DON ANTONIO

domenica 21 agosto 2011

Che cos'è la speranza?





Che cos’è la speranza per gli uomini e le donne del nostro tempo? Si può vivere senza speranza? E
che cos’è la particolare speranza che contraddistingue la vita del cristiano, ossia di chi cerca di
seguire l’esempio di Cristo in tutte le situazioni della vita quotidiana? Sono le domande a cui
risponde Enzo Bianchi nel brano intenso e vibrante che proponiamo.
Ecco, in sintesi, i punti cardine della riflessione. Innanzitutto, il vero problema non è definire la
speranza (nonostante lo si possa fare in modo molto stimolante), ma viverla nel quotidiano, perché
«non si può vivere senza sperare». E’ la speranza, cioè la capacità di proiettare la vita verso il
futuro, verso un progetto, che contraddistingue l’uomo. E in questo senso la speranza del cristiano
ha un solidissimo fondamento antropologico, perché non prospetta «cose e realtà altre e nuove,
ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà». Ma poi aggiunge qualcosa di realmente
diverso rispetto alla speranza dell’ateo o dell’agnostico, perché si fonda sulla fede nella
resurrezione di Cristo, la cui vittoria sulla morte ci assicura che «il male e la morte, in tutte le
forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola».
Insomma, l’ultima parola spetta alla vita. E vale la pena precisare che è questo, e nient’altro, il
contenuto della “buona notizia” per chi crede in Cristo. Solo da questo, non dalla propria buona
volontà e tantomeno da un imperativo morale, il credente può poi trarre la forza di «vivere nella
fraternità con persone che non lui ha scelto; di «amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è
ostile»; di «vivere nella gioia anche le prove e le sofferenze»; e persino di arrivare, in determinate
circostanze, al martirio e al dono della vita.
Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti: «Dov’è,
cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese
di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di
sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di
essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1Pt 3,15: «Siate sempre
pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»).
Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di
aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa
donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che val la
pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena
perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret? Queste domande non
possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda
asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita.
Nella “società dell’incertezza’’ (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il
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segno della “fine’’ (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel
tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono
faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a
consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la
domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo
millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il
futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di
essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte
prossimo: i giovani. L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza,
il non-senso o quantomeno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale
cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del
ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto
all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro.
Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la
virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo:
altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci
fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà
altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i
rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza
è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non
ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla
strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! “Homo viator, spe
erectus”: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di
futuro. Il cristiano trova in Cristo la propria speranza (“Cristo, nostra speranza’’: 1 Lettera a
Timoteo 1,1), cioè, il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la
speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si
fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto.
La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in
tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il
cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non
ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli
uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1
Lettera a Timoteo 2,3 e 4,10; Lettera a Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la
logica pasquale. Quella “logica’’ che consente al credente di vivere nella fraternità con
persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico,
colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le
tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se
dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio
alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita
eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma
concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha
scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17).
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Che cos'è la speranza?
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Biografia
Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla
facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione
abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una
comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità.
È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse
nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International
Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di
lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica
che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero .

http://www.fondazionegraziottin.org/

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