DON ANTONIO

venerdì 26 agosto 2011

Nel tempo, la speranza oltre il tempo


Non c’è più dato offrire un discorso sistematico sulla speranza cristiana e sulla fede biblica nella storia della salvezza. Cercherò allora di proporre uno dei possibili percorsi di interpretazione di questo tema, analizzando alcune tappe del mio itinerarium mentis et cordis in fidem.


Partirò da Cristo e il tempo (il Mulino 1965; ed. or. 1947), il saggio di Oscar Cullman che mi ha introdotto alle croci e alle delizie della ricerca teologica, avviandomi all’interpretazione storicosalvifica della fede. Nella serena oggettività del suo argomentare, infatti, quest’opera ci offre la prima presentazione sistematica della prospettiva in cui si pone il problema della salvezza cristiana per una teologia rispettosa del dettato biblico e aperta al confronto con la modernità.


Cristo e il tempo


Scrive Cullmann: «È proprio dell’essenza di Dio il rivelarsi e questa sua rivelazione, la sua Parola, è un atto, un evento storico ... Mai l’agire di Dio si manifesta in modo così concreto come nella storia, la quale, teologicamente parlando, rappresenta, nella più intima essenza, il rapporto di Dio con gli uomini» (p. 46). Ecco perché «fede e pensiero dei primi cristiani non partono da una contrapposizione spaziale (quaggiù – lassù; aldiquà – aldilà), ma da una distinzione temporale (già – ora – poi; passato – presente – futuro). Il carattere temporale di tutte le affermazioni relative alla fede è legato nel Nuovo Testamento al valore accordato al tempo dal pensiero ebraico»; in particolare al kairos, come ora e momento qualificato, occasione unica di salvezza offerta da Dio all’uomo. «Vediamo così che nel passato, nel presente e nell’avvenire si hanno dei kairoi particolari, fissati da Dio, e dalla cui unione scaturisce la linea della salvezza» (pp. 60-61).


Mentre il pensiero greco, dice l’autore, considera il tempo un ciclo in cui tutto si ripete e la salvezza può consistere soltanto nell’uscire dal tempo per attingere all’eterno, l’annuncio di salvezza del vangelo segue la concezione rigorosamente lineare del tempo caratteristica della Bibbia. «Proprio perché il tempo è concepito come una linea retta e continua, la fede cristiana può pensare a un piano divino, la cui meta finale, situata al termine della linea, imprime agli avvenimenti della storia un movimento ascensionale teso alla sua realizzazione. Solo così il Cristo può diventare il centro fisso e decisivo che orienta la storia prima e dopo di lui» (pp. 75-77).


L’elemento nuovo apportato dal cristianesimo alla fede biblica sta nel fatto che con la croce e la resurrezione l’evento chiave della storia non è più collocato nel futuro, come per gli ebrei, ma è già stato raggiunto (pp. 106-7). «Ciò significa che la speranza dell’avvenire può ormai appoggiarsi sulla fede che la battaglia decisiva è stata vinta. Quanto è avvenuto costituisce la sicura garanzia di quanto avverrà. La speranza nella vittoria finale è tanto più intensa, in quanto essa si fonda sulla ferma convinzione che già è stata riportata la vittoria decisiva» (pp. 111-12).


Come si vede Cullman innova e conserva. Innova in quanto riconosce la natura storica dell’azione rivelatrice di Dio. Liquida la separazione, cara al cristianesimo neoplatonico, tra anima e corpo, tra incorruttibilità dei cieli e mortalità delle cose terrene. Riconduce alla sua dimensione storica il tema salvifico della resurrezione dei morti e del rinnovamento apocalittico della creazione. Resta, invece, ancorata a una visione acritica dell’agire salvifico di Dio nella storia, in quanto non considera gli aspetti tragici di quest’ultima e quelli kenotici della rivelazione, ed evita di interrogarsi a fondo sul senso teologico del tempo, drammaticamente prolungato, che intercorre tra la «battaglia decisiva» e la «fine vittoriosa della guerra», cioè tra la l’annuncio di salvezza e la sua realizzazione.


Storia e memoria passionis


Composta negli anni della seconda guerra mondiale e pubblicata subito dopo la sua fine, l’opera di Cullmann è, infatti, frutto di una teologia che porta gli echi di questa immane tragedia, ma che ancora non ha maturato la coscienza di cosa per la teologia significhino Auschwitz e Hiroshima. Da Cullmann, quindi, si può partire, ma a Cullmann non ci si può fermare, come possiamo capire dallo sviluppo del pensiero filosofico e teologico contemporaneo.


J. B. Metz, ad esempio, che a lungo si interroga sulla possibilità di tener viva l’attenzione del pensiero cristiano al tema della salvezza, sottolinea che essa non è solo spirituale e individuale, ma anche materiale e comunitaria. Deve perciò dare segni concreti e pubblici della sua efficacia e la teologia non può evitare di porla a confronto con la perdurante presenza del male nella storia.

«È la presa di coscienza dell’universale pervasività del dolore – egli scrive – a opporsi al tentativo di costruire una teologia della storia capace di conciliare natura e uomo in un processo salvifico unitario e lineare. Ogni pretesa di conciliazione finisce col degenerare in una cattiva ontologizzazione del patire umano ... Il che risulta con particolare evidenza dal tentativo di intendere il dolore come modalità propria e necessaria del processo naturale e storico-salvifico (La fede nella storia e nella società, Queriniana 1978, pp. 105-6).

Per evitare tutto ciò il cristianesimo non introduce Dio in questa lotta per il futuro, a mo’ di un «tappabuchi» o di un deus ex machina. «Cerca piuttosto di tenere desto il ricordo del Crocefisso, la sua memoria passionis, come memoria di libertà, socialmente e politicamente pericolosa. Se la teologia vuole confrontarsi con le scienze dell’uomo a proposito del futuro del mondo, non può che cercare delle categorie capaci di animare dall’interno il dialogo: categorie che si richiamano per un verso all’esperienza del dolore, per un altro a quella di una vita realizzata e densa di valori. Il suo punto di riferimento sta nella memoria del Venerdì santo e della Pasqua, che mai possono essere separate, perché non si dà comprensione della gloria della resurrezione che sia libera dalle tenebre e dalle minacce della storia della sofferenza umana e della sofferenza del Cristo» (pp. 110-11).

È a partire da questa riformulazione kenotica dell’agire salvifico di Dio, fondata sulla lettura di Bonhoeffer (Resistenza e resa, Bompiani 1969) e di Kazo Kitamori (Theology of the pain of God, Tokio 1947, Richmond 1965), che Metz e altri riscoprono l’apocalittica, vista non più come fatale catastrofe, ma come denuncia della natura ideologica del dominante pensiero evoluzionista e come stimolo alla riscoperta delle potenzialità libertarie e liberanti della fede biblica.

«V’è una nuova metafisica – enuncia Metz – il cui nome è “logica dell’evoluzione”. In essa il declassamento del tempo a pura continuità e del futuro a vuota infinità senza sorprese e senza rischi, ha acquisito dominio sistematico sulle coscienze e le imprigiona, diffondendo odio, apatia e fatalismo». «La logica dell’evoluzione, infatti, è quel dominio della morte sulla storia che si è già consolidato nel pensiero. Per esso, alla fine, tutto è uguale a tutto. Nulla di quanto era ed è trascorso, è salvabile dalla sua spietata, indifferente continuità. Questa logica dell’evoluzione non è innocente e agnostica». Per essa giusto è il fatto compiuto e Dio, il Dio dei vivi e dei morti, che interpella il presente e non lascia in pace il passato e il futuro, è pericoloso fantasma (pp. 164-70).

«È tempo che sia tempo» (P. Celan)

Ecco perché è importante recuperare contro il dominio del nichilismo evoluzionista l’originaria coscienza apocalittica della fede giudaico-cristiana: «Se, infatti, non ci si ferma alla lettera della sua mitica suddivisione del tempo in epoche predeterminate, ma si coglie il messaggio della sua visione radicalmente temporale del mondo, allora si scopre che la coscienza catastrofale dell’apocalittica diventa la coscienza del tempo tipica del pensiero cristiano. Non già la conoscenza del giorno del collasso, bensì della natura catastroficadel tempo, del carattere di discontinuità, di cessazione e di fine che il tempo comporta per il mondo. Questa natura catastrofica del tempo rende dubbio e perciò “genuino” il futuro, che assume la struttura del tempo e cessa di essere quell’infinità in cui il presente si proietta per imporre la sua illusoria naturalità, eternità e bontà» (p. 174).

E siamo al punto. Se è proprio «dell’essenza di Dio rivelarsi» e la sua rivelazione è salvezza che avviene nella storia, se è dialogo intimo con l’uomo, segnato dal tempo e dalla corporeità, dalla gioia e dal dolore, dalla fatica e dal riposo, dallo sviluppo delle capacità, ma anche dal loro decadere e morire, dal libero progetto e dalla fatalità, dal ricordo e dalla dimenticanza, dalla fedeltà e dal tradimento, dall’amore e dall’odio, dal desiderio di eternità e dall’esperienza del limite, dalla sazietà e dalla fame, la rivelazione di Dio non può non essere anche lei toccata e segnata da tutto ciò. Se la visione lineare del tempo è indispensabile perché si dia una storia della salvezza, questo tempo e questa storia salvifica non possono esimersi dalla natura problematica e conflittuale del reale, dalla natura contingente e precaria del divenire, dalla possibilità di riuscita o di fallimento, dalla dimensione precaria e temporale, dolorosa e gioiosa, feribile e solo in parte risanabile, del Verbo che, morendo in croce, esclama «Tutto è compiuto» (Gv 20,30), ma, venti secoli dopo, ancora è invocato come colui che deve affrettarsi a venire (Ap 6,1.3.5.7; 22,17.20).

È la Rodi della teologia. «Hai detto di saper saltare da un piede all’altro del colosso di Rodi. Rodi è qui; qui salta». «Hai promesso salvezza dalla morte e dal male nella storia. Ecco il male e la morte. Ecco la storia. Dove è mai la tua salvezza?». Duemila anni di attesa sono più che sufficienti per realizzare una promessa o per rimettere in questione il carattere decisivo dell’evento che la fonda. Non possono essere considerati “un tempo breve» (1Cor 7,9) o trovare consolazione nel fatto che «per Dio mille anni sono come un giorno» (2Pt 3,8). Ad avere bisogno di salvezza è, infatti, l’uomo, che non vive 983 anni come Adamo, ma soffre e attende redenzione nel suo tempo e non in quello di Dio. Tanto più che Dio stesso, rivelandosi nella storia e diventandone nel Cristo carne e sangue, ha rinunciato ai parametri temporali dei cieli per fare propri quelli della terra. La teologia non può non tenerne conto, proprio come ne tengono conto la fede e la speranza, chiamate a pensare l’impensabile e a credere e sperare quello che credere e sperare è sempre più difficile.

Aldo Bodrato

http://www.ilfoglio.org/320/Nel_tempo_la_speranza_oltre_il_tempo.htm

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