DON ANTONIO

lunedì 29 agosto 2011

BERNARDETTA E LA SOFFERENZA E LA SPERANZA

Rm 5,1-5
1 Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 3 E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza. 5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Nei capitoli precedenti della Lettera ai Romani, in particolare in Rom 3, 21-31, Paolo mostra come tutti gli uomini, presentati nella dualità di “giudei e pagani”, si trovino in uno stato di ingiustizia e di peccato, descrivendo anche come avvenga il recupero della dignità di figli di Dio, detto in termini più tecnici, la nostra “giustificazione ”: il passaggio, cioè, dallo stato di peccato allo stato di grazia, stato appunto di giustizia. Tutto è dovuto all’iniziativa gratuita di Dio che agisce mediante il suo figlio Gesù Cristo: Egli è “morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione” (4, 25).
Tuttavia, la salvezza operata da Gesù rimane chiusa in se stessa, se non è accolta dal credente; per questo, ogni fedele deve partecipare a quest'opera di Dio e, in certo senso, farla propria, accogliendola con la fede: ecco perché i termini fede/credere ricorrono con insistenza nei cc. 1-4; la parola “fede” compare poi ancora due volte, in 5,1 e 5,2, e non più fino alla fine del cap. 9. Paolo, infatti, sta avviando il suo discorso sul compimento di salvezza partendo proprio dalla certezza della giustificazione presente: essa dà fondamento alla speranza della vita eterna (5,1; 8,81-34). Si afferma poi che le tribolazioni e la speranza sono strettamente legate (5,3-4; 8,35-37) e che la fiducia nella salvezza finale poggia sull’amore di Dio manifestato nella morte di Cristo (5,8; 8,35-39) e riversato dallo Spirito nel cuore dei cristiani (5,5). Quanto affermato ci fa capire che 5,1-5 costituisce la prima parte di uno sviluppo unitario di pensiero che include anche 5,6-11.
a) fondamento della vita eterna (vv. 1-2)
v. 1 Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore,
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio;
v. 1 Giustificati dunque per fede: è un’espressione concisa e lapidaria che ha la funzione di riassumere in modo sintetico ed incisivo il centro dell’unità 4,1-25 e soprattutto di 3,21-31. Tuttavia mentre nelle suddette divisioni il punto di arrivo è proprio l’idea di giustificazione, in 5,1 essa costituisce il punto di partenza per un ulteriore sviluppo teologico. La congiunzione “dunque” ha in questo caso una forza argomentativa e non solo
conclusiva. Mentre, infatti, in 3,21-26 Cristo viene messo in relazione con l’opera di giustificazione, ora in 5,1 essa è strettamente collegata con i suoi frutti: “ abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore ”'. L’opera di Cristo risulta alla fine da una triplice esplicitazione: “dono della pace”, “accesso alla grazia nella quale si muovono i giustificati”, e “vanto nella speranza della gloria di Dio”. All’azione passata di Dio (giustificati) corrisponde per il credente un presente salvifico, l’aver pace con Dio, con cui si descrive la stessa pace escatologica che in 2,10 veniva promessa per il “giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (2,5) per coloro che operano il bene. La pace è “la felicità perfetta” e al tempo stesso “il dono di Dio” per eccellenza, tanto che Rom 14, 7 definirà la condizione cristiana: “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Si tratta infatti, della pace con Dio, quella che Paolo al versetto successivo chiama una grazia, cioè un favore assolutamente gratuito. Il Signore Gesù Cristo, ci ha ottenuto di aver accesso, con la fede, a questa grazia nella quale siamo integrati.
In 5,1 l’apostolo vuole presentare l’intero processo salvifico che accompagna ogni credente, processo che parte dal passato (giustificati), attraversa il presente (abbiamo, abbiamo avuto, stiamo) e tende al futuro (nella speranza della gloria di Dio). L’agire di Dio è, insomma, dinamico e progressivo per condurci alla pienezza esperienziale del suo amore.
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo
La fede è connessa alla giustificazione e il ruolo di Cristo è quello che regge tutta la vita cristiana: così la formula “per nostro Signore Gesù Cristo”, utilizzata già all'inizio della lettera (Rom 1, 5) e richiamata alla fine del capitolo precedente (4, 25), scandirà per così dire, come un ritornello, ciascuno degli sviluppi del proseguo della lettera, ritornando anche alla fine dei cc. 5, 6, 7, 8. Cristo è la porta di comunione con il Padre. L’espressione “abbiamo accesso” è al presente per indicare che Cristo ci introduce non una volta sola, ma in continuazione in una dinamica di relazione che si rivela come relazione filiale nei confronti di Dio Padre. Si tratta di un accesso durevole e stabilizzato: possediamo stabilmente “questa grazia nella quale stiamo”.
e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio: non soltanto ci troviamo in uno stato aperto al flusso della « grazia » divina, ma conduciamo un'esistenza sorretta e confortata da un “vanto” da un “gloria” straordinaria: quella di una umanità rinnovata, a tale punto avvicinata a Dio e segnata dalla grazia di Dio, da potere tendere con speranza sicura alla “gloria di Dio” che le è stata riservata. Questa affermazione è il vertice della dignità cristiana promessa da Dio.
Il dono già concesso tende per proprio dinamismo al conseguimento di una perfezione celeste, la quale è detta appunto « gloria di Dio ». Tanta verità è incarnata in esistenze concrete e suscita una speranza commisurata. Tale speranza, a sua volta, coincide con un senso insieme umile e fiducioso di celebrante sicurezza. Paolo non pretende che la speranza cristiana sia un “vanto” psicologicamente avvertito dai singoli fedeli. Egli, però, desidera proporla come un privilegio insito oggettivamente nella novità di un'esistenza segnata da Cristo, cogliendovi una definizione della dignità umana, sorta dalla
grazia di Cristo e confermata dai tesori di potenza e d'amore operanti nel vangelo divino della salvezza.
Va ricordato che questo “vanto”, affermato in un contesto in cui si celebra la grandezza del dono di Dio, non può essere il « gonfiarsi » vano di persone che si ergono autonome al cospetto di Dio, riponendo la loro fiducia in motivi estranei alla verità di Dio. È invece, come si preciserà a conclusione della pericope, un « vantarsi in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo » (v. 11). Si tratta, quindi, di un « vanto » tipicamente evangelico che può descriversi come un senso di sicurezza gioiosa col quale una umanità nuova, percependosi oggetto e sede dell'amore-potenza di Dio, si riconosce rivestita di ricchezza e dignità e come tale avanza nel cammino terreno della fede. Da una parte, è un “vanto” pieno d'umiltà e di gratitudine, essendo il privilegio di credenti che hanno aderito ed aderiscono tuttora alla verità del vangelo divino della misericordia, ed hanno accolto ed accolgono tuttora il dono gratuito della giustificazione divina; dall'altra parte, è un vanto pieno di sicurezza e di fiducia, essendo come il volto fiero e lieto di una speranza prodigiosa. « Ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio »: è un riconoscere e proclamare, nell'umiltà e nella fiducia, nella verità e nella piena sicurezza, nella fede e nell'entusiasmo ammirato, che si ha il privilegio e la dignità di camminare in novità di vita, tesi al possesso della « gloria di Dio », come al raggiungimento di una compiutezza verso la quale si è personalmente orientati
b) Il vanto di una speranza tribolata (vv. 3-4)
v. 3 non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza
v. 4 la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza.
I vv. 3-4 mostrano che tanto privilegio e tanta dignità non sono dei concetti teorici, ma esprimono una realtà vissuta nella concretezza quotidiana di un cammino ancora onerato da precarietà terrena.
La “pace con Dio”, “l’accesso” stabile alla “grazia” del vangelo, che diventa motivo di “vanto/gloria” e di speranza che non delude, sono vissuti nondimeno in mezzo alla “tribolazione” come in un suo ambiente terreno caratteristico. Non per questo, però, scade il “vanto” asserito precedentemente: anzi, la tribolazione stessa, per il fatto che rientra nella dinamica di un'esistenza tutta segnata dalla “grazia” e dalla verità del vangelo, si trova a rafforzare i motivi per cui ci è dato di trovare nella “speranza della gloria” un nostro “vanto” fondato e gradito a Dio.
Anzitutto viene presupposto che la tribolazione non è affatto casuale, ma è la condizione prevedibile, anzi in qualche modo necessaria, di chi porta quaggiù nella fedeltà della coerenza il segno di Cristo, di chi è chiamato dalla sua stessa identità battesimale a “partecipare alle sofferenze di Cristo”. Il cammino, dunque, della fede e della speranza, quel rispondere quotidiano al Dio che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2, 12), è necessariamente un “aspettare la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1, 7) con il coraggio e la saldezza di una “perseveranza” che è come l'alimento e la riprova concreta di un'esistenza cristiana autenticamente vissuta.
Ben sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la perseveranza una virtù provata… (v. 3). L'Apostolo affronta il tema della speranza, e lo mette in evidenza contrapponendolo alla tribolazione che, apparentemente, sembrerebbe negare la stessa speranza. Paolo, invece, vede in queste tribolazioni la conferma della medesima, come mostrano sia il valore qualitativo-escatologico di “nelle tribolazioni” (può essere che con esse Paolo abbia voluto indicare la realizzazione dei beni messianici), sia l’argomentazione che Paolo fa seguire in 5,3b-4: essa, partendo da una premessa che si fonda su un sapere religioso, si muove su una stretta linearità deduttiva, descrivendo il dinamismo interno della fede: la tribolazione opera la costanza, questa una virtù provata, la virtù provata la speranza, il cui fondamento (5,5) è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano.
L'esperienza della fede dice che l'autenticità cristiana è coerenza perseverante; dice pure che questa nasce e si sviluppa, per quanto in modo misterioso, nel terreno immancabile e provvidenziale della tribolazione.
L'argomento tuttavia, procede oltre. Il « vanto » cristiano di cui si parla nel v. 3 è lo stesso “vanto” affermato nel v. 2 e, pertanto, è strettamente legato alla “speranza”. Ciò significa che se il credente ha il privilegio di vantarsi “anche nelle tribolazioni”, il motivo ne è che la tribolazione (thlipsis) non soltanto l'interpella come un invito alla perseveranza e come una riprova di autenticità personale, ma è da lui vissuta come un'esperienza caratteristica della sua dignità nuova nella “grazia” di Cristo, in quella “grazia”, cioè, di cui era stato detto che i “giustificati per fede” hanno ottenuto “accesso” stabile (v. 2). Il “vanto” cristiano, senso della propria dignità in Cristo, è costituzionalmente fondato sulla realtà della “grazia” e non può in alcun modo essere motivato da valori, meramente ascetici come, ad esempio, la “perseveranza” e la “virtù provata”, prese in se stesse. Occorre quindi che queste, insieme con la “tribolazione” che ne è il terreno di crescita, siano comprese e vissute nella “grazia” e colte come una testimonianza sia della ricchezza della grazia medesima sia della dignità di un'esistenza misericordiosamente qualificata da Cristo.
Ci vantiamo anche nelle tribolazioni: è tanto il “vanto” che nasce dalla “speranza della gloria” ed è fondato su premesse tali di “grazia” divina, da trovare perfino nelle “tribolazioni” un motivo convincente di gioiosa fiducia nelle divine promesse gloriose. La “tribolazione” è di per sé testimonianza di precarietà, di debolezza e di fragilità. Ma se viene accolta e vissuta nella grazia di Cristo, invece di indurre allo scoraggiamento, può portare un frutto inatteso, rivelatore di quanto ricca di grazia divina sia l'esistenza nuova dei credenti-giustificati. Con la tribolazione, infatti, la loro stessa speranza è rafforzata e ravvivata, e, insieme con la speranza, il vanto stesso è alimentato e confermato, divenendo sicurezza fiduciosa e fiducia gioiosa in modo ancor più convincente. Quella di Paolo sembra una affermazione che sa di follia; l’esperienza, infatti, ci dice che la tribolazione spezza le forze fino a far alzare la voce verso Dio. Ciò che l’Apostolo afferma non è comprensibile secondo una logica umana, ma soltanto alla luce del progetto di redenzione e di salvezza: “là dove è abbondato il peccato (quindi ogni genere di povertà) ha
sovrabbondato la grazia”: fuori della “grazia” la tribolazione diventa solo disgrazia!
Il credente non desidera la tribolazione e ne sente tutto il peso quando è presente, tuttavia non la esclude dalla propria vita, perché accetta la “logica” della grazia, mediante la quale si opera la trasformazione, allora la tribolazione dischiude la perseveranza e questa una virtù provata. Riguardo a questo ultimo termine, il greco usa il vocabolo dokimê, ma forse più che “virtù provata” è meglio tradurre con “discernimento”, “valutazione”. In tal modo si afferma che nei riguardi delle tribolazioni abbiamo una diagnosi in profondità, quella che Paolo fa, per esempio, in 2Cor 12,1-11, quando colloca le tribolazioni nel quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza. La pazienza permette un discernimento che la superficialità o l’istantaneità dell’accadimento non riesce a cogliere; siamo dunque rimandati ad una lettura della vita letta alla luce della fede e dello Spirito.
L’insegnamento che Paolo offre in questi versetti apparteneva alla catechesi della chiesa di Antiochia che esortava i fedeli “a stare saldi nella fede, perché è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Tale insegnamento corrisponde anche alla promessa che Gesù aveva fatto ai suoi discepoli: “voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia…” (Gv 16,33). Così, quando la tribolazione si era presentata sul loro cammino - ciò che era regolarmente avvenuto - non avevano potuto lamentarsi di non essere stati avvisati e preparati alla sua venuta. La tribolazione, la sofferenza è la normale esperienza dei credenti, ma per essi diventa opportunità di gioia: “a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29).
Secondo l’Apostolo quello presente è il tempo contrassegnato dalle sofferenze, anche se esse non hanno nessun confronto con la gloria che si rivelerà in noi (cfr Rom 8,18; 2Cor 4, 17). Solo se condividiamo la logica di amore di Gesù, partecipando cioè alle sue sofferenze, prenderemo parte alla sua gloria e saremo coeredi insieme con Lui (cfr Rom 8,17). Il tema della sofferenza occupa un posto centrale nel pensiero di Paolo: nelle sue lettere ci si imbatte in una multiformità del patire che è sia fisico ed esteriore, sia psicologico ed interiore (1Ts 3, 7; Rom 8, 35; 2Cor 2, 4;1; 6, 4; 12, 10; Fil 1, 17…). Per lo più, la sofferenza, esteriore od interiore che sia, indica la tribolazione subita a motivo di Cristo e della fede, sia da parte dei credenti in genere che dall'Apostolo in prima persona (1Ts 1, 6; 3, 3.7; 2Ts 1, 4-5; 2Cor 1, 4-7; 4, 8-12; 6, 4-5; 7, 5; Fil 1, 12.20.29-30…). Questa «tribolazione», cristiana ed apostolica (ved. le drammatiche testimonianze date in 1 Cor 4, 9-13; 2 Cor 4, 8ss.; 6, 4ss.; 11, 23ss.; 12, 10 … ) è l’esperienza sofferta di una « debolezza » innegabile (2 Cor 4, 7; 11, 30; 12, 7-10) e di un disfacimento che equivale ad un morire quotidiano (2 Cor 4, 11.12.16; cf anche 1 Cor 4, 9; 2 Cor 1, 9), ma Paolo la comprende e la vive alla luce del mistero pasquale, con la fiducia sicura e lieta della speranza (Rom 8, 17.18.35-39; 2 Cor 1, 5; 4, 7-12.16-18; 6, 10; 12, 9-10; Fil 1, 19-20.27-30; 3, 10-11; 4, 13; Col 1, 24…).
v. 5 Ora la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
La speranza per Paolo non è una carta bianca sul futuro, piuttosto è simile ad un bozzetto che deve essere sviluppato, ad un disegno che deve essere colorato, il cui progetto lo possiamo vedere realizzato in Cristo, nell’agire del Padre in Lui. Dio è colui che “dà vita a ciò che è morto e chiama all’esistenza le cose che non sono” (Rom 4,17). Il credente vive una realtà germinale in cui sa cogliere la potenza operante dell’amore di Dio, poco prima presentato come giustificazione, pace, accesso alla gloria. Lo sperare, perciò, non è una illusione o una delusione, né è un provare vergogna, come esprime meglio il significato del verbo greco, bensì “un vanto” di certezza che fa tendere alla pienezza della promessa salvifica. Si tratta di sicurezza, di fiducia, di senso della propria dignità nella grazia di Cristo - componenti tutte del predetto “vanto” cristiano. Non resterà confuso chi ha portato lungo il cammino tribolato della fede la speranza di possedere la “gloria di Dio”: anzi, egli ha ragione di “vantarsi” nella speranza che lo sta indirizzando verso la perfezione gloriosa della grazia, nella quale è già stabilito.
Perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri: Paolo fonda la nostra speranza sull'amore stesso con cui Dio ci ama, e di cui abbiamo una prova certa: è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già in possesso del cristiano E’ probabile che qui Paolo si riferisca al momento del battesimo, come stimano alcuni commentatori. Per ricordare poi in concreto che i credenti hanno già il dono dello Spirito, quale certezza dell’amore di Dio, si mette in evidenza come la presenza dello Spirito in noi attesta non solo l’amore di Dio, ma anche il nostro presente salvifico. Infatti, mentre gli uomini erano nell’impotenza e ancor più nella empietà (v. 6 cfr 1,18), proprio allora Cristo è morto per essi, per noi (v. 6). Questa frase sintetica, ripetuta con poca differenza in 8b, vuole dire che con la sua morte Cristo ha liberato gli uomini dall’impotenza e dalla empietà, cioè dal peccato. La prova di amore di Dio è messa ulteriormente in luce con la contrapposizione all’atteggiamento dell’uomo nei confronti del suo simile (cfr v. 7). Quindi la morte di Cristo assicura che la speranza del giustificato vedrà il suo compimento.
Mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato: la speranza, come la fede, ci insegna a distogliere lo sguardo da noi stessi e dai nostri meriti per fissarlo esclusivamente su Dio e sulla sua fedeltà: “ È fedele Iddio, grazie al quale voi siete stati chiamati alla comunione con suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore” (1Cor 1,9). Ma come può Paolo affermare l’amore di Dio, che evidentemente è in Dio e non in noi, e che è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato? Sono le ultime parole a suggerire la risposta. Il cristiano vive “nello Spirito”. Tutto il cap. 8 avrà questo come tema: il “figlio di Dio” è per definizione colui “che è condotto/animato dallo Spirito di Dio” (Rom 8,14). Per Paolo la guida dello Spirito non è un impulso sporadico, ma un'esperienza abituale del credente, mantiene qui ed ora la vita e la forza nello spirito dei credenti e dà, con la sua presenza in loro, la garanzia di essere amati. Infatti, lo Spirito Santo è l'amore reciproco del Padre e del Figlio, colui nel quale il Padre ama il Figlio e tutti gli uomini. In questo senso, cioè in virtù del dono dello Spirito, l'amore di cui Dio ci ama, abita nel cuore di ogni cristiano. In Rom 8,14-15, passo evidentemente parallelo a Rom 5, 5, l'Apostolo spiegherà che lo
Spirito Santo si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio, mettendoci sulle labbra la parola con la quale il Figlio si rivolge al Padre: “Abba”. Il fatto che “in Lui” noi possiamo invocare Dio come nostro Padre, testimonia che il Egli ci ama come figli, di più, ci ama come il Figlio unigenito in cui, secondo l'audace espressione di Gal 3, 28, noi formiamo “un solo essere vivente”.
Quindi lo Spirito di Dio porta una testimonianza che dà il proprio consenso allo spirito personale dei cristiani: essi sono figli di Dio. Ma vi è di più: i figli di Dio sono suoi eredi, eredi della gloria appartenente a Cristo per diritto speciale, unico, della quale gloria egli fa partecipi per grazia i suoi, rendendoli perciò coeredi con lui. Coloro che sperimentano in questa vita presente la comunione con le sue sofferenze possono essere sicuri, anche nel futuro, di prendere parte alla sua gloria.

http://www.unitalsi.info/public/web/documenti/bernadette_6.pdf

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