DON ANTONIO

venerdì 30 settembre 2011

La Nuova Apologetica e le ragioni della speranza di P. Pedro Barrajón, L.C.

Normalmente l’apologetica tradizionale ha cercato di trovare il suo fondamento biblico nella prima lettera di San Pietro là dove l’Apostolo incoraggia la comunità cristiana primitiva con queste parole: “E chi potrà farvi del male se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore nei vostri cuori, pronti sempre a a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 13-15). Siamo in un contesto in cui la primitiva comunità di credenti in Cristo deve soffrire a causa della fede. I credenti cercano di fare del bene agli altri uomini ma non sempre questo bene è corrisposto e ricevono in cambio non poche persecuzioni e sofferenze. San Pietro li incoraggia a soffrire a causa della giustizia, che è una delle beatitudini del Signore (Cf. Mt 5, 6) e li invita all’adorazione, alla preghiera, a ciò che è essenziale. Poi viene la frase che ha interessato agli apologeti di tutti i tempi: “pronti sempre a dare a chiunque ragione della speranza che è in voi”. Si parla di un atteggiamento dello spirito del cristiano che deve essere sempre pronto a dare una risposta (avpologi,a) a chi glielo chieda (to autounti umas) della ragione della speranza che è in voi (lo,gon peri. th/j evn u`mi/n evlpi,doj). La frase non è semplice ma ha tutti gli elementi necessari per capire bene di che cosa vuole parlare San Pietro. Egli parla di un apologia, una risposta, una difesa, una giustificazione (satisfatio è la parola della versione latina). Si parla anche di “logos”, di ragione della speranza che abita nei cuori dei cristiani.
È interessante notare che S. Pietro non parla di dare “ragione per il credere” ma di “ragione della speranza”. Certo la speranza implica in modo implicito la fede ed è giusto che l’apologetica tradizionale abbia centrato la sua attenzione sul dare ragioni della fede. Ma parlando di una “nuova apologetica”, quella che deve essere incarnata nel cuore della cultura contemporanea, è utile non dimenticare l’espressione petrina e tornare ad includere la speranza al centro dell’attenzione. Per questo vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla nuova apologetica in quanto portatrice di ragioni di speranza e come questa nuova apologetica, incentrata sulla speranza, abbia una precisa connotazione sapienziale e sia aperta alla inter-disciplinarietà.

1. L’offuscamento dalla speranza
2. La ricerca disperata dalla speranza
3. Speranza e salvezza (spe salvi)
4. La speranza cristiana e le sue ragioni
5. Le ragioni di sperare in un contesto interdisciplinare: l’apologetica sapienziale
6. L’offuscamento della speranza
Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Ecclesia in Europa parla della tentazione di vivere senza speranza che hanno le persone che abitano il vecchio continente europeo. “Il tempo che stiamo vivendo infatti con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questo stato d’animo”1. Viviamo in un mondo di grandi promesse ad ogni livello. Le persone sono invitate spesso a vivire una vita illusioria e falsa. Si promettono beni che poi non si danno e viene una grande frustrazione, una grande delusione. La descrizione dell’offuscamento della speranza che Giovanni Paolo II, seguendo le analisi fatte dai Padri sinodali, applica all’Europa non solo è valida per questo continente che ha sostenuto per secoli il peso della storia occidentale. Questi segnali inquietanti dilagano anche per altri continenti. Il logoramento della speranza umana è spesso accompagnato e preceduto dal logoramento della speranza cristiana, della perdita della memoria e dell’identità che si dà in un clima filosofico e culturale dove regnano l’indifferenza e l’agnosticismo pratico, per cui “molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia”2.
La mancanza della speranza favorisce la crescita delle paure, nuove ed antiche, di fronte al futuro e si manifesta spesso in una mancanza di fiducia nel valore della vita umana, propria ed altrui, in una forma di vivere egoista e nella perdita del significato e senso della vita. A questo si aggiunge una frammentazione dell’esistenza, divisa tra tanti richiami di ogni tipo che lasciano la persona nella perplessità, sola di fronte a grandi decisioni, smarrita quando si tratta di accedere non tanto all’informazione che si accumula in modo smisurato ma nella costruzione di una sana gerarchia di valori che dia una struttura fondante al vivere quotidiano.
Questa mancanza di fiducia con la corrispondente paura del futuro si mostra spesso nelle nueve forme di violenza che appaino nei conflitti culturali, religiosi, di gruppo, nella violenza a volte gratuita nel seno stesso della famiglia e della scuola e che ha dato come risultato quello che Benedetto XVI ha chiamato “emergenza educativa”. Possiamo infatti trasmettere ai bambini e ai ragazzi molteplici conoscenze di tipo empirico, ma la trasmissione dei valori e più ancora in concreto dei valori religiosi solo si può fare in un contesto di armonia e di serenità che viene dato dall’assunzione di atteggiamenti fondamentali di fiducia nel futuro.
La descrizione fatta dalla citata Esortazione potrebbe apparire troppo forte, addirittura forzata, ma le sfide sociali, culturali che deve affrontare la società, la famiglia, la scuola e la chiesa nel loro ruolo educativo sono talvolta drammatici.
Ogni generazione si deve auto-educare alla speranza. Questo atteggiamento non si dà per scontato, e ogni generazione deve dare alle generazioni future la possibilità di assumere la vita con questa nota fondamentale che è il poter sperare per se e per gli altri un mondo migliore. Si era detto a ragione che il secolo XXI apparterrebbe a coloro che sarebbero stati capaci di offrire al mondo una maggiore speranza.
I cristiani, l’apologetica cristiana è capace di dare al mondo questa speranza? Quale è la speranza cristiana e quali sono le nostre ragioni di sperare? Ecco alcune delle domande che si pone il cristiano che si confronta quotidianamente ad una cultura atea, agnostica, secolarizzata, relativista, che vive del attimo fuggente, dei piaceri momentanei, degli impegni provvisori, della mancanza di assoluti. La nuova apologetica cercherà di mostrare in modo ancora più convincente, teorico e vissuto, le ragioni della speranza che è propria del cristianesimo in mondo in cui spesso prevale un’antropologia senza Dio e senza Cristo, dove l’uomo è il centro assoluto e il metro di tutto e che spesso vede Dio come il grande antagonista della propria felicità, e che proprio per questo, perché non vuole accettare un’ulteriore e verticale dipendenza, cade in una visione nichilista del reale e in relativismo pragmatico che si alimenta da un etica edonista3.
2. La ricerca disperata di speranza
Non vorrei sottolineare di più le note negative dell’offuscamento della speranza nella società contemporanea, invece credo adesso sia utile dire qualche parola su come l’uomo in realtà è un imperterrito cercatore di speranza che è come una molla della quale non può farne a meno per vivere come uomo e dare senza alla sua vita.
L’analisi della speranza umana è legata all’analisi dell’azione umana e come questa azione è necessariamente finalizzata alla propria felicità. Non possiamo non volere essere felici. La beatitudo così come la chiamava la teologia medioevale è l’orizzonte in cui si pongono in modo necessario le azioni umane. L’uomo non può non farne a meno anche quando compie su di sé azioni punitive o distruttive l’uomo sta cercando questa felicità alla quale egli aspira come dinamismo fondamentale della sua natura e del suo essere personale.
A. Léonard mette un esempio banale di un’azione che milioni di essere umani fanno al giorno: prendere una tazza di caffé. Egli dice: “Voi prendete una tazza di caffè. È nella speranza (espoir), conscia o inconscia di sentirvi meglio. Se aggiungete un cucchiaio di zucchero è per contribuire di questo modo, un poco almeno, al vostro benessere (bonheur). Oh, la dolce sensazione dello zucchero! Ma se voi proibite di zuccherare il caffè, è perché voi sperate così di non accumulare calorie inutili, dannose per la vostra linea o la vostra salute”4. Nelle nostre azioni, piccole o grandi, si trova questo desiderio fondamentale, unito alla speranza di voler raggiungere il nostro benessere, la nostra felicità.
Ma poiché questa metà della felicità (o almeno del benessere) è un processo che ha un inizio, uno sviluppo e una fine, e che arrivare al fine desiderato non è qualche cosa di automatico, ma ci dobbiamo impegnare a mantenere la direzione che vogliamo dare a nostra vita per ottenere i risultati voluti: la felicità non si presenta in un modo facile né automatico. Bisogna sforzarsi per arrivarci. Alla meta non si arriva subito; dobbiamo essere sostenuti da continui atti del nostro volere. Però la tendenza naturale, l’appetitus è là, insito nel nostro essere, che cammina verso il suo perfezionamento. Questo appetitus opera dentro di noi perché spontaneo e non cercato consciamente. Mentre gli animali hanno un appetito che si sazia con una certa facilità, una volta che ottenuto il cibo, il partner sessuale, il riposo, ecc., nell’uomo questa tendenza rimane come sempre insoddisfatta, almeno con esseri finiti. Qui emerge quella profonda verità delle parola di Sant’Agostino, scritte proprio all’inizio del suo libro Le Confessioni e che sono come il riassunto del proprio itinerario spirituale: “Fecisti nos, Domine ad te et cor nostrum irrequietum est donec requiescat in te”5. L’uomo non è solo un animale istintivo, sebbene gli istinti siano anche presenti nella sua natura. Egli è un “animale metafisico, vale a dire, inserito sull’essere come tale, sulla pienezza dell’essere”6. Il suo appetito non è limitato a oggetti sensibili né é soddisfatto da esseri contingenti e limitati. La mera soddisfazione degli istinti non esaurisce in lui la tendenza naturale verso la pienezza del suo essere spirituale. L’uomo ha un desiderio di conoscere realtà che stanno al di là del suo habitat naturale e che sembrerebbero inutili, come le matematiche, l’astronomia, il mondo dell’atomo, dell’infinitamente grande, ecc. L’animale solo si interessa di ciò che gli appare nel suo spazio vitale immediato; mentre l’interesse dell’uomo va molto al di là di ciò che in quel momento appaga il suo desiderio sensibile. L’animale non è un essere che produce utopie. L’uomo le fabbrica in modo spontaneo. Questo perché l’uomo si orienta per sua natura verso il raggiungimento della verità tutt’intera e non lo soddisfa una verità parziale o una mezzo verità. Egli vuole afferrare il reale nella sua integrità e in profondità.
Lo stesso sappiamo che succede con la volontà umana che rimane insoddisfatta dai beni parziali e sempre vuole più beni, non solo in quantità ma in densità di valore. “La volontà è l’appetito propriamente umano che, come la ragione, è coestensivo all’essere e che niente di limitato la può soddisfare”7. La volontà cerca la pienezza del bene, non un solo bene limitato, ma vuole raggiungere la pienezza e l’universalità. L’animale tende verso i beni limitati che sono l’oggetto del suo desiderio senza ulteriore ritegno, l’uomo invece è capace di dominare, modellare e sublimare il suo istinto appetitivo per cercare beni di natura superiore. Questo è possibile perché l’uomo è un essere spirituale aperto all’infinito. Un animale non può digiunare se ha l’alimento di fronte a sé o non può fare una scelta di castità perché l’animale è inchiodato al suo istinto. L’uomo invece è aperto al bene come tale e alla verità come tale e può sacrificare beni importanti per raggiungere altri più alti8.
Il dinamismo spirituale dell’essere umano che si manifesta in un dinamismo parallelo delle sue due facoltà superiori, l’intelligenza e la volontà, e per tanto nella sua capacità di amare e di esercitare la sua libertà, ci dice che egli è un essere in cammino, come hanno detto alcuni filosofi dell’esistenza, tra cui Gabriel Marcel, è un “homo viator”. Non può non camminare anche se apparentemente sta fermo. Questo suo dover camminare, dover sempre essere in moto può creare nel suo cuore una sensazione di “irrequietezza”, come diceva Sant’Agostino e implica anche il suo necessario inserimento nella storia, la quale anche cammina verso un compimento e una fine che sostiene la speranza dell’umanità e del singolo uomo.
Nel suo cammino verso il compimento personale o sociale l’uomo non può vivere senza speranza. La speranza, -adesso non parlo necessariamente della speranza teologale, benché neanche la escludo-, si trova al centro della nostra ricerca della felicità. Noi speriamo che il dinamismo del nostro essere, che il dinamismo della storia arrivi ad un compimento e che soddisfi pienamente il nostro cuore e le nostre aspirazioni, perché queste non sono completamente soddisfatti mentre camminiamo. È meraviglioso come l’uomo si afferra alla speranza anche nelle situazioni dove sembra barrata la strada verso il raggiungimento di essa. Storie di speranza nei campi di concentramento nazista, dove la probabilità della sopravvivenza era veramente limitate o in situazioni simili, dove l’uomo “spera contro ogni speranza” come nel caso di Abramo ci dicono che esiste nell’essere umano qualche cosa che lo invita ad sperare, a guardare oltre, a camminare in mezzo alle più disperate situazioni. Léonard cita Péguy che parlava di una “piccola figlia speranza” (petite fille espérance), “la cui ostinazione, in mezzo a tante sofferenza, sorprende allo stesso Dio”9. La speranza umana si mantiene in mezzo alle disgrazie della vita e anche ai momenti di felicità si caratterizzano spesso per la sensazione di fugacità con cui l’uomo li vive. In queste esperienze l’uomo si sente come elevato verso una speranza di una felicità che non tramonti e che non abbia abbinata i mali che spesso la insidiano in questa vita. In realtà la speranza che cova dentro al cuore dell’uomo sembra essere molto più grande dell’uomo stesso. L’uomo la anelita egli stesso ma non gliela può dare. È insita nel suo cuore, ma il cuore dell’uomo sembra più grande di tutti i beni terrestri. Molti filosofi hanno notato questo carattere paradossale dell’essere umano che in realtà solo si sciogle con l’apertura al mistero del soprannaturale.
Ed è qui che si apre la possibilità verso un infinito che colmi le nostre aspirazioni, non un Oggetto, ma un Soggetto, una Persona, un altro io che come Amore che si lascia amare e chi dà a amare dia al nostro cuore quella pace che cerca e che gli altri beni effimeri non gliela danno. “Una persona della quale l’uomo non può disporre in nessun modo: riferimento alla Grazia assoluta, alla Libertà assoluta, non condizionata né dalla natura né dall’uomo, né dalla storia né da nessuna necessità intrinseca: il Trascendentale si rivela nella Libertà assoluta del Dono di sé all’uomo come pura Grazia e quindi imprevedibile, mistero”10. E qui si inserisce il discorso sulla speranza cristiana che è una virtù teologale che presenta come raggiungibile un oggetto che riempie il cuore dell’uomo di vera felicità.
3. La speranza che non delude (Rom 5, 5)
Il cristiano assume tutte le caratteristiche della speranza umana e le dà una dimensione infinita perché la fa penetrare nel mistero stesso di Dio dando alla speranza una dimensione teologale. Il cristianesimo è stata un avvenimento che ha portato al mondo un soffio di speranza. Ma quale speranza? San Paolo ha capito bene il nucleo di questo messaggio e l’ha spiegato così ai Romani, quando parla loro del fondamento della speranza cristiana e del logos intimo alla logica della fede. In un contesto di sofferenza e di persecuzioni, S. Paolo indica la gloria come meta finale del cristiano e paragonando le sofferenze con la gloria che dovrà manifestarsi, vede che non c’è punto di comparazione. Da una parte considera questo mondo fisico con la sua attesa insita nella sua natura di una redenzione, la creazione che sta soffrendo le doglie del parto di questa nascita nuova di tutto che si è operata con il grande evento cosmico-salvifico che è il mistero pasquale di Cristo. Contempla le sofferenze, l’attesa spasmodica della creazione di potersi liberare da quel giogo che gli ha inflitto nel suo essere profondo il peccato, lasciando dentro di esse il seme della corruzione. Ma dall’altra parte Paolo vede il dono della Spirito che è, sì solo primizia, ma realtà già operante nel mondo e trasformandolo dal di dentro. Paolo guarda il grande evento della redenzione come sorgente di questo mondo nuovo e in essa vede già operata la redenzione oggettiva e noi siamo inclusi, in speranza, in questa redenzione: spe salvi (Rom 8, 24).

Il cristianesimo si presenta come un’offerta di salvezza e di redenzione da Dio all’uomo che gli dà la possibilità di raggiungere in Cristo i desideri più profondi della sua natura. Ciò che l’uomo anelita nel suo intimo, egli stesso non lo può trovare. Gli deve essere dato per grazia. S. Paolo dice: “è per grazia che siete salvati” (Ef 2, 4). Il cristianesimo presenta la promessa della vita eterna in Cristo. La vita cristiana è una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita11 . Il cristianesimo ha un carattere performativo, capace non solo di informare ma di trasformare la vita stessa perché ci apre ad una dimensione nuova, quella appunto della vita eterna che in un certo senso già ha iniziato qui, nella quale già viviamo, ma che deve impregnare la nostra vita giorno dopo giorno.

Forse una delle difficoltà per aprire il gusto e il desiderio della vita eterna agli uomini del nostro tempo è quella difficoltà di cui parla Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi: “Forse oggi, dice il Papa, molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno –senza fine- appare più una condanna che un dono”12. Il cristianesimo è stato accusato di essere dalla filosofia marxista di essere l’oppio del popolo, di addormentare nell’uomo la sete di felicità terrena, indicando solo agli uomini il cielo come meta delle loro aspirazioni e consolazione oltremondana delle loro sofferenze. Sarebbe allora la speranza nella vita eterna una speranza vana, deludente, assurda, che ci distoglie dai veri impegni terrestri, dalle gioie di questa vita? Questa è una delle grandi domande dell’uomo e del mondo secolarizzato alla fede e alla speranza. Si può sperare veramente, fondatamente? Naturalmente a queste domande non si possono dare risposte di tipo scientifico. Si può indicare la strada, si possono dare delle ragioni per la nostra speranza.

Il fatto di essere paradossale proprio dell’uomo si applica anche nel caso della vita eterna, perché è vero che da una parte noi non vogliamo morire, ma anche sembra che la vita, tale quale la sperimentiamo, ci dispiace: “Non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva”13. Questo paradosso era già stato illustrato da J. Swift nel suo famoso libro i viaggi di Gulliver, il quale arriva all’isola di Luggnagg dove trova gli strani esseri chiamati struldbrugs che, in apparenza sono essere umani normali, non sono di fatto immortali, ma invecchiano. In questo famoso romanzo, J. Swift descrive glo orrori dell’immortalità se non va insieme con l’eterna gioventù.

La questione della vita eterna, oggetto della speranza ultima, fa sorgere una questione ancora più fondamentale all’uomo: in realtà, che cosa è la vita? Come darne un significato e un senso soddisfacenti? Sant’Agostino affermava che la vita beata è la vita che è semplicemente vita e semplicemente felicità14. Lo stesso Santo dottore continua segnalando che spesso non sappiamo bene che cosa vogliamo e che cosa desideriamo profondamente e non conosciamo neanche questa realtà della “vita beata” alla quale sembra che tendiamo con tutte le nostre forze: “Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa ‘vera vita’ e tuttavia sappiamo che deve esistere qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti”15. Questa è una specie di docta ignorantia perché da un parte noi la conosciamo e non la conosciamo questa vita beata, oggetto del nostro desiderio. Ma è appunto questo oggetto ignoto e noto allo stesso tempo che ci spinge e che è la causa delle nostre gioe come delle nostre disperazioni, dei nostri slanci e dei nostri scoraggiamenti.

La ricerca dell’oggetto supremo della nostra speranza è drammatica. La nostra speranza è drammatica perché non una marcia trionfale verso l’oggetto desiderato, intuito e voluto. È una marcia dove ci sono momenti di grande luce e altri di grandi oscurità, dove ci sono spazi di silenzi e deserti, dove si mescola anche la continua presenza insidiosa del male. Come dice Don Giussani, “la nostra natura umana è esigenza di verità e di compimento, vale a dire di felicità. Tutto il moto dell’uomo, qualunque cosa faccia, è dettato da questa urgenza che lo costituisce. Ma essa, arrivata ai bordi della propria esperienza di vita, non trova ancora ciò che ha cercato, all’estremo confine del suo territorio vissuto questa nostra urgenza non ha trovato ancora”16. Ancora al limite della ricerca, al limite della forze si potrebbe anche dire, viene in modo improvviso, inaspettato, gratuito, la liberazione e la risposta. Egli racconto una sua esperienza di ragazzo, che perso in mezzo al bosco per più di due ore, calando già il sole, disperato, ha cominciato a gridare con tutte le sue forze e da un luogo lontano e ancora con determinato è arrivata una tenue voce di risposta che poi e diventata sempre più forte: “è subentrato un senso di liberazione incredibile”17.

Comprendiamo che solamente un dono di grazia è capace si venire in nostro aiuto, che noi soli non possiamo con la nostra tecnica, con il nostro sapere scientifico e tecnico, con i nostri poteri sul mondo della materia o anche nel campo della vita. A questo dono che viene dall’alto fa riferimento il cristianesimo quando parla dell’evento di grazia che si è diramato sulla storia e sul mondo con l’incarnazione del Figlio di Dio e con il suo atto redentivo operato nel mistero pasquale. A questo evento di grazia faceva anche riferimento la lettera di San Paolo ai Romani quando, di fronte alle tribolazioni del tempo presente, segnalava: “La speranza non delude, perché lo Spirito Santo ci è stato dato” (Rom 5, 5). E lo stesso Spirito che viene in aiuto della nostra debolezza, il quale si esprime con gemiti inesprimibili, il quale garantisce che siamo predestinati ad diventare conformi all’immagine del Figlio (Cf. Rom 8, 28-30) e che l’amore che si manifesta in questo atto dalla parte di Dio nei confronti del singolo uomo e dell’umanità è capace di dare la garanzia finale alla speranza: non c’è niente che ormai ci possa separare dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Cf. Rom 8, 38).

I cristiani credono che questo evento di grazia che ha inondato il mondo si è già dato storicamente nella persona di Gesù Cristo, nel suo mistero, nella sua vita, morte, passione e risurrezione, nel suo effondere sui suoi discepoli lo Spirito Santo e che la Chiesa, nella storia continua a diffondere fino al momento della parusia.


4. Le ragioni della nostra speranza

Il cristiano è chiamato ad fare esperienza di questo amore che non delude, l’amore del Padre, ricco in misericordia, “per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe ci ha fatto rivivere in Cristo: per grazia siete salvati” (Ef 2, 4). Ma qualcuno potrebbe giustamente dire che si tratta di un’esperienza personale e le esperienze non sono affatto comunicabili allo stesso modo al meno come lo sono i concetti universali propri della scienza. Possiamo capire Newman quando diceva della sua propria conversione: “Se mi si chiede di usare l’argomento di Paley per la mia propria conversione, dico chiaramente che non voglio essere convertito da un sillogismo costringente (smart). Se mi si chiede di convertire altri con quel sillogismo, dico semplicemente che non cercherò di vincere la loro ragione senza toccare i loro cuori. Io voglio fare a che vedere non con persone polemiche (controversials) ma con persone che cercano (inquirers)”18.
Neanche per la nostra speranza possiamo dare ragioni (lógoi) di tipo scientifico o empirico, ma possiamo darne ragioni di un altro tipo, in cui come lo stesso Newman diceva valeva non tanti argomentazioni solo sillogistiche o empiriche ma dove si utilizza quel “senso illativo” (illative sense) al quale ricorre nel suo noto libro Grammar of Assent, ragioni che sono di un altro tipo di quelle che si usano nelle scienze ma che sono valide se applicate alla ricerca esistenziale della verità e del bene.
Adesso non vorrei dare tutte le ragioni per sperare che dà il cristianesimo come risposta storica e concreta alle aspirazioni profonde dell’uomo. Mi soffermo soltanto sulle tre caratteristiche che riguardano il Dio cristiano e che creano tre corrispettivi atteggiamenti nell’uomo: la credibilità, l’affidabilità e l’amabilità.
1. La credibilità:
La prima riguarda il tema classico dell’apologetica che è la credibilità. Il nostro messaggio è credibile? Il Dio cristiano è credibile? Possiamo veramente credere nel Dio cristiano? Sappiamo bene che il problema della credibilità è che il credere non è un atto a cui siamo costretti dall’evidenza delle prove. “Solo possiamo credere se si vuole”, dice Josef Pieper19. Possiamo ricevere argomentazioni da un'altra persona che ci inclinano a credere come vero ciò che dice, ma in realtà solo se noi vogliamo darle credito, accetteremo ciò che dice. Come Sant’Agostino affermava a questo riguardo: “Nemo credit nisi volens”20. Dio è in se stesso sommamente credibile, degno di essere creduto in ciò che a noi ci rivela, ma la volontà umana può credere o non credere a ciò che egli ci dice. Questo aspetto lo dobbiamo tenere presente nell’apologetica. Noi non possiamo a nessuno a costringere se non vuole. Possiamo dare delle ragioni oggettivamente convincenti, ma la persona è chiusa a dare credito. È inutile intentare altre strade. Neanche Dio potrebbe né vuole forzare la libertà umana nell’atto di credere.
Qui invece parliamo di la credibilità che dà alla ragione umana la rivelazione che in definitiva è la credibilità divina, del suo messaggio e salvezza. La risposta di Dio a questa rivelazione sappiamo che è la fede, e la fede presuppone come possibile, addirittura come giusto è sperabile la realtà della rivelazione. La credibilità di Dio suppone che egli si può comunicare e che l’uomo può capire il suo linguaggio o che almeno lo può imparare. È vero che oggi sempre meno evidente captare la presenza di Dio nel mondo. In questo senso affermava Kark Rahner: “Non possiamo sentire la presenza di Dio nel nostro mondo con tanta ingenuità come lo fecero epoche anteriori”21.
L’apologetica dà delle risposte razionali a domande come queste: è credibile il Dio rivelato da Gesù Cristo? È credibile l’incarnazione del Figlio di Dio? È credibile la Chiesa? Sono credibili i suoi dogmi? Le riposte che dà l’apologetica sono affermative ma solo l’atto libero di ogni uomo, mosso a sua volta dalla luce dello Spirito Santo, darà l’assenso totale a questa rivelazione. Questo vuol dire che Dio è credibile, ma che l’atto di credibilità, dalla parte dell’uomo rimane racchiuso nel mistero della libertà personale. In questo senso, è bene sapere che il ruolo dell’apologetica, come dice l’apologeta tedesco del secolo XVIII, Eusebius Amort (1692-1775) , deve essere modesta quando scrisse un noto manuale di teologia, Teologia eclectica, moralis et scholastica, nel 1752 e un trattato di apologetica, Demonstratio critica religionis christianae nova, modesta, facilis (1744). Per l’apologetica non deve essere troppo pretenziosa e cercava di mettere in evidenza solamente che i dogmi della Chiesa cattolica sono più credibili di quelli di altri chiese e che non si può dimostrare niente di falso nella religione cattolica. Perciò presentava il metodo apologetica della più grande probabilità. Questo è interessante perché forse una certa apologetica aveva nel passato voluto dare delle argomentazioni troppo contundenti, troppe sicure di sé stesse, dimenticando il ruolo della interiore illuminazione di Dio all’uomo che lo apre, con la sua grazia all’atto di credere.
La credibilità del messaggio rivelato si appoggia sulla Verità di Dio. Dio è vero. Egli stesso è la Verità. Egli non può né ingannarsi né indagarci. Il fatto che Dio sia la Verità è il fondamento della possibilità della mente umana di conoscere con assolutezza e di poter raggiungere verità assolute; in altre parole la veridicità di Dio fonda il rigetto del relativismo. La verità divina è il fondamento di ogni atto di autentica libertà: “la verità di renderà liberi” (Gv 8, *). Senza la verità divina si ricade nella dittatura del relativismo. La verità di Dio fonda anche il senso della ricerca e della vita. Se questa verità ultima e definitiva non ci fosse, non sarebbe possibile trovare un senso all’esistenza umana né al divenire storico.
B) L’Affidabilità:
La seconda caratterista della nuova apologetica che fonda la ragioni del nostro sperare è che Dio è affidabile e che è il fondamento della nostra speranza. Ma perché Dio è affidabile? L’analisi dell’uso di questa parola nel linguaggio ci potrebbe aiutare a capire meglio questo concetto. Si dice che una persona è affidabile quando noi possiamo rimettere in lei la nostra fiducia, quando sappiamo che è qualcuno che è fedele alla sua parola e fedele alla sue promesse. In questo senso una persona affidabile è una persona autentica nella quale si trova una coerenza tra le sue parole e le sue azioni, il suo pensiero e il suo dire. Questo primo aspetto dell’affidabilità non esaurisce però il senso teologico che vorrei dare a questa parola, perché ritengo che l’affidabilità implichi anche, oltre alla credibilità già accennata, anche l’aspetto della fiducia. Io mi posso fidare, posso avere fiducia in una persona affidabile. Applicato a Dio, possiamo dire che Egli è qualcuno in cui io posso rimettere la mia fiducia, posso confidare in Lui. Possiamo dire che il concetto che io vorrei mettere qui in rilievo è simile a quello che si presenta nell’espressione latina Credere Deo. Io non solo so che Dio è Vero e che mi dice è vero (Credere Deum) ma anche credo a lui per ciò che Egli è non solo in sé stesso ma nei miei confronti. In questo senso Dio non è solo il Dio della Verità fredda e razionale, il Giudizio supremo dell’universo e della storia, ma il Dio cristiano è anche il Dio della Misericordia che sa combinare nei suoi giudizi nei miei confronti una componente di benevolenza no meritata. Mi posso fidare di Lui perché non mi ingannerà ma anche mi posso fidare in modo speciale di lui perché so che mi guarda con misericordia, perché so che è disposto a perdonare e a accogliermi anche se io non sempre gli sono fedele. In questo senso l’affidabilità di Dio è il fondamento della nostra speranza teologale che ci apri lo spazio alla possibilità di poter raggiungere la felicità stessa di Dio non già in quanto Egli è la Verità solamente ma in quanto Egli è fedele alla promessa che Egli stesso ci fa di poter arrivare ad una felicità tale che sarà una condivisione della felicità stessa di Dio. Ma questo è un atto di condiscenda del Dio misericordioso e delle sue promesse noi ci possiamo fidare.

3. Amabilità:

Così si arriva al terzo aspetto che è intrinsecamente legato con i due precedenti ma che comunque emerge con sua propria caratteristica formale ed è l’amabilità di Dio. Questo Dio Verità del cui ci possiamo fidare perché ci promette una partecipazione alla sua natura e alla sua felicità è un Dio Amore. È vero che la Verità è già un primo compimento del senso che ricerca l’uomo e che spera ottenere, ma se questa verità non fosse tutta intrisa e permeata d’amore, se non fosse l’Amore verità e la verità Amore, noi non potremmo fondare una speranza salda perché ovvero la Verità si imporrebbe col peso della sua forza e ci scaccerebbe oppure la bontà infinita che non fosse vera sarebbe fondata una volontà che ama ma in modo velleitario e dunque non affidabile. “Solo l’amore è degno di fede”, come diceva von Balthasar22**. Solo l’amore è degno di speranza, si può aggiungere.
La vocazione dell’essere umano solo trova pienezza nell’amore, ma non in qualsiasi amore ma in un amore che sia credibile e affidabile, in un amore che sia totale donazione e che sia onnipotente e infinito. In un amore che sia Misericordia. Tale è il Dio che Cristo ci rivela nel suo Vangelo e tale è il Dio che ci presenta la Chiesa.
Ci sono per tanto valide ragioni per sperare e noi possiamo, come cristiano, seguire il consiglio di San Pietro di essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in noi. L’apologetica cerca di fare questo in modo sistematico. La nuova apologetica non può perdere le ragioni che nel passato si sono date, con validità, per mostrare egli uomini la ragioni del nostro sperare, ma dovrebbe, nella forma soprattutto fare un approccio più esistenziale senza perdere tutta la forza di logicità che hanno le argomentazioni razionali, la quali però da sole non saranno sufficienti se vogliamo fare non solo apologetica teorica ma praticare l’arte apologetica o l’apologetica pastorale.


5. Le ragioni di sperare in un contesto interdisciplinare: l’apologetica sapienziale

Una combinazione felice di questi elementi possono dare, con modestia e allo stesso tempo con fiducia, ragioni convincenti per sperare. Per aiutare a rafforzare queste ragioni e vedere come la fede non ha paura della scienza, sarebbe molto conveniente avvalersi del metodo interdisciplinare nel quale si intersecano ragioni di tipo teologico, filosofico e scientifico, in modo diverso. Questo tipo di approccio è aperto a ciò che possiamo chiamare non solo un’apologetica esistenziale ma anche sapienziale che integra i saperi in un’unità armonica.
Giovanni Paolo II aveva già affermato nel numero 92 dell’enciclica Fides et Ratio che la teologia (e l’apologetica ne è parte integrante), “nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse in una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede”23. L’apologetica, in quanto scienza teologica, che vuole dare ragioni della propria fede in una cultura che spesso è in contraddizione con in valori del Vangelo, dovrà presentare questa concettualizzazione coerente della fede che sia comprensibile e accettabile da un punto di vista logico alla cultura contemporanea. Oggi più che mai le scienze hanno sviluppato diverse specializzazioni che rendono difficile l’unità del sapere e la loro conciliazione unitaria. Uno dei grandi contributi della nuova apologetica può essere appunto raggiungere questa visione d’insieme che unisca i diversi saperi attraverso la fede.
La Fides et Ratio continuava affermando che spetta alla teologia nell’epoca contemporanea un duplice compito: “rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace all’evangelizzazione”, ma d’altra parte essa deve “puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi”24 L’apologeta teologo dovrà da una parte cercare le nuove metodologie teologiche applicabili all’apologetica, ma non potrà mai rinunciare alla fedeltà della purezza della fede stessa. Il dare ragioni della propria fede non vuol dire per niente perdere il sale che caratterizza il Vangelo che comporta esigenze spesso contrarie a modi di pensare della filosofie di moda nel mondo contemporaneo.
“La mole dei problemi che oggi si impongono richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa”25. Questo lavoro comune deve essere anche compito di coloro che si dedicano all’apologetica, la quale si deve confrontare a numerosi problemi che richiedono competenze svariate. È vero che l’apologeta teologo può dare delle indicazioni in linea di principio ma non può assumere da solo tutti i problemi non solo teologici, ma anche filosofici, scientifici, storici, culturali, sociale che sono presenti nelle argomentazioni apologetiche. Il suo lavoro richiede una doverosa inter-disciplinarietà la quale non è una mera giustapposizione dei saperi ma il loro organico inserimento in un sapere comune guidato certo dalla sapienza che viene dalla fede.
Certo che la inter-disciplinarietà di cui parliamo non è un compromesso eclettico tra i diversi saperi né una rinuncia alla verità rivelata con le conseguenti concessioni al relativismo di moda. L’apologetica rinnovata crede nella possibilità della ragione di poter raggiungere una verità universalmente valida e questo non dovrebbe essere sinonimo di intolleranza. L’accettazione della verità oggettiva non è un atto di schiavitù ma di libertà: “La verità vi renderà liberi” (Gv 8, 32). L’apertura di tutti alla verità, venga questa da dove venga, è una condizione necessaria affinché il dialogo tra gli uomini e le scienze si possa realizzare perché se non ci fosse nessun terreno comune su cui dialogare e i diversi saperi fossero semplicemente una collezione di informazioni giustapposte senza nessuna interconnessione logica, allora ci troveremo di fronte al caos più grande caos epistemologico. Di fatti, il relativismo conoscitivo in fondo non è sostenibile in quanto supporrebbe una specie di dipartimenti assolutamente separati tra le conoscenze degli uomini senza la minima possibilità di integrazione.
L’inter-disciplinarietà che viene richiesta dalla nuova apologetica, oggi più che mai, deve essere costruita su basi epistemologiche sane e realiste, aperte alla filosofia dell’essere che, come fondamento ontologico della conoscenza umana, permetta un sano confronto tra i diversi saperi. Naturalmente è difficile questo confronto tra saperi così eterogenei che usano metodologie tanto diverse e ciò richiede un’apertura mentale e di spirito sia agli altri saperi che all’altro come persona, apertura che non vorrà dire per niente una rinuncia alle proprie convinzioni di fede, ma piuttosto un atteggiamento dello spirito che cerca in ogni persona e in ogni affermazione gli elementi interni di verità che si possono trovare e allo stesso tempo una capacità critica di discernimento per poter valutare con serenità gli errori che anche le conoscenze umane possono contenere.
Vorrei adesso indicare come un modello concreto di inter-disciplinarietà quello che si fa nel campo della bioetica. Come sappiamo questa scienza è relativamente recente. Non ha più di quarant’anni. Si tratta di una scienza a carattere morale che usa anch’essa una metodologia interdisciplinare che ha per oggetto l’esame sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute in quanto questa condotta è esaminata alla luce di valori e principi morali”26. Nella bioetica serve una visione di fede sulla vita che comporta un’antropologia teologica adeguata così come una concezione filosofica della dignità della persona umana con tutto il valore della sua corporeità e spiritualità. La bioetica resterebbe una conoscenza vuota se poi non passa ad offrire giudizi oggettivi su temi concreti e talvolta scientificamente complicatissimi che si danno nella ricerca degli embrioni umani, nelle questioni che riguardano la riproduzione o la morte. Sappiamo che quando si tratta di principi più generici la riflessione teoretica potrebbe trovare con una relativa facilità certi accordi di massima, ma quando si tratta di applicazioni concrete ai casi singoli, con tutta la casistica che esso implica, allora le questioni diventano complicate e sottili. Questo non vuol dire che non si possano raggiungere traguardi importanti in campo bioetico ma questo richiede una competenza specifica che va dal campo teologico-filosofico a quello giuridico, medico, etico, scientifico, pastorale.
L’esempio della bioetica ci dice che l’inter-disciplinarietà, non solo quella inter-disciplinarietà che raccoglie scienze affini di un ambito comune di ricerca, ma quella in cui si mettono insieme metodologie e saperi di scienze umanistiche e di scienze naturali, è possibile, anzi è l’unico modo di poter arrivare a delle conclusioni che hanno una legittimità in quanto verificate da diversi saperi a diverse istanze. Adesso tralascio altri temi di tipo epistemologico che sono comunque di grande interesse e che riguarderebbero il modo di armonizzare le grandi sfere del sapere. Rimando alla grande opera di Jacques Maritain, “I gradi del sapere”, dove il noto filosofo francese ha mostrato la profonda unità dei saperi umani articolati nella loro diversità”27.
La mera inter-disciplinerità resterebbe una procedura metodologica se non fosse animata da una ricerca e spirito a carattere sapienziali che all’apologetica le vengono date appunto dal suo specifico statuto teologico. Sappiamo infatti che la teologia, essendo anche lei una scienza, lo è in modo diverse della filosofia o delle scienze empiriche. Già la stessa filosofia possiede una forte componente sapienziale se vuole essere vero amore della sapienza secondo la terminologia della parola. L’enciclica Fides et Ratio chiede alla filosofia di trovare la dimensione sapienziale che le è propria per la quale ricerca il senso ultimo della vita28. Se la filosofia conserva la sua propria dimensione sapienziale, lei stessa è fedele alla sua essenza in quanto non solo indicherà alle “varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi”29. Questa dimensione sapienziale è anche valida per l’apologetica che non può essere un dare solamente “prove” astratte dell’esistenza di Dio ma deve cercare di mostrare come l’agire dell’uomo è vuoto se non ha un senso e se è privo di significato profondo e assoluto.
La dimensione sapienziale deve anche essere riscoperta dalla teologia che, secondo S. Tommaso non è solo una scientia ma una propria e vera sapientia30 *. La teologia apologetica non può perdere la sua profonda identità teologica e la teologia, se vuole essere tale, deve necessariamente ricuperare una dimensione sapienziale che dà all’uomo orientamento verso Dio come realtà ultima del suo destino.
Ma non sono solo la filosofia e la teologia che devono riscoprire la loro dimensione sapienziale come strumenti necessari per una nuova apologetica. Sono anche le scienze naturali e anche umane. Le scienze hanno compiuto passi da giganti negli ultimi secoli e hanno cambiato la nostra vita, raggiungendo traguardi che continuano a stupirci. Ma se la scienza non si apre anche lei alla dimensione sapienziale e si erge come ultimo orizzonte della razionalità umana, chiudendosi in una prospettiva positivista e empirista, allora potrebbe diventare un grande mostro che distrugge l’uomo che l’ha creata. Le acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana” 31. “La ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero”32.

Conclusione

Avviandoci verso la conclusione, potremmo riassumere il nostro percorso ricordando che abbiamo partito dalla constatazione che viviamo in epoca in cui esiste ciò che Giovanni Paolo II ha chiamato nell’esortazione apostolica post-sinodale l’offuscamento della speranza nel mondo contemporaneo, una perdita della speranza della speranza accompagnata da una ricerca, talvolta folle, di una speranza che sia assoluta. Partendo alla rivelazione cristiana, abbiamo ricordato come la speranza che offre Cristo all’uomo non delude perché solidamente fondata in un Dio che è vero, misericordioso e amore che le danno credibilità, affidabilità e amabilità, facendo ritrovare all’uomo la sua autentica vocazione all’amore.
L’uomo aspetta ragioni per cui vivere, per il suo credere, il suo sperare, il suo amare. Perché credere? Perché sperare? Perché amare? L’apologetica, la nuova apologetica, dovrebbe offrire queste ragioni in modo esistenziale, sapienziale a interdisciplinare. Noi sappiamo che tutte queste ragioni per sperare sono unificate in una persona, Gesù Cristo. È il Lui il motivo della nostra speranza: “Surrexit Christus, spes mea!” ci aiuta a cantare la liturgia nella sequenza pasquale. Noi possiamo sperare perché Gesù è il vero Figlio di Dio inviato dal Padre a salvarci perciò lo Spirito e la Sposa gridano: Vieni (Ap 22, 17). E egli: “Sì, vengo presto!”. “Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 20).


Roma, Convegno Internazionale sulla “Nuova Apologetica”
30 aprile 2010

http://www.srmedia.org/News2010/NewsAprile2010/LaNuovaApologeticanellaTeologia/tabid/793/Default.aspx

OMELIA DOMENICA XXVIX ANNO A

Una parola sulle letture ascoltate. Nella prima lettura il profeta Isaia ci ha parlato delle vie provvidenziali del Signore. Il profeta vede in Ciro,re dei Persiani, lo strumento della potenza e della misericordia di Dio nei confronti del suo popolo. Il popolo ebreo nel 538 viene liberato dalla schiavitù e dall’esilio babilonese per opera di Ciro. Dio realizza i suoi progetti anche attraverso avvenimenti impensabili e imprevedibili. Questo brano del profeta Isaia vuol farci comprendere che Dio è il Signore della storia e del tempo, e che la storia
e gli avvenimenti sono al servizio di Dio; Dio non è indifferente o estraneo alla nostra vita anche personale, perché Lui è sempre nostro Padre e sempre e per tutti è Provvidenza, perché è Lui che dirige e guida tutta la nostra storia e la nostra vita, anche quando gli uomini vogliono costruire lontano da Dio o senza Dio, anche quando operano nel peccato e non interessa né il vangelo né l’eternità.

Il Vangelo riporta un altra disputa di Gesù con i farisei, L’evangelista Matteo, come abbiamo avuto modo di ripetere spesso nelle prediche riporta molti insegnamenti di Gesù, attraverso un contesto di disputa, di discussione con i farisei:i farisei erano una setta molto ligia e scrupolosa nell’osservanza esteriore della legge. La disputa riguarda il pagamento delle imposte all’autorità romana: “è lecito oppure no pagare il tributo a Cesare?”.
Tutti conosciamo la risposta di Gesù. Non bisogna confondere l’ambito religioso con quello civile,la religione non è a servizio dello stato e neppure il contrario. Questa questione attuale ai tempi di Gesù, divenne attuale anche al tempo delle prime comunità cristiane, quando la stato-impero romano minacciava la stessa esistenza del cristianesimo, attuale anche ai nostri giorni perché esistono stati che non permettono ancora la libertà religiosa.
Qual’è il messaggio per noi?

Il compito non facile per il cristiano:vivere nel mondo ma sempre con lo sguardo fisso ai beni eterni, impegno attivo e concreto nel reale, con onestà, con coerenza, con verità , ma animato dai valori eterni, dai valori spirituali. Il cristiano che non si sottrae ai doveri di cittadino, con responsabilità e con giustizia, e al tempo stesso non viene meno ai doveri verso la sua religione, verso Dio e la sua Chiesa.

Ora una breve riflessione sulla giornata missionaria mondiale; lo scopo di questa giornata è innanzitutto sensibilizzare i cristiani sulla missionarietà della Chiesa. Tutta la Chiesa è per sua stessa natura missionaria:
“andate in tutto il mondo e annunciate il vangelo a tutte le creature”, questo è il mandato di Gesù a tutti noi suoi discepoli
Ogni cristiano ha come compito primario, ovunque si trovi e in qualunque momento,ha come dovere primario: portare la buona notizia di Gesù che è il Salvatore dell’uomo. Per ogni uomo il cristiano è chiamato ad essere missionario, cioè colui che da speranza , che da non solo una mano, ma il cuore, che aiuta il cieco a vedere, il paralitico ad alzarsi, il morto a vivere.

Quanti anche oggi,sacerdoti, religiosi, suore,laici stanno annunciando la verità di Gesù, e molte volte fino al sacrificio della stessa vita, attraverso difficoltà di ogni genere, ostacoli, incomprensioni e ostilità.
Quanti ambienti refrattari a Dio, quanti per principio rifiutano la mano, non vogliono né credere né pensare che altri possano donare il loro cuore solo per amore, quanti voltafaccia e ingratitudini, quante dicerie e pretesti. Il missionario proprio attraverso queste difficoltà e tradimenti, trova la pace e la forza di Cristo per evangelizzare.
Il missionario si mette a servizio di tanti fratelli che vivono anche nella povertà economica e intellettuale,quante volte il missionario annuncia la libertà da certi sfruttamenti, da oppressioni politiche e militari o da schiavitù economiche. Quanti missionari , alcuni li ricordiamo come martiri, a costo della vita si sono schierati dalla parte dei poveri, dei bambini che muoiono di fame e di malattia, degli ultimi, degli sfruttati,in nome di Cristo.
Annunciando Cristo in mezzo a questa gente hanno portato e stanno portando vita. Aiutiamoli con la nostra preghiera, con la nostra vita di coerenza qui nel nostro ambiente, aiutiamoli con la nostra solidarietà. Noi facciamo la nostra parte di missionari qui,in questo paese.
Chiediamoci quanto il nostro essere cristiani incide nella vita e nell’ambiente nel quale viviamo!
La moglie cristiana riesce portare Cristo al marito? E il padre fa gustare ai figli la gioia di essere cristiano? E il giovane cristiano riesce ad annunciare l’amore di Gesù ai suoi amici? Non aspettiamoci che la nuova evangelizzazione venga dall’alto,che siano i vescovi o i sacerdoti i soli a portare l’annuncio di Gesù. Ogni cristiano proprio in forza del suo Battesimo ha ricevuto da Dio e dalla Chiesa la missione di evangelizzatore con la parola e con l’esempio.

Fondamenti spirituali del futuro

da Flaminia Moranti - Michelina Tenace (a cura di ) Fondamenti spirituali del futuro. Intervista a Olivier Clèment , Roma, 1997, pp.89-103
(Testo di una conferanza pronunciata da Olivier Clément al Pontificio Collegio Russicum nel marzo 1996, organizzata dal Centro Aletti e dal Russicum, divenuta pressoché capitolo conclusivo del libro Rome Autremente, DDB, Paris 1997 pp.111-128).

Il nostro presente è strano: da una parte il pianeta si unifica, dall'altra ogni etnia, ogni cultura afferma la sua identità, e la afferma contro le altre Guerre minacciose scoppiano dappertutto. Il futuro sarà fatto di guerre locali - come tutte quelle che dalla fine del secondo conflitto mondiale hanno moltiplicato le vittime: circa 60 milioni, si dice -, oppure di "guerre di civiltà", come affermano certi politologi americani che pensano soprattutto al peso demografico sempre crescente dell'islam?

Sarà forse così ancora per un po' di tempo, ma dopo si arriverà ad una conclusione. L'unificazione economica e tecnica dell'umanità vincerà. Allora scoppieranno - ne stiamo già vedendo i segni annunciatori - ciò che Nietzsche prevedeva: le "grandi guerre dello spirito". E attraverso queste guerre che tenteremo di delineare ciò che potrebbero essere i fondamenti spirituali dei futuro. Alla luce, per noi cristiani, della morte e della risurrezione di Cristo.

Tali fondamenti sono per noi dei doveri:

1 - il dovere di superare la modernità dal di dentro
2 - il dovere di rispondere all'argomento del male
3 - il dovere di assumere teologicamente e spiritualmente l'unità del pianeta
4 - il dovere di elaborare un nuovo stile di vita.

1. Superare la modernità dal di dentro
La modernità come liberazione dalle costrizioni clericali ha permesso straordinarie esplorazioni: dell'universo, dalle nebulose fino alle particelle infinitesimali della materia; dell'uomo nel suo corpo e nella sua anima - si è passati, come si è detto, "dall'uomo delle caverne alle caverne dell'uomo" - dell'arte fino ai confini della soggettività e della follia; della politica fino all'elaborazione mai conclusa di uno "Stato di diritto" che non pretende di imporre una verità ma lascia che cercatori e testimoni cerchino e testimonino liberamente. In questo senso, la modernità durerà. Non si potranno imporre costrizioni alla libertà.

Eppure oggi la libertà s'interroga e s’angoscia. Il nostro primo compito è di seguirla dall'interno nel suo movimento per proporgli umilmente un ambito e un esempio che la liberino dal nulla. Come? Portando una giustificazione ultima all'esistenza; "orientando" la scienza e la tecnica; approfondendo la solidarietà in comunione. Proponendo una giustificazione all'esistenza.

1. Mai la morte è stata tanto repressa e così nuda. Il nulla corrode tutto, suscita derisione, ricerca parossismi dove si rischia la propria vita e quella degli altri. Sul tavolo di uno studente che si era appena suicidato è stato trovato un biglietto con su scritte queste parole: mi uccido perché la vita non ha senso. Il fondamento da porre qui non è l'esaltazione della vita - di fronte al nulla, tutto il mondo esalta la vita, ma questa è stranamente mescolata alla morte ("una vita morta", diceva san Gregorio di Nissa) - è la testimonianza della vita risuscitata: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, uno spazio di non-morte si apre per noi. Esistono degli uomini che, praticando fino in fondo la "memoria della morte", scoprono nel più profondo di sé Qualcuno che si frappone per sempre fra l'uomo e il nulla: il Cristo risorto, vincitore della morte e dell'inferno. Allora si può tentare di amare, tentare di vivere; la vita eterna comincia già qui, da adesso.

2. "Orientando" la scienza e la tecnica. Oggi l'uomo non sa che fare della sua potenza. Talvolta la sua scienza, o meglio, le sue scienze, al plurale, non riescono più ad esaurire la realtà e urtano d'altronde contro il caos: talvolta invece, in biologia soprattutto, il prometeismo si esaspera, pretende di creare la vita, di fabbricare l'uomo su ordinazione. I simbolismi più originali vengono rigettati, quelli che riguardano l'unione dell'uomo e della donna, la relazione fra genitori e bambino. Ci si avventa sui "tabù" e non si rimane che delle solitarie "macchine del desiderio". Gli embrioni vengono congelati e poi distrutti, si disprezza il ritmo della terra fino a snaturare la natura. La violenza si esaspera nella bruttezza delle megapoli inquinate.

Il fondamento spirituale che va posto qui è doppio: la transcendenza della persona, il mistero della creazione, della terra.

Un'antropologia onesta non può non constatare il carattere irriducibile della persona, sempre al di là di tutti i suoi attributi e condizionamenti. Più conosco qualcuno e più mi è sconosciuto. I concetti sono sempre superati dal volto, dal vero volto, al di là di tutte le maschere che sì esprimono nello spiraglio di uno sguardo, nella luce di un sorriso, nella presenza che mi interroga, mi obbliga a rispondere, come ha ben detto Lévinas. Sì, e lo dobbiamo far capire, l'uomo è ad immagine di Dio. Come Dio, egli è segreto e amore. Né la scienza, né la tecnica valgono qualcosa se rifiutano o ignorano questa trascendenza della persona.

Mistero dell'uomo, mistero anche della terra. Se la Bibbia e il cristianesimo, i monaci in particolare, hanno strappato la persona all'impersonalità della Terra Madre, della Grande Dea arcaica, bisogna che oggi rinunciamo a vedere nella terra soltanto uno sfondo più o meno piacevole o un serbatoio di energie industriali inesauribili, perché non è vero. La "nostra sorella Madre Terra", diceva san Francesco d'Assisi. La nostra sorella la nostra sposa. La civiltà tecnicista deve rannodare il patto nuziale con la terra. Dobbiamo reintegrare in un cristianesimo rinnovato le grandi intuizioni dei vecchi paganesimi, la terra come teofania, diciamo: come eucaristia. Dobbiamo far incontrare la conoscenza orizzontale, puramente casuale delle cose, con la conoscenza verticale delle radici celesti delle cose. Così la nostra scienza e la nostra tecnica lavoreranno nel rispetto della terra per renderla bella e spiritualizzarla.

3. Approfondire la solidarietà in comunione. La solidarietà è oggi uno dei valori che toccano di più i giovani occidentali. Sono capaci di grande dedizione, in particolare nelle organizzazioni non governative; non si tratta né di semplici gesti individuali di carità, né di ideologia facilmente usata dallo Stato, o di fanatismo. C'è un vero gusto dei concreto e dell'efficacia. Ma c'è anche il rischio dello scoraggiamento e dell'amarezza.

Il nostro ruolo: approfondire la solidarietà in comunione, nella certezza che esiste un solo Uomo, un unico Adamo incessantemente spezzato dal nostro peccato, incessantemente ricostruito in Cristo, nel quale siamo tutti consustanziali, "membri gli uni degli altri". E in questa immensa unità, ognuno, senza cercarlo, diventa unico. Questo è il mistero di Dio che si comunica all'umanità. Comunione del Dio-Trinità come Tarkovskij ha suggerito alla fine dei suo film su Andrej Rublëv, mostrando l'icona dei Tre Angeli splendente di luce e di colore, Dio nel simbolo della giovinezza e della bellezza e che "apre all'umanità un futuro ancora confuso nei secoli". Allora non ci può più essere scoraggiamento o amarezza; in Cristo risorto anche i nostri fallimenti sono trasfigurati. Ogni nostro gesto concreto d'amore anticipa il Regno.

2. Rispondere all'argomento del male
L'argomento fondamentale dell'ateismo di oggi e di domani è che l’esistenza di un Dio onnipotente e buono è incompatibile con la realtà atroce del male - che non è soltanto umano e che quindi potrebbe chiamare in causa la libertà - ma è anche cosmico. Quando un popolo già massacrato dalla storia come il popolo armeno subisce anche un terremoto, quando i bambini nel Messico vengono sepolti da un fiume di lava, quando altri bambini dovunque nel mondo sono colpiti dal cancro, tutto sembra assurdo. I media - in Francia, almeno - sottolineano con intenzione nella cronaca:

"un pullman di religiose in pellegrinaggio a Lourdes è precipitato in un burrone". Oppure: "un bambino pregava davanti ad una grande croce di pietra. La croce è caduta e ha schiacciato il bambino". Si riconosce l'argomento di Ivan Karamazov, che "restituisce il suo biglietto" a Dio a causa della sofferenza dei bambini innocenti. Dicono: affermate che Dio è onnipotente, ma il mondo è un caos assurdo. Dite che è buono, ma prepara per un'infinita' di dannati le eterne torture dell'inferno. Lungo la storia e anche oggi, gli uomini si massacrano nel nome di Dio. Dite che Dio è misericordioso, ma sembra invece che sia lui a provocare crudeltà e odio. Il filosofo franco-americano René Girard ha ragione di accostare violenza e sacro: la gente si aggrega subito attorno ad un unico capro espiatorio, la comunità funziona su meccanismi di esclusione e, se si tratta di un gruppo religioso, proietta volentieri lo stesso meccanismo nell'eternità.

E allora, quale fondamento spirituale porre per il futuro? Va detto con forza che il nostro Dio è innocente, che non ha voluto e non vuole la morte, che non ha neanche idea del male. Bisogna farla finita con"quest'idea di un Dio diabolico, ad immagine dell'uomo e della parte peggiore dell'uomo. Sì, c'è un'onnipotenza di Dio, perché può creare e lasciar esistere fuori di sé altre libertà, quella dell'angelo e quella dell'uomo. Se c'è un'onnipotenza di Dio essa è inseparabile dalla sua onni-debolezza. Dio si ritira in qualche modo (nozione vicina allo zimzum della mistica ebraica) per lasciare all'angelo e all'uomo lo spazio della loro libertà. Egli attende il nostro amore, ma l'amore dell'altro non si comanda. "Ogni grande amore è sempre crocifisso", diceva Evdokimov. Sì, Dio ha rischiato, Dio è entrato in una vera e dunque tragica storia d'amore. L'Adamo molteplice che siamo tutti noi non ha potuto evitare la prova della libertà. Per affermarsi, per individualizzarsi, si è allontanato dal Padre come il figlio prodigo della parabola. Allora il mondo, creato dal nulla - cioè che non ha fondamento in se stesso - ha cominciato a scivolare verso il nulla, questo nulla al quale gli angeli decaduti che dimentichiamo con troppa facilità, danno una consistenza distruttrice. In un certo modo, Dio è stato escluso dalla sua creazione, non la mantiene che dall'esterno. Dio è diventato un "re senza regno , secondo l'espressione di Nicola Cabasilas. Davanti al male universale - il mondo che "giace nel male", come dice san Giovanni - "il volto di Dio piange sangue nell'ombra", violenta espressione di Léon Bloy spesso citata da Nikolaj Berdjaev.

Fino a che il "sì" di una donna permette a Dio di rientrare nel cuore della sua creazione per restaurarla, per strappare l'umanità alla fatalità e al fascino del nulla e aprirgli, anche attraverso le tenebre, vie di resurrezione. Ma il Dio crocifisso non ha il potere dei tiranni e delle tempeste. E’ un immenso influsso di pace, di luce e di amore che, per agire, ha bisogno di cuori che si aprano liberamente a Lui. La Parusia avverrà per effrazione, e non c'è già ora un momento che non possa lasciar passare la sua luce. Ma essa esige anche una preparazione: in Cristo, sotto il soffio dello Spirito, l'uomo ritrova la sua vocazione di creatore creato. Davanti al cieco nato, Gesù rifiuta di dare spiegazioni a partire dal peccato: né quest'uomo né i suoi genitori hanno peccato. Ma quest'incontro avviene per la gloria di Dio, e Lui lo guarisce. La spiritualità del terzo millennio sarà meno di rifiuto e più di trasfigurazione; una spiritualità pasquale, una spiritualità di risurrezione!

Allora capiremo clic non si possono mettere limiti alla speranza, come diceva Hans Urs von Balthasar. La preghiera e il servizio per la salvezza universale saranno la risposta alla tragedia dell’inferno. L’inferno, come condizione generica, come assenza di Dio, è stato distrutto dal Sabato santo. Dio ormai non è più assente da nessuna parte. Ma bisogna "sedersi alla tavola dei peccatori", come diceva Teresa di Lisieux, e "versare il sangue del proprio cuore", come aggiungeva lo starets Silvano del monte Athos, affinché l 'ultimo inferno, quello dell'individuo chiuso in se stesso, sia sommerso dall'onda di amore della comunione dei santi, cioè i peccatori che accettano di essere perdonati.

Uno dei fondamenti spirituali maggiori dei futuro sarà quindi la kenosi. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo dice che Dio in Cristo ekenosen, si è annullato, svuotato di sé. Intuizione geniale: evocare Dio non nel linguaggio del pieno, ma nel linguaggio del vuoto. Il pieno rimanda alla ricchezza, all'abbondanza, alla potenza. Lo svuotarsi, il vuoto, esprime il mistero dell'amore. Dio si trascende verso l'uomo in un movimento inverso. Non è un Dio pienissimo, pesante, che schiaccia l'uomo, ma un Dio "svuotato" nell'attesa della nostra risposta d'amore.

3. Assumere e assicurare spiritualmente l'Unità planetaria
L'unità planetaria si sta realizzando nonostante o attraverso i particolarismi che si moltiplicano. Due grandi fratture mi sembrano caratterizzare per oggi e per domani la situazione spirituale dell'umanità. Anzitutto, ci sono due emisferi spirituali. Da una parte l'emisfero che si rifà all'India: induismo, giainismo e tutte le forme di buddismo di cui alcune, in Cina o in Giappone, sono molto vicine alle tradizioni arcaiche come lo scintoismo o, provengono, come lo stesso buddismo, da ciò che Jaspers chiamava il "periodo assiale" della storia (VII-IV sec. prima della nostra era): penso ad esempio al taoismo. In questo emisfero, il divino - o il soffio di vita, il ki cinese - affiora dappertutto, divino impersonale che il mondo manifesta e nel quale si riassorbe. Il pensiero dominante è un pensiero dell'Unità che abbraccia tutto, un pensiero dell'Identico, con una concezione ciclica del tempo e l'universalità del Sé di ognuno (perché una mamma ama suo figlio, si chiede l'Upanishad? La risposta è: non è per amore del bambino, è per amore del Sé che è identico nel bambino e nella donna).

L'altro emisfero si potrebbe definirlo "semitico" e riguarda soprattutto il giudaismo e l'islam, almeno nelle loro forme "esoteriche". Qui si afferma la trascendenza del Dio personale e il carattere personale, o piuttosto individuale dell'uomo. Il pensiero è rivolto all'altro senza unità (tranne in certe forme di sufismo e di cabbala segnate dal neoplatonismo, l'Iran e l'India, dove si ritrova spesso una sensibilità fusionale). Dio è in cielo e l'uomo è sulla terra. Dio dà una legge e l'uomo deve obbedirgli. Il tempo si fa lineare sia sotto forma di tensione nel giudaismo, che sotto forma di richiami nell'islam.

L'altra frattura oppone le società tradizionali e la società occidentale moderna. Le società tradizionali sono "diviniste" o magiche, ripetitive, spesso, come in Africa e in America dei Sud, profondamente "vitali", mentre la società occidentale moderna è umanista, innovatrice e devitalizzata. Invade oggi la terra intera, ma le società tradizionali lasciano tracce e nostalgie profonde, e le loro magie nutrono il "New Age".

I fondamenti spirituali del futuro in questo contesto si chiamano Trinità e divinoumanità.

Certo, prima o poi dobbiamo prima di tutto affermare che il nostro Dio non è il Dio delle "guerre sante" e delle crociate, ma il Dio della Croce vivificante. Le differenze, anzi le contraddizioni fra religioni non devono essere luogo di guerre ma di amicizia e di preghiera, se non proprio comune, perlomeno insieme, come ad Assisi. E anche, ogni volta che è possibile, uno scambio che potrebbe prodigiosamente arricchire il cristianesimo, perché, in una prospettiva escatologica, bisogna riconoscere che le "economie" di Dio sono molteplici.

Più profondamente importa capire e diffondere sempre di più il mistero della Uni-Trinità: il Dio vivo è talmente uno che porta in sé la realtà, il battito dell'altro, e nello Spirito, nel Soffio santo, il superamento di ogni dualità: non per ripiegamento in un'unità impersonale, ma per coincidenza dell'unita assoluta con la diversità assoluta. Ed è lo stesso, almeno come promessa, in germe, in divenire, per l'umanità, visto che l'uomo è ad immagine di Dio: unità totale in Cristo, diversità totale sotto le fiamme della Pentecoste perpetua. Un prete e monaco russo che fu, alla vigilia della rivoluzione, missionario in Siberia ,scrive che ammirava tanto i saggi indù che esitava a portarli al battesimo. Ma, aggiungeva, questi saggi sono talmente assorbiti nella loro interiorità che hanno gli occhi chiusi; la missione dei cristiani potrebbe essere quella di portarli ad aprire gli occhi per vedere l'altro, senza per questo rinunciare alla loro interiorità, di cui essi devono insegnarci le vie.

L'altro tema fondamentale per il futuro è quello della divinoumanità come spazio dello Spirito e della libertà creatrice. Tutte le esperienze orientali del divino e tutte le esperienze occidentali dell'umano devono trovar posto nella divinoumanità. Alle religioni della sola trascendenza, attraverso i loro mistici, noi diremo l'incarnazione e la kenosi. Alle religioni della fusione nell'impersonale, noi parleremo dell'Uni-Trinità. Agli umanesimi più o meno atei, ricorderemo che l'uomo non sarebbe nulla se non fosse, al dì là di tutti i condizionamenti, un enigma, un segreto nel quale possiamo entrare solo attraverso la rivelazione dell'amore.

Allora potremo rispondere alle attese di oggi che si cristallizzano attorno al New Age e che se non sapremo capirle, diventeranno anticristiane. Queste attese riguardano il cosmo, l'eros, la meditazione trasformante.

Plutarco racconta di aver sentito un grido dal mare: "il grande Pan è morto!" Sembra che oggi rinasca di nuovo. Si prende coscienza del proprio corpo, accordandolo ai ritmi cosmici. I poeti cercano nuovi nomi del divino nella densità degli esseri e delle cose. Nell'Europa centrale ecologismo e buddismo si uniscono nel desiderio di fondersi nella natura, l'immensa e materna Gaia.

L'avvenire del cristianesimo sarebbe qui di trovare una visione liturgica e mistica del cosmo. L'eucarestia compie le potenzialità sacramentali della materia. Tocca all'uomo, sacerdote del mondo, offrire a Dio, nel grande sacrificio cristico della reintegrazione, le essenze spirituali delle cose. Tocca a noi dare a questa visione trasfigurante tutta la stia portata culturale e sociale e così fecondare l'ecologia. I grandi "sofiologi" russi hanno tentato di farlo all'inizio di questo secolo; le loro concettualizzazioni erano forse maldestre, però dovremmo riprendere la loro riflessione sulla Sapienza, questa figura misteriosa che appare soprattutto nell'ottavo capitolo dei Proverbi, figura nella quale Dio e la creazione sembrano interpenetrarsi mutualmente. Attraverso la Sapienza, i vecchi miti della Terra sacra possono integrarsi nel cristianesimo come poetica della comunione. Non c'è dubbio che c'è un legame misterioso fra la Sapienza e la Madre di Dio nella quale la Terra trova finalmente il suo volto...

In secondo luogo, dobbiamo anche constatare che nella storia del mondo cristiano la sfiducia nei confronti dell'eros è stata a lungo necessaria per assicurare, contro le fatalità della specie e delle estasi fusionali, la piena rivelazione della persona e in particolar modo della donna come persona. Poco a poco però l'eros, invece di essere trasfigurato, è stato negato. Oggi irrompe perciò la rivolta folle della vita. Il cristianesimo dei tempi nuovi scoprirà tutto il significato dell'eros, ne mostrerà il compimento nell'arte che avvia la trasfigurazione del mondo, il compimento nell'ascesi che fa dell'uomo o della donna un essere "separato(a) da tutti, e unito(a) a tutti", come diceva Evagrio Pontico. Rispetterà la passione la più folle, senza ignorare le sue vie senza uscita, sapendo che coloro che vivono e muoiono - una tale passione sono marcati dal sigillo dell'assoluto. Celebrerà l'amore che c'è fra un uomo e una donna quando l'eros si integra nell'incontro delle persone e quando l'"estasi della vita" diventa il linguaggio più forte che un uomo e una donna possano comunicarsi. Pur ricordando che solo la vita monastica può realizzare pienamente le nozze di Cristo e dell'anima, e che è una benedizione per la spiritualità nuziale, per il mistero del bambino.

http://www.dimensionesperanza.it/dossier-speranza/item/480-fondamenti-spirituali-del-futuro-olivier-clement.html

L'ultimo tema: quello della meditazione trasformante. Molti oggi sentono una grande esigenza di silenzio e di pace. Si rivolgono ai metodi di concentrazione dell'India e del buddismo, alla "meditazione trascendentale". Riescono a raggiungere a volte una certa unificazione, però sono sempre sotto il rischio di orgoglio gnostico, di ipertrofia dell'io occidentale, confuso con il Sé orientale. Rischiano anche di confondere la grande fatica attuale dell'occidente con la negazione buddista del desiderio.

La risposta cristiana per domani sarà di ritrovare e di attualizzare l'immenso patrimonio del cristianesimo. Penso in particolare, al di là delle forme sentimentali e psicologiche del "misticismo", alla grande tradizione ortodossa della Filocalia - parola che significa amore della bellezza - e dell'esicasmo - parola che allude alla pace, al silenzio dell'unione con Dio (hesychia). Tradizione che ha d'altronde le sue radici nel terreno della Chiesa indivisa. L'esicasmo conosce tecniche simili a quelle dell'Asia per liberarsi dagli idoli mentali, pulire l'intelletto dai "pensieri", unire l'intelligenza e il cuore, utilizzare i ritmi dei corpo come quelli della respirazione e del sangue. E a questo livello uno scambio è possibile. Ma, mi sembra, l'asceta indù (o buddista) s'immerge spesso (non sempre) e si dissolve nell'abisso luminoso del Sé, o in questo "nirvana" che non può essere evocato che negativamente, mentre l'asceta esicasta scopre che questa luce sgorga da una sorgente personale nello stesso tempo infinitamente vicina e infinitamente lontana. La "meditazione", allora, diventa relazione, l'unità non può fare a meno dell'alterità, tutto culmina nella comunione con Dio e con il prossimo. In questo servizio del prossimo di cui l'occidente cristiano ha sempre avuto l'esigenza e la pratica.

4. Un nuovo stile di vita
Per finire direi che i fondamenti spirituali del futuro devono incarnarsi in un nuovo stile di vita, fatto insieme di umiltà e di fierezza, di ascesi e di fantasia: la "gaia scienza" nello Spirito Santo. Uno stile regale, ma senza dimenticare che il re ha sempre bisogno di un buffone: tentare di essere cristiano nel mondo, così com’è e come sarà, esigerà una certa "follia".

Uno stile che esigerà la più alta ascesi, perché ci vorrà tutta la forza dello spirito nel senso di viva intelligenza affinché l'uomo possa aver potere sul proprio potere. Uno stile che esigerà simultaneamente l'ardore di un cavaliere della vita e l'intuizione e l'impertinenza dell'artista. Uno stile che si esprimerà in un incontro rinnovato dell'uomo e della donna: non di subordinazione, né di complementareità, ma due solitudini e due pienezze, due modi di vivere il mondo e di farlo esistere, a volte per grazia di farlo esistere in un nuovo Cantico dei Cantici. Uno stile in cui si "respira lo Spirito", in cui si balia nella non-morte, perché il Cristo è risorto. E poiché Cristo è risorto e lo Spirito è versato segretamente dappertutto e abbraccia tutto, vorrei concludere con le parole di Nikos Kazantzakis: "Ogni uomo può salvare il mondo intero".


La divina Provvidenza e la presenza del male e della sofferenza nel mondo di GIOVANNI PAOLO II

1. Riprendiamo il testo della prima Lettera di san Pietro, al quale ci siamo richiamati alla fine della catechesi precedente: «Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un'eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi». Poco oltre lo stesso apostolo ha un'affermazione illuminante e consolante insieme: «Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' di tempo afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco...» (1Pt 1,3-7). Già dalla lettura di questo testo si arguisce che la verità rivelata circa la «predestinazione» del mondo creato e soprattutto dell'uomo in Cristo («praedestinatio in Christo»), costituisce il fondamento principale e indispensabile delle riflessioni che intendiamo proporre sul tema del rapporto tra la Provvidenza divina e la realtà del male e della sofferenza presenti sotto tante forme nella vita umana.

2. Ciò costituisce per molti la principale difficoltà ad accettare la verità sulla divina Provvidenza. In alcuni casi questa difficoltà assume forma radicale, quando addirittura si accusa Dio a causa del male e della sofferenza presenti nel mondo, giungendo fino a rifiutare la verità stessa su Dio e sulla sua esistenza (cioè all'ateismo). In una forma meno radicale, e tuttavia inquietante, questa difficoltà si esprime nei tanti interrogativi critici, che l'uomo pone a Dio. Il dubbio, la domanda o addirittura la contestazione nascono dalla difficoltà di conciliare tra loro la verità della Provvidenza divina, della sollecitudine paterna di Dio per il mondo creato, e la realtà del male e della sofferenza sperimentata in diversi modi dagli uomini. Possiamo dire che la visione della realtà del male e della sofferenza è presente con tutta la sua pienezza nelle pagine della Sacra Scrittura. Si può affermare che la Bibbia è, oltre tutto, un grande libro sulla sofferenza: questa entra in pieno nell'ambito delle cose che Dio volle dire all'umanità «molte volte... per mezzo dei profeti, e ultimamente per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1,1): entra nel contesto dell'autorivelazione di Dio e nel contesto del Vangelo; ossia della buona novella della salvezza. Per questo l'unico metodo adeguato per trovare una risposta all'interrogativo sul male e sulla sofferenza nel mondo è di cercarla nel contesto della rivelazione offerta dalla parola di Dio.

3. Dobbiamo però prima di tutto intenderci sul male e sulla sofferenza. Essa è in se stessa multiforme. Comunemente si distingue il male in senso fisico da quello in senso morale. Il male morale si distingue da quello fisico prima di tutto per il fatto che comporta una colpevolezza, perché dipende dalla libera volontà dell'uomo, ed è sempre un male di natura spirituale. Esso si distingue dal male fisico, perché quest'ultimo non include necessariamente e direttamente la volontà dell'uomo, anche se ciò non significa che esso non possa essere causato dall'uomo o essere effetto della sua colpa. Il malefisico causato dall'uomo, a volte solo per ignoranza o mancanza di cautela, a volte per trascuratezza di precauzioni opportune o addirittura per azioni inopportune e dannose, si presenta in molte forme. Ma si deve aggiungere che esistono nel mondo molti casi di male fisico, che avvengono indipendentemente dall'uomo. Basti ricordare per esempio i disastri o le calamità naturali, come anche tutte le forme di minorazione fisica oppure di malattie somatiche o psichiche, di cui l'uomo non è colpevole,

4. La sofferenza nasce nell'uomo dall'esperienza di queste molteplici forme di male. In qualche modo essa può trovarsi anche negli animali, in quanto sono esseri dotati di sensi e della relativa sensibilità, ma nell'uomo la sofferenza raggiunge la dimensione propria delle facoltà spirituali che egli possiede. Si può dire che nell'uomo la sofferenza è interiorizzata, coscientizzata, sperimentata in tutta la dimensione del suo essere e delle sue capacità di azione e di reazione, di ricettività e di rigetto; è un'esperienza terribile, dinanzi alla quale, specialmente quando è senza colpa, l'uomo pone quei difficili, tormentosi, a volte drammatici interrogativi, che costituiscono ora una denuncia, ora una sfida, ora un grido di rifiuto di Dio e della sua Provvidenza. Sono interrogativi e problemi che si possono riassumere così: come conciliare il male e la sofferenza con quella sollecitudine paterna, piena d'amore, che Gesù Cristo attribuisce a Dio nel Vangelo? Come conciliarli con la trascendente sapienza e onnipotenza del Creatore? E in forma anche più dialettica: possiamo noi, di fronte a tutta l'esperienza del male che è nel mondo, specialmente di fronte alla sofferenza degli innocenti, dire che Dio non vuole il male? E se lo vuole, come possiamo credere che «Dio è amore»? Tanto più che questo amore non può non essere onnipotente?

5. Di fronte a questi interrogativi anche noi, come Giobbe, sentiamo quanto sia difficile dare una risposta. La ricerchiamo non in noi, ma con umiltà e fiducia nella parola di Dio. Già nell'Antico Testamento troviamo l'affermazione vibrante e significativa: «contro la Sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all'altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa» (Sap7,30-8,1). Di fronte alla multiforme esperienza del male e della sofferenza nel mondo già l'Antico Testamento rende testimonianza al primato della Sapienza e della bontà di Dio, alla sua divina Provvidenza. Questo atteggiamento si delinea e sviluppa nel libro di Giobbe, che è dedicato completamente alla tematica del male e del dolore visti come prova a volte tremenda per il giusto, ma superata dalla certezza, faticosamente conquistata, che Dio è buono. In questo testo cogliamo la consapevolezza del limite e della caducità delle cose create, per cui alcune forme di «male» fisico (dovute a mancanza o a limitazione del bene) appartengono alla struttura stessa degli esseri creati, che per propria natura sono contingenti e passeggeri, dunque corruttibili.

6. Sappiamo inoltre che gli esseri materiali sono in stretto rapporto di interdipendenza come esprime l'antico adagio: «la morte del l'uno è la vita dell'altro» («corruptio unius est generatioalterius»). Così dunque, in una certa misura anche la morte serve alla vita. Questa legge riguarda anche l'uomo in quanto è un essere animale e insieme spirituale, mortale e immortale. A questo proposito tuttavia le parole di san Paolo dischiudono orizzonti ben più ampi: «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16). E ancora: «Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17).

7. L'assicurazione della Sacra Scrittura: «contro la sapienza la malvagità non può prevalere» (Sap 7,30), rafforza la nostra convinzione che, nel piano provvidenziale del Creatore riguardo al mondo, il male è in definitiva subordinato al bene. Inoltre nel contesto della verità integrale sulla divina Provvidenza, si è aiutati a comprendere meglio le due affermazioni: «Dio non vuole il male come tale» e «Dio permette il male». A proposito della prima è opportuno richiamare le parole del libro della Sapienza: «...Dio non ha creatola morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza» (Sap 1,13-14). Quanto alla permissione del male nell'ordine fisico, ad esempio di fronte al fatto che gli esseri materiali (tra essi anche il corpo umano) sono corruttibili e subiscono la morte, bisogna dire che esso appartiene alla stessa struttura dell'essere di queste creature. D'altra parte sarebbe difficilmente pensabile, allo stato odierno del mondo materiale, l'illimitato sussistere di ogni essere corporeo individuale. Possiamo dunque capire che, se «Dio non ha creato la morte», come afferma il libro della Sapienza, tuttavia egli la permette, in vista del bene globale del cosmo materiale.

8. Ma se si tratta del male morale, cioè del peccato e della colpa nelle loro diverse forme e conseguenze anche nell'ordine fisico, questo male Dio decisamente e assolutamente non lo vuole. Il male morale è radicalmente contrario alla volontà di Dio. Se nella storia dell'uomo e del mondo questo male è presente e a volte addirittura opprimente, se in un certo senso ha una propria storia, esso viene solo permesso dalla divina Provvidenza per il fatto che Dio vuole che nel mondo creato vi sia libertà. L'esistenza della libertà creata (e dunque l'esistenza dell'uomo, l'esistenza anche di spiriti puri come sono gli angeli, dei quali parleremo più avanti), è indispensabile per quella pienezza della creazione, che risponde all'eterno piano di Dio(come abbiamo già detto in una delle precedenti catechesi). A motivo di quella pienezza di bene che Dio vuole realizzare nella creazione, l'esistenza degli esseri liberi è per lui un valore più importante e fondamentale del fatto che quegli esseri abusino della propria libertà contro il Creatore, e che perciò la libertà possa portare al male morale. Indubbiamente è grande la luce che riceviamo dalla ragione e dalla rivelazione a riguardo del mistero della divina Provvidenza, che pur volendo il male lo tollera in vista di un bene più grande. La luce definitiva, tuttavia, ci può venire soltanto dalla croce vittoriosa di Cristo. Ad essa dedicheremo la nostra attenzione nella catechesi seguente.



mercoledì, 4 giugno 1986http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

giovedì 29 settembre 2011

Tempo e speranza

di Arnold Benz

L'astrofisica del XX secolo ha dischiuso una visuale della realtà, che mostra una successione mozzafiato del tempo con inimmaginabili cambiamenti nell'universo a partire dalla grande esplosione e dalla formazione della terra fino alle inquietanti prospettive del lontano futuro. Le scienze naturali hanno rimosso l'uomo dal centro del cosmo. Come vera "offesa" dell'uomo io non sento però l'immagine copernicana del mondo e tutte le successive conoscenze, che lo hanno reso sempre più insignificante rispetto all'universo, bensì sento il tempo lineare e procedente in maniera inesorabile in avanti. Le idee derivanti da culture arcaiche e orientali di un rinnovamento periodico del mondo, di un eterno ritorno e di un tempo ciclico non corrispondono all'immagine del mondo delle odierne scienze naturali. L'essere umano non è stato rimosso solo spazialmente dal centro, ma partecipa in una misura minuscola anche al tempo. Egli non sta né alla fine né al di fuori dello sviluppo. A ciò collegata è l'offesa - che eufemismo! - inflitta dalla propria morte e dalla storia cosmica, che per lunghi tratti non significa progresso, ma decadenza.

In questo mondo decadente sono però in continuazione nate anche nuove strutture e ordinamenti, che non erano prevedibili o che erano al massimo germinalmente intuibili. Nella nuova immagine del mondo delle scienze naturali il cosmo si sviluppa da particelle elementari in una successione affascinante di salti evolutivi.

Questo passato innovativo è un motivo, dal punto di vista delle scienze naturali, per sperare? Dallo sviluppo passato non possiamo dedurre in maniera cogente un futuro favorevole per l'umanità o addirittura per l'individuo. Nell'universo si è sì formato perlomeno su un pianeta, la terra, un ambiente che rende possibile la vita, e l'evoluzione biologica si è spinta fino all'essere umano. Ma l'ottimismo è qui fuori luogo, a meno che non vogliamo dimenticare le innumerevoli vittime di tale sviluppo, i suoi errori e i suoi vicoli ciechi. Tutte le prognosi relative al futuro, riguardino esse gli esseri viventi, i pianeti, le stelle, le galassie o l'universo, prevedono in ultima analisi una disintegrazione. Il sole si raffredderà, la terra si perderà nello spazio, e addirittura la materia dell'universo decadrà radioattivamente. È sì senz'altro pensabile che anche in futuro possa nascere qualcosa di inatteso, che sia tanto nuovo quanto lo fu la vita sulla terra quattro miliardi di anni fa. Ma tale specie di nuovo non è prevedibile, perché gli sviluppi globali sono non lineari e caotici. Non esiste alcuna speranza dimostrabile in maniera scientifica naturale.

Un cultore di scienze naturali potrebbe stringersi nelle spalle e ricordare che l'incertezza fa parte di un futuro aperto. Noi vogliamo però cambiare ancora una volta posizione e chiederci da dove la fede cristiana attinge la propria speranza. La speranza può prosperare solo in un rapporto di fiducia. Tale fiducia è una determinata preconoscenza, con cui un uomo va incontro al proprio futuro. Essa poggia su una relazione tra il soggetto e il mondo. Sulla base di questa relazione si percepisce una realtà diversa da quella che si percepisce con il metodo delle scienze naturali. La speranza, la fiducia e la fede non possono in ultima analisi poggiare su dogmi o su costruzioni metafisiche, ma devono Concordare con proprie percezioni.

Neppure il cristianesimo postula ottimisticamente che lo sviluppo del mondo sia un progresso verso il bene e verso il razionale. L'ultimo libro della Bibbia, l'Apocalisse di Giovanni, lo dice mediante visioni apocalittiche. L'Apocalisse non spera più nel fatto che non ci sarà una crisi, ma solo nella nascita del nuovo. La speranza punta sulla dimensione divina del tempo, cioè sulla sua creatività. Le affermazioni "Io sono" del vangelo di Giovanni contengono la promessa e la speranza che la crisi - sia essa la fame, la sete, la mancanza di orientamento o la morte - sarà superata, senza però indicare come ciò avverrà concretamente. Noi uomini moderni, che pensiamo alla maniera delle scienze naturali, non troviamo facile accettare una speranza che deve contentarsi del semplice "che". Ma come già nel caso del concetto della creazione, così anche nel caso della speranza il "come" scientifico deve passare in secondo piano.

Nel Nuovo Testamento la speranza guarda agli eventi sconvolgenti del venerdì santo e della Pasqua. Quel che là avvenne, essa dice, avverrà di nuovo in maniera simile. L'evento-modello della crisi e della redenzione ha un esempio storico, su cui è in ogni tempo possibile misurare la speranza. Non stupisce che i cristiani si rifacciano in continuazione ad esso. Là diventa chiaro anche il fondamento trascendente della speranza, di una speranza apparentemente contro natura e contro ragione. Questo esempio è il modello della speranza nel piccolo come nel grande. I cristiani sperano nientemeno che nel nuovo in un mondo della morte e dell'evoluzione spietata; sperano, in termini religiosi, in una nuova creazione.

È forse bene ricordare che alla base dell'evento pasquale non ci sono fatti oggettivamente garantiti (...). Il modello del venerdì santo e della Pasqua è sempre stato l'elemento di un diverso piano di percezione, di quel piano partecipativo dove il soggetto e l'oggetto entrano in una relazione reciproca e costituiscono un tutto. Il modello, e quindi anche la speranza, non sono per questo motivo oggettivabili. La speranza cristiana non scaturisce da un'interpretazione dell'evento naturale indipendente dalla persona che osserva e non può essere fisicamente fondata. Forse è tipico della libertà umana che la speranza non sia cogente, ma sia piuttosto come un dono che uno può accettare o meno. La speranza non è un'idea astratta, perché essa si ripercuote alla fine anche sulla persona e vuole nientemeno che cambiare la condizione della vita umana.

Come nasce tale speranza? Nella speranza si esprime l'esperienza religiosa sul piano della fede. Tale esperienza è nata originariamente da elementi di percezioni sensibili, ma include anche percezioni relazionali e "interiori" fatte in sogni, visioni, esperienze della totalità o improvvise intuizioni in stato di coscienza vigile e lucida. Io vivo questa esperienza germinalmente in momenti tranquilli della vita quotidiana, quando in seno al superficialmente normale si stabilisce improvvisamente per breve tempo una relazione intensa. Il modello tramandato aiuta a cercare e inquadrare tali percezioni. Se vivo sperando, allora non percepisco il tempo solo come una successione di processi causali o casuali e come un presente infinitamente breve. Allora il mio sguardo coglie l'atteso futuro e il tempo acquista una durata, la durata dell'attesa fin quando il nuovo subentrerà. Attendendo con attenzione scopro a volte delle anticipazioni e dei sintomi del Nuovo futuro. Questo tipo di percezione richiede pazienza ed è pronto a impegnarsi in una reciproca relazione con la realtà.

Gesù dice:
Io sono il vero Nuovo
Chi confida in me ha parte al senso del tutto
nonostante la decadenza e la morte,
anche se il sole si spegnerà,
la terra si perderà nello spazio
e l’universo cesserà di irradiare.

http://www.dimensionesperanza.it/dossier-speranza/item/498-tempo-e-speranza-arnold-benz.html

Omelia del giorno 23 Maggio 2004 .Saper guardare oltre di Antonio Riboldi - Vescovo

Si racconta che un giorno, quel grande santo che fu S. Filippo Neri, che sapeva educare i giovani e i non giovani alla “vita eterna”, ossia a guardare “oltre” tutto ciò che si vive su questa terra, chiese ad un giovane: “Cosa farai nella vita?” Il giovane rispose: “Vorrei farmi un domani bello, felice, diventando ricco”. E il santo: “E poi?” “Potrò fare tante cose, per esempio visitare tutto il mondo” “E poi?” insisteva il Santo: “Godere tutto quello che è possibile godere”. “E poi?” incalzava S. Filippo, che voleva arrivare al sodo della vita. A questo punto, il giovane aveva come esaurito i suoi desideri e non seppe più rispondere alla domanda. E il santo: “Anche se tutto quello che sogni si verificasse, tutto ciò che appartiene a questa terra ha una fine. Ma poi viene il bello, ossia l’incontro con Dio nella morte. Avendo esaurito tutti i tuoi desideri, a quel punto ti presenterai a mani vuote e la tua vita così si rivelerà un fallimento. Ci pensi? Potresti qualche volta, se sei saggio, pensare un poco di più a quel “e poi”, e indirizzare tutto verso ciò che ti attende?”

L’errore di tanti è proprio qui, nell'avere progetti, tanti progetti, per questa terra, ignorando che l’unico progetto è il Cielo, dove volenti o no tutti siamo indirizzati.

Quante speranze conoscono il vuoto “della delusione”, lasciando a noi un cuore, alla fine, “insoddisfatto”, come avere sete e non trovare acqua che disseti. Il nostro mondo ha cancellato la vera divina natura della speranza.

Scrive il S. Padre: “Oggi assistiamo ad un affuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini, donne, sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questo stato d’animo...Allo smarrimento della memoria di quello che eravamo come cristiani, nei secoli, si accompagna una sorta di paura nell’affrontare il futuro. L’immagine del domani, coltivata, risulta sbiadita ed incerta.

Del futuro si ha più paura che desiderio. Ne sono segni preoccupanti, tra gli altri, il vuoto interiore che attanaglia molte persone e la perdita del significato della vita.

Tra le espressioni e i frutti di questa angoscia esistenziale vanno annoverati, in particolare, la drammatica diminuzione delle natività, il calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, la fatica, se non il rifiuto, di operare scelte definitive di vita anche nel matrimonio” ( E in E. 7-8).

Questa riflessione, sulla vera natura della speranza, viene suggerita dalla solennità della Ascensione di nostro Signore Gesù Cristo. Il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, nel racconto della Ascensione, sono molto scarni, come a voler affermare una meravigliosa verità che ci riguarda e, come tutte le notizie meravigliose, è caratterizzata non dalle parole, ma da stupore e gioia.

Gesù si era mostrato più volte, dopo la Resurrezione, ai suoi, perché fossero testimoni di questa vita nuova che è nella resurrezione. Alla fine di questo “breve soggiorno” con i suoi, per confermarli nella fede, con loro si reca verso Betania, e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme, con grande gioia, e stavano sempre insieme nel tempio, lodando Dio” (Lc. 24, 50-53).

Forse ci saremmo aspettati, alla fine del breve racconto, che gli Apostoli si sarebbero afflitti, ancora una volta, per la partenza oramai definitiva del loro Maestro. Ma sapevano, anche se forse non si spiegavano come, che Lui li aveva preceduti in quel paradiso, che si era conquistato con la sua Passione e Morte, non per lui ma per noi. E sapevano che solo così avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a loro e a tutti noi, che ci sarebbe stato vicino ieri, oggi, sempre, perché di fatto con l’Ascensione cambiava solo il modo di essere vicino…

Sapevano che era definitivamente chiusa quella meravigliosa parentesi di storia di un Dio che si dona per aprire le porte del Cielo. Il venerdì della passione e morte apparve ai loro occhi come la sconfitta della stupidità umana e della loro malvagità, sulla potenza di Dio. Avevano capito che “dare la vita”, come aveva fatto Gesù sulla croce, era il trionfo dell’amore, la vittoria sul male e quindi lo spalancarsi della speranza a quanti sanno guardare al cielo come sola patria desiderabile.

Forse sarà stato difficile per gli Apostoli capire questo atto divino di amore per noi, poveri uomini, troppe volte capaci di nutrirci della terra che è il sepolcro della speranza. Erano uomini come noi. Ora però Gesù aveva vinto la morte: era Uno che non conosceva più le strettoie ed i vicoli chiusi della vita umana, fatta di piccoli niente che si infrangono sul nascere. Gesù con la Resurrezione e la sua Ascensione al Cielo, aveva tracciato la strada per conoscere l’infinito e l’eternità.

Che bello sentire Gesù che così spiega il suo apparente distacco da noi.

“Io salgo al Padre mio e Padre vostro”.

E prima di salire così parla ai suoi e a noi: “Sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su voi quello che il Padre mio ha promesso: ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto” (Lc. 24, 46-49).

Su questa ineffabile presenza e promessa siamo tutti invitati a vivere con gli occhi rivolti al cielo, come gli Apostoli. Forse troppe volte i nostri occhi, le nostre vedute, i nostri desideri, nulla hanno a che vedere con il cielo. Si fermano a ciò che è “polvere e in polvere tornerà”.

Guai a staccare gli occhi e il cuore dal cielo ed indirizzare tutto verso quel domani che ci attende! Il vero cristiano sa bene che non si può portare la croce di ogni giorno, se non vive di speranza, ma quella che è data da Dio, che ha gli occhi rivolti al cielo. Uno scrittore disse: “Ci sono tre sorelle che sono sempre insieme e non possono staccarsi, perché non avrebbe senso essere sole. Le tre sorelle sono la fede, la speranza e la carità. Si tengono per mano camminando. Ai lati ci sono le sorelle più grandi, la fede e la carità: al centro quella, all'apparenza, più piccola, e più fragile, la speranza. Ma a guardare bene non si capisce bene se sono le due grandi che sostengono la piccola o se è la piccola, la speranza, che sostiene le due grandi”. E penso che abbia ragione. Non c’è mai grande o piccolo disegno di vita cristiana che sia possibile senza la speranza. Non c’è la forza del martirio, senza la speranza. Non c’è la gioia del dono di sé nella carità, senza la speranza che domani quel dono lo troveremo conservato nel cuore di Dio, come tutto ciò che si scrive in cielo. E’ proprio vero che vivere di sogni o di speranze, che non nascono dalla Speranza che conta, è come fare della vita uno scrivere sulla sabbia, che in un batter d’occhio un’onda cancella: la morte.

Quando ero parroco a Santa Ninfa, dopo il terremoto, la sola speranza che la gente giustamente nutriva, era una pronta ricostruzione della casa andata distrutta. E mi feci voce alta del loro diritto davanti alle istituzioni ed alla opinione pubblica. Era come sventolassi ogni giorno il vessillo della speranza, che non deve conoscere la morte. Una speranza, quella, che era figlia della carità. Quando iniziò la ricostruzione, ed io vivevo in baracca, come baracca era la Chiesa, la gente mi chiedeva come mai non premessi per ricostruire casa e Chiesa. A tutti rispondevo: “La mia vera casa è da una vita che sto cercando di progettarla e costruirla”. Alla domanda: “Dove e come?” rispondevo: “Non mi fido di una casa qui in terra: dura poco e non è sicura. Ogni giorno, con la fede e la carità, cerco di farmi una casa là dove tutto è eterno, in Cielo”.

Ed è questo il modo di vivere tenendo strette le mie mani nelle mani delle tre sorelle: fede, speranza e carità. Vivere di questa speranza è come, ogni giorno, in tutto e sempre, gustare la bellezza della vita. Tutto diventa meraviglioso. Anche il martirio.

Ricordiamocela sempre, ogni giorno, la domanda di S. Filippo, quando siamo tentati di coltivare speranze che sono parole sulla sabbia: “E poi?”.


http://www.vescovoriboldi.it/Omelie/2004/mag/230504.htm