutte le persone di buona volontà sul tema del "dolore salvifico", cioè sul significato cristiano della sofferenza, argomento sul quale mi sono soffermato nella Lettera apostolica Salvifici doloris, pubblicata l’11 febbraio di dieci anni fa.

Come si può parlare di dolore salvifico? La sofferenza non è forse intralcio alla felicità e motivo di allontanamento da dio? Senza dubbio esistono tribolazioni che, dal punto di vista umano, sembrano prive di qualunque significato.

In realtà, se il Signore Gesù, Verbo incarnato, ha proclamato "Beati gli afflitti" (Mt 5, 4), è perché esiste un punto di vista più alto, quello di Dio, che tutti chiama alla vita e, se pur attraverso il dolore e la morte, al suo Regno eterno di amore e di pace. Felice la persona che riesce a far risplendere la luce di Dio nella povertà di una vita sofferta o diminuita!


3. Per attingere questa luce sul dolore, dobbiamo anzitutto ascoltare la Parola di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura, che può definirsi anche "un grande libro sulla sofferenza" (Salvifici doloris, 6). In essa, infatti, troviamo "un vasto elenco di situazioni variamente dolorose per l'uomo" (ibid., 7), la multiforme esperienza del male, che suscita inevitabilmente l’interrogativo: "Perché?" (ibid., 9).

Tale domanda ha trovato nel Libro di Giobbe la sua espressione più drammatica ed insieme una prima parziale risposta. La vicenda di quell’uomo giusto, provato in tutti i modi nonostante la sua innocenza, mostra che "non è vero che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione" (ibid., 11).

La risposta piena e definitiva a Giobbe è Cristo. "Soltanto nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (Gaudium et Spes, 22). In Cristo anche il dolore è assunto nel mistero della carità infinita, che si irradia da Dio Trinità e diventa espressione di amore e strumento di redenzione, diventa cioè dolore salvifico.

È infatti il Padre che sceglie il dono totale del Figlio come via per restaurare l’alleanza con gli uomini resa inefficace dal peccato: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3, 16).

È il Figlio che "s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in questo amore, con il quale egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo" (Salvifici doloris, 16).

È lo spirito santo che, per bocca dei profeti, annuncia le sofferenze che il messia volontariamente abbraccia per gli uomini e in qualche modo al posto degli uomini: "egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… il signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti" (is 53, 4-6).


4. Ammiriamo, Fratelli e Sorelle, il disegno della divina Sapienza! Cristo "si è avvicinato… al mondo della sofferenza per il fatto di avere assunto egli stesso questa sofferenza su di sé" (Salvifici doloris, 16): si è fatto in tutto simile a noi, eccetto che nel peccato (cfr. Eb 4, 15; 1 Pt 2, 22), ha fatto propria la nostra condizione umana con tutti i suoi limiti, compresa la morte (cfr. Fil 2, 7-8), ha offerto la sua vita per noi (cfr. Gv 10, 17; 1 Gv 3, 16) perché noi vivessimo della vita nuova nello Spirito (cfr. Rm 6, 4; 8, 9-11).

Accade talvolta che sotto il peso di un dolore acuto e insopportabile qualcuno muova un rimprovero a Dio accusandolo di ingiustizia; ma il lamento muore sulle labbra di chi contempla il Crocifisso che soffre "volontariamente" e "innocentemente" (Salvifici doloris, 18). Non si può rimproverare un Dio solidale con le sofferenze umane!


5. Perfetta rivelazione del valore salvifico del dolore è la passione del signore: "nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza è stata redenta" (ibid., 19) "Cristo ha aperto la sua sofferenza all'uomo" e l’uomo ritrova in lui le proprie sofferenze "arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato" (ibid., 20).

La ragione, che già coglie la distinzione esistente tra il dolore e il male, illuminata dalla fede comprende che ogni sofferenza può diventare, per grazia, prolungamento del mistero della Redenzione, la quale, pur essendo completa in Cristo, "rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza" (ibid., 24).

Tutte le tribolazioni della vita possono divenire segni e premesse della gloria futura. "Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo - esorta la prima Lettera di Pietro - rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare" (1 Pt 4, 13).


6. Voi sapete per esperienza, cari malati, che nella vostra situazione più che di parole c’è bisogno di esempi. Sì, tutti abbiamo bisogno di modelli che ci spronino a camminare sulla via della santificazione del dolore.

Nella Memoria liturgica della Beata Vergine di Lourdes, guardiamo a Maria come ad icona vivente del Vangelo della sofferenza.

Ripercorrete con la mente gli episodi della sua vita. Troverete Maria nella povertà della casa di Nazareth, nell’umiliazione della stalla di Betlemme, nelle ristrettezze della fuga in terra d’Egitto, nella fatica del lavoro umile e benedetto con Gesù e con Giuseppe.

Soprattutto dopo la profezia di Simeone, che preannunciava la partecipazione della Madre alla sofferenza del Figlio (Lc 2, 34), Maria sperimentò a livello profondo un misterioso presagio di dolore. Insieme col Figlio, anch’essa cominciò ad avviarsi verso la Croce. “Fu sul Calvario che la sofferenza della Beata Vergine Maria, accanto a quella di Gesù, raggiunse un vertice già difficilmente immaginabile nella sua altezza dal punto di vista umano, ma certo misterioso e soprannaturalmente fecondo ai fini dell’universale salvezza” (Salvifici doloris, 25).

La Madre di Gesù fu preservata dal peccato, ma non dalla sofferenza. Perciò il popolo cristiano si identifica con la figura della Vergine Addolorata, scorgendo nel dolore i propri dolori. Contemplandola, ogni fedele viene introdotto più intimamente nel mistero di Cristo e del suo dolore salvifico.

Cerchiamo di entrare in comunione col Cuore immacolato della Madre di Gesù, in cui si è ripercosso in modo unico e incomparabile il dolore del Figlio per la salvezza del mondo. Accogliamo Maria, costituita da Cristo morente Madre spirituale dei suoi discepoli, e affidiamoci a Lei, per essere fedeli a Dio nell’itinerario dal Battesimo alla gloria.


7. Mi rivolgo ora a voi, operatori sanitari, medici, infermieri e infermiere, cappellani e sorelle religiose, personale tecnico e amministrativo, assistenti sociali e volontari.

Come il Buon Samaritano siete accanto e al servizio dei malati e dei sofferenti, rispettando in loro, anzitutto e sempre, la dignità di persone e, con gli occhi della fede, riconoscendo la presenza di Gesù sofferente. Guardatevi dall’indifferenza che può derivare dall’abitudine; rinnovate quotidianamente l’impegno di essere fratelli e sorelle per tutti, senza discriminazione alcuna; al contributo insostituibile della vostra professionalità, unita alla idoneità delle strutture, aggiungete il "cuore", che solo è in grado di umanizzarle (Salvifici doloris, 29).


8. Faccio, infine, appello a voi, responsabili delle Nazioni, perché consideriate la sanità quale problema prioritario a livello mondiale.

È tra le finalità della Giornata Mondiale del Malato condurre un’opera di vasta sensibilizzazione sui gravi e inderogabili problemi attinenti alla sanità e alla salute. Circa due terzi dell’umanità mancano ancora dell’essenziale assistenza sanitaria, mentre le risorse impiegate in questo settore sono troppo spesso insufficienti. Il programma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – "Salute per tutti entro l'anno Duemila" – che potrebbe sembrare un miraggio, stimoli invece una gara di fattiva solidarietà. Gli straordinari progressi della scienza e della tecnica e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa contribuiscono a rendere sempre più consistente questa speranza.


9. Carissimi malati, sostenuti dalla fede affrontate il male in tutte le sue forme senza scoraggiarvi e senza cedere al pessimismo. Cogliete la possibilità aperta da Cristo di trasformare la vostra situazione in espressione di grazia e di amore. Allora anche il vostro dolore diventerà salvifico e contribuirà a completare i patimenti di Cristo a favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24).

A voi tutti, agli operatori sanitari, a quanti si dedicano al servizio di chi soffre auguro grazia e pace, salvezza e salute, forza di vita, assiduo impegno e speranza indefettibile. Insieme con la materna assistenza della Vergine Santa, Salus infirmorum, vi accompagni e vi conforti sempre la mia affettuosa Benedizione.


http://www.federaciocristians.org/metges/4_publicacions/3_video_cd/25_anys_sant_pare/italia/seccio_3/la%20malalttia%20%C3%A8.htm

martedì 29 maggio 2012

FEDE, ULTIMA STAZIONE



Un filosofo e un teologo parlano del futuro del cristianesimo, della crisi del nostro tempo, della speranza e delle questioni che un tempo, con una parola suggestiva, si chiamavano i "novissimi", le cose ultime. Il filosofo è Vincenzo Vitiello, il teologo è Bruno Forte, e ne è nato un libro "La vita e il suo oltre" edito da Citta Nuova e curato da Francesco Tomatis (pagine 128, lire 18.000), che esce in questi giorni in libreria. Il "dialogo sulla morte" di Forte e Vitiello diventa una verifica sulla sofferenza e sulla zona oscura che lega gli uomini in un comune destino, ma nella ricerca di una luce che sappia guidare la risalità dagli inferi. Può il credente evadere da queste domande cruciali, al riparo di una speranza che gli fu confermAta duemila anni fa sul Golgota? E può il laico chiudersi nella stoica accettazione della propria finitezza?

Dal libro anticipiamo alcuni brani del dialogo.

VITIELLO: "Nella piazza Breitscheid di Berlino, accanto al rudere della chiesa eretta in memoria del Kaiser Wilhelm I e distrutta da un bombardamento del 1943, è stata costruita una chiesa più piccola, a pianta esagonale, senza navate e colonne, spoglia, un grande altare, al centro, su cui piove dall'alto una grande statua di Cristo crocifisso. Le braccia del Crocefisso aperte ad accogliere tutti: i giusti e gli empi, i buoni e i malvagi, come recita Mt 5, 34-35. Sempre in Germania, in una chiesa della città di Treviri, se la memoria non m'inganna: la Liebfrauenkirche, anch'essa offesa dalla barbarie della seconda guerra mondiale, ho visto una statua di Cristo mutilato delle braccia. Questo Cristo senza braccia mi apparve, e ancora mi appare, come l'esperienza più alta e più nobile del nichilismo del nostro tempo. Che non è il nichilismo "ludico" che gioca con le cose ridotte a simulacri del nulla. È il nichilismo del "grado zero" dell'esistenza, il nichilismo di chi pensa sino in fondo la finitezza dell'uomo. Il Cristo senza braccia è l'icona oltre-tragica della nuda esistenza, prima della storia e del tempo; l'immagine del deserto nel quale tutto può accadere, tutto deve ancora, sempre ancora, accadere: l'incontro con Dio, come l'abbandono. Il deserto del possibile. Il luogo della nostra miseria, e della nostra nobiltà".

FORTE: "È una costante del tuo pensiero sottolineare l'aspetto tragico della fragilità del nostro esistere. Il mondo, la vita, tutto alla fine cade in questo abisso del nulla. Anche qui io so quanto di fatto poi tu sappia amare e redimere la dignità del frammento. Ma allora perché non esprimerlo? Io a questo punto vorrei tentare un'apologia del frammento, io che sarei, in quanto teologo, credente, sacerdote, l'uomo dell'eterno, vorrei tentare un'apologia dell'umiltà del tempo, della fragilità dell'oggi, della concretezza della carne, che per un

cristiano sono tutti valori irrinunciabili. Io amo dire che il cristianesimo non è la religione della salvezza dalla storia, ma della salvezza della storia. L'umiltà dei giorni, le opere e i giorni della nostra vita hanno un infinito valore. Parlare del niente del tempo ancora una volta tradisce, se non altro perché crea l'equivoco. Usare una parola che tu consideri equivalente al nulla, tanto per l'eterno quanto per il tempo, crea equivoco. Allora anche qui occorre trovare una diversa formulazione per dire come proprio chi dà valore all'al di là della morte come custodia, al mistero che ci accoglie, deve dare anche valore alla fragilità del tempo. Insomma, "la vita è bella" - questo mi sembra tra l'altro il messaggio del film di Roberto Benigni: che anche di fronte alla tragedia la vita è degna di essere amata, spesa fino all'ultimo istante con amore. E questo lo può dire chi pensa che l'al di là della morte non sia il vuoto e il nulla, ma sia un Altro misterioso e indicibile che ci accoglie".

VITIELLO: "Riportata a noi, l'immagine del Cristo senza braccia è l'icona perfetta della nostra impotenza, del "grado zero" dell'esistenza, che diciamo nostra perché ad essa apparteniamo. Perché di essa siamo fatti - ma è meglio dire, è più adeguato dire: di essa siamo. Il nostro essere è questo "grado zero", tutto il resto è un'aggiunta: un dono, talora, tal'altra una disgrazia, quando non una dannazione. Comunque un'aggiunta. Pure al "grado zero", che noi stessi siamo, possiamo giungere solo spogliandoci - ma è un compito infinito

- di tutte le "aggiunte". E questo non dipende da noi. Ci accade. Come, quando? Rispondo con Paul Ricoeur: nella sofferenza. Che è più del dolore. La sofferenza è quella partecipazione alla finitezza altrui che ci apre alla comprensione della nostra finitezza. Al "cristiano" è richiesta l'impossibile imitazione di Cristo. Per avvicinarsi ad essa, è necessario "sostare" ai piedi della Croce. Non considerarla come un "passaggio". E poiché è dono, questa finitezza, custodirla, serbarla, salvarla - non redimerla. Questo - penso - sia il modo di rendere grazie per il dono concesso. È il "mio" modo di sentirmi cristiano, di essere cristiano. Che non è atteggiamento solitario, anche se non dimentica il pregare nascosto, il digiunare nascosto, anche se non dimentica la radicale, irriducibile alterità della Parola di Cristo rispetto alla Città terrena. Non è atteggiamento solitario, chiuso in se stesso. È un aprirsi all'altro come partecipazione alla comune sofferenza. Un'amicizia - "non vi chiamo più servi (...) ma amici" (Gv 15, 15)".

FORTE: "Quello che mi sembra veramente mancare alla tua filosofia è il sabato santo.

Essa si ferma al venerdì santo. Non si tratta di stare sotto la croce e fermarsi lì, si tratta di stare nel sabato santo, cioè fra la croce e la Pasqua, quello è il punto. La differenza fra il sabato santo e il cristianesimo senza redenzione è che il sabato è il tempo in cui il corpo del Figlio di Dio giace nella terra, ma noi sappiamo che il Figlio di Dio è vivo e immortale, è il tempo in cui noi viviamo la contraddizione fra il visibile che nega l'immortale e l'immortale che è entrato così abissalmente nel visibile da nascondersi in esso. Il sabato santo è come il seme dell'eternità nascosto nel terreno del tempo. È questo che ci fa sperare con certezza la vita eterna: stare nel sabato santo. E sappiamo che secondo la tradizione spirituale solo un credente, anzi una credente ha resistito nel sabato conservando la fede: perciò noi la veneriamo come santa Maria del sabato, è lei la donna della fede, la donna della notte della fede, la donna dell'attesa della vittoria di Dio contro l'inevidenza di Dio".

VITIELLO: "Forse dobbiamo riprendere il discorso muovendo, insieme, dal pensiero di quella dimensione dell'esistenza che è l'indigenza assoluta. Sì, credo che dobbiamo ri-partire da qui, dalla riflessione sul "grado zero" dell'esistenza. Dal luogo donde può avvenire la chiamata. Ma senza pretendere che la risposta sia nostra, affidata a noi. Per parte mia sono disposto a non incolpare Dio perché non mi chiama, e neppure perché chiamandomi, non mi ha dato la forza di corrispondervi. Da tempo sono convinto che tutta la "teodicea" - il tentativo "umano troppo umano" di spiegare come mai un Dio infinitamente buono possa

permettere il male - è fondata su un presupposto sbagliato. Soltanto un Dio infinitamente buono può sopportare il male: la presenza del male è la testimonianza più alta della infinita bontà di Dio".

FORTE: "Abbiamo bisogno di verità, abbiamo bisogno di stare sotto lo sguardo di Dio. E verità significa l'Altro che viene a te. È questo il punto che sto invano tentando di far capire a te, Vincenzo, da anni. Confido nella grazia di Dio. Perché l'Altro è l'Altro. Parlando di Dio uso certo parole umane, ma sono autorizzato a farlo dal fatto che lui ha usato parole umane per dirsi a noi. L'incarnazione, la croce, la resurrezione sono questo paradosso, che lui si è legato nelle parole, perché noi lo dicessimo, pur senza catturarlo: il suo legamento è come il legamento di Isacco; noi usiamo parole umane, ma che sono abitate da Colui che le trascende. Ma alla questione del male e di Dio tu stesso, Vincenzo, hai dato la risposta.

Soltanto un Dio infinitamente buono può sopportare il male. Questa è la sofferenza in Dio.

Non una sofferenza nel senso di un Dio debolista, ma la sofferenza di un Dio che è infinita potenza d'amore, e che proprio perché è tale e ci ama così, ci crea liberi di rifiutarlo e accetta di soffrire il nostro rifiuto. Però non è una sofferenza passiva, subita, com'è l'idea occidentale di sofferenza, ma una sofferenza d'amore: "Sine dolore non vivitur in amore" dirà la sapienza spirituale, in questo caso l'Imitazione di Cristo. La sofferenza è l'altro

nome dell'amore, dobbiamo parlarne con pudore e discrezione. Proprio perché si può cadere nell'equivoco di interpretarla in termini umani troppo umani, come soltanto sofferenza subita e passiva. Qui si spiega il senso della frase del Catechismo di Pio X: "Gesù ha sofferto come uomo perché come Dio non poteva né soffrire né morire". Nel contesto culturale del tempo c'era solo la concezione della sofferenza passiva, quella occidentale. L'idea di una sofferenza attiva: "Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici" (Gv 15, 13), non c'era. È la riscoperta di quest'idea che ci fa capire la sofferenza in Dio. Queste cose le espone con una grande chiarezza Jacques Maritain, il filosofo neoscolastico, in quell'articolo scritto dopo la lettura del diario della moglie Raissa appena scomparsa, dove ci sono pagine stupende sulla sofferenza in Dio - che è la vera metanoia della sua filosofia: Quelques rèflexions sur le savoir théologique, dove dice che la sofferenza in Dio è forse la cartina da tornasole per vedere se noi abbiamo subordinato la Bibbia ad Aristotele o a Hegel, o se abbiamo mantenuto la purezza dello scandalo evangelico e cristiano".


http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/010427a.htm

Preghiera:O VERITA'



O Verità che illumini il mio cuore,
fa' che non siano le tenebre a parlarmi!

Mi sono buttato in mezzo ad esse
e mi sono trovato al buio,
ma anche da quaggiù ti ho amato tanto.

Mi sono smarrito,
ma mi sono ricordato di te.

Ho sentito la tua voce alle mie spalle,
mi diceva di tornare indietro:
l'ho sentita a malapena,
a causa dell'inquietudine
che tumultuava in me,
ma ecco che ora torno,
assetato e desideroso, alla tua fonte.

S. Agostino


lunedì 28 maggio 2012

PREGHIERA:ECCOMI FUORI COMBATTIMENTO



Signore, questa volta non ne posso più.
Da mesi mi sono intestardito
a compiere tutto il mio dovere professionale,
ad accontentare diligentemente
tutti coloro che mi chiedevano
piccoli e grandi favori.
Mi ci sono ostinato.
È così desolante
lasciare incompleto un lavoro
che in realtà non sarà mai completato.
È normale che uno si ostini
a tener duro, spossandosi.
Eccomi dunque, Signore,
per un certo tempo o per sempre,
non so, fuori combattimento.
Sia fatta la tua volontà.
So che siamo sempre dei servi inutili,
l'essenziale è amarti
e continuare ad amare
intensamente i propri fratelli
quando pare impossibile
poter essere utili per loro.
Tu solo sai ciò che è meglio
e io mi affido a te, Signore.


L.J. Lebret

domenica 27 maggio 2012

Il Vangelo della sofferenza di Dio



Il 9 novembre scorso, mons. Forte ha tenuto una lezione magistrale per l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Istituto di Teologia Pastorale Sanitaria in Italia presso il Camillianum di Roma. Ha parlato de “Il vangelo della sofferenza di Dio”.
«La domanda del dolore ci interroga tutti». Con questo asserto fondamentale mons. Forte ha esordito per parlare del Vangelo della sofferenza. Allora, «perché il male che devasta la terra? Perché il dolore? Perché la sofferenza innocente? Inseparabile da queste domande si affaccia il problema di Dio: se c’è un Dio giusto, perché c’è il male? e se c’è il male, come potrà esserci un Dio giusto?».
E ha posto così il problema: «Alcuni, dinanzi all’inconciliabilità di Dio e del male, sopprimono il primo dei due termini: è la soluzione dell’ateismo tragico. In realtà, però, ridurre tutto a questo mondo e alle sue leggi, significa implicitamente arrendersi di fronte al dolore e alla morte. Altri risolvono il conflitto attraverso il ricorso a un Dio che tutto regola in vista del bene, secondo disegni che la mente umana non può capire.
Bisogna riconoscere che una fede in Dio, che giustifichi la sofferenza e l’ingiustizia del mondo senza protestare contro di esse, è “una fede disumana e produce frutti satanici” (J. Moltmann). La rassegnazione è abdicazione di fronte al compito di cambiare l’ingiustizia del mondo.
Altri, infine, identificando nella sete di giustizia la radice ultima del dolore di fronte al male del mondo, tracciano un sentiero di rinunce, che porti ad estinguere ogni sete e perciò ogni capacità di amare e di soffrire: è la soluzione della grande meditazione del Buddha, che oggi sembra suscitare un singolare fascino anche nei paesi dell’Occidente; soluzione, che però riduce la storia umana a vuota impermanenza, e la vita alla fuga verso un “nirvana”, che lascia intatte le lacerazioni e le piaghe della sofferenza del mondo».
Allora, di fronte all’incompiutezza di queste proposte sta l’annuncio cristiano di salvezza nel Dio crocifisso: «che senso ha l’evento della Croce per la sofferenza del mondo? Che cosa è accaduto in quel Venerdì Santo per la storia del mondo? E quale esperienza del dolore umano ha avuto in generale il Figlio di Dio venuto nella carne degli uomini?
Si sono presentati nella storia di Gesù di Nazaret l’oscurità dell’avvenire e il dolore del negativo, che diffondono un odore di morte su tutta la vita? o, in forza della condizione divina, il Nazareno non ha sperimentato la fatica di vivere, il peso dell’ostilità delle cose e degli uomini, la resistenza interiore di fronte alla tenebra e alla prova?».
Per rispondere a queste domande il vescovo ha sottolineato la necessità di parlare della sofferenza e della croce di Cristo e di ciò che essa rivela riguardo alla storia di Dio e a quella degli uomini.
«Si può dire – ha affermato – che tutta la vita di Gesù è stata orientata alla croce: egli è il Servo, l’Innocente che soffre per amore sotto il peso dell’ingiustizia del mondo! L’uomo Gesù insomma – non diversamente da quanto avviene per ogni essere umano – cresce alla scuola del dolore.
Gesù conosce anche l’esperienza della sofferenza sul piano morale e spirituale: di fronte alla morte dell’amico non trattiene il pianto. All’esperienza dell’interiore finitudine e alla compassione che ne deriva per l’altrui soffrire, si aggiunge nella vita di Gesù l’impatto durissimo col dolore provocatogli dagli uomini».
Meditando su questo “Vangelo delle sofferenze” non possiamo non interrogarci su come noi viviamo la nostra quotidiana esperienza del limite e l’inevitabile incontro col dolore, che segna la vita nostra ed altrui. «Sappiamo – ha ricordato il presule – che il discepolo non è da più del Maestro: se lui ha sofferto, come potremmo noi evitare la via del dolore?
Il timore e tremore delle nostre possibili risposte può essere superato con l’unica certezza sulla quale è possibile rischiare tutto: la certezza della fede. Il Maestro dà ciò che chiede e mai prova senza offrire la via d’uscita: egli è entrato nel tragico della condizione umana e proprio così è con noi nell’ora del dolore e ci aiuta a sopportare ed offrire le nostre sofferenze». La certezza di questa fedeltà divina ci è data dalla Croce.
E ha proseguito: «Il luogo in cui Dio parla nel silenzio e la tenebra è più luminosa della luce è la Croce di Gesù. Ci accostiamo ad essa ricordando come nella tradizione occidentale la Trinità sia stata spesso rappresentata mediante l’immagine del Crocefisso sostenuto dalle mani del Padre, mentre la colomba dello Spirito separa e unisce al tempo stesso l’Abbandonante.
Questa struttura può essere colta attraverso il ritorno costante, certamente non casuale, del verbo “consegnare” (“paradídomi”) ». Anzitutto le “consegne” umane del Figlio dell’uomo: il tradimento dell’amore lo consegna agli avversari; il Sinedrio, custode e rappresentante della Legge, consegna Colui che considera il bestemmiatore al rappresentante di Cesare: questi, pur convinto dell’innocenza del Prigioniero, cedendo alla pressione della folla, sobillata dai capi, “dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso”.
Abbandonato dai suoi, ritenuto un bestemmiatore dai signori della Legge e un sovversivo dal rappresentante del potere, Gesù va incontro alla morte: se tutto si fermasse qui, la sua sarebbe una delle tante ingiuste morti della storia, dove un innocente rantola nel suo fallimento di fronte all’ingiustizia del mondo. Poi, quella che il Figlio fa di se stesso.
«Attraverso questa consegna il Crocefisso prende su di sé il carico del dolore e del peccato del mondo, entra nell’esilio da Dio per assumere quest’esilio dei peccatori nell’offerta e nella riconciliazione pasquale». Alla consegna che il Figlio fa di sé, corrisponde la consegna del Padre. Per questo, «il Dio di Gesù non è fuori della sofferenza del mondo, spettatore impassibile di essa dall’alto della sua immutabile perfezione: egli è nel senso più profondo il Dio con noi, che soffre con chi soffre e interviene in nostro favore con la prossimità della Croce del Figlio».
«Storia del Figlio, storia del Padre, la Croce – ha ricordato mons. Forte – è, parimenti, storia dello Spirito: l’atto supremo della consegna è l’offerta sacrificale dello Spirito. Il Crocifisso consegna al Padre nell’ora della Croce lo Spirito che il Padre gli aveva donato, e che gli sarà dato in pienezza nel giorno della resurrezione».
La croce diventa, così, storia nostra perché è storia trinitaria di Dio. In questo senso, la sofferenza divina rivelata sulla Croce è veramente la buona novella. Infatti, «la “parola della Croce” ci chiama in maniera sorprendente alla sequela: è nella debolezza, nel dolore e nella riprovazione del mondo, che troveremo Dio».
Lo Spirito del Crocifisso rende presente per noi il miracolo di questa rivelazione salvifica: «Il discepolo dovrà dunque “completare nella sua carne quello che manca ai patimenti del Cristo”: lo farà se riuscirà a portare la più pesante di tutte le croci, la croce del presente, a cui il Padre lo chiama, credendo anche senza vedere, lottando e sperando, anche senza avvertire la germinazione dei frutti, nella solidarietà a tutti coloro che soffrono, nella comunione a Cristo, compagno e sostegno del patire umano, e nell’oblazione al Padre, che valorizza ogni nostro dolore.
Al tempo stesso, il Crocefisso chiede di essere riconosciuto in tutti i crocefissi della storia. La compassione verso il Crocefisso si traduce nella compassione operosa verso le membra del suo corpo nella storia».
E ha concluso: «Al discepolo, schiacciato sotto il peso della croce o spaventato di fronte alle esigenze della sequela, resta rivolta la parola della promessa, dischiusa nella resurrezione, contraddizione di tutte le croci della storia: parola di consolazione e di impegno, che ha sostenuto già la vita, il dolore e la morte di tutti quanti ci hanno preceduto nel combattimento della fede. Il Vangelo della sofferenza di Dio è buona novella che illumina il cuore e la vita, sorgente di forza cui si appella e potrà sempre appellarsi l’invocazione della fede pellegrina nel tempo».

http://www.donrocco.it/?p=289

Commento alle letture 27 maggio 2012 (G.Bruni) BOSE




Letture: 
At 2,1-11; Gal 5,16-25: Gv 15,26-27; 16,12-15.
«Lo Spirito della verità vi guiderà a tutta la verità»


1. CRISTIANESIMO È L’AUTO-RIVELARSI E L’AUTO-COMUNICARSI DI DIO IN CRISTO COME AMORE SENZA ARGINI PER L’UOMO FALLITO.
UN DIO CHE IN CRISTO MESSO IN CROCE CHINA IL CAPO VERSO CHI LO UCCIDE E VERSO IL MONDO INTERO CONSEGNANDO-DONANDO IL SUO SPIRITO (GV19,30), L’AMORE NEL MOMENTO STESSO CHE VIENE SPENTO RACCOGLIE L’ULTIMO SUO RESPIRO E LO ESPANDE SUL COSMO INTERO. UN DIO CHE NEL CRISTO RISORTO ALITA SUI SUOI IL SUO SPIRITO (GV 20,22), OVE SPIRITO STA PER SOFFIO E SOFFIARE A TRASMISSIONE DI CIÒ CHE SI HA NEL CUORE E DI CIÒ CHE STA A CUORE. SE L’ACCOGLIENZA E LA CURA DELL’ALTRO IL SOFFIO SULL’ALTRO DIVENTA INDICE DI ATTENZIONE E DI PREMURA: PULIRLO DA CIÒ CHE LO SPORCA, ALLEVIARLO DA CIÒ CHE GLI ARRECA DOLORE, RAVVIVARLO DA CIÒ CHE LO FA MORIRE E SRADICARLO DA CIÒ CHE GLI IMPEDISCE DI CAMMINARE. E’ IL SOFFIO DI GESÙ VENUTO NON A SPEGNERE MA A RIDARE VITA AI CONDANNATI A MORTE (MT 12,20). NON TUTTI I SOFFI SI EQUIVALGONO, PER QUESTO È URGENTE IL «DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI» (1COR 12,10) PER TENERE CIÒ CHE È BUONO (1 TS 5,21), FONDAMENTALE PER L’UOMO INFATTI È SAPERE CHI E CHE COSA LO SOSPINGE E LO FA MUOVERE, QUALE VENTO, QUALE ARIA, QUALE SOFFIO. IN BREVE QUALE SPIRITO.
2. QUESTO SPIEGA LA CENTRALITÀ DELLA PENTECOSTE NELLA ESPERIENZA CRISTIANA, IL PUNTUALIZZARE IL DA DOVE, IL TRAMITE CHI, IL VERSO DOVE E IL PERCHÉ DEL DONO DELLO SPIRITO O SOFFIO SANTO, DA ESSO DIPENDE LA QUALITÀ DELL’ESISTERE UMANO PERSONALE E COMUNITARIO. SPIRITO, COSÌ IN GIOVANNI, LA CUI ORIGINE È DAL PADRE (GV 14,16;15,26); IL CUI TRAMITE È GESÙ IL RISORTO (GV 7,37-39; 14,26; 15,26; 16,7), PER QUESTO È VENUTO (GV 1,33; 3,1-15); LA CUI DESTINAZIONE È PARTICOLARE, PRESSO I DISCEPOLI (GV 14,17), INTERIORE, NEI DISCEPOLI (GV 14,17), E UNIVERSALE: «IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE» (GV 3,8); SPIRITO IL CUI PERCHÉ, CHE NE VERIFICA L’AUTENTICITÀ, È DATO DAI FRUTTI CHE PRODUCE. EGLI INFATTI È IL «CHIAMATO VICINO», QUESTO SIGNIFICA PARACLITO, A SUGGERIRE-SOFFIARE ALL’UOMO IL SUO ESSERE DIMORA (GV 14,23) DEL «PADRE MIO E PADRE VOSTRO, DIO MIO E DIO VOSTRO» (GV 20,17), IN UN RAPPORTO FILIALE (1 GV 3,1-3) E DI ADORAZIONE (GV 4,24); E A SUGGERIRE-SOFFIARE ALL’UOMO IL SUO ESSERE DIMORA DEL FIGLIO (GV 14,23) «MAESTRO E SIGNORE» (GV 13,13), IN UN RAPPORTO AMICALE (GV 15,15) NELL’ASCOLTO DI UNA PAROLA DI CUI LO SPIRITO STESSO È MEMORIA, ANNUNCIO E SPIEGAZIONE AL CUORE PERSONALE E COMUNITARIO (GV 14,26; 16,13-15). E ANCORA SPIRITO CHIAMATO VICINO A SUGGERIRE-SOFFIARE ALL’UOMO IL SUO ESSERE DIMORA DELL’UOMO IN UN RAPPORTO FRATERNO A MISURA DI QUELLO DI CRISTO: «AMATEVI COME IO VI HO AMATI» (GV 13,34). NESSUNO È STRANIERO E ESTRANEO AL CUORE DEL DISCEPOLO, LO SPIRITO DI COMUNIONE (2 COR 13,13) GENERA CREATURE DI ACCOGLIENZA OSPITALE DELL’ALTRO INFRANTA OGNI BARRIERA DIVISORIA. SPIRITO INFINE CHIAMATO VICINO A SUGGERIRE-SOFFIARE ALL’UOMO IL SUO ESSERE DIMORA DELLA VITA ETERNA, EGLI È LA MANO DI DIO CHE SCRIVE IN OGNI CORPO FRAGILE E MORTALE L’ «IO SONO LA RESURREZIONE DELLA VITA» DEL CRISTO (GV 11,25). SE FIGLI ANCHE «EREDI DI DIO, COEREDI DI CRISTO» (RM 8,17).
3. PENTECOSTE DUNQUE COME APICE DELL’AZIONE DI DIO A VANTAGGIO DELL’UOMO, NEL RISORTO IL DONO DI UNO SPIRITO CHE INTRODUCE ALL’ORDINARIETÀ DELLA VITA, LITURGICAMENTE IL «TEMPO ORDINARIO», IN MANIERA SINGOLARE. IN COMPAGNIA DI UN TU UNICO: «NON VI LASCERÒ ORFANI, VERRÒ DA VOI» (GV 14,18) CON IL MIO DIO; ORIENTATI DA UNA PAROLA UNICA, AMATEVI E AMATE CON MENTE, CUORE E ORIZZONTI DILATATI SAPENDO CHE NON SI ESAGERA MAI ABBASTANZA; SOSTENUTI DA UNA SPERANZA UNICA: «DOV’È , O MORTE, LA TUA VITTORIA?» (1COR 15,55). PER QUESTO CANTIAMO IL «VIENI, SANTO SPIRITO», IL VENTO INVIATO DAL PADRE E SOFFIATO DAL RISORTO A SPAZZARE VIA L’UOMO VECCHIO CHE È IN NOI E A DARE FORMA ALL’UOMO NUOVO CHE DOBBIAMO ESSERE NOI: TERRA CHE ADORA, TERRA CHE AMA, TERRA CHE SPERA. FIGLI DEL VENTO.

Fonte: toscanaoggi

sabato 26 maggio 2012

Riflessioni sulle letture 27 maggio 2012 (Manicardi) MONACO A BOSE




At 2,1-11; Sal 103; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-15


La Pentecoste è la pienezza della Pasqua: essa celebra il dono dello Spirito, celebra ciò che Dio ha già operato in Gesù di Nazaret e invoca ciò che non ancora è, ovvero l’estensione universale e cosmica delle energie di vita e salvezza dispiegate da Dio nella resurrezione di Gesù. La Pentecoste è simultaneamente celebrazione e invocazione.
La prima lettura mostra lo Spirito nel suo aspetto di dono dall’alto che rende i discepoli capaci di comunicare le grandi azioni di Dio nelle lingue degli uomini tutti: lo Spirito è capacità di comunicazione che abilita la chiesa a raggiungere l’altro nelle sue capacità di ascolto e di ricezione, nella sua cultura e nei suoi linguaggi. Non dunque l’imposizione del proprio linguaggio a cui l’altro si deve piegare, ma l’apertura ai linguaggi e alle capacità comunicative dell’altro: lo Spirito è così all’origine di una missione che sia al contempo di inculturazione (per raggiungere l’altro là dove egli è) e di corrispettiva deculturazione (per non annunciare come vangelo ciò che è semplicemente cultura). La seconda lettura presenta i frutti dello Spirito: l’invisibile Spirito è riconoscibile dai frutti che produce nell’uomo che se ne lascia abitare. Lo Spirito opera il passaggio dell’uomo dall’essere una individualità biologica chiusa e autoreferenziale (a questo allude la “carne” di cui parla Paolo) all’apertura alla relazione con gli altri e con Dio. Così lo Spirito plasma il volto del credente a immagine del volto di Cristo guidandolo sulla strada della santità: frutto dello Spirito è l’uomo santo. Il vangelo rivela lo Spirito quale ispiratore della testimonianza dei cristiani nel mondo e quale “memoria” di Cristo nella storia.
Lo Spirito suscita la testimonianza cristiana in quanto memoria del Christus totus. Non solo delle sue parole, ma anche del suo non-detto: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per ora non siete in grado di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e annunzierà le cose future” (Gv 16,12-13). C’è un non-detto, un silenzio di Cristo di cui si fa interprete nella storia lo Spirito. Che dunque è “memoria” di Cristo non in senso psicologico, ma rivelativo: lo Spirito rende presente e attualizza Cristo, cioè la pienezza della rivelazione di Dio che è parola e silenzio. Lo Spirito poi rende la chiesa capace di tradurre il vangelo nella storia. La vera riforma della chiesa non può che essere frutto dell’azione dello Spirito. E lo Spirito è all’origine di una riforma che non è biblicismo e adesione alla lettera della Scrittura, né astorico ritorno a forme, regole e norme di vita cristiana (e vita religiosa) giudicate più “pure”, più “rigorose”, ma fedeltà creativa al vangelo.
Lo Spirito, che articola e ordina nella chiesa comunità e persona, “tutti” e “ciascuno”, i doni e le funzioni che sorreggono e arricchiscono la chiesa stessa, ordina anche obbedienza e creatività, fedeltà e innovazione. E il principio della fedeltà non è nella ripetizione di forme del passato, ma nel futuro, nel Regno escatologico: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Lo Spirito è ermeneuta del Cristo che è venuto e che verrà, è anticipazione del Regno futuro.
In quanto Paraclito (“Consolatore” recita la traduzione italiana), lo Spirito è consolazione, assistenza nella lotta che il credente deve affrontare nel mondo, difesa nel processo che il mondo stesso (la mondanità idolatrica) intenta contro di lui. Ma è anche la forza che consente al credente di portare il peso della parola di Dio nella storia: quelle parole di cui i discepoli non possono “per ora” portare il peso (Gv 16,12), potranno essere portate, dunque vissute e testimoniate, grazie allo Spirito santo che le renderà giogo non schiacciante, ma soave e leggero. Principio di profezia, lo Spirito rende sopportabile il peso delle esigenze della Parola a cui il profeta e la chiesa (ministra e serva della Parola, dunque chiamata a essere profetica), sono sottomessi per primi.

giovedì 24 maggio 2012

La parola della domenica 27 Maggio 2012 (Casati) BOSE




At 2, 1-11
Gal 5,16-25
Gv 15,26-27; 16,12-15

Oggi, festa della Pentecoste, ripercorrendo la pagina degli Atti degli Apostoli che ora abbiamo ascoltato, mi dicevo -forse anche un po' a mia consolazione- che il vento dello Spirito, che nelle immagini bibliche è così travolgente - "venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo"- nella realtà poi non è così travolgente.
Gli apostoli ricevono lo Spirito la sera di Pasqua, ebbene, otto giorni dopo, sono lì ancora chiusi, cinquanta giorni dopo a Pentecoste ancora rinchiusi. Travolgente lo Spirito, ma poi il vento deve fare i conti con le nostre durezze, con le pesantezze della storia, con i nostri ostacoli. Se non fosse così, se il cammino dello Spirito fosse sulla terra una passeggiata, passeggiata trionfale, noi non saremmo qui oggi a invocare per i nostri giorni questo dono che viene dall'alto. "Camminate secondo lo Spirito" ammoniva oggi Paolo nella sua lettera "lasciatevi guidare dallo Spirito". Dobbiamo però subito aggiungere che se il cammino dello Spirito conosce gli ostacoli che noi frapponiamo, la sua direzione però rimane incontrovertibile, chiara. È forza, è dinamismo, entra per porte chiuse, per fessure quasi invisibili, mette in moto, suscita energie. Ecco in questo senso è bellissima la festa della Pentecoste; è come il compiersi di una Promessa. È il giorno del compimento, del compimento della promessa di Gesù: "Vi manderò lo Spirito di verità, mi renderà testimonianza e anche voi mi renderete testimonianza". Il brano degli Atti oggi iniziava così: "Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire..." . è una brutta traduzione, brutta e strana, questa che abbiamo ascoltato. Infatti non erano appena le nove del mattino? Come si può dire che stava per finire il giorno? La traduzione esatta non è "al fine del giorno di Pentecoste", ma "al compiersi della Pentecoste": "al compiersi". Arrivava a pienezza la Pentecoste ebraica che ricordava il giorno in cui sul Sinai la voce di Dio si era divisa in settanta lingue, quanti sono i popoli della terra. È lo Spirito che invade la Terra. "Al compiersi della Pentecoste" -è scritto- o, se volete, al compiersi della Promessa. Ricordate la promessa custodita nel libro di Gioele? Bellissima promessa: "Dopo questo io effonderò il mio spirito su ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave in quei giorni effonderò il mio spirito (Gl. 3, 1-2). È arrivato questo giorno. È il compimento della promessa. Forse non ci crediamo. Sto dicendo parole troppo gravi. Ma le penso, allora le dico. Forse la chiesa non ci crede. E -ditemelo voi- è una chiesa la nostra che si rallegra perché "dello spirito è piena la terra"? È una chiesa che crede che su ogni uomo, su ogni donna, non importa chi, non importa se cristiano o non cristiano, su ogni uomo, su ogni donna è effuso lo Spirito? È una chiesa che si rallegra per le profezie dei figli e delle figlie, per i sogni degli anziani, per le visioni dei giovani? E dice: queste profezie, cioè queste parole che vedono oltre, questi sogni e queste visioni che spingono oltre, sono il segno che lo Spirito c'è in questo mondo, opera in questo mondo!? Siamo molto più abili a lamentarci che a leggere i segni dello Spirito sulla terra, sulla terra intera, nessuno è fuori. Perdonate la confessione: sì, saranno importanti -non lo nego- le nuove effusioni dello Spirito: Ma che senso ha, se poi non ci accorgiamo che lo Spirito è stato effuso su ogni uomo, su ogni donna, che senso ha se questo Spirito che ha il genio di schiudere le porte, di creare comprensioni più larghe, che ha il genio dell'universalità, lo richiudiamo nelle nostre appartenenze? Qualcuno oggi, tra quelli che leggono il Vangelo, giustamente potrebbe dirci: ma di che Spirito siete? Quello di Gesù Cristo? Ti ringraziamo, Signore, perché è arrivata a compimento la Promessa e, insieme, ti chiediamo di scorgere ogni giorno i segni dello Spirito, perché tu sei un Dio che opera tutto in tutti.
Fonte:sullasoglia

PREGHIERA MAGGIO


Nella gioia dell'adorazione
Cristo,
Signore del dono senza contraccambio,
illumina le nostre giornate.
Nel vuoto di questo mondo che passa
apri il nostro cuore al tuo amore.
Sì, insegnaci ad ascoltare
nella gioia dell'adorazione.
Ci vuoi felici,
concedici di renderti grazie!
Cristo, tu sei il capo e la vite,
noi le membra e i tralci.
Il tuo Spirito ci irrighi,
perché portiamo frutto.
Sii benedetto
per tante vocazioni al servizio,
che giungono, per grazia e amore,
fino ai limiti dell'impossibile.
Ricevi la lode del popolo santo,
a gran prezzo strappato alle lacrime.
Ricevi la lode dei risorti,
che vanno verso la tua dimora.
Cristo, solo nella lode
possiamo riconoscere
questo mondo che passa
e il regno di gloria
che viene per chiamarci
alla gioia senza nome.

PIERRE GRIOLET

mercoledì 23 maggio 2012

DEDICATO A TUTTI QUELLI CHE …CERCANO LA VITA IN CRISTO





Inizio questo commento un po' particolare riconoscendo in primo luogo che conosco decine di persone più capaci di me a scrivere questa riflessione in quanto l'argomento ha molto poco di teorico e tanto di vissuto concreto.
E sono decisamente onorato di conoscere queste persone che per me sono "maestri"in quanto parlano da una cattedra tutta particolare.
Questo è il classico caso in cui per davvero sono le pagine della vita che ci ammaestrano.
E ancora, prima di iniziare, voglio ricordarvi che l'argomento è la vita,
vita che vale la pena vivere appieno.
"…perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna."
Di cosa parliamo?
Di un argomento decisamente fuori moda anzi, fuori luogo per questo mondo: festeggiare la Croce!
Sapete, dobbiamo ritrovare il coraggio non solo di dirlo al mondo ma anche a noi stessi.
Che i cristiani professano la fede verso un Dio il cui Figlio, vero Dio e vero Uomo, è morto soffrendo in Croce.
Che dramma per noi cristiani è non capire, scappare di fronte a questa realtà, non saper accompagnare chi la porta.
Ormai anche nei nostri discorsi, nei nostri modi di vivere il quotidiano la sofferenza, l'angusto passaggio della Croce è qualcosa di senza senso, di vuoto, una perdita di tempo, da combattere.
Chi mai in questo mondo ci insegna a soffrire?
Diciamoci la verità, gli sforzi quotidiani sono tesi ad eliminare la sofferenza .
Siamo abituati a costruirci delle "uscite di sicurezza", una via di fuga, in ogni contesto.
Ed invece la Croce, con nostro sgomento, dobbiamo ammetterlo, non ha uscite di sicurezza.
Quando ci sei sopra, ci sei sopra e basta.
Il mondo intorno fa tanto rumore, propone soluzioni di ogni genere.
Una delle tante ha come fondamento l'illusione che ci sia una possibile fuga dal soffrire.
Sì, tendere ad eliminarla in ogni modo.
Non mi riferisco unicamente al soffrire fisico ma ad ogni evento del nostro quotidiano che ci mette nella morte.
C'è la sofferenza nella malattia, la sofferenza nelle difficoltà di un matrimonio fallito, la sofferenza di un lavoro perso, la sofferenza nel non accettare il proprio corpo, la sofferenza nel non accettare certi aspetti della propria vocazione, la sofferenza che il male ricevuto causa in noi ferite sanguinanti nella mente che ci danno il dolore del vivere, la sofferenza del vivere anni in una cella di un carcere , la sofferenza di essere clandestini del mondo e chiedersi quanto vale un uomo clandestino sulla terra, e almeno altre mille sofferenze...
A riguardo, le soluzioni che il principe di questo mondo ci presenta sono di una finezza incredibile ma, fateci caso, pur di eliminarle si distrugge tutto quanto, anche la vita.
Quanti tradimenti, quante famiglie sfasciate, quanti figli senza genitori, quanti genitori senza figli, quanti letti di malattia abbandonati come se fossero letti vuoti, quanti omicidi infiocchettati come atti di bontà nell'interrompere il soffrire, quanti stranieri di questo mondo nel mondo, quanta violenza nelle quattro mura di una casa che è diventata un inferno, quanti furti nei confronti dei nostri prossimi convinti che questi siano degli esseri inferiori solo perché vengono da lontano…
Quanti novelli sapienti profeti azzeccagarbugli nel mondo della scienza, del sociale, della politica.
Ma attenzione, "un albero buono non può dare che buoni frutti".
E se la sofferenza invece che segno di morte ci porti alla vita?
E se il nostro peso quotidiano abbia una valenza eterna, un significato legato al nostro prossimo e al nostro futuro?
E se la croce fosse il segno della vita eterna che inizia?
A questi ultimi "se", il mondo ha già risposto con un pollice verso.
E tu cristiano come rispondi?
Lasciamo perdere per una volta le "versioni ufficiali", quelle "corrette" quando parliamo di "altri" e con "altri" ma rispondi sinceramente;
fai rispondere alla tua vita.
Cosa scegli?
Scegliere per noi significa in certi stagioni della vita vivere e in altre stagioni condividere.
Vivere la nostra Croce, il nostro soffrire come il donare il nostro amore a Cristo, come un canto di lode che ha parole e suoni e pensieri differenti ma veri, veri perché tu sai che quello è il tuo luogo dove trovi la vita eterna.
Sì, proprio in quel matrimonio, proprio in quella malattia, proprio in quella solitudine tu sperimenti la vita.
Dove anche le lacrime hanno una pienezza di vita, dove sono così pulite che ti rendono l'anima e il volto splendente.
Vuoi sapere la verità?
Io ho visto, io conosco fratelli, uomini che vivono la propria croce nella resurrezione.
So i loro nomi e conosco bene i loro volti e conosco i giorni in cui mollano e i giorni in cui riprendono a salire.
E' un combattimento ma è vita, sì vita che vale la pena vivere.
Condividere significa anche non avere paura di quello che ti porti dentro;
non aver paura di vedere e sapere che anche quella è la strada che tu stesso percorrerai.
Condividere significa andare a scuola vestito da "professore" ma dove in realtà, accanto a chi soffre, sei un alunno.
C'è una intimità con Cristo che solo sulla Croce l'uomo può sperimentare, sentire sulla Croce il respiro di Gesù che ti è accanto, che condivide la tua scomoda posizione in Croce.
La Croce ci insegna ad amare, di un amore che il mondo non conosce e che suscita ribrezzo o sorrisi di imbarazzo…
La Croce di Cristo ci insegna il perdono, quello che neppure tu ti aspetteresti di vivere.
La parola di un vero profeta dei nostri giorni, Don Tonino Bello, che ha condiviso e vissuto la Croce, ci dona un pensiero stupendo:
"E' la Croce che ci insegna come amare i nemici. Una croce da prendere per il braccio lungo, come fece Gesù, e non da impugnare per il braccio corto, come abbiamo fatto noi, usandola a guisa di spada che ferisce e uccide."
E tu, caro fratello, la tua croce la porti per il braccio lungo o per il braccio corto?
Braccio lungo o corto nel tuo matrimonio?
Braccio lungo o corto nel tuo soffrire?
Braccio…


P S: questo commento è dedicato a tutti i fratelli che il Signore mi ha donato (anche attraverso il mondo di internet) come veri maestri di vita, che con il loro modo di portare la Croce Gloriosa

Quotidiana mi insegnano a vivere.

http://www.novena.it/omelia_domenicale/140908.htm

martedì 22 maggio 2012

Commento Marco 8, 34-9,1





Gesù, per la prima volta, parla apertamente ai suoi discepoli del rischio che sta correndo e del fatto che la sua missione potrebbe portarlo al dono totale, alla consumazione, alla morte. Momento di tensione tra i dodici, e Pietro interviene (che diamine, non è appena stato nominato Papa?), prende da parte Gesù: meglio non fare questo discorso, scoraggia il morale delle truppe, Dio ti preservi dalla sofferenza, Rabbì. Catastrofe! Pietro, eri partito così bene! Perché vuoi insegnare a Dio come deve salvare il mondo? La reazione di Gesù è durissima: tu ragioni come il mondo, non sei ancora discepolo, il tuo parlare è demoniaco. Anzi, per la precisione, l'ammonimento di Gesù a Pietro è "passa dietro di me", cioè segui i miei passi, la mia logica. Sì, Pietro proprio ci assomiglia, e tanto. Vediamo se riesco a sintetizzare la logica media del cristiano... Dio è amore, è grande, è splendido, la mia vita è faticosa, la cosa che più temo è la sofferenza, quindi Dio è alieno alla sofferenza (beato lui!) spero mi preservi dal dolore. Discorso che fila via abbastanza liscio, se non per un piccolo particolare: Dio non la pensa così! Gesù ci ha svelato il volto di un Dio amante, appassionato degli uomini, fuoco bruciante. E chi ama lascia libero, chi ama soffre della mancanza d'amore dell'altro. Gesù soffre per la dura reazione dell'umanità verso di lui, verso l'inattesa reazione del suo popolo al suo messaggio. Gesù intravede un ultimo gesto totale, un'ultima possibilità: le parole non sono bastate, né i segni prodigiosi, né la tenerezza, forse occorre consegnarsi, compiere il gesto paradossale della morte in croce. E Pietro obbietta: no, non questo, non ci piace un Dio che soffre, non vogliamo un Dio che non sia trionfante e glorioso. Ma come, lui può evitare la sofferenza e invece l'abbraccia?
Povero Pietro, poveri noi, quando capiremo la terribile semplicità dell'amore di Dio? Quando passeremo dall'idea che la sofferenza è male all'idea che alle volte la vita è dono e donare chiede sofferenza? Dio non ama la sofferenza, sia chiaro. Ma – talora – compiamo gesti che comportano una rinuncia, una morte, e la sofferenza diventa allora misura dell'amore. Così il dolore del parto necessario a dare luce ad un bimbo, il corpo affaticato che arrampica la vetta, la notte insonne della madre che allatta il neonato. Ecco: il discepolo, come il Maestro, è chiamato ad amare fino a perdersi. Prendere la croce e rinnegare se stessi non diventa un autolesionismo misticheggiante (come spesso è stato proposto!), ma una proposta di vita che contraddice la logica mondana dell'autorealizzarsi. Troppo spesso il nostro mondo propone una sorta di idolatria del sé (fragile e ingenua). Gesù propone di più: realizzi te stesso se la tua vita diventa dono, apertura, accoglienza, il paradosso del ritrovarsi "perdendosi" per gli altri
.




http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=2183

lunedì 21 maggio 2012

Perchè Dio permette il male e la sofferenza?



Questa domanda è stata fritta e rifritta , la ripongo perché vorrei avere delle conferme riguardo a ciò che ho capito.


Se non erro, il catechismo dice : Dio permette il male per trarre un bene.
« Infatti Dio onnipotente [...], essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene ».

Molte persone per sostenere questa tesi fanno l’esempio della mamma che vuole fare la puntura al figlio malato.
La puntura , per il figlio , è il male , perché causa dolore, però è necessaria per raggiungere la guarigione e quindi raggiungere un bene superiore . Cioè la mamma capisce che questa è l’unica cosa che può permettere ciò. Quindi , in fin dei conti la puntura dovrebbe essere una cosa buona , proprio per la guarigione che porta. Giusto ?
A questo punto però mi viene un dubbio : la mamma, in realtà, vorrebbe che il figlio guarisse senza soffrire(quindi senza la puntura) , ma è impotente ….. non è Dio, cioè sa che l’unica cosa che lo può far guarire , in questo mondo , è la puntura . Non so se mi spiego . E’ come in un gioco , in cui si stabiliscono delle regole , nel nostro caso per guarire devi soffrire , per dimagrire devi allentarti,faticare, per imparare devi studiare ecc.
Il punto è che le regole non le ho stabilite io, ma Dio.
A questo punto entra in gioco il peccato originale : cioè queste “regole” ( nel nostro caso soffrire) in realtà, non sono state scelte da Dio ma dall’uomo ( Adamo e Eva) che ha fatto entrare il peccato quindi la morte , il dolore e la sofferenza in questo mondo .
Cioè ho l’impressione che la chiesa dica che il male (stupri , omicidi , malattie , catastrofi) è permesso non perché Dio risulta impotente (classico esempio dell’impotenza di Dio nei confronti del libero arbitrio dell’uomo) ma sostanzialmente perché serve, cioè in fin dei conti è permesso perché voluto.


Per comprendere meglio ciò che intendo :

·Dio permette il male per arrivare a Lui, cioè per raggiungere la vita eterna ( bene infinito).

·Questa “ modalità” con cui le persone possono raggiungere la vita eterna , cioè male e sofferenza, non sono state scelte da Dio ma dall’uomo con il peccato originale .

·Nei fatti, questa cosa accade perché la sofferenza mi avvicina a Dio , cioè io ho bisogno di Lui, quindi inizio a cercarlo ad andare a ad esempio a messa ,a pregare ecc. Nella nostra realtà dei fatti si possono fare degli esempi concreti , il bambino vuole la mamma quando ha bisogno di lei ad esempio quando si fa male,molte persone si sono convertite al cristianesimo in forza di questo bisogno .
 
 

domenica 20 maggio 2012

Comunità: quando la correzione è fraterna (Bianchi)BOSE

Siamo nel tempo pasquale, nel quale la Chiesa ci invita a proclamare la buona notizia per eccellenza: “Cristo è risorto, è veramente risorto!”. Immersi in questa gioia possiamo volgerci indietro, al cammino quaresimale percorso, per verificare se è stato un cammino di conversione e di crescita spirituale, oppure se non abbiamo mosso un passo per fare ritorno al Signore, o addirittura abbiamo finito per cedere ancora di più agli idoli mondani che sempre ci tentano. Nel fare questo esame di coscienza non possiamo dimenticare che all’inizio della Quaresima Benedetto XVI ha indirizzato alla chiesa un messaggio volto a farla riflettere sul fine della sequela: l’amore, la carità. Per questo il papa di Roma ci ha fornito la traccia di una ricerca, di una riflessione, di un impegno quotidiano da assumere, quello riguardante la correzione fraterna. Ammorbati come siamo da una vera e propria patologia quale è l’indifferenza gli uni verso gli altri, la mancanza di prossimità, non sappiamo neppure più che la correzione fraterna è uno degli atteggiamenti cristiani più decisivi per la salvezza del singolo e per la stessa comunità cristiana, la chiesa. Se non ci si sente custodi, responsabili del fratello, della sorella, dell’altro (cf. Gen 4,9: «Sono forse io il custode di mio fratello?»), allora si vive nel proprio autismo, senza guardare agli altri, senza avvicinarsi all’altro, senza praticare il volto contro volto. In questo modo non nasce mai l’occasione per la correzione reciproca, e di fatto si incoraggia la crescita del male, che sarà sempre più dilagante in quanto non viene mai giudicato: e così, lo si voglia o no, si autorizza chi compie il male a commetterlo senza essere frenato, richiamato. Tra le opere di misericordia che avevamo imparato al catechismo vi era anche «Ammonire i peccatori», espressione forse poco felice, perché sembra presupporre che il cristiano non peccatore debba ammonire chi lo è. Anche per questo, probabilmente, tale opera è andata dimenticata, e così si è persa memoria del fatto che l’istanza sottesa a questa espressione è in verità quella della correzione fraterna, una correzione sempre reciproca. Leggi tutto monasterodibose

Commento alle letture 20 maggio 2012 (G.Bruni) BOSE

Commento alle letture 20 maggio 2012 (G.Bruni) Posted: 16 May 2012 04:25 AM PDT Giancarlo Bruni, appartiene all'Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco della Comunità ecumenica di Bose. Letture: At 1,1-11; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20. «Il Signore Gesù fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» 1. Il brano proposto dalla liturgia non è propriamente di Marco ma fa parte della cosiddetta finale lunga (Mc 16,9-20) aggiunta nel II° secolo sia per attenuare il carattere brusco con il quale egli aveva concluso il suo Vangelo (Mc 16,8), sia per puntualizzare che vi sono aspetti della esperienza credente propri a ogni comunità del Cristo morto e risorto. Ad esempio sono da considerarsi comuni il dato delle apparizioni (Mc 16,9- 14); l’invio a annunciare il Vangelo a ogni creatura (Mc 16,15); la non accoglienza della buona notizia della resurrezione sulla semplice base della testimonianza della parola, una incredulità indice di una durezza di cuore a capire di cui gli Undici, assieme a Tommaso, sono icona permanente (Mc 16,14); il Cristo come riferimento imprescindibile per ogni essere sotto il sole in rapporto alla relazione con Dio (Mc 16,16) e la sottolineatura di alcuni effetti straordinari legati al credere tipo esorcismi, guarigioni e inoffensività di serpenti e veleni (Mc 16,17-18). Tra queste aggiunte, non in contraddizione con lo scritto di Marco e canonicamente accolte, vi è poi quella della ascensione: « Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Essi allora partirono e predicarono dappertutto» (Mc 16,19-20). Affermazione scarna ricca di messaggi. 2. In riferimento a Gesù il vocabolo «ascensione» indica il momento terminale di una vicenda e di un itinerario che hanno in un Tu singolare il proprio momento iniziale e la propria ragione: «Sono uscito dal Padre mio e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Gv 16,28); «Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12,46). Gesù il disceso dal Padre in una carne fragile e mortale (Gv 1,14), la sapienza disattesa, l’assiso su un trono di nome croce (Gv 19,19-20) e il disceso nel più profondo degli inferi (1Pt 3,19; At 3,29-31) è l’asceso-innalzato-assiso nel più alto dei cieli alla destra del Padre (At 3,33) quale principe di pace a noi pace (Ef 2,14). Una glorificazione-esaltazione (Fil 2,9), indice del sì di Dio a quello scarto umano, in un corpo forte, glorioso, spirituale e immortale offerta alla stupita contemplazione di comunità oranti che in quel disceso-asceso sono chiamate a vedere in primo luogo l’archetipo del loro indicibile cammino, ove loro sta per tutti: da Dio, il Padre è il «da dove» fontale dell’uomo; secondo Dio, il Padre è l’ orientamento sul «come» abitare la terra, il frattempo della storia; a Dio, il Padre è il «verso dove» ultimo dell’uomo e del cosmo. Comunità in secondo luogo chiamate a vedere in quel disceso-asceso l’adempiersi di un evento nascosto sin dalla fondazione del mondo (Mt 13,35) e manifestato in questi ultimi tempi proprio nel «predestinato già prima della fondazione del mondo» (1Pt 1,20). A che cosa? Ad assumere l’umano per introdurlo per sempre nel divino. Il natale è per l’ascensione e l’ascensione è per il natale, in Gesù-uomo l’umano è per sempre divinizzato e in Gesù-Dio il divino è per sempre umanizzato, indice e profezia di un dato elementare: l’uomo che siamo noi è figlio di Dio, il figlio di Dio che siamo noi è uomo, un mistero verso il suo adempimento al di là del male e della morte. Questo dice ascensione, l’essere chiamati a divenire figli in un corpo di luce sulle orme di Gesù il salito al Padre celeste con quel corpo trasfigurato assunto da una madre terrestre. La materia non è distrutta ma trasformata, uomo e cosmo riassunti nell’asceso. 3. È urgente per le comunità cristiane recuperare queste visioni che dilatano la mente e riscaldano il cuore, leggere nel viaggio di Gesù il senso nascosto del proprio viaggio: il venire da lontano, il vivere da resistenti ai luoghi comuni e il risalire a quel lontano con tutta la propria corporeità redenta, frammenti rivelativi del tutto umano-cosmico. Un possibile se lo lasciamo discendere negli inferi dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e dei nostri comportamenti per farli ascendere a pensieri, sentimenti e comportamenti di luce, quelli degli amati che riamano come amati. Lectio della settimana 20 maggio 2012 (C.Kairos) Posted: 15 May 2012 11:32 PM PDT Lectio Ascensione N.S. La lectio della settimana: Mc 16,15-20 [...]La presenza del Signore è viva ed efficace. La sua Parola agisce, è l’energia che muove la missione dei discepoli in tutto il mondo. Rimanendo in Cristo, i cristiani non corrono il rischio di disperdersi: li mantengono uniti la fede e l’amore, insieme con la speranza. La speranza, in particolare, di ricomporsi in unità, al cospetto di Colui che tutti ci ha preceduto presso il Padre suo e Padre nostro. Fonte: comunitakairos

sabato 19 maggio 2012

IMMAGINI PER PREGARE





Preghiera per l'Ascensione La tua ascensione al cielo, Signore, mi colma di gioia perché è finito per me il tempo di stare a guardare ciò che fai e comincia il tempo del mio impegno. Ciò che mi hai affidato, rompe il guscio del mio individualismo e del mio stare a guardare facendomi sentire responsabile in prima persona della salvezza del mondo. A me, Signore, hai affidato il tuo Vangelo, perché lo annunciassi su tutte le strade del mondo. Dammi la forza della fede, come ebbero i tuoi primi apostoli, così che non mi vinca il timore, non mi fermino le difficoltà, non mi avvilisca l'incomprensione, ma sempre e dovunque, io sia tua lieta notizia, rivelatore del tuo amore, come lo sono i martiri e i santi nella storia di tutti i popoli del mondo. Anonimo

venerdì 18 maggio 2012

Riflessioni sulle letture 20 maggio 2012 (Manicardi) BOSE


At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20


Le letture che annunciano il mistero dell’ascensione di Cristo hanno anzitutto una valenza cristologica: alla destra di Dio Padre siede il Cristo risorto (cf. Mc 16,19) che ha adempiuto nell’obbedienza la missione per cui il Padre lo ha inviato: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). Ma esse presentano anche una valenza escatologica: il Cristo asceso al cielo è colui che verrà alla fine dei tempi (cf. At 1,11). Infine esse manifestano una valenza ecclesiologica: l’ascensione non chiede ai cristiani una fuga dal mondo né una contemplazione dei cieli (cf. At 1,9-11), ma li rinvia alla loro responsabilità storica. Responsabilità che prende nome di testimonianza (I lettura), di unità della comunità ecclesiale (II lettura), di missione e predicazione (vangelo). Nell’evento dell’ascensione, per cui alla destra del Padre siede un corpo umano, il corpo di Gesù, il credente contempla la prefigurazione della destinazione propria e dell’umanità. Con l’ascensione, infatti, il Figlio porta nella vita trinitaria la carne umana da lui assunta e redenta. “Il Signore Gesù, dopo aver parlato agli Undici, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio” (Mc 16,19). Il Cristo ascende al cielo dopo aver lasciato una parola ai discepoli. Questa parola è da annunciare e da testimoniare: la missione e la predicazione della chiesa coprono il “vuoto” dell’assenza fisica di Gesù. “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). Sta alla chiesa visibilizzare il volto di Cristo nel tempo in cui l’ascensione l’ha sottratto alla vista, nel tempo tra la Pasqua e la parusia. Sta alla chiesa renderlo presente tra gli uomini. “La sorte di Dio ci è affidata nella misura in cui, portatori di Dio in questo mondo, è dal nostro atteggiamento che dipenderà la conoscenza e l’immagine che gli uomini si faranno di Dio. Dio stesso potrà essere buono, giusto e salvatore di un certo uomo soltanto se, in quel dato momento e in quelle date circostanze, io sarò buono e giusto con quell’uomo esercitando così nei suoi confronti, in qualche modo, quella potenza di salvezza che mi è stata comandata da Dio. Come dicevano i Padri della chiesa, noi siamo le mani e le braccia di Dio” (Adolphe Gesché). Il modello della missione e della predicazione è Gesù stesso che aveva iniziato il suo ministero predicando il Regno di Dio e chiedendo conversione e fede nel vangelo (cf. Mc 1,14-15). E poiché il Risorto continua a precedere i discepoli (cf. Mc 16,7), la missione si configura come sequela di Cristo. L’andare cui essi sono invitati altro non è che un seguire. Solo così la missione sarà sacramento della presenza del Signore tra gli uomini. Come era la missione svolta dagli Undici, in cui era presente e attivo il Signore stesso. “Gli Undici predicarono dappertutto, mentre il Signore cooperava (con loro) e confermava la parola con i segni che l’accompagnavano” (Mc 16,20). Affermando che il Signore coopera con gli Undici nella loro missione e conferma la parola del loro annuncio, la chiesa primitiva esprime la sua fede nel Risorto quale soggetto della missione della chiesa. E poiché la missione avviene con parole e gesti intimamente connessi, ecco che l’azione di sinergia e di conferma della parola attuata dal Signore si esplica in “segni” (Mc 16,20). E se la missione della chiesa tende a suscitare l’adesione teologale, la fede nel Signore, essa avviene grazie alla fede. Gli inviati, i missionari, i predicatori sono i primi chiamati alla fede. Nel testo evangelico si parla della cooperazione del Signore alla missione ecclesiale in termini analoghi a quelli che troviamo in At 14,3: “(Paolo e Barnaba) parlavano fiduciosi nel Signore, che rendeva testimonianza alla predicazione della sua grazia e concedeva che per mezzo loro si operassero segni e prodigi”. È la fede in Gesù risorto e asceso al cielo lo spazio di azione della grazia e di manifestazione della sua potenza e fecondità. La chiesa evangelizzatrice è, semplicemente, una chiesa credente. LUCIANO MANICARDI Comunità di Bose Eucaristia e Parola Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B © 2010 Vita e Pensiero Fonte: monasterodibose

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Preghiera davanti al Crocifisso


« O alto e glorioso Dio,
illumina le tenebre del cuore mio.

Dammi una fede retta, speranza certa,
carità perfetta e umiltà profonda.

Dammi, Signore, senno e discernimento
per compiere la tua vera e santa volontà.

Amen. »





SAN FRANCESCO


giovedì 17 maggio 2012

La parola della domenica 20 Maggio 2012 (Casati)





At 1,1-11
Ef 4,1-13
Mc 16, 15-20
Qualcuno di noi incomincia a saperlo - non sempre i preti ce lo hanno insegnato - ma questa chiusura del Vangelo di Marco che oggi abbiamo ascoltato costituisce un falso. Non nel senso che dica cose non vere, ma nel senso che non è la chiusura del Vangelo di Marco, bensì di un altro sconosciuto redattore, che da un certo punto di vista dobbiamo anche ringraziare; tanto sono diverse le sue parole dal resto del Vangelo che qualcuno se n'è accorto.
Dunque l'evangelo non finiva così, finiva invece al versetto 8 del capitolo 16°; finiva con le tre donne che al sepolcro vuoto si sentono dire: "È risorto, ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea". Ed ecco il versetto ottavo, conclusivo, conclusivo del vangelo: "Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di stupore. E non dissero niente a nessuno perché avevano paura". Il vangelo finisce con questo timore e stupore. Con questa paura, paura di dire. Una fine che qualcuno di noi potrebbe ritenere "ingloriosa". Perché allora l'aggiunta? Che finisce per essere un maldestro rattoppo! Forse perché non è bello finire con l'infedeltà dei dodici e con la paura delle donne. O forse perché nel vangelo di Marco non era evidente, era ignorata la consegna agli apostoli della missione, la missione sembra affidata alle donne, certo più fragili, più paurose, ma, dopotutto, anche le più fedeli: ...a guardare da lontano il venerdì santo c'erano solo loro - Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salome -, e all'incrinarsi della notte, il mattino di Pasqua presso la tomba vuota, ancora loro, solo loro, puntualmente nominate, ancora una volta, dopo pochi versetti. Ecco, è forse questo sconcerto che ha spinto un copista, chissà forse del secondo secolo, ad aggiungere un foglio al vangelo. Era troppa la meraviglia, eppure era questa la cosa bella dell'Evangelo, troppa la meraviglia del veder affidato il Vangelo, la missione del Vangelo a cuori deboli, a chi non aveva la pienezza della fede. Poi sono venuti i tempi della comunità forte, delle ferme verità, della ferma adesione, della ferma proclamazione. Ma si è perso un poco -o tanto- la meraviglia di un Vangelo, di un Gesù -perché il Vangelo è Gesù- di una speranza affidata a ciascuno di noi e non importa se debole nella fede, se intimorito dei propri dubbi, se lento a credere. Chi - ecco il punto - chi potrà farsi portavoce del Vangelo in Galilea, cioè nel paese di ognuno, paese della lontananza? Chi - scrive Aldo Bodrato - chi, se non le donne che hanno taciuto? Chi, se non i discepoli che lo hanno abbandonato? Chi, se non gli undici che lo hanno tradito? Chi, se non Pietro che ha taciuto, abbandonato, tradito, rinnegato?... Chi, se non tutti coloro che, con noi, leggono e non capiscono, ascoltano e non riescono a credere ai propri orecchi, vorrebbero aver fede, seguire e attendere e restano inchiodati al proprio silenzio? (Aldo Bodrato, Il Vangelo delle meraviglie, pagg.241-242). Ecco, non togliamo al Vangelo questa meraviglia che è la meraviglia di un Vangelo, di una speranza, affidata alle nostre deboli mani, mani di chiunque! e che è, dopo tutto, la meraviglia che ti prende anche ogni volta che ricevi l'Eucarestia e pensi: che coraggio, Signore! nelle mie mani! Forse se ci diciamo queste cose siamo anche più veri. Così come siamo anche più veri se interpretiamo in modo forse un po' più umile le parole della aggiunta posteriore, là dove si parla di segni come questi: scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, imporranno le mani ai malati. Cacceranno i demoni: forse potremmo dire: staneranno ogni giorno in qualche misura, i fantasmi che li soffocano - sete di denaro, protagonismo aggressivo, possesso delle persone... i nostri demoni -. Parleranno lingue nuove, e cioè diranno cose vere, oneste, fondate, mantenute. Terranno in mano i serpenti e passeranno indenni in mezzo alle cattiverie. Cureranno i malati, guarirli non è di tutti, ma curare, prenderci cura dei malati, sì. (cfr. Domenico Pezzini). Ci perdoni, ci perdoni lo sconosciuto copista dell'evangelo, se ci siamo permessi di tradurre in termini a noi più accessibili le sue parole.

Fonte:sullasoglia

IMMAGINI PER PREGARE





LA GIOIA

O Dio, tu sei per noi padre, madre, fratello,
amico, maestro, ricchezza.

Tu sei tutto, tu il solo rifugio:
aiutaci a vivere in te, in te solo.


O amore infinito,
dona ai nostri cuori aridi un po’ del tuo amore.

O Signore, rendi pura l’anima dei tuoi servi:
non vedano le ombre di alcun essere.
O Padre pieno di amore,
trasporta i tuoi servi
fuori dei brevi limiti personali.

Il nostro io prenda il volo
nell’infinito cielo
come goccia nell’immenso oceano.

O Signore, dimora in noi:
le tue parole, i tuoi pensieri,
le tue azioni siano le nostre.

Tu sei la pace immutabile,
Tu sei l’eterno, l’incomprensibile,
l’infinita gioia.



Ramdas