DON ANTONIO

domenica 8 luglio 2012

Riflessioni sulle letture 8 luglio 2012 (Manicardi) MONACO A BOSE




Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6


Il profeta incontra l’indifferenza, la diffidenza e il rigetto, ma la sua missione non dipende dall’audience, bensì dalla fedeltà alla parola di Colui che l’ha inviato. Ezechiele è mandato a un popolo ribelle ed egli dovrà svolgere la sua missione “ascoltino o non ascoltino”. La sua sola presenza e la sua parola scomoda saranno segno della premura di Dio che ha inviato un profeta al suo popolo (I lettura).
Gesù, nella sua patria, conosce l’incredulità dei suoi concittadini e formula il detto: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (vangelo).
Il vangelo apre uno squarcio sulla disillusione (“si meravigliava della loro incredulità”) che Gesù deve aver provato nei confronti dell’ambiente che l’ha visto crescere: la conoscenza alla maniera umana, “secondo la carne” (2Cor 5,16), diviene chiusura nei confronti dell’inviato di Dio. Per incontrare Gesù, o lasciarsene incontrare, occorre il salto della fede, il rischio della fede. Forse Gesù si meraviglia perché questa conoscenza è totalmente non dialogica: non domanda nulla, non chiede, non parla, ma giudica e rifiuta a priori, e, mentre rende Gesù oggetto di scandalo, impedisce di accedere allo straordinario che Dio può compiere in lui.
La conoscenza dell’altro non può essere fossilizzata e ingessata: l’identità di una persona è in divenire, e conoscere significa essere aperto al novum, alla sorpresa. Soprattutto quando si tratta di conoscere quel mistero inesauribile che è una persona. Nei confronti di Gesù la pur indiscutibile conoscenza delle sue origini conduce i suoi concittadini a non cogliere la sua identità profonda: essi lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro misura e alla loro statura. Ma l’altro è sempre più grande della conoscenza che ne abbiamo. La conoscenza che gli abitanti di Nazaret hanno di Gesù diviene inciampo, trappola, “scandalo” che impedisce la fecondità dell’incontro: “Si scandalizzavano di lui”.
Questo scandalo, per cui Gesù appare come sapiente misconosciuto (Mc 6,2), come profeta disprezzato (Mc 6,5) e come medico ridotto all’impotenza (Mc 6,5), non riguarda però solo i contemporanei di Gesù, ma trova una sua rinnovata versione anche riguardo alla conoscenza di Gesù oggi. E in profondità svela la difficoltà a credere radicalmente e autenticamente il vangelo, perché solo confessando Gesù quale Signore lo si incontra anche come medico, sapiente e profeta.
Medico ridotto all’impotenza. Se la fede viene ridotta a strumento di soddisfazione del bisogno umano, essa può conoscere una deriva tecnicistica e taumaturgica che la piega alla misura del destinatario il quale non compie più il movimento salvifico di apertura al mistero di Dio in Cristo. Allora la guarigione non è più segno di una salvezza escatologica, ma la salvezza diviene metafora di guarigione, essendo questa l’unica cosa sentita come importante. È la fede ridotta a farmaco, a psicoterapia o addirittura a magia. Profeta disprezzato. La parola profetica è disprezzata quando viene usata da un’ideologia, asservita a interessi di parte. Se Gesù parla di disprezzo del profeta nella sua patria, oggi la parola profetica è disprezzata e privata dalla sua valenza escatologica se non si asservisce alla patria, se non accetta di servire da collante nazionale, se non si fa distributore di valori etici. Se non si piega ancillarmente a una parola penultima.
Sapiente misconosciuto. Ovvero la riduzione del sapere dell’altro al mio sapere. L’intolleranza verso una sapienza altra è l’intolleranza verso la legittima e necessaria pluralità di sapienze, di ermeneutiche del reale, di sensi cercati e assegnati al vivere. La sapienza che è Gesù il Signore non si identifica con una filosofia o cultura, ma è realtà transculturale che orienta l’umano.
Come Gesù è stato ridotto all’impotenza da coloro che affermavano di conoscerlo meglio, così la fede può oggi essere resa insignificante proprio da coloro che pretendono di farsene paladini e difensori, ma in realtà la riducono alle proprie visioni del mondo e non accettano di lasciarsene mettere in discussione.

giovedì 28 giugno 2012

Riflessioni sulle letture 1 luglio 2012 (Manicardi) MONACO A BOSE




Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43


La volontà di Dio è la vita degli uomini (I lettura) e Gesù manifesta tale volontà guarendo una donna la cui vita era ormai sequestrata dal suo male e risuscitando una giovane già preda della morte (vangelo). Il contrasto tra vita e morte, presente nelle due letture, chiede all’uomo di accedere alla fede per ottenere liberazione, salvezza, pienezza di vita (vangelo).

Nel vangelo l’incrociarsi dei due personaggi (la donna affetta da emorragia e Giairo) mostra le diverse maniere con cui l’uomo, nel suo bisogno, si rivolge al Signore. Unico per tutti è il bisogno di vita, diverso il linguaggio che ciascuno esprime. Giairo, uomo con funzione sociale e religiosa importante, supplica, parla molto, ma ha anche il coraggio e l’umiltà di inginocchiarsi, di gettarsi a terra davanti a Gesù (Mc 5,22-23). L’emorroissa parla invece con il corpo, con il tatto, non dice parola alcuna, se non interiormente, tra sé e sé, per dotare di intenzionalità il suo toccare (Mc 5,27-28). Ognuno, nel proprio bisogno, va a Dio con il proprio linguaggio, cioè con tutto se stesso, con la verità di se stesso. Supplicare non è solo proferire parole che chiedono aiuto, ma è atto di tutta la persona che si “piega sotto”, si raggomitola all’ombra del Signore, si rifugia in lui cercando relazione e salvezza.
A Giairo, che ha ormai appreso la notizia della morte della figlia e ricevuto l’invito a non disturbare più il Maestro, Gesù dice di continuare ad avere fede (Mc 5,36); alla donna che ha toccato il suo mantello, Gesù proclama: “La tua fede ti ha salvata” (Mc 5,34). L’impotenza dell’uomo diviene luogo di dispiegamento della potenza di Dio. Giairo chiedeva la guarigione della figlia e deve scontrarsi con la sua morte; la donna chiedeva di essere salvata e Gesù attribuisce la salvezza alla sua fede. Siamo di fronte al misterioso potere dell’impotenza riconosciuta e assunta nella fede.
La fede non si limita a invocare vita e scampo dalla morte, ma è essa stessa traversata da una dinamica di morte e di vita. La fede cristiana è rischio mortale e possibilità impensata di vita. È l’atto con cui il credente partecipa al movimento pasquale della morte e della resurrezione di Cristo. Ponendo la propria fede nella fede di Gesù, il credente assume l’impotenza e la disperazione della sua situazione e, aprendosi alla potenza dell’amore di Dio, spera contro ogni speranza.
Il testo suggerisce la particolarità della comunicazione che la donna stabilisce con Gesù. Un contatto non verbale, tattile, ma carico di intenzione, che Gesù “sente” diverso dal contatto anonimo della folla che lo pressa.
Contemporaneamente Gesù sente una forza uscire da lui e la donna sente nel suo corpo la guarigione avvenuta. “Essa conobbe grazie al suo corpo … Egli conobbe in se stesso” (Mc 5,29.30): da parte della donna un’intelligenza corporea, da parte di Gesù una percezione interiore. Il coraggio della donna che, nonostante la sua condizione di “impura”, osa toccare Gesù viene letto da Gesù nella verità della sua intenzione profonda: la sete di guarigione e di vita. Il pudore stesso della donna che, colpita da emorragia intima, non domanda e non implora, ma si limita a toccare il mantello di Gesù, diviene linguaggio ascoltato da Gesù che, fonte della vita, guarisce colei che era colpita proprio nella sorgente della vita. Del resto, il toccare è sempre reciproco: mentre tocco, sono toccato da ciò che tocco.
Gesù opera due azioni di guarigione, ma conduce anche a pienezza di relazione sia la donna che Giairo. Chiedendo “Chi mi ha toccato il mantello?”, Gesù porta la donna a vincere il timore che la teneva nel nascondimento e a passare dal gesto alla parola fino a dirsi davanti a lui, anzi, fino a dirgli “tutta la verità” (Mc 5,33). Nel caso di Giairo, che lo supplicava “molto” (Mc 5,23), e della sua casa in cui molta gente urlava e faceva trambusto, Gesù fa compiere un cammino che dalla parola e dal rumore va al silenzio. Solo nel silenzio si può discernere la verità della situazione: “la bambina non è morta, ma dorme” (Mc 5,39). L’occhio della fede vede nel silenzio.

sabato 23 giugno 2012

La parola della domenica 24 Giugno 2012 (Casati) BOSE




Gb 38,1.8-11
2 Cor 5,14-17
Mc 4,35-41

Rileggendo quest'anno il brano di Marco, il brano della tempesta sedata, mi veniva spontaneo pensare come ci capiti a volte di riandare a questo brano quando celebriamo un matrimonio e anche quando accompagniamo qui per l'ultimo saluto uno dei nostri cari; forse potremmo leggerlo anche nel giorno di un Battesimo.
E mi chiedevo: perché? Perché il dilagare di questo brano in situazioni così diverse della nostra vita? Forse perché tutta la nostra vita può essere evocata sotto il simbolo della traversata, del passare all'altra riva. Quel giorno verso sera Gesù disse: "Passiamo all'altra riva". La vita che sta davanti a un bambino è una traversata; il matrimonio, questa avventura a due, è una traversata; ogni vocazione è una traversata; la morte è una traversata. Ma forse ogni giorno, ogni giornata è arrivare a sera a un'altra riva. Traversata è ogni progetto; ogni progetto del cuore è sognare e tendere all'altra riva. "Nel frattempo si sollevò una grande tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena". E anche questa è condizione comune, condizione comune di ogni traversata: la tempesta, le bufere, le bufere della vita. Non è che ce le mandi Dio. A volte abbiamo uno strano modo di ringraziare Dio e lo ringraziamo di averci salvati dalle inondazioni. Ma, allora, dovrebbero imprecare contro Dio quelli che hanno la barca è inondata? La bufera fa parte della vita. E non ci sono solo le bufere esteriori. A volte le più terribili sono quelle interiori. Un teologo, profondo conoscitore dei labirinti dell'inconscio, scrive: "Abbastanza spesso, proprio quando smettiamo di affaccendarci esteriormente, il nostro cuore comincia a rimbombare come un oceano sferzato da raffiche di vento e noi piombiamo nella paura di noi stessi, non ci raccapezziamo più, e vorremmo proteggerci senza sapere in che modo, come se incappassimo nell'occhio di un ciclone, che ci risucchia irresistibilmente nel profondo con sempre maggiore rapidità" (E. Drewermann - Il vangelo di Marco, pp. 144-145). Ecco, il vangelo di Marco sembra suggerirci che sarebbe sogno vano pensare di non avere a che fare con questo mare, e invece è da sapienti imparare a conviverci. è suggestivo, fino quasi a diventare un simbolo, l'esempio di Gesù che dorme sulla barca. Se, sull'esempio di Gesù, cercheremo di raggiungere una calma più profonda nel nostro intimo, allora le onde si acquieteranno e il vento si placherà. "è importante" - scrive Drewermann - "raggiungere, al di là della zona dell'angoscia psichica, il luogo nel quale la tempesta si placa". "Bisogna ancorare profondamente la barca della nostra vita e confidare nel punto in cui, al di sotto del mare agitato, più abissale ancora dell'abisso, un solido fondale ci fornisce l'appiglio". Questo Dio, che dorme sulla barca scossa dalla tempesta, dal vento, sembra dirci: confida nella mia presenza, anche se ti sembro assente, io ho il potere di placare la bufera e di avvicinare l'altra riva, lascia dormire il tuo cuore nella pace. Ancorarsi in Dio e imparare a "dormire" nella tempesta. Ancorarsi in Dio e imparare a dormire anche per l'ultima tempesta. Senza scampo un bel giorno verrà il momento in cui né medici, né preti, né consiglieri, né altri interventi esterni potranno più aiutarci, il momento in cui noi saremo arrivati alla fine dell'esistenza, dove ad attenderci sarà la morte. E allora per l'ultima volta sarà importante trovare quiete contro l'angoscia; allora sarà ancora più decisivo ancorarsi in Dio e imparare a dormire nella tempesta.
Fonte:sullasoglia

venerdì 22 giugno 2012

O Signore, donaci il tuo cuore. Foto di produzione personale

O Signore, donaci il tuo cuoreSii tu, o Signore,
ad amare attraverso di noi.
Donaci il tuo cuore per amare Dio,
nostro Padre,
donaci il tuo cuore per amare Maria,
nostra Madre,
donaci il tuo cuore per amare
i tuoi fratelli, che sono anche i nostri.
E donaci tanto fiato
e aiutaci ad avanzare verso il domani
senza guardare indietro,
né misurare lo sforzo,
per sperare di nuovo,
come se la vita incominciasse quest'oggi.
Donaci il tuo spirito,
perché ci suggerisca la preghiera dal profondo,
quella che in noi sale a te,
quella che invoca il tuo ritorno.
Signore, ho bisogno dei tuoi occhi:
dammi una fede viva.
Ho bisogno del tuo cuore:
dammi una carità a tutta prova.
Ho bisogno del tuo spirito:
dammi la tua speranza
per me e per la tua Chiesa.
Affinché la Chiesa di oggi
sia una testimonianza per il mondo.
E il mondo riconosca i cristiani
dal loro sguardo luminoso e sereno,
dal calore del loro cuore
e da quell'ottimismo invincibile
che sgorga dalla fonte nascosta
e inalterabile della loro gioiosa speranza.


CARD. LÉON-JOSEPH SUENENS



“L’amore del prossimo” di ENZO BIANCHI PRIORE DI BOSE




L'articolo di Paola Radif.
 

Enzo Bianchi al Ducale
“L’amore del prossimo”

Parlare al cuore con un linguaggio razionale, con concretezza e senza sentimentalismi, è forse la via più efficace per lasciare un segno. Così sembra che avvenga ogni volta che Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, ritorna nella nostra città. Al suo invito Genova risponde sempre con entusiasmo e generosità e così è stato anche in occasione dell’incontro sul tema “L’amore del prossimo”, svoltosi mercoledì scorso a Palazzo Ducale.


Davanti al pubblico che affollava la sala del Maggior Consiglio il relatore ha affrontato un argomento in apparenza molto semplice da comprendere: eppure quante riflessioni possono scaturirne, quante “scoperte” possiamo dire che ne emergono!
Un percorso lungo i sentieri dell’amore del prossimo, accompagnati da Enzo Banchi, può portare in una direzione nuova, può aprire prospettive inaspettate e, soprattutto, chiarire il significato stesso delle parole. In un tempo in cui è facile sentirsi chiedere un aiuto per il prossimo o essere invitati a intraprendere iniziative di carità è importante capire che cosa in realtà s’intenda per amore del prossimo.
Enzo Bianchi ha dapprima osservato che ogni cultura riconosce in qualche modo l’esigenza di fare agli altri ciò che si vuole fatto a noi stessi, e così il suo contrario, cioè non fare agli altri ciò che non si vorrebbe per se stessi. In particolare, poi, nell’Antico Testamento troviamo questo concetto espresso in un comando che viene sviluppandosi nei secoli fino a realizzarsi pienamente nella vita di Gesù, vero “paradigma di cosa sia l’amore del prossimo”. In lui trova infatti completa espressione l’antico comandamento, prima ancora di essere riformulato a parole.
Ci sono tanti tipi di amore, ha proseguito Enzo Bianchi, da quello che lega genitori, figli, educatori, a quello tra amici, o tra uomo e donna. Ciascuno ha caratteristiche precise: l’uno nasce da legami di sangue, l’altro da affinità o esperienza condivisa, l’altro ancora da attrazione sessuale e bisogno di uscire dalla famiglia per costruire una nuova vita in cui essere protagonisti.
Ma c’è un altro amore, quello verso il prossimo, che non può nutrirsi della logica degli amori di cui si diceva prima e sono tante le maniere in cui esso si esplicita. Ecco, allora, l’importante interrogativo: “Siamo capaci di comprendere la categoria della prossimità?”
Con dispiacere si deve riconoscere che il titolo di un libro del sociologo e filosofo Luigi Zoia: “La morte del prossimo” è assolutamente attuale: noi oggi non sappiamo vivere la prossimità. Eppure, anche se non conosciamo chi ci sta accanto, non sappiamo la sua lingua né lui la nostra, tuttavia possiamo farci vicini a lui. “Prossimo è colui che io rendo vicino”: ecco la ricetta di Enzo Bianchi.
Sono tante le cause che provocano la “morte” del prossimo.
Noi crediamo di comunicare avvicinandoci in tempo reale a chi si trova a grande distanza da noi, ma questo non crea prossimità, anzi, l’illusione di avvicinarsi grazie a mezzi di comunicazione sempre più sofisticati è una delle malattie più gravi del mondo di oggi. Solo la prossimità fisica rende possibile una vera relazione. Senza di essa si passa con facilità dalla solitudine all’isolamento. È questo il rischio che corrono vecchi e malati, che hanno bisogno della presenza dell’altro. “L’amore del prossimo è per chi io rendo vicino: quando lo rendo vicino potrò amarlo” ha continuato Enzo Bianchi. Per un vero colloquio, ha aggiunto, dobbiamo vedere il corpo dell’altro, sentire il suo odore, guardarlo negli occhi.
Ritornando all’Antico Testamento, il relatore ha sottolineato che mentre nel Levitico (Lv 19,18) si dice: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” a conclusione di una serie di comandi, in base ai quali ogni israelita era chiamato ad avere col prossimo una relazione fraterna contrassegnata da amore, ben tre volte si trova nella Bibbia l’esortazione: “Amerai lo straniero che risiede presso di te”. Dunque, il prossimo non era solo il fratello ebreo ma anche chi si fosse rifugiato nel suo territorio, per lavoro o per altri motivi. Amare come te stesso indica che devi prima amare te stesso e questo è possibile quando percepisci te stesso come creatura di Dio. Solo allora puoi amare l’altro. Si potrebbe dire: “Ama il tuo prossimo perché è come te stesso” o meglio, come dice Martin Buber: “Ama il prossimo perché è te stesso”.
Il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento sempre su questo tema è stato poi condotto per mezzo di un commento alla parabola del buon samaritano. Il dottore della legge che interroga Gesù sembra chiedergli qual è il più grande comandamento della Legge, quasi per cercarne uno che possa contenere gli altri o sovrastarli, tenendo conto che l’ebreo aveva ben 613 comandamenti da osservare. Ma il punto cruciale è la seconda domanda, provocatoria: “Chi è il mio prossimo?”. Una domanda, questa, che secondo E.Bianchi è sbagliata in quanto obbliga a fare una classifica, dove c’è chi ha più titolo a essere aiutato rispetto ad altri meno vicini o significativi. Ecco allora che Gesù, dopo il racconto, capovolge la domanda, dicendo: “Chi si è fatto prossimo di colui che era nel bisogno?”. Gesù, con questo, vuole far capire che è decisivo mettersi accanto all’altro non tanto perché povero, malato, handicappato, ma semplicemente perché è un uomo, una donna come noi.
Non si tratta di farci vicini per fare la carità ma farci vicini per dare la nostra presenza.
In una inedita rilettura della stessa parabola Enzo Bianchi ha voluto poi inserire ognuno di noi al posto del samaritano. Ma ci ha immaginati senza cavalcatura, senza danari, senza olio e vino per lenire le ferite di chi sta davanti a noi e si è domandato che cosa ancora avremmo a disposizione per farci prossimo.
Quando sembra di non poter più fare nulla resta pur sempre la possibilità di porci accanto a chi è solo, malato, disperato, tenergli la mano, stenderci vicino a lui. Dovessimo anche accompagnarlo fino all’ultimo respiro, anche noi ci saremo fatti prossimo, come il samaritano del vangelo di Luca.
Paola Radif

sabato 16 giugno 2012

Riflessioni sulle letture 17 giugno 2012 (Manicardi) BOSE




Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,5-10; Mc 4,26-34


Ezechiele parla dell’azione di Dio con linguaggio allegorico e Marco parla del Regno di Dio con linguaggio parabolico.
L’azione di Dio può essere detta, o meglio, evocata, mediante un linguaggio che parla di inizi modesti, anzi, pressoché invisibili, ma destinati a uno sviluppo futuro rigoglioso e grandioso.
“Come rassomiglieremo il Regno di Dio? O In quale parabola lo metteremo?”. Così, letteralmente, dice Mc 4,30. Ovvero, come parlare del Regno di Dio? Che linguaggio adottare per annunciare il vangelo? Gesù utilizza un linguaggio parabolico, sapienziale, concreto, non astratto, non dogmatico, né teologico. Un linguaggio narrativo aderente al reale. Gesù parla di Dio narrando storie di re e di pescatori, di seminatori e di contadini. Un linguaggio profondamente umano, semplice, comprensibile, che attua una comunicazione aperta, inglobante e non escludente. Come noi, oggi, parliamo delle “cose del Padre”? Come far diventare buona comunicazione la buona notizia del vangelo, se non lasciando alla parola di Dio la sua forza di evocazione del mistero e di coinvolgimento del destinatario? Il vangelo chiede di essere annunciato non come sapere chiuso che esprime la sapienza di chi lo predica o come dottrina che manifesta un Dio inaccessibile, ma come offerta di vita e di relazione per chi lo ascolta. Come benedizione. Altrimenti si rischia di soffocare la buona notizia con una cattiva comunicazione: annunciare il vangelo “contro”, piegarlo a precomprensioni parziali, edulcorarne le esigenze, dimenticarne la dimensione di perdono e di misericordia.
Alla luce della parabola del seminatore (cf. Mc 4,1-20) in cui si afferma che “il seminatore semina la parola” (Mc 4,14), si comprende che Gesù qui sta parlando dell’efficacia della parola di Dio. Il seme seminato germoglia e completa la sua crescita senza intervento del seminatore (Mc 4,27-28). Ma di quale efficacia si tratta? Ora, l’efficacia della parola, così spesso affermata nelle Scritture (cf. Is 55,10-11; Eb 4,12), non va intesa in senso mondano e pensata come misurabile in termini quantitativi: la parola di Dio è sempre “la parola della croce” (1Cor 1,18) e la sua efficacia è dello stesso ordine dell’efficacia salvifica della croce: potenza di vita celata nell’impotenza di un crocifisso. Esattamente come il Regno di Dio che è simile a un seme gettato e che deve essere sepolto nella terra per germinare. Del resto, il seme, simbolo della parola di Dio e del Regno di Dio, non è anche segno di Cristo stesso e della sua Pasqua, della sua morte e della sua resurrezione? “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto” (Gv 12,24). Caduta nel cuore di un uomo, la parola di Dio deve rimanervi, essere interiorizzata, ascoltata sempre di nuovo con perseveranza, deve essere fatta regnare sulle tante altre parole che distraggono dall’essenziale, fino a divenire principio di discernimento e di azione, dunque di carità, di misericordia, di perdono, di giustizia, di verità. E l’uomo che avrà coltivato così nel proprio cuore la parola di Dio sarà da essa rigenerato e ne mostrerà l’efficacia nel suo stesso vivere, senza esibizionismi, “come, egli stesso non lo sa”.
Spesso le parabole che Gesù narra sono seguite dall’incomprensione degli uditori e dalle spiegazioni che Gesù fornisce ai suoi discepoli (cf. Mc 4,34). In effetti, il linguaggio semplice delle parabole rivela mentre cela, e richiede un’intelligenza umile e non arrogante, una sapienza, una capacità di cogliere in unità la terra di cui narrano le parabole e il cielo a cui alludono. L’intelligenza del mistero non va confusa con la conoscenza e ancor meno con l’informazione, ma si situa sul piano della sapienza. E la sapienza, etimologicamente, abbraccia in sé tanto il sapere, quanto il sapore, tanto la mente quanto il palato, tanto lo spirito quanto il corpo. Un’intelligenza capace di gratitudine e aperta al dono perché il mistero del Regno non è conquista degli intellettuali, ma dono accolto dai semplici e dai piccoli (cf. Mt 11,25).

martedì 12 giugno 2012

Pastori e pecore nella Scrittura dal sacrificio di Abele ai vangeli dell'Infanzia (Ravasi)



Pastori e pecore nella Scrittura dal sacrificio di Abele ai vangeli dell'Infanzia (Ravasi)


"Il gregge avanzava dietro un maschio adulto; a un certo punto una pecora gravida si fece inquieta, si arrestò, rimase indietro, colta dalle doglie. Il pastore le passò accanto indifferente. Sapeva che il parto sarebbe stato veloce e che, trattandosi di un animale gregario, la pecora si sarebbe affrettata a rientrare velocemente nel gruppo. Appena partorito, infatti, la pecora leccò il nuovo nato, poi fece un balzo e si mise a correre trascinandoselo dietro. Solo allora il pastore tornò sui suoi passi, prese con sé l'agnello tremante e lo portò vicino a un fuoco per riscaldarlo". Leggiamo questa strana scenetta di vita pastorale tra gli appunti di Jacob Becker, un ebreo di Odessa rifugiatosi in Palestina agli inizi del secolo scorso per sfuggire a un pogrom zarista: giunto a Hebron, la città dei patriarchi biblici, si era offerto come aiuto-pastore a un beduino. Da quelle pagine affiorano ricordi duri e la rappresentazione del mondo dei beduini (termine arabo che significa "nomadi") è disincantata, aspra, segnata dalla miseria, dalla sete, da micidiali calure e da notti gelide.
Per questi uomini, che spesso distano spazialmente da Gerusalemme una decina di chilometri, ma secoli per usi e tradizioni, la patria, la vita, la casa sono tutte in quel deserto che costituisce ampie porzioni di Israele, ma soprattutto della Giordania e in particolare del Sinai. In questa steppa pietrosa, che a primavera per pochi giorni è avvolta da un velo di verde ma che è anche punteggiata da oasi quasi miracolose come quella di Gerico (5 chilometri di diametro), i pastori nomadi si spostano rispettando catasti territoriali solo "orali", tramandati nei secoli. La migrazione, a partire dalla grande transumanza di primavera, non ha mai percorsi casuali ma segue fili misteriosi eppure precisi, sotto cieli tersissimi che lasciano piovere un calore e una luce abbagliante (la temperatura diurna estiva può oscillare tra i 40° e i 50° all'ombra). Cieli che solo d'inverno lasciano cadere acqua, ma che offrono al pastore gli orologi cosmici della luna e delle stelle. Il ritratto più suggestivo del nomade e del suo gregge è comunque in quella deliziosa lirica orante che è il Salmo 23: il pastore "su pascoli erbosi fa riposare il suo gregge, ad acque tranquille lo conduce, rinfranca, guida per il giusto cammino. Se il gregge dovesse percorrere una valle oscura, non temerebbe alcun male perché con lui è il pastore. Il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza". 
Ma se la Bibbia - come vedremo - esalta la vita pastorale in modo nostalgico, memore delle sue radici nomadiche tipizzate nei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe ma anche in Mosè e Davide, è altrettanto vero che i pastori sono stati sempre visti con disprezzo e terrore dai sedentari, un po' come da noi oggi sono considerati gli zingari. Così, nella letteratura accadica i pastori sono chiamati "il nulla che viene dalla steppa"; quella sumerica ci ha lasciato questa fisionomia del nomade: "Hanno apparenza di uomini ma la loro voce è quella del cane della prateria"; gli Sciti li chiamavano "i draghi dei monti", mentre altre culture li comparavano a briganti affamati o a cavallette insaziabili. Degli Egiziani, che furono conquistati e sottomessi attorno al 1700 antecedente l'era cristiana dai nomadi Hyksos, la Bibbia ricorda la ripulsa a pranzare coi pastori: "Per loro questo è un abominio" (Genesi, 43,32). Anzi, la stessa Bibbia in una delle sue pagine d'apertura narra il tragico odio di un sedentario, l'agricoltore Caino, nei confronti del pastore beduino Abele (Genesi, 4).
Tre sono i tesori del pastore. Il primo è la tenda che nella lingua accadica è detta "casa della steppa" e in arabo "casa di pelo". Quando l'umanità costruì quella che forse è la prima città della storia tra il 9000 e il 7000 prima dell'era cristiana, proprio nell'oasi di Gerico, modellò la casa sulla tenda circolare dei pastori. Inoltre, quando Israele progettò il suo primo tempio, l'arca dell'alleanza, il santuario mobile dell'Esodo, lo delineò secondo lo schema della tenda dei pastori. Infatti la descrizione dell'arca offerta dal libro dell'Esodo corrisponde visivamente proprio all'espressione principale con cui la si definiva: la "tenda dell'incontro" tra Dio e il suo popolo. Il secondo tesoro è l'acqua dei pozzi (possono raccogliere fino a 13.000 litri d'acqua sorgiva), che erano il centro sociale, culturale, "diplomatico" delle tribù nomadiche, come è spesso attestato anche dalla Bibbia, che, tra l'altro, ci conserva un antichissimo canto degli scavatori di pozzi: "Sgorga, o pozzo, cantatelo! Pozzo che i principi hanno scavato, che i nobili del popolo hanno perforato con lo scettro, coi loro bastoni" (Numeri, 21,17-18). C'è, però, anche quel piccolo pozzo portatile che è l'otre, ove l'acqua è conservata quasi fosse una perla nello scrigno. Stupenda è l'immagine nomadica del Salmo 56: "I passi del mio vagare tu li registri, le mie lacrime nell'otre tuo raccogli". Il Signore è raffigurato come un pastore che raccoglie nell'otre le lacrime degli uomini così che non ne vada persa neppure una.
Il terzo tesoro, il più prezioso, è il gregge. Il pastore non è solo la guida delle pecore ma ne è soprattutto il compagno continuo, ne è quasi il padre; il gregge è parte della sua famiglia, le pecore ricevono dei nomi a cui rispondono, con esse il pastore sopporta il caldo e la sete più ardente, con esse si raccoglie a sera per superare le forti escursioni termiche notturne. A Nuzi, in Mesopotamia, è venuta alla luce una sacca di terracotta di 3.500 anni fa con questa iscrizione: "48 pietre per pecore e capre: 21 pecore da latte, 6 agnelle, 8 agnelli adulti, 4 agnelli maschi, 6 capre da latte, 1 becco, 2 femmine. Sigillo (cioè firma) di Ziqarru, pastore". In un sacco di pelle o di creta si tenevano quindi pietruzze diverse per la contabilità degli animali del gregge. Nella Bibbia questa prassi viene applicata a Dio, il "grande Pastore delle nostre anime", che può raccogliere nel suo scrigno la vita delle sue creature ma purtroppo anche i loro tradimenti: "Tu hai sigillato nel tuo sacchetto i miei errori", esclama Giobbe (14,17).
Il pastore diventa, così, uno dei segni più comuni della vita del Vicino Oriente, una specie di simbolo globale a cui attingono anche i sedentari, forse per un certo senso di nostalgia nei confronti dei grandi spazi aperti e della vita povera, sì, ma libera. Così il dio solare Shamash di Babilonia è invocato come "pastore del popolo" e con lo stesso titolo il celebre re babilonese Hammurabi si presenta nel suo Codice. Persino Omero chiamava i re poimènes laòn, "pastori dei popoli". Ma è soprattutto nella Bibbia che ci incontriamo con un vero e proprio repertorio di immagini pastorali. Il citato Salmo 23 è forse il vertice di questa simbologia applicata innanzitutto a Dio, "il Pastore" per eccellenza. Basta solo sfogliare l'Antico Testamento per imbattersi in frasi di questo genere: "Guidaci e sostienici sempre (...) Guidasti come gregge il tuo popolo (...)Fu loro pastore e li guidò con mano sapiente (...) Tu, pastore d'Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge (...) Noi siamo gregge del suo pascolo (...) Radunerò io stesso le mie pecore dalle regioni dove erano state cacciate e le farò tornare ai loro pascoli (...) Ricondurrò Israele nel suo pascolo, pascolerà sul Carmelo, e sui monti di Basan, di Efraim e di Galaad si sazierà". Ma il passo più importante è l'intero capitolo 34 di Ezechiele in cui ai falsi pastori, cioè ai re, ai magistrati e ai sacerdoti d'Israele che hanno sfruttato il gregge di Dio e non l'hanno curato quando era ferito e sbandato, si oppone il nuovo e perfetto pastore, Davide, simbolo del Messia: "Susciterò loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo". Anche un altro profeta, Zaccaria, nel capitolo 11 del suo libro verrà invitato da Dio a "sceneggiare" nella sua persona la figura del buon pastore e del pastore mercenario.
In questo orizzonte segnato dalla luce si colloca soprattutto la figura del Cristo pastore, dipinta in una celebre pagina di Giovanni (10,1-21). Gesù sta parlando forse nel cortile ove si levano le monumentali costruzioni del Tempio erodiano, la sede del Pastore di Israele, il Signore. A fianco si erge la cosiddetta Porta delle Pecore (o Porta Probatica), attraverso la quale i fedeli, il gregge di Dio, accedono all'incontro cultuale col loro Pastore. Sulle labbra di Gesù affiorano quelle parole considerate blasfeme dai suoi ascoltatori: "Io sono il buon pastore (...) Io sono la Porta delle pecore (...) Le pecore mi seguono e conoscono la mia voce e io offro la mia vita per le pecore. Il mercenario, invece, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge". Appare, così, un ritratto di Gesù che già Matteo e Luca avevano abbozzato nella parabola della pecora smarrita (Matteo, 18,12-14 e Luca, 15,1-7).
Su questo ritratto del "pastore grande delle pecore" (Ebrei, 13,20) si modella anche la fisionomia dei pastori da lui inviati. Agli apostoli Gesù dice: "Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d'Israele". A Pietro sul litorale del lago di Tiberiade per tre volte Gesù ripete: "Pasci le mie pecorelle" (Giovanni, 21,15-17). Nel testamento di Paolo ai responsabili della Chiesa di Efeso leggiamo: "Vegliate su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi a pascere la Chiesa di Dio" (Atti, 20,28). E Pietro ai capi delle Chiese del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia Minore e della Bitinia scrive: "Pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato (...) non spadroneggiando sulle persone a voi affidate ma facendovi modelli del gregge" (1Pietro, 5,2-3). È su questa base che il simbolo del Buon Pastore entra nell'arte cristiana: ben 120 affreschi dei cimiteri cristiani romani dei primi secoli e 150 sculture adottano questa immagine.
Ma questa simbologia pastorale lentamente ci ha portato lontano da quella vita dura che il pastore palestinese conduce e che abbiamo tratteggiato in apertura.
Eppure nel Vangelo c'è un passo, l'unico del Nuovo Testamento, in cui di scena sono ancora pastori autentici e non pastori simbolici (Luca, 2,1-19). È quel celebre racconto che ascoltiamo ogni anno nella liturgia della notte di Natale. Un racconto notturno che la tradizione ha cercato di strappare al suo realismo quotidiano. L'ha infatti immerso in un'atmosfera tenera, sentimentale e oleografica; l'ha affidato alle statuine, ai muschi, alle stagnole di quel presepe che era sorto proprio in una fredda notte di Natale del 1223 a Greccio ad opera di Francesco, un uomo che era però realmente povero come quei pastori che raffigurava nel suo primo presepe. Questo racconto evangelico è stato anche avvolto nei fili musicali delle dolci "pastorali", spesso straordinarie come lo stupendo Concerto grosso n. 8 per la Notte di Natale di Corelli o la sinfonia dell'Oratorio di Natale di Bach (1734) o come la mirabile pagina natalizia del Messia di Haendel (1742) o ancora come la famosa pastorale di Couperin, oppure come l'"adorazione dei pastori" presente nel Christus, oratorio di Liszt, o l'Enfance du Christ di Berlioz (1850-54) e soprattutto i mille e mille Gloria in excelsis delle messe cantate. Un racconto che è diventato pittura nelle infinite tele che nei secoli hanno riproposto l'adorazione dei pastori a Gesù bambino.
In realtà, uno studio più accurato del contesto storico e culturale della vita d'Israele durante quegli anni cancellerebbe buona parte di questo alone pur suggestivo. Dal paragrafo 25b del trattato Sanhedrin del Talmud, il più famoso documento delle tradizioni giudaiche, apprendiamo, ad esempio, che i pastori non potevano essere eletti giudici e neppure potevano essere addotti come testimoni in un processo perché considerati impuri a causa della loro convivenza con animali e disonesti a causa delle loro violazioni dei confini territoriali. Le loro condizioni di vita erano molto meno "georgiche" e idilliache di quanto ci abbia abituato a pensare Virgilio; la loro esistenza era precaria e anche in quella notte decisiva per l'umanità è probabile che il gelo notturno fosse solo l'ultimo degli incubi di una giornata sempre dura.
Ma cerchiamo per un istante di ricomporre l'orizzonte topografico di quella notte. Siamo nella campagna di Betlemme, la città del pastore Davide, posta a 777 metri di altezza e stretta attorno dal deserto di Giuda. "C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge", così scrive, in apertura al suo racconto, Luca (2,1-20). La tradizione cristiana attuale ci conduce a tre chilometri da Betlemme nel villaggio arabo di Bet-Sahur. L'archeologo francescano Virgilio Corbo ha messo in luce in questa località un monastero bizantino del IV-V secolo che aveva inglobato alcune grotte anticamente usate dai pastori per le loro veglie notturne. Ora, accanto ad esse, si erge una chiesa moderna, eretta nel 1953: in essa l'architetto Antonio Barluzzi, che ha edificato la maggior parte dei santuari francescani di Terrasanta, ha voluto imitare la forma della tenda del beduino e ha tracciato una cupola che lascia filtrare la luce del cielo quasi in un gioco di stelle. L'altare sorretto da quattro pastori oranti è opera di artisti cristiani betlemiti.
Ritorniamo, però, alla pagina lucana.
Si tratta di una narrazione raffinatamente costruita. Lo schema è quello, classico nella Bibbia, delle annunciazioni (nel primo capitolo del suo vangelo Luca aveva già introdotto due annunciazioni, quella a Zaccaria, il padre del Battista, e quella a Maria). Il primo elemento è rappresentato dall'apparizione angelica, segno di una rivelazione divina che squarcia quella povera quotidianità (v. 9). L'angelo, la luce, la gloria di Dio, il timore sono le componenti tipiche dell'incontro col mistero divino. Il messaggio (vv. 10-11) è il secondo dato. Luca nel testo originale greco lo chiama "evangelo", un termine particolarmente significativo per i connotati cristologici che evoca. È il cuore teologico della scena. Esso si apre con un "oggi", un presente che è cronologico ma che si apre alla salvezza permanentemente offerta da Dio all'umanità: "Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore".
Del neonato si professano tre titoli che rappresentano una specie di piccolo Credo: Salvatore, Cristo (= Messia), Signore (= Dio). Anche Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, cita questo Credo: "Aspettiamo il Salvatore, il Signore Gesù Cristo" (3,20). Nel bambino si intravede già il glorioso "Signore" risorto, proclamato dalla fede pasquale della Chiesa.


(©L'Osservatore Romano 25 dicembre 2011)

Cuore della vita. SALMO 121




Dio, tu operi nel mondo,
inavvertito, irresistibile,
come il seme nascosto
che ogni volta rispunta.

Fa’ che noi ti vediamo dovunque operante,
nelle parole che liberano,
nei gesti che attuano.

Rendi acuto il nostro sguardo
dinanzi alle tue meraviglie senza nome,
e noi avremo una costanza
più forte della sconfitta,
e avremo l’audacia di sperare
nelle immense tue promesse:
l’uomo nuovo
e tutte le cose nuove
nel Cristo, nostro Signore.


F. CROMPHOUT

lunedì 11 giugno 2012

L'umana sofferenza di ANGELO SCOLA



1. Segnati dal dolore
Far memoria, dopo più di quattro secoli, dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la nostra città verso la fine dell’estate del 1576, è più che mai ragionevole. Ha lo spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest’anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del dolore e della sofferenza. La loro presa feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l’urto della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio…
Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica, del tremendo carico di sofferenze e di morte causato da guerre, terrorismo e repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità spesso connesse col degrado ecologico… Ma nessuno di questi mali morde la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle parole, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.
Vorrei, ancora una volta pellegrino con veneziani ed ospiti alla luminosa basilica palladiana, mettere questa esperienza davanti al Redentore. Il Padre infatti, nella sua abissale gratuità, previene la nostra stessa domanda di liberazione dal dolore «nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Per questo noi possiamo sperare. E la “virtù bambina” della speranza – come genialmente la definiva Péguy – ci consente di chiederGli che la morsa della sofferenza si allenti, almeno suggerendoci come portare il nostro dolore.
2. Dolore, sofferenza ed enigma-uomo
Nella storia dell’umana famiglia l’aggressione del dolore e della sofferenza sembra non spegnersi mai. Incalcolabili sono le sue manifestazioni, né si finisce di immaginarle tanto ci sorprendono, sempre di nuovo, in forme inedite. Come tutte le realtà elementari di cui l’uomo universalmente fa esperienza (la conoscenza, l’amore, ecc.), anche il dolore e la sofferenza sono difficili da spiegare. Dolore e sofferenza non sono fenomeni identici. Il dolore fisico, quando ha la funzione di segnalare una minaccia per la vita, pur essendo l’espressione di qualcosa di negativo, non è in sé e per sé un male. Il male non è il dolore, ma la minaccia per la vita che il dolore segnala. I dolori anginosi, se porteranno alla cura delle coronarie, possono essere considerati un ingegnoso dispositivo della natura che rivela l’esistenza di una minaccia per la vita. Il dolore fisico trapassa in sofferenza quando diventa autonomo, perde questa sua funzione di segnale ed indica una decurtazione della vita. Quando, ad esempio la sordità affligge un violinista o l’artrosi paralizza un chirurgo.
Se guardiamo poi la sofferenza in quanto tale, comprendiamo che talune sue espressioni – come la tristezza per il dolore di un amico o l’ira suscitata da un’ingiustizia subita o il rimorso per un’ingiustizia inferta – non sono sempre qualcosa di male, ma piuttosto una giusta reazione al male, riflesso di autodifesa della dignità dell’uomo. Anche la sofferenza ci appare, in questi casi, più come la conseguenza di un male radicale che la precede che in se stessa un male. «Come il dolore è l’esperienza nel soggetto della minaccia e della decurtazione della vita fisica, così la sofferenza è l’esperienza nel soggetto della minaccia e della decurtazione della vita spirituale» (Spaemann). Queste brevi considerazioni ci consentono un primo orientamento, ma sono ben lontane dal poter spiegare il fenomeno dolore e sofferenza. Che dire, infatti, della sofferenza che noi infliggiamo agli altri? Come non considerare puramente assurda la sofferenza innocente?
I “mali” (malheurs: disgrazie, sciagure, sventure, miseria ecc.), soprattutto quando toccano l’innocente, sono il catalizzatore del “male” multiforme che non a caso il Vangelo chiama Legione. E la morte non ci appare forse come la quintessenza del male, «l’emblema di tutti i disordini» (Merleau-Ponty)? E che dire del male morale (peccato)? Non è esso in qualche modo almeno concausa dei primi due? Non c’è bisogno di scomodare il nesso che il cristianesimo stabilisce tra morte, castigo e redenzione per sentire l’«odore di morte» (2Cor 2,16) che emana dal peccato di cui parla San Paolo («morte, salario del peccato», Rm 8,23).
Vogliamo qui limitarci a riflettere un poco sull’immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l’umanità nel suo insieme, ma sempre nella carne dei singoli, deve sopportare.
Se – come diceva Agostino – ogni uomo in quanto tale è “una grande domanda” (magna quaestio), al cuore della domanda-uomo sta l’interrogativo sulla sofferenza e sul dolore.
3. “Gli scaffali della farmacia umana”
Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani di affrontare l’angoscioso interrogativo del dolore e della sofferenza.
Nella sua analisi prende anzitutto in esame due categorie apparentemente opposte, ma in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il “disfattismo” e la “ribellione”. Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che intendo limitarmi a coglierne la radice antropologica senza esprimere giudizi sulle singole persone.
Il “disfattismo” è obiettivamente alla base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o “assistito”, come si dice a proposito di talune pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria «resa davanti ad un eccesso di sofferenza, pensando così di liberarsene» (Balthasar). Il cuore dell’uomo percepisce immediatamente l’estrema fragilità di tale posizione. Anche nel caso, talora richiamato, del suicidio di certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, «il peccato per eccellenza». Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione, non si offre la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in conto la sofferenza arrecata ad altri.
La seconda posizione, la “ribellione”, è autocontraddittoria. Per finire non identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può chiamare in causa Dio, l’umanità o il male radicale, in realtà si riduce ad una rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell’illusione di farlo tacere.
Altra è la posizione di chi non si ferma sul soggetto che soffre, ma si impegna per una riduzione progressiva del dolore nell’orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un nuovo umanesimo in grado di riconciliare l’uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all’essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Theilard de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la «natura bellicosa dell’uomo» preparando il superuomo. Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?
Oggi però prende sempre più peso un atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l’uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come quelle dell’Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scandalo), perché svelano il permanere di una marcata impotenza di fronte alla violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura ed angoscia.
Del resto l’attuale ossessione salutista, che persegue solo un indefinito benessere corporale, si scontra con l’esperienza elementare dell’uomo «uno di anima e di corp»” (Gaudium et Spes 14). Nella singolare unità costitutiva della persona si compendiano i vari livelli della vita del cosmo: da quello materiale, vegetale, animale, a quello spirituale che implica conoscenza del mondo esterno, autocoscienza, coscienza morale fino alla libera decisione. La teoria dell’evoluzione nelle formulazioni biologiche più avanzate, così come le neuroscienze anche nelle ardite rivendicazioni del «cervello etico» (Gazzaniga), non possono falsificare l’esistenza di una dimensione spirituale (anima) costitutiva dell’articolata unità della persona.
Diventa allora astratto se non velleitario parlare di salute (e di malattia) se non si identifica un centro dell’io, un luogo di raccordo della dimensione psico-fisica con quella spirituale. Salute e malattia riguardano sempre tutto l’io.
4. La sofferenza radicale di Gesù
Nella vicenda storica dolore e sofferenza, come una tragica fenice, sempre risorgono in forme nuove dalle loro ceneri. A tal punto che l’uomo è tentato di chiamare Dio a discolparsi per l’esistenza del dolore nel mondo. La tradizione cristiana, ma anche il pensiero occidentale (si pensi a Leibniz), registrano continui tentativi di “giustificare” Dio in proposito. Per non attribuire il male a Dio stesso o per non considerarlo un principio originario indipendente da Dio – cioè per non compromettere la bontà di Dio e per non limitare l’assolutezza della libertà divina -, la dottrina tradizionale ha affermato che Dio permette il male a fin di bene. Lo fa per provare l’uomo, per purificarlo o addirittura per far emergere la bellezza del bene ed esprimere l’intera ricchezza del cosmo (Agostino, Tommaso).
La tesi espressa con la categoria della “permissione del male” doveva trovare altre strade perché le ragioni richiamate sono, a gradi diversi, insufficienti o addirittura inaccettabili.
Così in Occidente la riflessione cristiana, in profonda solidarietà d’intenti con il pensiero moderno e contemporaneo, è ritornata sempre di nuovo sul problema. Fino ad introdurre, nel XX secolo, il discutibile tema del “dolore in Dio”. Qualcuno è giunto ad affermare che la sofferenza ha cambiato il volto della teologia: «Il partner della teologia non è più l’incredulo, ma l’uomo che soffre, che sperimenta concretamente la situazione di non salvezza in cui vive e prende coscienza dell’impotenza e finitudine del suo essere» (Kasper).
Dove volgersi?
La Sacra Scrittura illumina aspetti importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro della Genesi) senza però preoccuparsi di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in vario modo l’esperienza che il credente vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. «Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i nostri padri. Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano suo zio materno». Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale, sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro che gli stanno vicini. Così nella Prima Lettera di Pietro (1, 7), in quella degli Ebrei (12, 6) e nell’Apocalisse (13, 19).
Ma all’uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile (Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l’esistenza del dolore e della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato «l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto» (Eb 5,8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una presenza» (Cicely Saunders).
Nell’opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su di sé. Non ha sperimentato solamente atroci sofferenze di ordine fisico, ma consegnandosi liberamente alla morte di croce ha fatto un’esperienza irrepetibile di dolore morale: l’abbandono da parte del Padre.
Il grido del Salmo 22 – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34) – è quello del Figlio, cui il Padre era ben noto. Legato al Padre nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione, apparentemente definitiva, dal Suo Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» (2Cor 5, 21). Che significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l’esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell’Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.
Si intravvede l’abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo «allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi» dei Due (Balthasar). Ora «nel silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza». Di ogni umana sofferenza.
Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente – sponte, dice Sant’Anselmo -. La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l’umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta al nostro posto. Non solo con noi, ma per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina del Verbo. Niente era più contrario all’innocenza di Gesù quanto l’espiare (purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati che non aveva commesso, ma proprio perché è il “Puro” in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte ed il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di esperienza: per l’uomo è impossibile compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l’uomo che compie ingiustizia viene restaurato nella sua dignità tramite l’espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del dolore.
5. La fecondità dell’umana sofferenza
L’opera compiuta dall’amore di Cristo non resta riservata alla sua singolare persona. Tanto meno può essere ridotta a pura sorgente di ammirazione. Essa ha la forza di contagiare ogni umana sofferenza per mutarla in opera di amore e di speranza.
La sofferenza dell’uomo, investita dall’amore del Crocifisso, diventa a sua volta feconda. Per quanti, esplicitamente o implicitamente, aderiscono a Cristo questa prospettiva della vita piena (eterna) è già in atto. Qui, nella storia, non unicamente nell’al di là. Lo confermano molti uomini e donne, non solo i santi già canonizzati dalla Chiesa: la sofferenza è in grado di mutare le sorti della storia personale e sociale (Pastorelli di Fatima), perché partecipa della Redenzione di Gesù.
«Perché mi hai abbandonato?»: una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il silenzio è una risposta. Non è forse l’esperienza preponderante che ciascuno di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa dire. Orbene, tale silenzio, in maniera apparentemente paradossale (come sempre nella fede cristiana) anziché allontanarci da Dio ci avvicina a Lui: «La sofferenza del mondo ci unisce al cuore di Dio. È un’illusione che “filosofeggia” supporre che la sofferenza avviene “qui sotto”, e “lassù” sta guardando un Dio beato che non vi prende parte. Tutti i pugni chiusi degli uomini rivolti contro il cielo puntano nella direzione falsa. Il sofferente che grida nell’agonia, è in Dio. Egli lo è perché il mondo intero, così come esso è, con tutto il sangue e tutte le sue lacrime è in Cristo e detto più esattamente: nel Cristo crocifisso (e risorto) è stato pensato e creato» (Balthasar).
Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più brillante delle altre, ma ha compiuto un’opera di totale immedesimazione nella sofferenza, illuminandone il significato profondo: la collaborazione alla Sua redenzione del mondo. Per quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra sensibilità post-moderna, non possiamo negare questa realtà. Don Gnocchi, che sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente – quello che più ci tenta di ribellione contro Dio , in un celebre scritto, racconta come i suoi mutilatini, una volta resi partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione.
La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l’accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione con la sua, espiare in modo vicario. San Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi: «Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
Qualche settimana fa un padre, parlando del figlio dodicenne appena morto in un incidente stradale, poteva dire: “Non è vero che Dio dà e toglie; Dio dona sempre”. Qui siamo scesi in profondità, ben oltre la tesi della pura permissione del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all’indefesso impegno teso a combattere la sofferenza umana, ma – come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana – sprigiona una creatività non utopica.
6. Per una cura integrale
Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell’incarnazione propria della fede cristiana a considerare il nostro comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti a queste situazioni-limite, ci smarriamo e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel portarle, quanto piuttosto ad una mancanza di chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano questioni scottanti che sono, tra l’altro, proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al Disegno di legge sul fine-vita e a quello sulle cure palliative.
Vista nel quadro delle considerazioni svolte, l’esperienza dell’uomo provato dalla malattia e dalla disabilità, con l’inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull’azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l’intervento lenitivo della sofferenza è proposto all’interno di una visione integrale dell’uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia («L’uomo nella prosperità non comprende, è come un animale che perisce» ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non sono separabili, come si è visto, da una domanda di significato.
La scienza medica è chiamata a tentare con tutte le sue forze di far regredire il più possibile i confini della malattia e della morte, senza mai dimenticare che anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un significato obiettivo nell’economia della vita umana.
a) Lo “stato vegetativo”
Non pare falsificabile la convinzione, maturata da molti esperti, che quello che comunemente si chiama “stato vegetativo” non sia una malattia, ma la più grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare terapia medica, ma da quello da cui noi stessi dipendiamo per vivere: l’acqua, il cibo, la mobilizzazione, l’igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo, quindi, non ha bisogno di straordinarie apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà diagnostica, ed interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana e sul mistero del suo essere.
Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta. Inoltre gli esperti che hanno coniato il termine “stato vegetativo” a proposito della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria «non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico».
La cura della persona in questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se ad elevato impegno umano ed assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di ottenere risultati sorprendenti ed assolutamente inattesi come il recupero stabile della coscienza e la capacità di alimentarsi per via orale fino al rientro al domicilio.
b) I malati terminali e le cure palliative
Secondo gli esperti un “caso” assai diverso è quello dei cosiddetti “malati terminali” (ad esempio quelli affetti da SLA). È proprio questo l’ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi è sorta una domanda: non siamo piuttosto noi sani a chiedere la “morte degna”, mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita degna fino all’ultimo istante, fatta di quello che caratterizza l’uomo: la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale come quando ho visto tre figli – di 8, 10 e 11 anni – accudire un padre quarantottenne malato di SLA in grado di comunicare solo con le palpebre.
Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative.
La moderna definizione di tali cure, data dalla European Association for Palliative Care, recita: «Le cure palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie aventi come scopo la guarigione. Il controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria … Le cure palliative rispettano la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine». “Inguaribile”, infatti, non è sinonimo di “incurabile”.
Questa definizione appare improntata al più grande realismo. Di essa devono tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall’atteggiamento degli operatori sanitari e dei familiari nei confronti della vita, della malattia e soprattutto dell’ammalato.
7. Leggi giuste
Tra i fattori che influenzano in modo sostanziale le scelte della persona – sia perché impongono divieti e riconoscono diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità – va annoverato il contesto normativo di un Paese. Per questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (DAT), sento la responsabilità di invitare il legislatore a garantire quei principi irrinunciabili più volte richiamati dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Nello stesso tempo il pronunciamento legislativo sulle cure palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari perché siano capillarmente praticabili nel nostro Paese.
Risorse economiche adeguate vanno investite anche nella normale terapia del dolore.
8. «Nel dolore lieti» (San Paolo)
Dolore e sofferenza, nel loro carattere misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore dell’amore trinitario che si è coinvolto con questa condizione-limite dell’uomo.
In Cristo Gesù siamo resi capaci della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da San Paolo: «nel dolore lieti» (cfr 2Cor 6,10) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell’accompagnamento, ma – soprattutto – educazione al gratuito, all’amore come dono totale di sé.
Questa è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati, ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla miseria e dalla fame. L’oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di quell’eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione.
Ma, soprattutto, sono l’offerta di sé e la preghiera semplice (Santo Rosario) di quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata e non trattenuta: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12, 25).
In quest’ottica l’accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra portata. Perfino la nostra stessa morte può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i nostri vecchi, usi a recitare la preghiera dell’Apparecchio alla buona morte.
Il mistero del dolore e della sofferenza sta inesorabile davanti a ciascuno di noi, ma il suo valore è già fin d’ora custodito nel nucleo incandescente dell’amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata, quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li assuma quotidianamente nell’orizzonte dell’autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso.


sabato 9 giugno 2012

La parola della domenica 10 Giugno 2012 (Casati) BOSE




Es 24,3-8
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26
Questo è un mistero che celebriamo ogni domenica: il mistero del corpo e del sangue del Signore. E quindi la festa del Corpus Domini non è una novità.
Io vorrei leggerla così: come un invito a non perdere lo stupore. A volte penso che si è vivi finché si è capaci di sorprenderci, di provare stupore per quanto ogni giorno avviene. Anche le nostre Messe sono vive finché si è capaci di provare stupore: chiamare lo Spirito sul pane e sul vino e poi dire: "mistero della fede"! E quando diciamo "mistero" - noi praticanti a volte lo dimentichiamo - diciamo qualcosa che ci sfugge. Guai a quelli che fanno diventare una cosa l'Eucaristia, isolandola quasi fosse una cosa a sé, un altro Gesù Cristo, un secondo Gesù Cristo. Gesù Cristo è uno, è il Gesù storico, che la sera del tradimento, nella grande sala al piano superiore, mentre mangiavano prese il pane... e poi prese il calice. L'Eucaristia dunque non è un altro Gesù Cristo, ma è il vincolo tra noi e il Gesù della storia. E, in questo senso, è affascinante leggere in trasparenza le letture di oggi che hanno - tutte e tre - come cifra ricorrente quella del sangue. "Mosè" - dice il libro dell'Esodo - "prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: Ecco il sangue dell'alleanza". La lettera agli Ebrei: "...quanto più il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza". E Gesù, nella sala al piano superiore: "Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza, versato per molti". Dobbiamo confessarlo: la visione del sangue crea in noi un certo malessere, quasi stessimo male, solo a vederlo, a volte fino a svenire. Ma l'immagine del sangue legata all'Eucaristia, è l'immagine di un sangue donato. Perdonate l'accostamento: per qualche verso vicina - l'immagine - a quella del sangue delle trasfusioni. È il sangue che splende dell'amore. Dell'amore di Dio per noi. È il sangue che fa vivere. Sangue dell'alleanza, dice la Scrittura. Segno dunque di un vincolo forte, un vincolo fino al sangue. Non è un vincolo sbiadito, un vincolo pallido, un vincolo "esangue" senza sangue, è un vincolo forte, perdonatemi l'aggettivo, sanguigno. Non so se sempre lo pensiamo quando siamo qui la domenica: se pensiamo che siamo qui a rendere, nell'Eucaristia, vivo, sanguigno questo vincolo con Dio, non il Gesù storico, che non è un Gesù qualunque, è il Gesù di Nazaret che ha detto quelle cose e non altre, che pensava quelle cose e non altre, che fece quelle scelte e non altre. In questo senso è illuminante la lettura dell'Esodo che vede il rito del sangue come a suggello di quanto era scritto nel libro. "Mosè prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: "Quanto il Signore ha ordinato noi lo faremo e lo eseguiremo". Il sangue dell'alleanza a suggello del libro dell'alleanza. Così dovrebbe essere delle nostre eucaristie domenicali: il rito del pane e del vino come a riannodare il vincolo con gli orizzonti di vita proposti dalla Liturgia della Parola, come a riprendere il nostro impegno a vivere l'esistenza umana come l'ha vissuta Gesù. Voi certamente mi avete capito: l'Eucaristia non è un rito avulso dalla vita; celebrandola nelle chiese corriamo anche questo pericolo. Pensatela nella sala grande al piano superiore, dentro una casa. Quasi vincolo a rinnovare noi stessi -in questo senso "sangue che purifica le nostre coscienze"- e a portare l'orizzonte del Vangelo nelle case, nell'esistenza quotidiana. Vincolo, l'Eucaristia, a essere, a nostra volta, sangue versato e non sangue succhiato. Voi mi capite, una vita nell'orizzonte della trasfusione e non dell'asfissia, togliere aria. Ci è difficile in questi giorni staccarci dall'immagine dei 58 ragazzi cinesi morti d'asfissia in un camion frigorifero. Asfissia o trasfusione?
Fonte:sullasoglia

sabato 2 giugno 2012

La parola della domenica 3 Giugno 2012 (Casati) MONACO A BOSE


Dt 4,32-34.39-40
Rm 8,14-17
Mt 28,16-20

C'è un monte da cui contemplare, quello della Galilea. Il monte da cui contemplare il mistero della Trinità. Monte di Galilea: là aveva dato loro l'appuntamento.
"Andate e riferite ai miei fratelli che devono andarsene verso la Galilea". E là vanno, secondo il comando, "sul monte che Gesù aveva loro fissato". Perché sul monte? Forse perché il monte nella Bibbia è il luogo dello svelamento di Dio: ci sono meno barriere, lo sguardo spazia, l'aria è trasparente. Così si va da un monte all'altro nel Primo e nel Secondo Testamento. Nel Secondo il monte delle beatitudini, il monte della Trasfigurazione, il monte della crocifissione, il monte delle ultime parole, quasi un mandato: "Andate... fate miei discepoli tutti i popoli". E le parole - voi mi capite - sono grandi, ma attenzione a non lasciarci ingannare, quasi fossimo in una coreografia grande, di gloria, di parate, che so io, militari, scenografie potenti. Non siamo a Gerusalemme, la capitale, siamo in una terra poco ortodossa, la Galilea. Non ci sono folle sul monte, c'è un piccolo gruppo, undici persone ininfluenti per la società... per di più dubitanti. Alcuni codici hanno aggiunto in questo brano di Matteo il gesto dell'adorazione: "si prostrarono dinanzi a lui", ma i manoscritti migliori non riportano il gesto dell'adorazione, riferiscono solo dei dubbi: "ma essi dubitavano". Le grandi parole, il racconto di Dio, del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, le grandi parole di Dio vengono affidate alla pochezza di undici, pochezza del numero, pochezza della qualità della fede: dubitavano. E mi sono chiesto se tutto questo fosse un caso, semplicemente un caso o se non ci fosse un disegno, una motivazione profonda. E mi è sembrato di coglierla in questo: il mistero della Trinità, affidato agli illuminati, ai mostri di intelligenza e di perfezione, sarebbe diventato, in mano loro, una verità, frutto di elucubrazioni, sarebbe diventato un parto della loro intelligenza. E invece gli undici, in terra di Galilea, dubitanti, sentono, avvertono nelle parole di Gesù un mistero, su cui è impossibile per loro mettere le mani, è una soglia, niente più che una soglia da cui intravedere, si sentono piccoli piccoli sul monte, piccoli e abbracciati dall'immensità del mistero. Abbracciati dall'immenso. Ho usato l'espressione "abbracciati dal mistero" perché mi sembra possa in qualche modo evocare il paradosso, il paradosso della Trinità, dove il mistero è immenso eppure vicino, dove la trascendenza di Dio non è lontana, non è fredda, non incute timore, dove i nomi sono Padre, Figlio, Spirito. Noi - perdonatemi - abbiamo fatto l'abitudine a dire Padre, Figlio, Spirito Santo e quasi più non ci stupisce che Dio abbia usato i nostri nomi per raccontare di sé, per raccontare del mistero che lo fa vivere. Più non ci prende l'emozione che abbia usato questi nomi: padre, figlio, spirito. Anzi - dirò una cosa che a qualcuno sembrerà ancor più grave - quei nomi: padre, figlio, spirito santo, li abbiamo scritti con la maiuscola e a volte - perdonatemi - c'è rimasto poco dell'emozione del padre, del figlio, dello spirito. L'emozione dei volti che fanno la Trinità. Sono parole che abbracciano, ma ecco che, riferite alla Trinità, nell'immaginario dei nostri catechismi hanno finito, sì, hanno finito di abbracciare. E invece no. Il racconto della Trinità è racconto per dire che Dio ci ha fatto a sua immagine, che Dio ha parlato dal fuoco, che ha liberato il suo popolo, che ci ha parlato e liberato nel Figlio, che ci ha fatto dono del suo Spirito. Guai, guai se irrigidissimo la formula "Padre, Figlio, Spirito Santo", se non la lasciassimo lievitare. "Dio" - scrive una teologa - "è Padre accogliente, ma anche Madre che nutre; è sposa da amare, ma anche Sapienza che invita al banchetto, che chiama alla libertà. Dio è anche casa, patria, seno, utero, abisso... così come ci dicono i mistici e le mistiche di tutti i tempi" (Adriana Valeria). E dunque - pensate la bellezza - a noi è dato di sperimentare Dio, la Trinità dentro e non fuori, dentro questi nomi e altri, che ora abbiamo evocato. Dentro diversità che non siano autonomie impazzite, dentro comunioni di vita che non siano soffocamento dell'altro, dentro relazioni che siano abbraccio e riconoscimento dell'altro. A immagine della Trinità.
Fonte:sullasoglia