DON ANTONIO

martedì 16 agosto 2011

Fondamento della speranza

-LA SPERANZA DI GESÙ E DEL CRISTIANO

di Bruno Maggioni

Nel greco elpis-elpizo hanno un significato debole, anche se vario: speranza, congettura, previsione, penso, ritengo, suppongo. Il fondamento della speranza greca è in tutti i casi totalmente racchiuso nelle valutazioni del soggetto che spera. Si tratta sempre di una speranza che si fonda unicamente nell´esperienza dell´uomo. Un fondamento debole.
Non così nella concezione neotestamentaria. Nella I lettera ai Tessalonicesi (1,3) - forse il testo scritto più antico del Nuovo Testamento - la speranza è collocata dopo la fede e la carità e il suo fondamento è Gesù Cristo. Non è una previsione che l´uomo fa alla luce della propria esperienza o in forza di dati che possiede. è invece una certezza che si fonda sulla promessa fatta da una Persona (Gesù Cristo) di cui ti fidi totalmente. Ma il legame con Gesù Cristo è detto al genitivo: "speranza del Signore nostro Gesù Cristo". Si tratta dunque di un legame ancora più stretto: la speranza cristiana non solo ha il suo fondamento in Gesù Cristo, ma è la stessa speranza di Gesù Cristo. Per capire la speranza cristiana occorre guardare la speranza che Gesù ha vissuto. La speranza cristiana poggia sulla speranza di Gesù.
Della speranza si parla molto, ma spesso in modo astratto. In questa nota tento di parlarne partendo dal vissuto di alcune esperienze bibliche concrete.
La Bibbia, compreso il Nuovo Testamento, non parla ingenuamente di speranza, ma ne parla ben conoscendo le ragioni contro la speranza. La generale vanità dell´esistenza, ad esempio, come ha lucidamente scritto Qohelet: "Vanità delle vanità, tutto è vanità: che senso ha l´affannarsi dell´uomo sotto il sole?" (1,2). O anche la deludente constatazione che il mondo non cambia mai: gli arroganti sono sempre più arroganti, gli uomini curvi sempre più curvi. Nel Magnificat cantiamo che Dio abbassa i superbi e innalza gli umili: ma quando e dove? è questa una delle grandi domande degli uomini di ogni tempo: se Dio è Dio perché la prepotenza è più forte della giustizia? "Fino a quando, Signore?" si lamenta il profeta Abacuc. Lo stesso lamento si legge anche nel libro dell´Apocalisse: "Fino a quando, sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?" (6,10). C´è poi una terza ragione e proviene, questa volta, dall´interno di noi stessi: la ripetuta esperienza del peccato, un peccato ostinato, incrostato, che non si riesce a scrollarsi di dosso, come si legge ripetutamente nel libro di Geremia. Infine una quarta ragione: una ragione, questa, che fotografa in modo particolare l´uomo del vangelo, l´uomo che ha fatto dell´annuncio il motivo portante della propria vita: la ripetuta constatazione che la Parola di Dio pare più debole della parola degli uomini: non capita, rifiutata, inefficace.
Per comprendere, come già detto, pienamente la speranza neotestamentaria - nelle sue contraddizioni come nelle sue ragioni - occorre collocarsi nel centro stesso dell´evento di Gesù, "scandalo" della speranza e insieme "fondamento" che la sorregge. Può sembrare paradosso. Il fatto è che la speranza evangelica non si identifica con la speranza mondana, bensì la converte profondamente, rinnovandola. Il vangelo suggerisce un modo nuovo di pensare la speranza.
Gesù non si presenta come un semplice profeta che annuncia il futuro avvento di Dio. Egli dichiara che il Regno di Dio è già arrivato nella sua persona, nelle sue parole e nella sua attività. Questa convinzione sottostà a tutte le sue parole, le sue parabole, i suoi gesti, il suo modo di parlare di Dio. Con il suo arrivo iniziano i tempi nuovi e accoglierlo o rifiutarlo è per l´uomo una questione decisiva. E tuttavia questa pretesa di Gesù sembra continuamente smentita: l´opposizione e il rifiuto si fanno sempre più chiari e l´avvento di Dio sembra annullato dalla Croce. La storia del Messia porta con sé lo "scandalo" della speranza. Tanto più che il medesimo scandalo si introduce nell´esperienza della comunità, anche dopo il trionfo della risurrezione. Dopo i primi entusiasmi i cristiani si sono ben presto accorti che il mondo continua per la sua strada, nella sua arroganza e nel suo peccato, e che addirittura il peccato e la divisione colpiscono anche la comunità. Tutto sembra continuare come prima. Ma allora come è possibile sperare? E tuttavia è necessario sperare per l´uomo e per la Chiesa. La caduta della speranza comporterebbe, infatti, due rischi: il primo è la rassegnazione. In una comunità cristiana priva di speranza la parola del vangelo risuona smorta, senza sapore e colore, priva di ogni reale convinzione. E tutte le attività si fanno abitudinarie, subito vecchie, del tutto prive di quella giovinezza interiore che sola riesce ad imprimere a qualsiasi progetto quella carica interiore, vivace e convincente, che si fa contagiosa. La speranza allarga il cuore, la rassegnazione lo rinchiude.
Il secondo rischio è di cedere alla tentazione di sostituire le vie del vangelo con le scorciatoie degli uomini. L´impazienza del successo (che fatalmente accompagna ogni speranza dal fiato corto) porta necessariamente alla ricerca di mezzi mondani, che contraddicono quello stesso progetto evangelico che pure si vorrebbe servire. C´è anche il pericolo di confondere il Regno di Dio con un regno di uomini.
Ma ritorniamo alla figura di Gesù. Si è già detto che l´evento di Gesù è al tempo stesso "scandalo" e "fondamento": scandalo che costringe la speranza a purificarsi, scrostandosi delle sue molte illusioni e fondamento che le offre una ragione più solida di ogni fallimento. Di fatto Gesù ha sperimentato tutte le ragioni contro la speranza: l´ostilità dell´autorità religiosa, l´abbandono delle folle, l´insuccesso della sua parola, l´abbandono dei discepoli, la vita spezzata, la missione incompiuta. Dove ha trovato Gesù la ragione per mantenere intatta la sua fiducia? La risposta si legge in una sua confidenza riportata dall´evangelista Giovanni: "Ecco, verrà l´ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per proprio conto e mi lascerete solo: ma io non sono solo perché il Padre è con me" (16,32). La speranza di Gesù non si lascia distruggere dall´abbandono e dall´insuccesso perché è solidamente fondata sulla certezza della presenza del Padre. Non si può mantenere intatta la fiducia senza una sicurezza né si può restare fermi nella solitudine della speranza ( a volte la speranza crea solitudine!) senza una compagnia. Se Gesù è certo della presenza del Padre è perché si tratta di una compagnia ( quella del Padre, appunto), che egli ha sperimentato vivendola. Il fondamento della speranza è una promessa, ma una promessa che offre i suoi segni di credibilità nell´esperienza della vita. Gesù ha vissuto l´esperienza dell´abbandono sulla Croce, ma ha anche vissuto l´esperienza della comunione col Padre e della forza della sua Parola in tante occasioni della sua vita: le folle che accorrevano, i malati che guarivano, le conversioni, i miracoli.
Perché la speranza possa germogliare, crescere, resistere alle difficoltà occorre un terreno adatto. Non ogni terreno è adatto, non ogni modo di vivere è adatto, non ogni visione religiosa è adatta, non ogni pastorale è adatta. La Bibbia sa che per poter sperare occorrono delle precise condizioni. Ne indico alcune. Nella prima lettera ai Tessalonicesi (1,2) compaiono insieme le tre virtù teologali, ciascuna definita da una precisa parola. La fede è ergon, opera, impegno, qualcosa di concreto. La carità è kopos, dura fatica. La speranza è upomone, un termine che significa la forza di sopportare e di attendere. Upomone è la virtù della pietra: se anche la calpesti non si lascia modificare, a differenza della cera molle che appena la tocchi si modifica. La upomone è la durezza che ti fa restare quello che sei qualsiasi cosa succeda. La speranza non regge senza questa forza. Ma oltre che costanza nell´avversità, la upomone di cui parla Paolo è anche la pazienza di attendere, non importa se a lungo. La pazienza è essenziale per l´attesa cristiana. Senza pazienza non c´è possibilità di speranza.
Una seconda condizione si legge nella lettera di Giacomo (5,7-11): "Siate dunque pazienti, fratelli, sino alla venuta del Signore. Guardate il contadino: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finchè abbia ricevuto le piogge d´autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori". La necessità di diventare duri come la pietra è detta nell´imperativo "rinfrancate i vostri cuori" (sterizein) e la forza di attendere nell´imperativo "siate pazienti". Il termine che Giacomo qui predilige è però makrothumia, non upomone. Makrothumia è la larghezza d´animo, lo sguardo lungo, l´atteggiamento di chi è abituato a vedere le cose in grande, come il contadino che butta il seme e poi attende. Non è lui che stabilisce il tempo necessario per la crescita del seme. E non rinuncia a seminare il campo, anche se non sarà lui a coglierne i frutti. Senza l´animo lungo non è possibile alcuna speranza.
A una comunità perseguitata, piccola minoranza in un mondo ostile, Pietro scrive: "Non vi sgomentate per paura di loro, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pie 3,14-15). Rendere ragione (logos) della speranza significa almeno due cose: giustificare la speranza evangelica riconducendola al fondamento della fede (la morte e risurrezione del Signore) e indicare i segni - oggi - della speranza. Fa parte della speranza cristiana l´intelligenza di guardare le situazioni in profondità cogliendo anche dietro i fallimenti più clamorosi i segni del rinnovamento. C´è una parola di Gesù che dovrebbe allargarci il cuore. "Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura" (Gv 4,35). In qualsiasi tempo della storia le messi biondeggiano. Se non le vediamo è perché i nostri occhi sono annebbiati, o perché privi di vera speranza o perché ripiegati su noi stessi. Per vedere i segni occorre alzare lo sguardo: "Levate i vostri occhi". Chi si ripiega su se stesso non sarà mai un uomo di speranza.
Anche nell´A.T. si potrebbero trovare molte pagine interessanti. A noi basta ricordare le parole del secondo Isaia. In una situazione apparentemente priva di speranza (come il più delle nostre), il grande profeta dice: "Non ricordate le cose passate, non pensate più alle cose antiche: ecco faccio una cosa nuova, sta già germogliando, non ve ne accorgete?" (43,18-19). Non è il passato che deve ritornare, ma qualcosa di nuovo che deve affacciarsi. C´è un attaccamento al passato (anche al passato di Dio) che chiude gli occhi e impedisce di scorgere cose nuove che pure ci sono.
Come per Gesù, anche per il cristiano il fondamento ultimo della speranza va posto nella fedeltà di Dio: una fedeltà che va sperimentata nella vita di fede, come ha fatto Gesù. Senza questa esperienza di fede, la speranza si dissolve.
Come nel caso di Gesù, ciò che si spera è anzitutto il trionfo della dedizione, dell´amore, di una vita donata. L´oggetto ultimo della speranza è il trionfo dell´amore, non il trionfo di chi sa quali altre cose. Se vivi la dedizione come Cristo, vivrai sino in fondo lo scandalo della speranza, ma anche troverai la vera ragione per sperare. Paradossale: la speranza si alimenta in una vita a rischio.
La speranza cristiana trova il suo fondamento nella risurrezione di Gesù, ma - anche prima ai piedi della croce - nel miracolo di una violenza subita che si trasforma in amore. Fondamento della speranza è anche il crocifisso, non soltanto il risorto. Nel crocifisso scorgi un amore più forte del male. Una visione che convince, come il martirio.

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