DON ANTONIO

lunedì 30 aprile 2012

Scienza e fede (Gianfranco Ravasi)dalla Comunità di Bose



Scienza e fede (Gianfranco Ravasi)
Si deve riconoscere che gli atteggiamenti principali adottati dalle due discipline, scienza e teologia, nel loro confrontarsi, sono stati spesso sospettosi e fin dialettici, per non dire antitetici. Il "caso Galileo" rimane - nonostante tutte le puntualizzazioni e le precisazioni storiografiche - una sorta di vessillo sempre sventolato e il tribunale della storia è ancora aperto non tanto per un giudizio sul passato, quanto piuttosto come monito minaccioso e mai archiviato per il presente e il futuro dei rapporti tra scienza e teologia.
Sostanzialmente possiamo dire che queste relazioni hanno visto l'affermarsi di una triplice tipologia (spesso in contemporanea a livello storico): l'alternativa polemica, il parallelo distaccato, il dialogo sorvegliato. Il risultato auspicabile dovrebbe essere quello fatto balenare nella celebre battuta di Albert Einstein nel suo scritto autobiografico Out of My Later Years (1950): "La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca". Un pensiero echeggiato nel discorso di Giovanni Paolo II in occasione del centenario della nascita (1879-1979) dello stesso Einstein. Il Papa, infatti, citando la Gaudium et spes (n. 7), ricordava: "Anche la vita religiosa è sotto l'influsso delle nuove situazioni (...) un più acuto senso critico la purifica da ogni concezione magica del mondo e dalle sopravvivenze superstiziose". Ancor più sintetico ed esplicito il famoso scienziato Max Planck che nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico (1906) affermava che "scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente".
Da un lato, è, allora, necessario che lo scienziato lasci cadere quell'orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la filosofia e la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell'hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell'essere e dell'esistere, del senso e dei valori. Ma, d'altro lato, si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Come scriveva il filosofo tedesco Friedrich Schelling a proposito del rapporto tra storia e fede, potremmo ribadire la necessità che scienziato e teologo "custodiscano castamente la loro frontiera", rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli altri approcci alla realtà in esame.
È, dunque, importante, proporre innanzitutto una sorta di "coesistenza pacifica" tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha un vertice (o una sorgente) nel positivismo del filosofo francese Auguste Comte, negatore della "legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica". Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso scientifico le proposizioni della metafisica, dell'etica e dell'estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo. I neopositivisti del cosiddetto "Circolo di Vienna" (Schlick, Neurath, Carnap e così via) andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l'affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non scientifici. In realtà, per il filosofo viennese - che non era certo un agnostico - si tratta solo di un'"ineffabilità" insita in quelle proposizioni, per cui "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere", e non certo di una loro assurdità. Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del "Circolo", come Dawkins e altri difensori di uno scientismo a oltranza, tale impostazione viene ormai considerata come marginale e semplificatoria. Infatti ci si muove sempre di più secondo un reciproco e coerente rispetto tra i due campi: la scienza si dedica ai fatti, ai dati, alla "scena", al "come"; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al "fondamento", al "perché", secondo specifici protocolli di ricerca.
È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria (Noma), ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali. Come scriveva già nel 1878 Nietzsche in Umano, troppo umano: "Fra religione e scienza non esistono né parentele né amicizia ma neppure inimicizia: vivono in sfere diverse".
Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza storica. Entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l'oggetto della loro investigazione (l'uomo, l'essere, il cosmo) e - come ha osservato acutamente il filosofo della scienza Micha? Heller, nel suo saggio Nuova fisica e nuova teologia - "probabilmente esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico senza confondere i livelli", anzi, con esiti fecondi (si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie "tempo" e "spazio").
Inoltre, continua lo studioso polacco, "la distinzione dei livelli non dovrebbe legittimare l'esclusione aprioristica della possibilità di qualsiasi sintesi". È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) "teoria dei due livelli", una sussidiaria "teoria del dialogo" propugnata da Józef Tischner che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza unificante e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l'universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti che si intrecciano tra loro nell'unicità della persona. Non è soddisfacente, allora, per una più compiuta risposta dissociare radicalmente i contributi scientifici da quelli filosofici e viceversa, pena una perdita della vera "concretezza" della realtà e dell'autenticità della stessa conoscenza umana che non è monodica, cioè solo razionale e formale, ma anche simbolico-affettiva (le pascaliane "ragioni del cuore").
Questa "teoria del dialogo" - che, per altro, faceva parte dell'eredità dell'umanesimo classico - è fatta balenare anche nella Lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana: "Il dialogo [tra scienza e fede] deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l'altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando". Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede. Il "fenomeno" a cui si dedica la scienza, ossia la "scena" come sopra si diceva, non è indipendente dal "fondamento" e, quindi, esperienza e trascendenza sono distinte nei livelli ma non isolate e incomunicabili.
A questo punto, se vogliamo attestarci solo sul versante che ci è proprio, quello teologico, possiamo condividere quanto scriveva José Luis Illanes in un articolo su Scripta Theologica del 1982: "La teologia può attuare il suo contributo solo se si mantiene in contatto con le altre scienze. Essa ha bisogno di essere ascoltata ma ha altrettanto bisogno di ascoltare gli altri saperi. Il teologo, come lo scienziato, deve essere umile, e in misura ancor maggiore: non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte a cui deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi". Siamo in presenza di due profili dello stesso volto: cancellato uno, il viso si sfigura. Per dirla con una battuta folgorante dei Pensieri di Pascal (n. 253, edizione Brunschvicg): "Due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione".

VITA ETERNA P. Alberto Maggi OSM

Gli ebrei del tempo della Bibbia, credevano nell'al di là?
In ebraico non esiste neppure questa espressione. (Il termine
'olam non ha il senso dell’eternità, ma di "tempo lontanissimo"
riferito sia al passato che al futuro.
La morte per gli ebrei era la fine di tutto: non esiste l’al di
là: tutti, buoni e cattivi, dopo morti si scende nello "Sheol", cioè
in quella che secondo la concezione mitologica della terra
dell'epoca, era considerata una enorme caverna sotterranea, dove
ridotti a larve, ad ombre, ci si nutre di polvere.
Questo era tutto quel che si credeva in Israele al riguardo
dell'al di là: tutti, buoni e cattivi, quando si muore si riceve la
stessa sorte: nella caverna sotterranea come spettri a mangiare
polvere: "i morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno"
(Is 26,14).
Quando l'influsso della filosofia greca iniziò a farsi sentire
pure in Israele, e cominciarono a divulgarsi le dottrine
sull'immortalità dell'anima, verso il 200 a.C. un "predicatore" (è
questo il significato del termine ebraico Qoèlet [l’ecclesiaste] che
dà il titolo al suo libro), scrisse per contestare vivacemente queste
idee:
"La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa;
come muoiono queste muoiono quelli; c'è un solo soffio vitale per
tutti. Non esiste superiorità dell'uomo rispetto alle bestie, perché
tutto è vanità. Tutti sono diretti verso la medesima dimora: tutto
e' venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere." (Qo
3,19-21);
E ancora:
"Vi è una sorte unica per tutti, per il giusto e l'empio, per il puro
e l'impuro, il buono e per il malvagio. Questo è il male in tutto ciò
che avviene sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti” (Qo
9,2-3).
Visione pessimista che tocca il suo culmine quando proclama
che è "meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che
moriranno, ma i morti non sanno nulla; non c'è più salario per
loro, perché il loro ricordo svanisce. Il loro amore, il loro odio e
la loro invidia, tutto ormai è finito” (9,4-6);
"Tutto ciò che devi fare, fallo finché ne sei in grado, perché non
ci sarà più nulla giù nello sheol, dove stai per andare" (Qo
9,10).
Questo era quanto pensava "il predicatore" duecento anni
prima di Gesù. (C’è da chiedersi quanti cristiani hanno un'idea
simile della vita dell'al di là... si lascia tutto, amori, interessi,
affetti, e si vive come anime beate e disincarnate in un mondo
senza colori...)
Non esistendo quindi un "al di là", la retribuzione per il bene e
il male compiuto avveniva su questa terra. Il bene era compensato
con una lunga vita, abbondanza di figli, prosperità. Il male veniva
punito con vita breve, sterilità e miseria, e la colpa dei padri veni-
va punita nei figli fino alla quarta generazione, secondo la teolo-
gia del libro del Deuteronomio: “Io “Yahvé tuo Dio sono un Dio
geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e
alla quarta generazione per quanti mi odiano” (Dt 5,9), poi cor-
retta all’interno dello stesso libro: “Non si metteranno a morte i
padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per
una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio
peccato” (Dt 24,16):
Il profeta Ezechiele contesta questa visione della vita ed afferma
che Dio retribuisce sempre e subito le azioni dell'uomo e che o-
gnuno è responsabile del suo agire: “Colui che ha peccato e non
altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il
padre l'iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giu-
stizia e al malvagio la sua malvagità” (Ez 18,20).
Quindi "ad ognuno il suo".
Teologia, questa del profeta Ezechiele, semplice ed
accettabile, ma contraddetta dalla realtà che non si presenta così.
Per questo nella polemica interviene un autore, che è rimasto
sconosciuto, il quale scrive il "Libro di Giobbe" proprio per
contestare questa idea teologica dove si afferma che il buono è
premiato ed il malvagio punito, e presenta un uomo pio e buono
al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo (compresa
quella d'amici che lo vanno a consolare ed offrire i loro "buoni
consigli") per dimostrare che non è vero che i buoni vengono
premiati.
A tirar fuori dal vicolo cieco in cui queste dispute teologiche
avevano condotto, sarà un anonimo autore del II secolo, il quale
per dare coraggio ai martiri della persecuzione religiosa del
terribile Antioco Epifane introduce un nuovo, rivoluzionario
elemento, quello di un ritorno alla vita dei morti per il giudizio
finale. Resurrezione però limitata ai giusti del popolo giudaico:
“Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno: gli uni alla
vita eterna, gli altri all'ignominia perpetua" (Dn 12,1-2).
E' la prima volta che nella Bibbia compare il termine
"vita eterna". Alla vita eterna, cioè per sempre, l'autore
contrappone una "ignominia perpetua", cioè una disfatta
definitiva, irreversibile, il fallimento definitivo (l'espressione
"ignominia o sconfitta perpetua" [ebr. herpat 'olam], si trova nel
salmo 78,66, senza alcun senso di sopravvivenza eterna (in Isaia
66,24 si menzionano i "cadaveri" non degli esseri risuscitati che
soffrono).
Fuori della bibbia ebraica, si trova l'idea di resurrezione nel
Secondo Libro dei Maccabei (160 a.C.?). Nel famoso racconto
dell'atroce martirio della madre e dei suoi sette figli, viene
espressa una fede per la resurrezione ad una "vita nuova ed
eterna" (II Mac 7,9) per i martiri, vita però che viene esclusa per i
persecutori: "per te la risurrezione non sarà per la vita" (II Mac
7,14): è la morte eterna, cioè definitiva.
Quel che da queste ipotesi teologiche si ricava è che la fede
nella resurrezione dei morti è una conseguenza della fede nel Dio
Creatore: la resurrezione viene intesa come una nuova creazione
dell'uomo intero.
Queste nuove teorie però non verranno accettate, anzi
verranno condannate come eretiche e rifiutate dalla gerarchia
allora al potere, il gruppo dei Sadducei in quanto non contenuta
nei primi cinque libri della Bibbia. ("In quello stesso giorno
vennero a lui dei sadducei, i quali affermano che non c'è
resurrezione" Mt 22,23), ma se ne approprieranno i "Farisei".
Laici pii impegnati ad osservare fedelmente la Legge in tutti i
suoi dettagli, elaborano per primi in maniera sistematica, la
dottrina della resurrezione dei giusti. Il premio o la punizione per
l'uomo vengono posticipati a dopo la morte per cui il giusto
ritornerà alla vita e il malvagio rimarrà nello "Sheol".
L'idea di resurrezione dei giusti proposta dai Farisei, viene
limitata a Israele. Ne sono esclusi i pagani, i cafoni e quanti
vengono seppelliti fuori della Terra Santa. Poi - riflettendo
ulteriormente - questo gruppo religioso affermerà che risorgono
pure i pagani, ma per essere presentati di fronte al tribunale del
giudizio: chi avrà osservato la Legge di Dio verrà ammesso nel
"giardino dell'eden" (il paradiso)
Il termine paradiso deriva dal medio-iranico pardez, che
significa: giardino, parco. Traduce l'ebraico gan (giardino). Nella
Bibbia dei LXX il termine traduce prevalentemente "giardino").
Nei vangeli si trova una sola volta in Lc 23,42, quando Gesù
rivolgendosi al ladrone l'assicura di entrare con lui nella vita
definitiva. Mai nei vangeli Gesù parla di "paradiso" per indicare
la realtà che spetta all'uomo oltre la morte. Gesù parla sempre e
unicamente di una vita capace di superare la morte e che per
questo si chiama "eterna". Nel resto del NT solo due volte: 2 Cor
12,4 dove Paolo afferma che “fu rapito in paradiso e udì parole
indicibili” e in Ap 2,7: “Al vincitore darò da mangiare
dall’albero della vita, che ta nel paradiso di Dio”.
I malvagi verranno gettati nella "Geenna" (“valle del figlio
di Hinnom”), è un burrone a sud di Gerusalemme, dove c'erano
altari (tofet) nei quale venivano sacrificati i bambini in onore del
dio Molok: “Hanno costruito l’altare di Tofet, nella valle di
Ben-Hinnon, per bruciare nel fuoco i figli e le figlie” (Ger 7,31).
Per stroncare questo culto, la valle venne trasformata in
immondezzaio di Gerusalemme, sperando che gli ebrei, che
avevano l'orrore di tutto ciò che era sporco e quindi impuro,
smettessero di praticare questi sacrifici umani. Col tempo questa
valle divenne simbolo di punizione per i malvagi dopo morte,
come leggiamo nel Talmud:
"Il Santo -che benedetto sia- condanna i malvagi nella Geenna
per 12 mesi. Prima li affligge col prurito, quindi col fuoco
ed infine con la neve. Dopo 12 mesi i loro corpi sono distrutti, le
loro anime sono bruciate e sparpagliate dal vento sotto le piante
dei piedi dei giusti..." (Sanh.29b; Tos.Sanh.13,4-5).
Nell'ebraismo non esisteva e non esiste una idea di una
pena eterna da scontare dopo la morte. Ma, dopo 12 mesi c'è
l'annientamento della persona (anche oggi gli ebrei pregano per
undici mesi per il defunto, dopodiché o è nella vita eterna e non
ha bisogno di preghiere, oppure è morto per sempre e le preghiere
sono inutili).
Gesù poi prenderà l’immaginedella geenna come metafora
per indicare la distruzione totale della persona che non accoglie il
dono di una vita più forte della morte.
Al rifiuto della vita per sempre corrisponde la morte per
sempre. E' questo il significato del monito che corre lungo tutto il
vangelo da parte di Gesù di cambiare atteggiamento altrimenti la
fine è nella Geenna, cioè nell'immondezzaio.
Nei vangeli non solo non si parla mai d'"inferno", ma non
esiste neppure la parola. Nei vangeli si parla di chasma (Baratro)
Lc 16,26; di abyssos (Abisso) Lc 8,31, di Ade (ebr. Sheol) Mt
11,23; 16,18; Lc 10,15; 16,23; (il regno sotto terra, che, secondo la
mitologia greca, alla ripartizione del mondo tra i tre figli di Cronos
(Zeus, Poseidone e Ade), era toccato al terzo figlio, lo spietato
Ade), e di Geenna (Mt 5,22.29.30: 10,28; 18,9; 23,15-33; Mc
9,43.45.47; Lc 12,5).
Tutte immagini che hanno ben poco o nulla da vedere con
quella che intendiamo per inferno, cioè un luogo di supplizi eterni
popolato da diavoli tremendi.
Agli inizi dell'era cristiana, sotto l'influsso di idee ellenistiche,
l'immagine del mondo aveva cominciato a modificarsi: l'immagine
dell'universo a tre piani (cielo, terra, mondo sotterraneo) venne
sostituita dalla terra circondata da sfere planetarie: la regione
celeste, al di sopra della luna era riservata agli dei e quella al di
sotto della luna agli spiriti degli uomini e alle potenze demoniache.
(Il "descensus ad inferna" compare per la prima volta in una
professione di fede verso la metà del secolo V, nella cosiddetta
quarta formula di Sirmio del 359, opera del siro Marco di Aretusa).
Gesù prenderà pure l'idea farisaica della resurrezione (ma
cambiandone sostanzialmente il contenuto) per parlare agli ebrei,
che potevano capire questa categoria teologica (cfr. Mc. 8,31;
9,31;10,34.). Ai pagani, Gesù non parlerà mai di risurrezione, ma
di una vita capace di superare la morte fisica: "...chi perde la
propria vita per causa mia e del Vangelo la conserverà..." (Mc
8,35),
La vita eterna che Gesù offre, si chiama così non per la sua
durata indefinita, ma per la qualita': la sua durata senza fine e'
conseguenza della qualita', e Gesù ne parla al presente. Non parla
di una "vita" del futuro, come di un premio da conseguire dopo la
morte se ci siamo comportati bene nella vita, ma di una qualità di
vita che è a disposizione subito per quanti accettano lui ed il suo
messaggio e con lui e come lui collaborano alla trasformazione di
questo mondo. Gesù lo dice: "Chi mangia la mia carne e beve il
mio sangue HA la vita eterna. (Gv 6,54).
N.B: (sia chiaro che non è un invito a "fare la comunione" ma,
nutrendosi del pane che da Gesù, avere i suoi stessi sentimenti nei
confronti degli altri... "Fate questo in memoria di me..." (1 Cor
11,24), non significa partecipare ad un rito commemorativo, ma
mettere nella nostra vita gli stessi sentimenti che spinsero Gesù a
donarsi totalmente per gli altri...)
Una vita di una qualità tale che quando si incontrerà colla morte
la scavalcherà: "se uno osserva la mia parola non morira' mai (Gv
8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè facendo
sempre del bene, non farà l'esperienza del morire.
Secondo Gesù è la persona intera che continua a vivere, non un
"qualcosa" di questa. La permanenza della VITA attraverso la
MORTE è quel che si chiama risurrezione.
L’anima non è qualcosa che l’uomo ha, bensì qualcosa che egli è.
Gesù nei vangeli non parla mai di anima, concetto
sconosciuto nell'ebraismo. Questo dell'anima è una idea che il
cristianesimo ha preso poi a prestito dalla filosofia greca, ma che è
assente nell'ebraismo. Il termine greco psyké, non significa altro
che la vita della persona. Non esiste, secondo il pensiero ebraico,
una realtà nell'uomo contrapposta al corpo. (Del resto nel "Credo”
abbiamo sempre professato di credere nella "resurrezione dei
morti" e non nell'immortalità dell'anima...) Quindi anima nel senso
di persona, come comunemente si esprime parlando: "Una
parrocchia di duemila "anime" "Un'anima in pena..."
La fede nella continuità di tutta la persona oltrepassata la
soglia della morte, è tanto forte e radicata nelle prime comunità
cristiane che verrà sempre ostacolata qualunque ipotesi di
sopravvivenza dell'anima.
I primi cristiani contrappongono alla fede ellenistica dell'
immortalità dell'anima, la fede cristiana della risurrezione della
carne.
La teoria platonico-ellenistica dell'immortalità dell'anima è
considerata dai Padri della Chiesa una dottrina empia e sacrilega
che doveva più di ogni altra essere combattuta ed abolita.
La fede nella risurrezione della carne era così tanto specifica
che divenne la parola d'ordine del Cristianesimo. Chi credeva
invece all'immortalità dell'anima mostrava di essere estraneo al
cristianesimo.
Così si legge in Giustino: "Se doveste incontrarvi con coloro
che si fanno chiamare cristiani... e che affermano che non vi è
alcuna risurrezione dei morti, ma che le loro anime saranno
accolte in cielo già al momento della morte, non considerateli
cristiani" (Dial. 80,4). "L'anima non può dirsi immortale"
aggiunge ancora Giustino (ib. 5,1). Sempre riguardo il concetto di
resurrezione/immortalità dell'anima è illuminante il pensiero di
Teofilo secondo il quale l'uomo per sua natura non è né mortale
né immortale, ma è creato con la possibilità di dirigersi nei due
sensi (Ad Autol. II, 27).
Pertanto nel messaggio di Gesù per vita che continua dopo la
morte non si deve intendere la sopravvivenza di un'anima, ma la
persona stessa che continua la sua esistenza in una diversa
dimensione in una continua crescita e trasformazione di se stessa
verso la piena realizzazione, come recita il prefazio per la messa
dei defunti: "La vita non viene tolta, ma trasformata..."
Credo che questo faccia parte dell'esperienza della vita, almeno
ad un certo stadio di essa. Arriva un punto della vita nel quale
l'armonica crescita tra il corpo, la parte biologica e quella spirituale
o morale subisce una metamorfosi. Mentre finora erano cresciute in
maniera armonica graduale, allo sviluppo del corpo si
accompagnava anche lo sviluppo dell'intelletto, della morale, della
spiritualità, di quello che rende una persona tale, arriva un punto
della vita in cui la parte biologica, raggiunto il suo apice inizia un
graduale declino, e questo coincide proprio mentre la parte che
chiamiamo "spirituale" sembra essere al massimo della sua
potenza. Mentre quest'ultima continuerà a crescere, l'altra
proseguirà il suo inevitabile declino. Mentre la maturità di pensiero
si consoliderà e nella misura che darà frutti crescerà, il corpo inizia
il suo lento cedimento.
San Paolo esprime stupendamente questo concetto:
"Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo
esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in
giorno." (2 Cor 4,16).
All'inevitabile disfacimento della parte biologica,
corrisponde la pienezza della maturità, alla morte delle cellule la
vita indistruttibile... Quindi morte non più come distruzione ma
trasformazione o realizzazione della persona accolta a far parte
della pienezza di quel Dio che ha per essi preparato "quelle cose
che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di
uomo..." (1 Cor 2,9)

http://www.studibiblici.it/appunti/Vita%20eterna.pdf

C'è una vita dopo la morte?



La vita dopo la morte? È una domanda che tutti gli uomini si pongono, prima o poi.
Certi rispondono negativamente: “Non c'è nulla”, oppure dicono: “Un abisso e poi più niente”.
Tuttavia, alla fine della loro vita, dopo aver vissuto, si mettono a pensare che potrebbe esserci qualcos'altro.


I cristiani non sono i primi ad affermare che esiste una vita dopo la morte. Tutte le culture hanno una cerimonia di sepoltura, nella quale lasciano degli oggetti per continuare a vivere: per mangiare, scacciare o difendersi nell'aldilà. Tutto questo dice già che l'uomo non è fatto per la morte.
Offrendo alle divinità dei doni propiziatori in favore dei defunti, per il loro prossimo soggiorno, è già come dire che c'è una giustizia, una ricompensa, differenti destini possibili nell'altra vita. Presso i Greci, “la barca di Caronte” attraversava il fiume che delimitava la terra dei morti, e segnava in modo simbolico il grande passaggio verso i Campi Elisi, luogo paradisiaco dell'altra vita.
Quanto ai filosofi greci, come Platone, non solamente pensavano ad una “vita dopo la morte”, ma avevano anche il concetto di “vita prima della vita”. In questo struttura, la vita terrestre e corporea era una caduta, e la morte liberava l'anima dai fardelli del corpo.


L'idea dell'eternità non è così estranea all'uomo, ed è per lui piuttosto naturale.
Il modo di considerare il dopo è evidentemente molto diverso e non può più essere considerata nella stessa maniera dopo l'avvento di Cristo e l'influenza del Cristianesimo sul pensiero umano:






- Gli antichi Bretoni, prima del cristianesimo, immaginavano, per esempio, la vita dopo la morte come una terza vita. La prima era un modello per le due seguenti, o meglio ancora, come una seconda vita senza una fine determinata, condotta in un'isola impossibile da raggiungere da quelli che vivono ancora la “prima vita”.


- I comunisti, i materialisti, negano la vita dopo la morte. Tuttavia, anche loro hanno un paradiso: la società non più divisa in classi, in un futuro di “domani che cantano” [1]. Questo avvenimento paradisiaco, presuppone un vivere qui in basso attraverso le generazioni, ed è un tempo che si fa attendere troppo, tanto da scoraggiare i suoi adepti.


- I sostenitori della reincarnazione hanno sostituito, alla vita eterna tanto desiderata, un'altra spiegazione: quella di rivivere qui in basso diverse volte, ma mai secondo lo stesso ruolo. Quindi come persone diverse. Si differenzia dalle “tre vite celtiche” perché lì è la stessa persona che continua a vivere.


- I musulmani credono in un “Paradiso” che darà la giusta ricompensa ai buoni, ma è molto materiale nella sua descrizione e sconcertane in rapporto alle nostre aspirazioni più profonde.


Per i cristiani, Dio ha inviato suo figlio, Gesù Cristo, che si è fatto vero uomo per farci conoscere il suo amore e la sua promessa di risurrezione. Lui stesso è resuscitato il terzo giorno. È uscito dalla tomba, ha incontrato vivo i suoi discepoli, che l'hanno visto e ne hanno dato testimonianza.
La resurrezione di Cristo non è indagabile direttamente attraverso la storia; ma pone un interrogativo all'interno della storia e a tutti gli uomini. Tuttavia, la testimonianza dei suoi discepoli sulla Resurrezione è di fatto storica. Lo hanno testimoniato fino alla fine, fino al martirio.
La fede nella Resurrezione dei morti si basa sulla resurrezione di Gesù. Il Dio che ci ha creati non l'ha fatto per il breve tratto di una vita, come un gioco o un'assurdità. Per amore, quando ancora non esistevamo, ci ha dato la vita; per amore, ci richiama alla vita eterna. È ciò che si chiama il “Cielo”, che non è altro che una vita eterna di felicità con Dio e “tutti i santi”.


Non si tratta di un paradiso materiale, nel quale rivivremo una vita terrestre (testimoni di Geova), né un paradiso del tutto spirituale nel quale le anime saranno definitivamente spogliate dal corpo (Platone) e di tutta la loro personalità (buddismo): nel riassunto della loro fede, nel Credo, i cristiani credono (Simbolo degli Apostoli) nella “resurrezione della carne”, ovvero dell'anima e del corpo insieme. Così come è resuscitato Cristo.

http://www.it.catholic.net/notizie/723-ce-una-vita-dopo-la-morte

domenica 29 aprile 2012

Foglietto 29 aprile 2012 (Famiglie Visitazione) BOSE





Giovanni 10,11-18
1) Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà (lett: pone) la propria vita per le pecore: Gesù usa la similitudine del pastore e delle pecore. Pochi versetti prima si dice: Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro (Gv 10,6).
Il discorso è all’interno di un’aspra discussione con i giudei ed è molto lontano dai toni bucolici di una certa letteratura pastorale. Tra i riferimenti all’AT, il più vicino sembra essere Ez 34, dove, dopo una invettiva contro i pastori di Israele che pascono se stessi, si dice: Susciterò per loro un pastore che le pascerà, il mio servo Davide. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore (Ez 34,23). Gesù è quel pastore, lui non esita a porre la sua vita per le sue pecore.
2) Il mercenario… vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde: è entrato in scena il nemico. Il mercenario è come i pastori di Ez 34, può solo pensare a difendere la sua vita, lasciando le pecore in preda al nemico. Il termine “disperde” evoca le sconfitte più amare di Israele, seguite dalla dispersione presso popoli stranieri.
3) Perché è un mercenario e non gli importa delle pecore: anche se in negativo, si intravede il legame forte tra il pastore e le sue pecore: sono sue, gli importa di loro.
4) Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me: adesso è espresso in positivo. Conoscere non è una cosa astratta, nella scrittura indica una relazione di amore.
5) E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: il discorso si allarga in una prospettiva universale, non riguarda più solo il recinto di Israele.
6) Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore: il discorso si rivolge al futuro, il porre la vita del pastore porta a questo allargamento del gregge. In Gv 11,51, l’evangelista, dopo aver parlato della congiura dei sacerdoti e dei farisei e della sentenza finale di Caifa, commenta: profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi.
7) Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo: Gesù ritorna all’orizzonte immediato della sua morte e risurrezione e fa una rivelazione decisiva. L’atto di porre la vita è interno alla relazione d’amore tra il Padre il Figlio. Si potrebbe dire in modo semplice: Dio Padre è fatto così, il sacrificio di Gesù lo manifesta.
8) Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo: dare la vita è il frutto di un potere dato a Gesù dal Padre, strettamente legato al potere della risurrezione. È una prospettiva completamente rovesciata rispetto ad un’esistenza umana occupata inevitabilmente a tenersi stretta la vita. Per Gesù la vita può essere illuminata dal potere dell’amore di Dio e inviterà i suoi discepoli a seguirlo nella via della croce: chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà (Lc 9,23).


Atti 4,8-12
1) Allora Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: Pietro, umile pescatore, parla con fermezza ai massimi esponenti del popolo ebraico perché è animato dallo Spirito. Cfr. la profezia di Gioele che ci parla del Giorno del Signore: «Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo …» (Gl 3,1).
2) Visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo: insieme a Pietro è interrogato anche l’apostolo Giovanni sul miracolo della guarigione del paralitico che ogni giorno, presso la porta del tempio detta Bella, chiedeva l’elemosina a coloro che entravano nel tempio (cfr. At 3,1ss).
3) Nelnome di Gesù Cristo il Nazareno… costui vi sta innanzi risanato: anche queste parole sono fondate sulla profezia di Gioele: chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato (Gl 3,5 ). La Potenza del nome di Gesù (in ebraico significa Dio è salvezza) è alla base della vita cristiana personale (ognuno di noi è stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo) e comunitaria (la Messa e ogni preghiera iniziano in ugual modo). In merito al “nome di Gesù” cfr. il cantico dei primi vespri della domenica: per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra (Fil 2,9s).
4) Che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti: il sacrificio del Signore fino a morire è così potente che comporta l’intervento del Padre che sconfigge definitivamente il nemico supremo (la morte). Cfr. il Salmo 116,5: agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli che introduce ciascuno di noi al mistero della morte.
5) Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d'angolo: questa citazione è tratta dal Salmo 117 che è il salmo responsoriale di questa domenica. È un salmo eminentemente pasquale in quanto celebra la passione, risurrezione e ascensione del Signore. Gesù riferisce queste parole a se stesso parlando ai capi dei sacerdoti e ai farisei: non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo…? Perciò io vi dico: “a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti. Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà; e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato” (Mt 21,42ss). Crisostomocosì commenta questo salmo: I costruttori sono i giudei, i dottori della legge, gli scribi e i farisei che lo rifiutarono. Non una pietra qualunque è atta a essere pietra angolare. È necessaria la pietra scelta, capace di unire due muri. Il profeta dice qui: respinto dai giudei e tenuto in nessun conto, è apparso talmente ammirabile che non solo si integra nell’edificio, ma è lui che riunisce e tiene insieme i due muri. Quali muri? I credenti, i giudei e i gentili.


1Giovanni 3,1-2
1) Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente: l’invito dell’apostolo è a considerare quanto grande sia l’amore con cui Dio gratuitamente ama. Chiunque confessa che Gesù è il figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio. La paternità di Dio avvolge coloro che sono divenuti suoi figli per aver accolto il Verbo da Lui mandato: a quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati (Gv 1,12ss.). I figli di Dio sono tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio: voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre (Rm 8,15).
2) Per questo il il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto Lui: la non conoscenza è la fatica a riconoscere e ad accogliere Gesù, il Verbo che si è fatto carne: la luce vera che illumina ogni uomo: veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di Lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne fra i suoi, e i suoi non l'hanno accolto (Gv 1,10ss).
3) Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui: i figli di Dio ora, sulla terra, si vedono in coloro che compiono la giustizia e in chi ama i propri fratelli. I figli di Dio vivono sulla terra con la mente rivolta al Padre, consumandosi nell'amore degli uomini: se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio. Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria (Col 3,1ss).


SPIGOLATURE ANTROPOLOGICHE


È una nuova interpretazione della vicenda umana quella che oggi propongono le Scritture cristiane. Non più la divisione tra buoni e cattivi. Non più l’alternativa tra premio e punizione. Non più il legame tra male e colpa. Non più la connessione tra colpa e pena. Ma la vita nuova creata dalla Persona e dalla vicenda di Gesù di Nazareth. E prima di tutto il suo rapporto di custodia e guida svelato attraverso l’immagine del pastore e delle pecore del gregge. Custodia e guida che si compiono con l’offerta da parte del pastore della sua stessa vita. Offerta della vita davanti all’aggressione del lupo, simbolo del mistero negativo nemico dell’umanità. Il lupo viene vinto con l’offerta della vita da parte del pastore. Il lupo è simbolo del male e della sua aggressività contro l’umanità. Il pastore è la nuova via della salvezza, ottenuta non attraverso l’uccisione del nemico ma con l’offerta della vita del pastore. È anche la fine di un regime mercenario dove ognuno è solo con se stesso e con la sua fragilità, perché al mercenario le pecore non interessano e fugge davanti al lupo. Nel regime del mercenario proprio le pecore aggredite vengono lasciate sole! Le pecore sono la figura di un’umanità raccolta dall’amore dell’unico pastore e non più divisa. Anzi. Il gregge raccolto nel recinto, che rappresenta la vicenda di Israele, viene a sapere che ci sono altre pecore che del recinto non fanno parte, e che il pastore considera sue. Anche quelle Egli deve guidare nella via della liberazione e della salvezza.
Lo splendore di questa immagine sfocia nell’esclamazione estatica di Giovanni: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio!”. L’immagine delle pecore fluisce nella realtà dei figli. Quali titoli hanno per essere chiamati, e per essere realmente, figli di Dio? Semplicemente l’amore che il Padre ha per loro e che a loro ha “mandato” nel suo Figlio Gesù. Rispetto ad un “mondo” ancora prigioniero del Male il “gregge” dei figli appare misterioso, inconoscibile, perché eletto e immerso in una concezione antimondana della realtà umana: appunto, non più i buoni e i cattivi e i premiati e i puniti delle sapienze e delle credenze mondane, ma gli amati figli del Padre di Gesù. Tutto questo non si traduce in una mondana “visibilità”. È un’appartenenza misteriosa e, come dicevamo, umanamente indecifrabile, ma ormai nel campo del mondo è nascostamente presente il tesoro del Regno. La perla preziosa è stata finalmente trovata.
Se rimanesse qualche incertezza circa l’assoluta gratuità della chiamata e della guida del pastore, si può attingere oggi alla grande audacia dell’Apostolo Pietro che in un delicato discorso pronunciato davanti alla cittadinanza giudaica che ha messo in croce Gesù, da una parte audacemente denuncia il grande male commesso da chi, dopo averlo atteso per secoli, ha scartato Gesù, la “pietra d’angolo” del nuovo edificio della salvezza, un tempio non più di pietra, ma fatto da uomini e donne che seguono il Signore Gesù e che tra loro accolgono tutti quelli che da Lui sono chiamati. Ma lo stesso male che gli uccisori hanno commesso è diventato anche per loro fonte e grembo di salvezza.

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PREGHIERA ALLO SPIRITO




Fuoco dello Spirito




Spirito Santo, Fuoco,
luce che risplende
sul volto di Cristo;
Fuoco, la cui venuta è parola;
Fuoco, il cui silenzio è luce;
Fuoco, che stabilisce i cuori
nell'azione di grazie:
noi ti magnifichiamo!



Tu che riposi in Cristo,
Spirito di sapienza e d'intelligenza,
Spirito di consiglio e di fortezza,
Spirito di scienza e di timore:
noi ti magnifichiamo!



Tu che scruti le profondità di Dio,
che illumini le profondità del cuore,
che ti unisci al nostro spirito,
che rifletti in noi
la gloria del Signore:
noi ti magnifichiamo.



Litania della Chiesa d'Oriente

sabato 28 aprile 2012

Commento alle letture 29 aprile 2012 (G.Bruni)BOSE



Giancarlo Bruni, (1938) appartiene all'Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco della Comunità ecumenica di Bose. Risiede un po’ a Bose e un po’ all’eremo di San Pietro alle Stinche (FI).




Letture: At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18.
«Io sono il buon pastore»
1. L’immagine del pastore è ampiamente usata nelle Scritture di Israele a indicare a volte Dio (Sal 23; Is 40,1; Ger 31,9), a volte il re messianico (Sal 78,70-72; Ez 37,24) e a volte i responsabili del popolo (Ger 2,8; 10,21; 23,1-8; Ez 34). E sempre in termini di guida e di protezione.
Immagine che Gesù nel vangelo di Giovanni applica a se stesso: «Io sono il buon pastore» o «Io sono il pastore bello» (Gv 10 11), tale proprio perché buono. Biblicamente una persona è bella quando coincide con la propria profonda verità, il cuore buono tradotto in gesti di bene; e di tale bellezza-bontà Gesù è l’archetipo, egli l’ «Io sono il pane della vita» (Gv 6,35), la luce del mondo (Gv 8,12), la porta (Gv 10,7), la resurrezione e la vita (Gv 11,25), la via, la verità e la vita (Gv 14,6), la vite (Gv 15,15), il re (Gv 18,37) e ancora « il primo e l’ultimo e il vivente» (Ap 1,8.17). La verità di Gesù sta nel suo essere l’Io Sono nel quale il Padre si è reso presente e manifestato come l’Io Sono amore per l’uomo: pane, luce e vita alle sue molteplici fami, oscurità e morti, via d’uscita e porta aperta alle sue prigioni, ai suoi orizzonti chiusi. Pastore dice tutto questo, la sconfinata compassione di Dio in Gesù nei confronti di pecore allo sbando (Mc 6,34), senza radici-senza orientamento-senza approdi, cercate una a una e poste da Gesù sulle proprie spalle, patria agli smarriti ritrovati (Lc 15,3-7).
2. L’evangelista Giovanni da parte sua ama soffermarsi sulla descrizione del rapporto pastore-pecore a significare la relazione del Gesù terreno prima e del Gesù risorto poi con i suoi e con ogni creatura: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare» (Gv 10,16). Rapporto espresso dal vocabolario del «conoscere» e del «dare la vita», l’alfabeto della relazione bella e buona. Leggiamo: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14; cf 10,4); «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10); «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11.15). Ma che significa «conoscere l’altro?». Significa vederlo, chiamarlo per nome, essergli da guida, fargli attraversare la porta dei pascoli della vita, proteggerlo, varcare mari e monti per fare dell’amico perduto un amico ritrovato fino a dargli la propria stessa vita. Questo è il conoscere di Gesù (Gv 10,1-3.9.11-13; Lc 15,4-7), declinare la relazione con l’altro alla luce di una compassione i cui passaggi concreti, ridetto altrimenti, sono «elezione»: «Io ho scelto voi» (Gv 15,16), solo chi ha occhi di amore sa vedere e eleggere l’altro (Lc 10,33); «preziosità», ciascuno ha ed è il proprio nome e conoscere qualcuno comporta il rispetto della sua irripetibile unicità e alterità; «comunione»: «Un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16) nella conoscenza reciproca (Gv 10,14) e nella libertà (Gv 10,17-18). E ancora «illuminazione»: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), e ciò che Gesù ha udito è riassumibile nella espressione «vita in abbondanza». Gesù sa ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno, di una relazione bella e buona che lo dischiuda alla conoscenza profonda di sé e che lo faccia sbocciare a una esistenza bella e buona aperta a inediti futuri, aspetti inscindibili. Per questo è venuto, per essere nel villaggio umano l’ «Io sono la porta» (Gv 10,7) che introduce alla conoscenza dell’amore esagerato del Padre, fonte prima da cui scaturisce la conoscenza di sé come amati inviati ad amare in termini assolutamente esagerati. Quelli di Dio visti in Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13), e per il Padre di Gesù tutti lo sono. In questa prospettiva la «conoscenza» non è esaurita dal sapere filosofico, scientifico o teistico ma attinge l’ambito esperienziale, «homo sapiens» è l’iniziato a conoscere se stesso in termini di amato in forma bella e buona dal Pastore bello e buono, è l’iniziato a conoscere l’altro come soggetto prezioso che ci attende come inviati ad adempiere nei suoi confronti il mandato e il debito dell’amore. A questo pascolo di giorni nella bellezza guida il Pastore, un al di quà il cui al di là si chiama compimento del già iniziato.
3. «Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e al custode delle vostre anime» (1Pt 2,25), un pastore simultaneamente agnello: «L’agnello… sarà il loro pastore e li guiderà alle sorgenti delle acque della vita» (Ap 7,17). L’uomo domanda a se stesso e mendicante alla ricerca della propria verità, costitutivamente errante, da un altro da sé che lo ha custodito e amato fino al dono di sé, costitutivamente agnello, è guidato e fatto risalire, costitutivamente pastore, al suo in principio restituito al suo mistero. La sorgente prima da cui ciascuno trae vita è l’atto di fede, di speranza e di amore del Dio di Gesù verso ognuno; l’acqua seconda che dischiude a giorni luminosi in una vita bella perché buona è l’amore con il quale il Padre ci ha amati in Cristo; la sorgente ultima da cui ciascuno trae vita eterna che nel Risorto si dichiara triste senza la mai conclusa compagnia dell’uomo. Che paradiso è senza l’uomo? Gesù è un pastore davvero unico nel suo inoltrarci nei pascoli ineffabili della nostra origine, generati dall’amore, del nostro compito, inviati ad amare, del nostro approdo, attesi dall’amore.

L' ESCATOLOGIA



La vita dopo la morte, secondo la fede cristiana


1. Il problema
Poiché vivere è «camminare verso la morte», gli uomini si pongono il problema
di saperese c’é qualcosa e che cosa c’é «oltre la morte».È la domanda ultima che
nasce dal più generale problema del senso dell’esistenza e dalla convinzione
secondo cui la vita non può finire con la morte.
Ma è anche la domanda che più si tende ad evitare, anche a causa della scarsità
dei dati per rispondervi e della paura che fa sorgere l'ignoto.
Qualcuno oggi pone anche un’altra domanda: «A che serve parlare di queste
cose? Diventiamo forse migliori parlandone?».
2. Alcuni tentativi (razionali) di soluzione
Al di fuori di una rivelazione di Dio, gli uomini hanno cercato di risolvere questo
problema con la loro ragione.
DIO RIVELATO
— il mito dell’eterno ritorno - tutto passa e ritorna (greci)
— la reincarnazione (estremo oriente)
— l’uomo singolo entra nel ciclo del progresso dell’umanità
— dopo la morte il nulla
— non porsi il problema: non serve. Occorre vivere nell’oggi.
3. Le risposte dell’Antico Testamento
Per capire le soluzioni al problema proposte dal cristianesimo, interroghiamo
l'A.T., nelle cui prospettive si muovevano i primi cristiani.

X - IL NUCLEO DELLA FEDE CRISTIANA
Sul problema escatologico, nell’Antico Testamento c’è una notevole evoluzio-
ne di pensiero. Tentiamo di indicarne le tappe principali:
1. Prima dell’esilio di Babilonia (prima del sec. VI a.C.)
La morte è un fatto naturale.
Non è ancora chiara l’idea di una vita oltre la morte o, se c’è, si pensa che
i morti scendano tutti sotto terra (sheòl), ove vivono una vita dimezzata e
tenebrosa (Num 16,33; Deut 32,22; Sal 39,14; 115,17; 88, 12-13; 22,16; 30,10; Is
14,11; 38,18-19; Ez 31,14).
C’era anche l’idea che si potessero «evocare i morti», ma la cosa era vietata (1 Sam 38,3-
45; Lev 19,26.31; Deut 18,10; 1 Cron 10,13).
L’idea che con la morte tutto finisca si trova presso molti ebrei anche dopo l’esilio di
Babilonia (Eccl 3,18-21; 9,4-6; 12,1-6) e, ai tempi di Gesù, fra i membri della setta dei sadducei
(Mt 22,23; At 23,8).
2. Dopo l’esilio di Babilonia
Comincia a farsi strada l’idea (che sarà poi ripresa dai farisei) che ci debba
essere una vita dopo la morte, dove finalmente i giusti saranno premiati e i
malvagi puniti (cfr. il problema del male, pag. 136-137). La morte è innaturale
(Eccl.co 136-137). Dio non ha creato la morte. È entrata nel mondo per invidia
del diavolo (Sap 1,4). S’introduce così l’idea di una risurrezione dei morti (Is
26, 19).
PeròGb 14,7-12afferma che non esiste una vita dopo la morte. Così anche
Qo3,21, pur nella forma di una domanda: "Chi sa se lo spirito vitale dell'uomo sale
in alto e se quello dell'animale scende sotterra!".
3. Immediatamente prima di Gesù
Molti ebrei, in particolare i farisei, credono ad una vita oltre la morte, in cui ci
sarà la retribuzione definitiva del bene e del male, e alla risurrezione dei morti
(giorno di Jhwh). Vari libri dell’ A.T. ne parlano: Dan 12,1-3; 2 Macc 7,22-23;
12, 43-44; Sap 1,13-15; cfr. anche Lc 16,19-31; At 23,6-9.
4. I dati del Nuovo Testamento
I dati del Nuovo Testamento riguardanti l’aldilà non sono molto abbondanti e
tuttavia sufficienti per affermare:
1. La morte non è l’ultima realtà dell’esistenza: morire è uscire dal tempo, ma
non dall’essere (cfr. per es. Gv 6 e vol. II, pag. 330).
2. Gesù, con la sua risurrezione, ha vinto la morte, non nel senso che l’uomo non
morirà più, ma nel senso che la vita umana continuerà dopo la morte (speranza
sicura, perché garantita da Dio).
DOCUMENTAZIONE
* 1 Cor 15
È il testo più completo al riguardo. Anzichè riportarlo tutto, preferiamo esporre la struttura
della prima parte del brano ed il testo della parte che interessa più direttamente:
a) vv. 1-11: la risurrezione di Gesù è il fondamento di tutto il cristianesimo
(Questo brano è già stato analizzato nella trattazione del Fondamento della fede
cristiana - pag.156).
b) vv. 12-19: unione stretta fra la risurrezione di Gesù e quella dei cristiani (e anche degli altri uomini?).
Dalla risurrezione di Gesù si deduce in linea di principio che la risurrezione dei morti
è possibile e perciò l’affermazione «i morti non risorgono» è falsa, perché Gesù è risorto.
Ma la risurrezione di Gesù è l’inizio di una risurrezione che interessa tutti gli uomini.
Dunque due sono le possibilità: o credere l’una e l’altra insieme, o respingerle entrambe.
Senza la risurrezione di Gesù, infatti, non è possibile la risurrezione dei cristiani.
c) vv. 20-28: la salvezza operata da Dio attraverso Gesù.
Gesù è risorto come primizia dei dormienti (= morti); con Lui comincia la risurrezione di
tutti, anzi tutti in Lui sono già risorti.
Bisogna però notare che per Paolo sono «in Cristo» e vivono la risurrezione solo
coloro il cui rappresentante è il Cristo. In 1 Cor 15 egli non si pronuncia sul destino degli
altri.
Le due risurrezioni, di Gesù e dei cristiani, sono cronologicamente separate l’una
dall’altra, nel senso che la prima è situata nel passato e la seconda deve ancora venire, ma
ha già, nella prima, la realizzazione e la preparazione. La risurrezione di Gesù infatti
rappresenta la vittoria sulla morte e quindi sul peccato che, per l’ebreo, la produce. Per cui
il cristiano vive già ora nella certezza di fede che per lui il peccato e la morte sono stati
annientati. In altri termini, la salvezza, intesa come liberazione dal peccato e dalla morte,
è già presente in noi, ma non si è ancora manifestata. Si manifesterà quando il Cristo
vittorioso avrà sottomesso tutto a sé per consegnare tutto al Padre.
d) vv. 29-34: l’assurdità della vita cristiana senza una prospettiva di risurrezione.
In questa parte vi è anche l’allusione alla pratica dei Corinzi di farsi battezzare al posto
dei morti. L’usanza non viene né lodata né condannata; ma la sua esistenza rivela che vi
è la credenza secondo cui i morti risorgeranno: se non fosse così, non avrebbe senso che un
vivo si faccia battezzare a favore di un morto 1.
e) vv. 35-58: il modo della risurrezione. Ecco il testo:
35. Ma qualcuno dirà: Come sono destati i morti? Con quale corpo
vengono?
36. Stolto, ciò che tu semini, non è vivificato se non muore;
37. e ciò che semini, non il corpo che nascerà semini, ma un nudo granello,
poniamo di grano o di qualcuno degli altri;
38. il Dio gli dà un corpo come volle, e a ciascuno dei semi un proprio
corpo.
39. Ogni carne non (è) la stessa carne, ma altra (è quella) di uomini, altra
carne (è quella) di bestie, altra carne (è quella) di uccelli, altra (è
quella) di pesci.
40. E ci (sono) corpi celesti e corpi terrestri, ma altra è la gloria dei (corpi)
celesti, altra quella dei (corpi) terrestri.
41. Altra (è la) gloria del sole, e altra (è la) gloria della luna, altra (è) la
gloria delle stelle; infatti stella differisce da stella quanto a gloria.
42. Così anche la risurrezione dei morti: si semina in corruzione, si sveglia
in incorruttibilità;
43. si semina in disonore, si sveglia in gloria; si semina in debolezza, si
sveglia in potenza;
44. si semina un corpo psichico, si sveglia un corpo spirituale. Se c’è un
corpo psichico, c’è anche un (corpo) spirituale.
Qui Paolo afferma senza motivare.
Questo strano uso di farsi battezzare al posto di qualcuno che era morto senza poter ricevere il battesimo
è attestato solo qui nel N.T.
X - IL NUCLEO DELLA FEDE CRISTIANA
45. Così pure sta scritto: Fu generato il primo uomo adàm (= uomo) in
anima vivente (Gen 2,3), l’ultimo adàm in spirito vivificante.
46. Ma il primo non (fu) lo spirituale, bensì lo psichico, dopo (fu) lo spirituale.
47. Il primo uomo da(lla) terra, terrestre, il secondo da(l) cielo.
48. Quale il terrestre, tali anche i terrestri, e quale il celeste, tali anche i
celesti;
49. e come portiamo l’immagine del terrestre, porteremo anche l’imma-
gine del celeste.
50. Dico questo, fratelli, che carne e sangue non possono ereditare regno
di Dio, né la corruzione eredita l’incorruttibilità.
51. Ecco, vi dico un mistero: non tutti ci addormenteremo, però tutti ci
trasformeremo (opp.: tutti ci addormenteremo, non tutti ci trasforme-
remo),
52. in un attimo, in un batter d’occhio, con l’ultima tromba: suonerà infatti
la tromba e i morti saranno destati incorruttibili e noi ci trasformeremo.
53. Questo corruttibile deve infatti essere rivestito di incorruttibilità e
questo mortale essere rivestito di immortalità.
54. Quando poi questo corruttibile sarà rivestito di incorruttibilità e
questo mortale sarà rivestito di immortalità, allora si avvererà la
parola scritta: La morte fu ingoiata ne(lla) vittoria (Is 25,8).
55. Dove, morte, la tua vittoria? Dove, morte, il tuo pungolo? (Os 13,14).
56. Il pungolo della morte (è) il peccato, la potenza del peccato (è) la
legge;
57. grazie al Dio che ci ha data la vittoria mediante il nostro Signore Gesù
Cristo.
58. Perciò, fratelli miei diletti, siate saldi, irremovibili, abbondando sempre
nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel
Signore.
Paolo vuole rispondere all’interrogativo: «Come risorgono i morti?». Per
farlo si serve del paragone del chicco di grano. Prima che sorga la nuova vita è
necessario che il chicco muoia e così è per l’uomo. La nuova pianta non è identica
al seme, eppure deriva dal seme; così la nuova vita non è identica alla vita
terrestre, eppure deriva da essa. Ma, in un caso come nell’altro, siamo di fronte
ad un miracolo, perché solo la potenza di Dio è capace di far questo.
Tra la vita terrestre e la vita dei risorti c’è dunque per Paolo una analogia,
cioè le due vite hanno qualcosa di comune e qualcosa di diverso. È quanto Paolo
esprime con l’antitesi «corpo psichico - corpo spirituale (pneumatico)». La
risurrezione è anche chiamata «trasformazione», ma il tutto è un mistero (v. 51).
Il capitolo termina poi con un inno: la risurrezione è davvero la vittoria sulla
morte e di ciò si dà lode a Dio.
* 1 Tess 4, 13-17
13. Non vogliamo che voi ignoriate, o fratelli, a riguardo dei morti (lett. dormienti),
affinché non vi affliggiate come gli altri che non hanno speranza.
14. Se infatti crediamo che Gesù morì e risorse, così anche il Dio per mezzo di Gesù
condurrà con sé/lui i morti (dormienti).
15. Questo infatti diciamo a voi in parola del Signore, che noi, i viventi, i rimasti
per la parusia (= presenza) del Signore non precederemo i morti (dormienti);
16. poiché lo stesso Signore (il Signore in persona) al segnale (dato), in voce di
arcangelo e in tromba di Dio, scenderà dal cielo e i morti in Cristo risorgeranno
dapprima,
17. poi noi, i viventi, i rimasti, insieme con essi saremo rapiti nelle nubi verso
l’incontro del Signore nell’aria.
Evidentemente Paolo pensava che Gesù sarebbe venuto prima della propria morte.


* Altri testi:
Gv 6 e 11; 2 Cor 4,13-5,9 (da leggere attentamente)
3. Dopo la morte ci sarà l’incontro con Dio ed il giudizio da parte di Gesù,
con condanna per i cattivi e premio per i buoni. Premio e castigo eterni.
DOCUMENTAZIONE
* Giov 3,19; 5,22-27; 9,39:
il giudizio è riservato al Figlio dell’uomo
* 2 Cor 5,9:
«Noi infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, perché
ognuno riceva la ricompensa di quel che avrà fatto quand’era nel corpo,
in bene o in male».
* Così anche Rom 14,10-12.
* Mt 25,31-46:
il giudizio sarà sulla carità e si parla chiaramente di premio e castigo eterno: «Andate
maledetti nel fuoco eterno..Venite benedetti dal Padre mio, prendete
possesso del regno...»
4. Ci sarà la "parusia" di Gesù , da attendere con speranza.
La parola greca «parusia» vuol dire «presenza»: si tratta della presenza visibile di Gesù,
presenza che renderà manifesta a tutti la sua vittoria sul male. Gesù unirà nella sua
vittoria anche i suoi fedeli (nel «giorno di Jhwh» di cui parlava l’A.T.).
Però la parusia si può intendere in due modi:
- o Gesù che si fa presente agli uomini alla fine dei tempi (ritorno di Gesù);
- o il singolo che si fa presente a lui al momento della morte.
DOCUMENTAZIONE
* Mt 24,3. 27. 37. 39; 1 Cor 15,23; 1 Tess 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 2 Tess 2,1. 8. 9; Giac
5,7-8; 1 Gv 2,28; 2 Pt 1,16; 3,4. 12.
* Atti 1,9-11:
9. Dopo aver detto questo, alla loro (= degli apostoli) vista Gesù si elevò
e una nube lo avvolse, sottraendolo ai loro sguardi.
10. Stando essi con gli occhi fissi al cielo, mentre egli se ne andava, due
uomini vestiti di bianco si presentarono loro
11. dicendo: «Uomini galilei, perché state guardando verso il cielo?
Quello (stesso) Gesù che è stato assunto da voi verso il cielo, verrà
così come lo vedeste salire verso il cielo».
* 2 Cor 5,6-8:
6. Incoraggiandoci dunque sempre e sapendo che dimorando nel
corpo dimoriamo-lontani dal Signore,
7. in fede infatti camminiamo non in visione,
8. ci incoraggiamo e preferiamo piuttosto dimorare-lontani dal corpo e
dimorare presso il Signore.
* Fil 1,20-21:
20. Secondo l’attesa e speranza mia che in nulla sarò svergognato, ma
in ogni certezza come sempre anche ora (che) Cristo sarà magnifica-
to nel mio corpo, sia attraverso vita sia attraverso morte.
21. Per me infatti il vivere (è) Cristo e il morire un guadagno.
5. Ci sono anche alcuni accenni al purgatorio.
DOCUMENTAZIONE (scarsa e di difficile interpretazione)
* Mt 12,32:
«Se uno dice una parola contro il figlio dell’uomo, gli sarà perdonato; se
invece dice contro lo Spirito Santo non gli sarà perdonato né in questo
secolo né in quello che sta per esserci (= futuro)».
Sembra la ripresa di un’idea di 2 Mac 12,38-46 (vederlo), ma potrebbe anche
essere un modo per dire «mai».
In base a questo testo molti teologi pensarono all’esistenza di peccati che sono
remissibili nell’altra vita, cioè nel purgatorio.
* Lc 12,48; 1 Cor 3,10-15; Apoc 21,27; 2 Tim 1,16-18.
5. La riflessione teologica
È compito della teologia prendere i «dati» ora esposti ed organizzarli in una
sintesi unitaria.
Siccome però tali dati sono piuttosto scarsi (a volte interpretati ed arricchiti
dalla fantasia popolare), le posizioni dei teologi nei primi secoli del cristianesimo
furono piuttosto diversificate. Poi in occidente si arrivò verso la fine del 1o
millennio ad una certa omogeneità di pensiero, che oggi viene da vari teologi
rimessa, almeno parzialmente, in discussione. Vediamo:
a) L’insegnamento comune in occidente
Riflettendo sui dati dell’A. e N.T., precisati anche da interventi del Magistero,
l’occidente si è fatta all’incirca la seguente idea sull’aldilà 1:
1. Al momento della morte, il corpo viene abbandonato e si corrompe, in
attesa della risurrezione, mentre l’anima, immortale, viene subito giudi-
cata da Dio (giudizio particolare).
Per i bambini morti senza battesimo e prima che avessero l’uso di
ragione c’è il limbo (luogo di felicità naturale) - oggi assai criticato e
dell'esistenza del quale è lecito dubitare (v.pag. 175, nota).
2. La sorte dell’anima dell'adulto dipende dal suo comportamento durante
la vita terrena e, soprattutto, dalla sua situazione al momento della morte:
a) se è morta in perfetta grazia di Dio:paradiso, eterno (visione e amore
di Dio)
b) se è morta in grazia di Dio, ma con qualche resto di peccato:purgatorio,
temporaneo2 («anticamera del paradiso», ma senza la visione di Dio).
Al termine della pena, ci sarà il paradiso.
Il purgatorio può essere "accorciato" grazie alle preghiere fatte per
queste anime da persone che sono ancora sulla terra (messe, indulgen-
ze, suffragi, ecc.)
c) se è morta in peccato mortale:inferno, eterno (privazione della visione
Dante ha contribuito potentemente a divulgarla.
L’idea di un purgatorio dopo la morte si è sviluppata soprattutto dal sec. X-XI per per esortare i
penitenti a fare presto la penitenza, senza tramandarla in punto di morte. Si diceva loro: meglio farla
in questa vita, anziché doverla fare, ma più dura, in purgatorio (v. vol. II, pag. 316-319).
ESCATOLOGIA - INSEGNAMENTO COMUNE
cimitero
GIUDIZIO PARTICOLARE GIUDIZIO UNIVERSALE
TEMPO INTERMEDIO


di Dio ed eterno odio a Dio - fuoco eterno).
3. Ci sarà lafine del mondo: suoneranno le trombe angeliche, i corpi, rivivificati
dalle loro anime, risorgeranno e avverràil giudizio universale, pensato alla
luce di Ez 37 e Mt 25 (una rianimazione).
Il purgatorio non ci sarà più.
I corpi avranno la stessa sorte delle anime: paradiso o inferno per "tutta"
l’eternità.
b) Verità sicuramente di fede sull'aldilà e questioni discusse
Questo modo di vedere le cose, al quale non ha certo fatto difetto la fantasia
(cfr. Dante, Divina commedia), contiene alcune verità che impegnano sicura-
mente la fede ed alcune affermazioni non di fede, legate a schemi teologici
dell’epoca in cui sono sorte.
Cerchiamo perciò di precisare quanto, nell'insegnamento del cristianesi-
mo comune in occidente, vi è di fede, distinguendolo dalle questioni libera-
mente discusse. È bene notare poi che, per quanto riguarda l’aldilà, il N.T. ci
ha fatto sapere solo quel poco che è sufficiente a far desiderare, a chi crede, di
andare a vedere come stanno realmente le cose.
1. La vita umana non finisce con la morte - risurrezione
L’uomo è destinato alla vita eterna e perciò ci sarà la risurrezione. Questo
è di fede: la vita attuale ha senso solo alla luce dell’eternità (1 Cor 6,4 e 15,14;
2 Cor 4,14; 5,10).
Nella prospettiva di una risurrezione "chimica", in passato era vietata la cremazione , perché,
secondo le concezioni scientifiche di allora, rendeva impossibile la risurrezione stessa. Ora le idee
sono cambiate e la cremazione è permessa ai cristiani (purché non sia fatta in odio alla fede).
La reincarnazione: sembra che il N.T. escluda la reincarnazione, sia per l’idea, esposta in vari testi,
dell’importanza della decisione dell’uomo - parabole della vigilanza: Mt 24,42-44; 25,1-46; Mc 13,33;
Lc 12,39 s; 13,25-27 - e sia in Eb 9,27-28: «E come è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola e dopo la
morte venga il giudizio, così pure Cristo si è immolato una volta sola per togliere i peccati di molti,
e comparirà una seconda volta, senza peccato, per quelli che l’aspettano, per dar loro la salvezza».
* Non si può precisare meglio come sarà tale risurrezione: «chimica» o spirituale? Gli
antichi simboli di fede (Credo) usano termini diversi, parlano infatti di risurrezio-
ne della carne, o dei corpi, o dei morti, indice di diversità di idee al riguardo 1.
2. Con la morte cessa la libertà
e quindi cessa la possibilità di meritare o demeritare2. Una delle proposi-
zioni di Lutero (la 38) contraria a questa affermazione è stata condannata
(Dz 1488 e poi Dz 1545-1547 e 1582) e perciò l'affermazione è di fede.
3. Dopo la morte il giudizio
particolare (= ogni persona verrà giudicata)
universale(= nessuno sfuggirà a tale giudizio).
Questi giudizi saranno fatti in base alle opere compiute dall’uomo
durante la vita terrena.
L'esistenza del giudizio particolare è stata definita dal concilio di Lione
del 1274 (Dz. 857); quella del giudizio universale è affermata in vari "credo"
e vari concili. Perciò si tratta di affermazioni di fede.
* Non è però definito che questi due giudizi siano distinti.
4. Esistono il paradiso e l’inferno
entrambieterni; rispettivamente premio o castigo dato almeno per l'ani-
ma, immediatamente dopo la morte, per chi è morto in grazia di Dio
oppure in peccato mortale.Dogmi definiti dal concilio di Firenze il 6.7.1439
(Dz. 1305-6)
— Non ci si deve lasciare portare dalla fantasia per immaginarli: sono
luoghi o stati ?
— L’inferno è «abitato»? Poiché non si può giudicare la coscienza di
nessuno, non si può dire che qualcuno sia morto in peccato. L’inferno
diventa realtà qualora qualcuno muoia in peccato mortale. La lettera
di Giuda (v. 7) afferma però che "subiscono la pena del fuoco eterno"


ESCATOLOGIA


VERITÀ DI FEDE QUESTIONI DISCUSSE


- CON LA MORTE CESSA LA LIBERTÀ
- ESISTENZA DI GIUDIZIO:
PARTICOLARE e UNIVERSALE
- PARADISO e INFERNO:
ETERNI
- PURGATORIO:
ESISTE ED È TEMPORANEO
- RISURREZIONE DEI MORTI
(o dei corpi o della carne)
- FINE DI QUESTO MONDO




- REINCARNAZIONE ? = NO (Ebr 9,27)
- DISTINTI o COINCIDENTI ?


- SONO LUOGHI o STATI ?
INFERNO PIENO o VUOTO ?


- IN QUESTA o NELL'ALTRA VITA ?
- RIANIMAZIONE(chimica) o
RISURREZIONE(spirituale) ?
- CATASTROFE COSMICA o
MORTE = FINE DEL MONDO?
Non sembra corretto citare qui il can. 30 (Dz 1580) del decreto sulla giustificazione del concilio di
Trento, perché tale canone mirava ad affermare l'esistenza del purgatorio ed il valore dei suffragi,
non il tempo del purgatorio.
gli abitanti di Sodoma, Gomorra e città vicine.
5. Esiste il purgatorio
pena temporaneaper i giusti che hanno ancora «resti di peccato». Èdogma
definito dal concilio di Trento il 3.12.1563 (Dz 1820; cfr. anche Dz 1304 e
1580). Giovano a questi giusti le preghiere degli altri uomini (suffragi e
indulgenze). È dogma definito dal concilio di Trento (Dz 1753 e 1820).
— Non è definito che il purgatorio sia necessariamente nell’altra vita,
anche se è comunemente creduto 1.
c) Una linea attuale di riflessione
L’insegnamento comune in occidente si basa sul presupposto che nell’aldilà
esista un tempo intermedio fra la morte (giudizio particolare) e la fine del
mondo (giudizio universale). Proprio questo presupposto, mai definito dal
Magistero,oggi viene da qualcuno1messo in discussione.
Che senso ha infatti ammettere un tempo dopo il tempo?
Negando dunque questo presupposto, si deve dire che, con la morte,
finisce il tempo ed allora si può proprorre un altro concetto di vita eterna che,
tuttavia, salva (o, nell'intenzione di coloro che propongono questa ipotesi,
dovrebbe salvare) i dati di fede già esposti.
1. Con la morte si entra subito nella situazione definitiva e cioè nell’eternità (da
non concepirsi come un tempo lungo, ma come una situazione fuori del
tempo). Per la persona che muore, in quel momento c’è la fine del mondo,
di questo mondo, e l’incontro definitivo con Cristo (parusìa).
- Questo era già insegnato da san Giovanni Crisostomo (˜ 407):
«Che guadagno ne avremmo, dimmi, se conoscessimo il tempo della fine del
mondo? Poniamo che sia tra vent’anni, tra trent’anni, tra cento anni: a noi che
importa? Per ciascuno la fine del mondo non è forse il termine della sua vita?... Se
ti prepari bene alla tua fine, quell’altra non ti recherà certo danno. Sia lontana, sia
vicina: ciò non ci riguarda. E per questo il Cristo non ne ha voluto parlare, perché
non è di alcuna utilità» (Omelia sulla 1a lettera ai Tessalonicesi, 9,1).
- Noi, ancora immersi nel tempo, diciamo che uno è morto prima, un altro dopo, un
altro dopo ancora, ecc. Ma se ci mettiamo fuori del tempo, non ha piú senso parlare
di «prima» e di «dopo», e perciò dobbiamo dire che tutti moriamo «nello stesso
tempo», cioé tutti insieme.
2. Questa situazione definitiva sarebbe già la risurrezione dei morti.
Ciò significa che il nostro «io» continua in un’altra forma, che è la forma
del Cristo risorto, il «corpo spirituale» di cui parla Paolo in 1 Cor 15, 35-
50. C’è dunqueuna continuità dell’io ed uno stacco.
3. Il giudizio particolare, a cui nessun uomo può scampare, si svolgerebbe
immediatamente equindi sarebbe «universale», nel senso chetutti sarebbero
giudicati. Il «giudizio» sarebbe l’incontro con Cristo.
4. Lo stato di adesione o di opposizione a Dio in cui si muoresarebbe eternizzato:
paradiso o inferno. Non è Dio che manda all’inferno. Inferno è l’uomo che
volontariamente si oppone a Dio e protrae questo atteggiamento per

Per es. G. Lohfink, La morte non è l'ultima parola, Herder 1976.
Si ricordi che il purgatorio è per i giusti, non per il peccatore.
sempre (siamo fuori dal tempo e perciò non è più possibile cambiare).
5. Non ci sarebbe la «risurrezione della carne», intesa in forma spettacolare di
rianimazione del corpo usato durante la vita terrena.
6. Non si potrebbe più parlare di purgatorio nell’altra vita.
In questa ipotesi il purgatorio sarebbe, per il giusto2, lo sforzo che fa
durante la vita terrena per vincere il peccato e le sue tentazioni, oppure la
lotta suprema contro il peccato al momento della morte.
7. Il problema della fine di questo mondo sarebbe da lasciare agli scienziati.




* Giudizio su questa ipotesi
Questa ipotesi, non del tutto nuova nella Chiesa, sta diffondendosi assai
rapidamente. Alcuni la osteggiano in nome della tradizione.
È un’ipotesi interessante. Non è però il caso di scomunicarsi reciprocamen-
te nel caso di divergenza di idee su questo punto.











































U17/4.D -ES

giovedì 26 aprile 2012

La «vita eterna» nella testimonianza biblica e nella tradizione cristiana. Riccardo Battocchio



La vita è fragile e precaria. Di questo come essere umani abbiamo coscienza, con questo dato siamo chiamati a confrontarci, implicitamente o esplicitamente, in tutto ciò che pensiamo e operiamo. «Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni...»[1]: non è detto sia l’ultima parola possibile per descrivere la nostra condizione, ma è una voce che non sarebbe giusto mettere a tacere in modo troppo sbrigativo.


Da dove sorge allora la prospettiva di una vita non minacciata dall’estinzione, sottratta alla provvisorietà, tutelata rispetto all’azione divorante della morte e in grado di adempiere le promesse di bene che sembrano trovare posto anche nelle pieghe delle più tormentate esistenze? Dal desiderio, forse. Da uno sguardo che non si rassegna e non si limita a constatare il nulla che sta dietro e di fronte agli attimi che ci sono da vivere, ma ardisce volgersi al di là del tempo che consuma. Cosa però ci assicura che questo levarsi in alto degli occhi del desiderio non sia un’illusione, una proiezione al di fuori di noi di un abisso che è solo nostro, oppure una strategia adattiva, effetto di una serie di mutazioni più o meno casuali, che ci permette di sopravvivere a un ambiente ostile grazie alla costruzione mentale di un mondo stabile e sicuro?


Se la via del desiderio sembra poco praticabile, almeno a prima vista, si può pensare che la speranza nella reale possibilità di un’esistenza umana che permane nella e oltre la morte sia il dono offerto da una parola che non nasce dal cuore dell’uomo, ma da un “Altro”, il quale dice: «Tu non morrai» perché egli stesso è più forte della morte, avendola sofferta, combattuta e sconfitta.


Il cristianesimo, con la sua storia complessa e i suoi volti differenziati, si propone nel quadro variegato delle esperienze religiose dell’umanità come annuncio di quella parola. Essa ha preso corpo in un momento particolare, all’interno della lunga storia di un piccolo popolo, ma si rivolge a tutti, al di là di ogni appartenenza, offrendo motivi per credere che se è vero che nel mezzo della vita facciamo sempre esperienza della morte, è ancor più vero che nella morte e oltre la morte ci è donata una vita «eterna».


Vita eterna è una delle formule che i cristiani hanno privilegiato per esprimere il contenuto della speranza sorta dall’incontro, nella fede, con il Crocifisso risorto[2]. Una formula paradossale: come può la vita (realtà che sembra implicare, in qualche modo, il divenire) essere eterna (appartenere all’ambito di ciò che non muta)? Ci si può effettivamente chiedere se ci sia un contenuto di verità nell’affermazione: «credo la vita eterna», o se si tratti solo dell’espressione di un sentimento per mezzo di un ossimoro, una poetica accoppiata di opposte qualità, come “una dolce amarezza”, “una lieta tristezza”.


Prima però di liquidare come falsa o persino dannosa la nozione di vita eterna, o prima di ribadirne semplicemente la legittimità, come se il suo significato fosse da sempre chiaro e univoco, è opportuno interrogarsi su ciò che queste parole hanno inteso e intendono effettivamente comunicare[3].


Non possiamo occuparci delle differenti rappresentazioni della condizione umana nella morte e al di là della morte, alcune delle quali (non tutte!) sono chiaramente associate alla prospettiva di una vita “altra” rispetto a quella sperimentata nel tempo dell’esistenza cosiddetta «terrena»[4]. Il nostro percorso si colloca all’interno dell’orizzonte di comprensione della realtà che si lascia istruire dal vangelo di Gesù Cristo, così come risuona nell’uno e nell’altro Testamento e in alcune figure significative della tradizione cristiana. Senza ricapitolare i contenuti della speranza cristiana (a cui si riferisce quell’ambito della riflessione teologica che, con termine moderno, viene chiamato escatologia), ci concentreremo su una delle sue nozioni chiave, quella appunto di vita eterna, considerandone sinteticamente la storia.


1. Passaggi e tensioni nell’Antico Testamento


È necessaria una certa cautela quando, leggendo una traduzione italiana dell’Antico Testamento, ci imbattiamo in espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «vita eterna». Il termine ebraico ‘olam, tradotto generalmente in greco con aión e in italiano con eterno, non indica di per sé una condizione che si colloca «al di là» del tempo, quanto piuttosto un tempo lontano, passato da molto o proiettato nel futuro. Espressioni quali «amore eterno», «alleanza eterna», «regno eterno» e simili, non vanno riferite immediatamente a un futuro definitivo (escatologico) di tipo personale o collettivo: dicono piuttosto il carattere durevole dell’alleanza, dell’amore, del regno[5]. Non è difficile, del resto, osservare come dai libri dell’Antico Testamento non traspaia un’idea univoca del destino che attende l’uomo al momento della morte. La fede che dà stabilità al popolo d’Israele (cf. Is 7,9b) – la fede di Abramo – è fondata su una promessa e, come tale, è rivolta al futuro. Questo futuro però non si configura subito come esistenza personale oltre la morte, essendo sufficientemente rappresentato dalla discendenza, dal possesso della terra, dalla possibilità di godere in essa lo shalom («pace») donato da Dio. I defunti stanno nel «mondo sotterraneo» (lo sheol) come «ombre»: non «anime» in senso platonico, ma esistenze depotenziate, sottratte alla relazione con Dio, al quale non possono «dar lode» (cf. Sal 88,11).


La prospettiva del permanere della relazione personale fra Dio e l’uomo (il giusto) nella morte e oltre la morte emerge nei testi risalenti all’epoca post-esilica. Il tema del «rapimento al cielo» di personaggi particolari (Enoch, Elia), l’esperienza della fedeltà di Dio nel momento della prova, l’esigenza di una ricompensa per il giusto sofferente di fronte alla prosperità del malvagio, interagiscono fra loro e portano a esprimere in alcuni salmi (ad es.: 49,16; 73,24; cf. anche 16,10) l’idea di un legame tra Dio e il giusto tale non solo da permettere la salvezza “dalla morte” ma anche da permanere (almeno secondo un lettura possibile dei testi) “al di là della morte”.


Intorno al II secolo a.C., all’epoca delle rivolte contro la politica anti-giudaica dei Seleucidi, diventa esplicita la consapevolezza di un «risveglio» dei morti (nella totalità del loro essere personale) al momento dell’instaurazione definitiva della signoria di Dio, in vista della ricompensa dei giusti e della punizione dei malvagi. Così in Daniele:


Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre (Dn 12,2-3)[6].


Se in questo passo l’attesa è quella di un risveglio dei morti a una vita «eterna» (su questa terra), il secondo libro dei Maccabei dà voce anche alla speranza che i giusti, uccisi a causa della loro fedeltà alla legge, siano accolti «in cielo» al momento stesso della morte:


Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna [letteralmente: in una reviviscenza eterna di vita] (2Mac 7,9).


Il contrasto fra la sorte degli empi e quella dei giusti è in primo piano nei capitoli iniziali (1-5) del libro della Sapienza:


La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta; come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno. I giusti al contrario vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo (Sap 5,14-15).


Vita «eterna» è quindi la relazione personale con Dio che continua, per chi è fedele all’alleanza, anche oltre la morte, non come prolungamento indefinito dell’esistenza terrena, ma come partecipazione alla vita di Dio, l’Eterno, il Vivente, che si manifesta tale rimanendo fedele alla sua promessa.


La speranza nell’adempimento delle promesse di Dio può essere espressa con immagini diverse e con linguaggi non sempre facilmente sovrapponibili. L’interpretazione cristiana delle Sacre Scritture del popolo ebraico coglie volentieri una dinamica progressiva nel modo in cui la speranza d’Israele passa da una rappresentazione del futuro promesso da Dio come legato alla terra, a una coscienza più marcatamente “escatologica” di tale futuro, orientato al compimento che è il Cristo. Questa prospettiva, in sé legittima, non dovrebbe far dimenticare i caratteri specifici di ogni tradizione (legge, profeti, scritti) o le tensioni presenti all’interno dell’esperienza di fede d’Israele, con le quali il Nuovo Testamento si confronta a partire dal criterio interpretativo rappresentato dalla vicenda di Gesù, dalla sua morte e risurrezione[7].


2. Prospettive nel Nuovo Testamento


Bíos, psyché, zoé sono i tre termini del greco neotestamentario che in italiano possono essere tradotti con «vita». Se i primi due si riferiscono al dato biologico, la condizione dell’uomo in quanto essere vivente tra gli altri esseri viventi o, nel caso di bíos alle esigenze dell’esistenza materiale, il terzo dice una modalità dell’esistenza possibile solo grazie a una particolare iniziativa di Dio. Anche quando non viene qualificato dall’aggettivo «eterna» (aiónios), il sostantivo zoé ha una connotazione teologica: è tuttavia alla formula vita eterna che intendiamo prestare ora attenzione[8].


– In Paolo, vita eterna è la ricompensa che Dio concede «a coloro che, perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità» (Rm 2,7). Contesto e linguaggio non sono lontani da quelli dell’apocalittica, con al centro il tema del giudizio di Dio (cf. Dn 12,2): la novità è rappresentata dal riferimento a «Gesù Cristo nostro signore», per mezzo del quale regna la grazia «mediante la giustizia per la vita eterna» (Rm 5,21). La vita eterna è il destino / il fine (télos) e il dono (chárisma) concesso a quanti, tramite la fede e il battesimo, per l’azione dello Spirito (principio datore di vita), sono resi partecipi della morte e della vita di Cristo crocifisso e risorto (cf. Rm 6,22-23). La comunione con Cristo inizia nella vita terrena, ma si compie nella risurrezione dei morti:


Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita (zoopoiethésovtai) (1Cor 15,22).


– Lo sguardo rivolto al futuro accompagna l’utilizzo, non frequente, della nostra espressione nei Sinottici. Vita eterna è ciò che il giovane di Mt 19,16-22 desidera avere: «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?» (Mt 19,16, cf. Mc 10,17; Lc 18,18). Per Gesù, essa è l’eredità («nel tempo che verrà») di quanti avranno lasciato «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» per il suo nome (cf. Mt 19,29; Mc 10,30; Lc 18,30); è la condizione a cui avranno accesso «i giusti», coloro che si sono messi a servizio «di uno dei fratelli più piccoli» (Mt 25,46).


– Anche negli Atti degli Apostoli, la vita eterna è quella a cui sono «destinati» (tetagménoi) quanti accolgono nella fede la parola di Dio annunciata da Paolo e Barnaba (At 13,4-48).


– A enunciare il carattere non solo futuro della vita «eterna» sono soprattutto gli scritti giovannei. La vita eterna è il dono del Figlio unigenito, inviato dal Padre. Ad essa si accede fin da ora tramite la fede e l’obbedienza, accogliendo cioè la rivelazione («l’esegesi», cf. Gv 1,18) offerta da Gesù, il Logos incarnato, del Dio che «nessuno ha mai visto»:


E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna [altra traduzione possibile: «perché chiunque crede, in lui abbia la vita eterna»]. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna [...] Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui (Gv 3,15-16.36; cf. anche 6,47).


Il luogo in cui avviene il passaggio «dalla morte alla vita» è l’ascolto della parola di Gesù (cf. Gv 5,24: «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita») e, insieme, l’osservanza del comandamento dell’amore (cf. 1Gv 3,15: «Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui»). La parola di Gesù è «sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14) e «cibo che rimane per la vita eterna» (Gv 6,27). Egli «ha parole di vita eterna» (Gv 6,68) e «dà la vita eterna» alle pecore di cui è pastore e dalla cui mano non potranno essere rapite (Gv 10,28). Gesù stesso, come si legge all’inizio della prima lettera di Giovanni, è «la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,2; cf. anche la conclusione della lettera, 1Gv 5,20: «Egli è il vero Dio e la vita eterna»). La vita eterna che Dio ci ha dato è la vita «nel suo Figlio» (1Gv 5,11).


Se la vita eterna è sperimentata fin da ora nella relazione con Gesù (la fede), il suo compimento è collegato all’evento escatologico della risurrezione:


Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6,40).


È una realtà data ora e, allo stesso tempo, “promessa” (cf. 1Gv 2,25).


Il carattere insieme “presente” e “futuro” della vita eterna, con la tensione che ne deriva, è analogo a quello che connota l’immagine del «regno di Dio», a cui ricorrono con maggior frequenza i Sinottici per dire l’attuarsi di una situazione nuova e definitiva nel rapporto fra Dio e l’umanità. “Presente” e “futuro” s’intrecciano, tanto nella nozione di vita eterna, tanto in quella di «regno di Dio».


Abbiamo lasciato per ultimo un testo giovanneo nel quale la nozione di vita eterna viene caratterizzata come «conoscenza». Rivolgendosi al Padre, nel momento della sua «ora», Gesù chiede che sia manifestata la sua «gloria» di Figlio e aggiunge:


Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,2-3).


Non si tratta di una conoscenza di tipo puramente intellettuale o gnostica (abbiamo appena visto come la vita eterna presupponga e implichi l’obbedienza ai comandamenti e come essa sia mediata da un evento storico), quanto piuttosto dell’esperienza diretta e intima del Padre resa possibile da Gesù, dalla fede in lui, che pure non esclude una dimensione “dottrinale”, almeno incoativamente[9]. Il v. 17,3 assume un rilievo particolare se considerato in rapporto ad altri due passi neotestamentari (uno giovanneo, l’altro paolino) nei quali il compimento futuro della storia della creatura umana viene rappresentato nei termini della «visione di Dio». Così in 1Gv 3,2: «Sappiamo [...] che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» e in 1Cor 13,12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto».


È partendo da questi testi che la tradizione cristiana successiva ha in molti casi privilegiato l’idea della «visione di Dio» come contenuto proprio del concetto di vita eterna[10].


3. Ireneo, Agostino, la tradizione orientale, Tommaso d’Aquino


– Il motivo del «vedere Dio» occupa un posto di rilievo nell’elaborazione del tema escatologico proposta verso la fine del II secolo da Ireneo di Lione (130-202), come si ricava da un passaggio giustamente celebre del quarto libro della sua opera Contro le eresie:


L’uomo [...] non può vedere Dio da sé; ma egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi anche nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica! Dunque coloro che vedono Dio parteciperanno della vita. E per questo colui che è incomprensibile, inafferrabile e invisibile si presenta agli uomini come visibile, afferrabile e comprensibile, per vivificare coloro che lo comprendono e lo vedono. Come la sua grandezza è imperscrutabile, così è inesprimibile anche la sua bontà, grazie alla quale si fa vedere e dà la vita a coloro che lo vedono. Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà.
Gli uomini, dunque, vedranno Dio per vivere, divenendo immortali, grazie a questa visione, e arrivando fino a Dio (IV, 20,5-6)[11].


Nei testi patristici in cui la vita eterna è associata alla «visione di Dio» – oltre a Ireneo, dobbiamo ricordare Clemente di Alessandria, Origene, Gregorio di Nissa, Basilio di Cesarea, per i greci; Ambrogio e Agostino, per i latini[12] – non è difficile riconoscere l’intrecciarsi della tematica propriamente scritturistica con la spiccata preferenza, non priva di problemi, che la tradizione greca (e, in genere, occidentale) accorda al “vedere”, considerato come il modo migliore per entrare in rapporto con la realtà[13].


– La dimensione affettiva, non solo intellettuale, del «vedere Dio» è tuttavia ben presente in Agostino di Ippona (354-430): basti pensare al modo in cui egli collega desiderio di verità e desiderio di felicità (di una vita “beata”), giungendo a definire quest’ultima come gaudium de veritate, «piacere del vero»[14]. Tutta la storia è chiamata a sfociare nella visione, nell’amore, nella lode:


Là [nel sabato senza tramonto, nell’ottavo giorno della vita eterna, consacrato nella risurrezione di Cristo] riposeremo e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo[15].


Possiamo aggiungere che, per Agostino, vita eterna significa «essere in Dio»: è lui «il nostro luogo», come spiega commentando il v. 21 del Sal 31(30): «Tu li nascondi al riparo del tuo volto[16]. In questo modo egli offre un importante criterio ermeneutico delle affermazioni ricavate dalla Scrittura, riprese tanto dai Padri quanto dagli autori medievali, dalla predicazione e dalla catechesi, relative a una localizzazione “in cielo” della vita eterna.


– La riflessione sulla vita eterna come “visione di Dio” è stata approfondita dalla teologia dell’Oriente cristiano soprattutto in reazione agli scritti di Eunomio (330 ca. - 392/5), avversario della dottrina nicena della omousia («consustanzialità») del Figlio rispetto al Padre e sostenitore della tesi secondo la quale la ragione può conoscere Dio come egli stesso si conosce. Tra IV e V secolo, autori come Teodoreto di Ciro e Giovanni Crisostomo svilupparono l’idea di una distinzione tra la visione della «gloria» e la visione dell’«essenza» di Dio: solo la prima è accessibile all’uomo, mentre la seconda rimane incomprensibile. Su questa distinzione s’innesteranno dibattiti di lunga durata, all’interno del mondo teologico di lingua greca e nel confronto tra questo e l’Occidente latino[17].


– Un esempio efficace del modo in cui la vita eterna era intesa nell’ambito della riflessione latina medievale si può trovare in un testo che deriva da una serie di prediche nelle quali, durante la quaresima del 1273, Tommaso d’Aquino (1224-1274) ha commentato il Simbolo apostolico. Ecco quanto si legge a proposito dell’articolo conclusivo:


La vita eterna, in quanto meta finale di tutti i nostri desideri, giustamente nel Simbolo viene posta al termine di tutte le altre verità da credere, quando vi si dice: «Credo la vita eterna».
Sono contrari a questa verità coloro che sostengono che l’anima muore col corpo. Ma se ciò fosse vero, non ci sarebbe differenza tra l’uomo e i bruti. [...]. L’anima, invece, per la sua immortalità è simile a Dio, è simile ai bruti solo per la parte sensitiva [...].
In questo articolo della nostra fede dobbiamo innanzitutto considerare che tipo di vita sia la vita eterna. Orbene, essa consiste:
1. Nell’unione con Dio. Premio e fine di tutte le nostre fatiche è infatti Dio in persona [...]. Questa unione consiste poi innanzitutto in una perfetta visione di lui [...]. Consiste poi anche in un ferventissimo amore, perché più uno lo si conosce, e più lo si ama; e in una somma lode di lui [...].
2. Nell’appagamento totale e perfetto di ogni desiderio. Nella vita eterna ogni beato troverà l’appagamento di quanto ha desiderato e sperato. La ragione è, che niente nella vita presenta può appagare pienamente i desideri dell’uomo, né vi è alcunché di creato che possa soddisfare le sue aspirazioni. Soltanto Dio può saziarle e sorpassarle infinitamente [...]. Tutto ciò che può recare diletto si trova infatti nella vita eterna e in sovrabbondanza. Se si desiderano godimenti, là vi sarà il sommo e perfetto godimento, perché avrà come oggetto Dio che è il sommo bene [...]. Se si desiderano onori, là si avranno tutti [...]. Se poi si desidera la scienza, là sarà perfettissima, perché conosceremo la natura delle cose, ogni verità e tutto quello che vorremo sapere. E quanto vorremo avere, lo avremo con la vita eterna [...].
3. Nella perfetta sicurezza. Mentre, infatti, in questo mondo non c’è perfetta sicurezza, perché quanto più ricchezze uno possiede e più onorifiche sono le sue cariche, tanto più ha paura di perderle e gli mancano inoltre tante altre cose, nella vita eterna non c’è invece alcuna tristezza, nessuna fatica, nessun timore [...].
4. Nella lieta compagnia dei beati. Trovarsi insieme a tutti i buoni sarà una compagnia massimamente piacevole, perché ciascuno avrà così tutti i beni in comune a tutti i loro e là ciascuno amerà l’altro come se stesso e godrà di quello altrui come del proprio bene. E ciò farà sì che, aumentando la gioia e la felicità di uno, aumenti la felicità di tutti, come dice il salmista: «Quelli che sono in te, sono tutti lieti e festosi (Sal 87 [86],7)»[18].


Le opere maggiori di Tommaso offrono abbondante materiale per sviscerare quanto è qui ricapitolato. Merita in ogni caso sottolineare come sia il tema del fine ultimo dell’uomo, declinato nei termini di “visione essenziale” di Dio, ad avere un deciso rilievo strutturale. L’uomo è creato per «vedere Dio», al di fuori del quale non può, per sua natura, trovare il pieno compimento del desiderio di conoscere e di amare che lo caratterizza. Tale compimento, a cui l’uomo non giunge da se stesso ma in quanto abilitato dalla grazia, lo pone in un rapporto immediato con Dio, oggetto ma anche mezzo («forma») della visione[19].


Tommaso va segnalato anche per i testi nei quali, in una prospettiva che si collega a quella giovannea, egli raccorda il presente dell’esistenza umana nella fede e nella grazia con la sua condizione futura nella gloria. In questo senso, egli propone di definire la fede come l’inclinazione o disposizione stabile dello spirito (habitus mentis) grazie alla quale «inizia in noi la vita eterna»[20].


4. Questioni relative alla visione beatifica


Se la tradizione cristiana registra un ampio consenso nell’identificazione della vita eterna con la “visione beatificante di Dio”, i problemi sorgono quando si va a considerare il modo in cui è pensata tale «visione». La storia della teologia ci consegna due momenti, in parte connessi e cronologicamente vicini (siamo nel XIV secolo), nei quali il tema è stato oggetto di controversie e di intensi dibattiti.


– Nel mondo latino, la discussione si è incentrata sul carattere immediato o meno della retribuzione dei giusti (visione di Dio) e dei malvagi (dannazione) al momento della loro morte. La vicenda è nota: dal 1331 al 1334 papa Giovanni XXII pronunciò una serie di sei omelie nelle quali, riprendendo idee presenti in alcuni autori dell’antichità cristiana e appoggiandosi all’autorità di san Bernardo, sosteneva che prima della risurrezione e del giudizio finale le anime dei giusti possono contemplare solo l’umanità di Cristo, non l’essenza stessa di Dio. L’opinione del papa fece scalpore e suscitò una vasta opposizione, nella quale s’intrecciavano motivi dottrinali e politici. Dopo aver incaricato una commissione di studiare l’argomento, Giovanni XXII fece in tempo a preparare una bolla, sottoscritta il 3 dicembre 1334, un giorno prima della sua morte, con la quale prendeva le distanze da affermazioni da lui pronunciate che fossero eventualmente apparse dissonanti dalla fede cattolica[21]. Poco più di un anno dopo, il suo successore, Benedetto XII, con la costituzione Benedictus Deus (19 gennaio 1336) definì come verità di fede la retribuzione immediata, dopo la morte, per i giusti e per i malvagi. Le anime dei giusti


subito dopo la loro morte, e la purificazione [...] in coloro che erano bisognosi di tale purificazione, anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale [...] furono, sono e saranno in cielo, nel regno dei cieli e del celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi; e [...] queste [anime] [...] hanno visto e vedono l’essenza divina con una visione intuitiva e, più ancora, faccia a faccia, senza che ci sia, in ragione di oggetto visto, la mediazione di nessuna creatura, rivelandosi invece a loro l’essenza divina in modo immediato, scoperto, chiaro e palese[22].


– Un secondo motivo di dibattito riguarda la possibilità per l’uomo di vedere “l’essenza” di Dio che la Scrittura dichiara essere invisibile e inaccessibile[23]. La ripresa operata da Gregorio Palamas (1296-1359) della distinzione tra «essenza» (inaccessibile) ed «energie divine increate» (che agiscono, come la luce del Tabor, “divinizzando” la creatura umana) indicò un percorso seguito volentieri dalla tradizione orientale ma accolto con perplessità dall’Occidente latino, dove si preferì ribadire la dottrina della grazia “creata” e la differenza fra «visione» e «comprensione» di Dio: la prima possibile grazie a un dono (il lumen gloriae) che permette all’intelligenza umana di partecipare, rimanendo nella sua finitezza, alla vita di Dio; la seconda inaccessibile anche nella gloria all’intelletto umano finito.


5. Istanze di rinnovamento nell’escatologia del XX secolo


L’esigenza di andare oltre la concezione piuttosto individualistica e spiritualistica della vita eterna – quale si era imposta nell’insegnamento, nella predicazione, nella catechesi e nella devozione dei cristiani, anche in seguito ai dibattiti a cui abbiamo accennato – ha segnato il vivace rinnovamento dell’escatologia promosso all’inizio del XX secolo da una rilettura dei testi biblici e, in particolare, del tema del «regno di Dio», accompagnato da una spiccata sensibilità per la dimensione storica e comunitaria dell’esperienza cristiana e dall’individuazione del principio cristologico come chiave di lettura della rivelazione.


Il cattolicesimo ha recepito questi stimoli con il concilio Vaticano II, esplicitando nei nn. 48-51 della Lumen gentium la coscienza della dimensione ecclesiale e insieme cosmica della vita eterna: la vicenda di ogni singola persona, nei suoi diversi passaggi, non può essere interpretata al di fuori del cammino che, in modi diversi e non sempre visibili, la lega agli altri (alla chiesa) e a tutte le realtà che costituiscono il nostro mondo (aspetto, questo, sviluppato nel n. 39 della Gaudium et spes)[24].


Anche la questione del cosiddetto «stato intermedio» (come pensare la condizione dell’individuo tra la morte e il pieno compimento nella risurrezione dei morti?), alla quale nei decenni scorsi hanno prestato attenzione tanto alcuni teologi di diverse confessioni cristiane (O. Cullmann, G. Greshake, N. Lohfink, K. Rahner, J. Ratzinger) quanto alcune istanze dottrinali cattoliche[25], va ripensata in questa prospettiva ecclesiale e cosmica: lo «stato intermedio» è il tempo della chiesa, in cammino verso la piena comunione con Dio uno e trino, nella diversità di condizioni in cui si trovano i suoi membri (Maria, i santi, coloro che «vengono purificati»). In questo quadro, perdono significato le obiezioni di quanti ritengono che l’idea di vita eterna sia sinonimo di staticità e, in definitiva, di noia. Al di là di tutte le rappresentazioni concrete, per loro natura inadeguate, il compimento definitivo annunciato dalla rivelazione cristiana è pienezza e ricchezza di vita, per la singola persona, per l’umanità nel suo insieme e anche per il mondo materiale[26].


Le immagini trasmesse dalla Sacra Scrittura per dire la vita eterna (il banchetto, le nozze, la città illuminata dall’Agnello...) vanno continuamente riprese e interpretate (non “concettualizzate”). L’eternità – la comunione piena con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che è insieme comunione con tutte le creature liberate dalla corruzione del peccato e della morte – è oggetto di speranza, ma può essere anche oggetto di pensiero, partendo anche dalle piccole «esperienze di eternità» che ci sono donate nel tempo: l’esperienza dell’amore, della bellezza, della scoperta di piccole o grandi verità, della gioia di condividere quello che siamo e possediamo.








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[1] W. Shakespereare, La tempesta, atto IV, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 19829, p. 1207.




[2] Il Simbolo apostolico, una delle principali professioni di fede della tradizione cristiana, risalente a un’antica professione di fede battesimale della chiesa di Roma, termina con le parole: «Credo [...] la risurrezione della carne, la vita eterna» (H. Denzinger, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 20045, n. 30 [= DenzH]).




[3] La verità della nozione religiosa di vita eterna viene piuttosto sbrigativamente negata, ad es., dal filosofo spagnolo Savater nel suo libro F. Savater, La vita eterna, Laterza, Roma-Bari 2007.




[4] Una raccolta suggestiva di testi dedicati a questo tema si può leggere in L. Moraldi, L’aldilà dell’uomo nelle civiltà babilonese, egizia, greca, latina, ebraica, cristiana e musulmana, Mondadori, Milano 1985.




[5] Cf. H.D. Preuss, ‘ôlâm - ‘âlam, in G.J. Botterweck - H. Ringgren - H.-J. Fabry (edd.), Grande Lessico dell’Antico Testamento, vol. VI, Paideia, Brescia 2006, coll. 526-543.




[6] Il testo di Daniele «non contrappone vita eterna gloriosa / vita eterna ignominiosa, ma vita eterna / ignominia eterna. Furono invece le apocalissi posteriori a sviluppare quest’idea germinale, con descrizioni fantastiche della vita degli uni e degli altri nei loro rispettivi posti. Ancora con sobrietà nei Salmi di Salomone: 3,16; 14,9. Con particolari maggiori in Henoc 103,7ss: “Precipiteranno nell’inferno per passarsela male, per soffrire una grande tribolazione [...] oscurità, catene e fuoco ardente”, 108,5ss: “Illuminato da una fiamma, mescolato di grida, pianti e urla di dolore”» (L. Alonso Schökel - J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 1989, p. 1489).




[7] Basti pensare alle diverse figure della speranza escatologica attribuite a farisei e sadducei, e al modo in cui Gesù e Paolo sono presentati nel confronto con esse (cf. Mt 22,23-33 e par., At 23,6-8). Per la questione ermeneutica a cui si è accennato, rinviamo all’ampio studio della Pontificia commissione biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, LEV, Città del Vaticano 2001 (in particolare la seconda parte, pp. 46-152).




[8] Cf. H. Balz, aiónios, in H. Balz - G. Schneider (edd.), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1995, coll. 122-127; L. Schottroff, zo, zoé, in ibid., coll. 1520-1530.




[9] Si può leggere, a questo proposito, la spiegazione offerta da R. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 19862, pp. 915-917.




[10] Cf. L.F. Ladaria, Vie éternelle, in G. Mathon - G.-H. Baudry (edd.), Catholicisme hier, aujourd’hui, demain, vol. 15, Letouzey et Ané, Paris 2000, coll. 1040-1049.




[11] Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini - G. Maschio, Jaca Book, Milano 19972, pp. 347-348.




[12] Riferimenti in J.-M. Maldamé, Visione beatifica, in J.-Y. Lacoste (ed.), Dizionario critico di teologia. Borla - Città Nuova, Roma 2005, p. 1471.




[13] Si può risalire fino a Eraclito (VI-V sec. a.C.), per il quale «gli occhi son delle orecchie testimoni più esatti» (Diels 101a). Cf. S. Petrosino, Visione, in Fondazione Centro studi filosofici di Gallarate (ed.), Enciclopedia filosofica, vol. 12, Bompiani, Milano 2006, pp. 12183-12188.




[14] «...io chiedo a ciascuno: preferisci godere del falso o del vero, e nessuno ha qualche dubbio nel pronunciarsi per il vero, non più di quanti ne abbia ad ammettere che desidera essere felice. Perché è appunto il piacere del vero, la felicità. Dunque è gioire di te, che sei la verità, luce e salvezza dei miei occhi, mio Dio» (Agostino, Le confessioni X,23,33, a cura di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 1990, p. 383).




[15] È quanto si legge nel paragrafo conclusivo de La città di Dio (XXII,30,5): Aurelio Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Rusconi, Milano 19902, p. 1193.




[16] «Li nasconderai nel segreto del tuo volto. Qual luogo è questo? Non ha detto: li nasconderai nel tuo cielo; non ha detto: li nasconderai in paradiso; non ha detto: li nasconderai nel seno di Abramo. Infatti per molti fedeli i luoghi dove staranno in futuro i santi sono indicati nelle Sacre Scritture. Sia stimato poco tutto quanto è all’infuori di Dio! Colui che ci protegge nel luogo di questa vita, sia egli stesso il nostro luogo dopo questa vita; poiché questo già prima il salmo stesso dice a lui: sii per me un Dio protettore, e un luogo di rifugio. Saremo dunque nascosti nel volto di Dio» (Enarr. in Ps. 30,3,8, in Sant’Agostino, Opera omnia. Esposizione sui salmi (1-50), vol. 25, Città Nuova, Roma 19672, p. 497).




[17] Un classico, su questo tema, è il saggio La visione di Dio di V.N. Lossky (1903-1958): V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente. La visione di Dio, Il Mulino, Bologna 1967, pp. 245-400.




[18] Tommaso d’Aquino, Il Credo. In symbolum apostolorum scilicet «Credo in Deum» expositio, in Id., Opuscoli spirituali. Commenti al Credo, al Padre nostro, all’Ave Maria e ai dieci Comandamenti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, pp. 111-114. Nel testo riportato sono stati omessi, non certo perché poco importanti, i riferimenti biblici e patristici.




[19] Un approfondimento di questo aspetto del pensiero di Tommaso, attento al contesto del dibattito filosofico e teologico del suo tempo, segnato dalle discussioni sull’interpretazione averroistica di Aristotele, si trova in A. Valsecchi, Il fine dell’uomo nella teologia di Tommaso d’Aquino. Un percorso attraverso le opere maggiori, PUG, Roma 2003. Vengono prese in esame le questioni dedicate alla beatitudo e alla visio Dei nel commento alle Sentenze (IV,49,1-2) nella Summa contra Gentiles (III, 2-63) e nella Summa Theologiae (I, q. 12, aa. 1-13; I-II, qq. 1-5).




[20] «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis, faciens intellectum assentire non apparentibus» (Summa Theologiae II-II, q. 4 a. 1, cf. anche Quaestiones disputatae de veritate, q. 14 a. 2). Tommaso parla anche della grazia come «inizio, in qualche modo, della gloria in noi» («...gratia est nihil aliud quam quaedam inchoatio gloriae in nobis» (Summa Theologiae II-II, q. 24, a. 3, ad 2um).




[21] Giovanni XXII, Bolla Ne super his (3 dicembre 1334), in DenzH 990-991.




[22] Benedetto XII, Costituzione Benedictus Deus (20 gennaio 1336), in DenzH 1000-1002. La più accurata ricostruzione della vicenda è quella di C. Trottmann, La vision béatifique. Des disputes scolastiques à sa définition par Benoît XII, École française de Rome, Roma 1995.




[23] Cf. Es 33,20: «Nessun uomo può vedermi e restare vivo»; 1Tm 6,16: Dio è «il solo che possiede l’immortalità e abita una luce inaccessibile: nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo».




[24] F. di recente: Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi (30 novembre 2007) nella quale ha ribadito la necessità di superare una concezione individualistica della speranza cristiana nella vita eterna.




[25] Cf. l’intervento della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Lettera Alcune questioni di escatologia (17 maggio 1979), in Enchiridion Vaticanum, vol. 6 (EDB, Bologna 1980), nn. 1528-1549.




[26] Una presentazione dell’escatologia cristiana, e quindi anche del tema della vita eterna, che tiene conto delle istanze qui enunciate si trova nella parte sistematica del volume di G. Ancona, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, pp. 259-366.


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