DON ANTONIO

giovedì 29 dicembre 2011

Salmo 70. Divo Barsotti.

Vieni a salvarmi, o Dio,
vieni presto, Signore, in mio aiuto.
Siano confusi e arrossiscano
quanti attentano alla mia vita.
Retrocedano e siano svergognati
quanti vogliono la mia rovina.
Per la vergogna si volgano indietro
quelli che mi deridono.
Gioia e allegrezza grande
per quelli che ti cercano;
dicano sempre: «Dio è grande»
quelli che amano la tua salvezza.
Ma io sono povero e infelice,
vieni presto, mio Dio;
tu sei mio aiuto e mio salvatore;
Signore, non tardare.
Vieni presto, Signore, in mio aiuto

Il Salmo è uno dei più semplici e anche letterariamente dei più poveri. Non ha nulla che richiama particolarmente l'attenzione nei confronti degli altri Salmi; ma appunto per questo dice uno dei motivi fondamentali di tutto il Salterio. La preghiera sorge dall'angoscia, dalla pena. La condizione dell'uomo quaggiù, stando al Salterio, è una condizione di sofferenza, di miseria, di povertà. L'esperienza umana sembra non essere altro che dolore. È la vita con tutti i suoi casi, che infierisce sugli uomini. E gli uomini invece di rendere meno duro il pesante il fardello di questa pena, lo gravano perché non vi è amore in questa umanità di cui il salmista rende testimonianza. L'uomo si sente solo, come soffocato da ogni parte, e si sente solo e perseguitato da tutti: dalla vita, dagli avvenimenti, dalla storia, dalla creazione soffre violenza e gli uomini ugualmente li sono nemici.
Ecco donde sorge, dunque, la preghiera: da una esperienza la più dolorosa, la più tagliente, della solitudine nostra quaggiù. L'unico col quale veramente l'uomo entra in comunione, in questa inimicizia degli elementi e degli uomini, e Dio: a questa comunione lo forzano appunto la tristezza, la malattia e la persecuzione. Incalzato dalla sua pena e dalla sua sofferenza, l'uomo non trova altra apertura che nell'altro. E la sua anima si apre a Dio nell'invocazione, nella implorazione dolorosa, nella preghiera. Mi sembra che questo sia l'insegnamento fondamentale di tutto il Salterio. Il Salterio è la preghiera della Chiesa, è la preghiera del cristiano. Sembra non dirci fondamentalmente altro che questo: la vita dell'uomo è pena ed è sofferenza, l'uomo non può trovare sollievo altro che rivolgendosi a Dio. In verità debbo dire che io sono stato tentato di credere che anche il Salterio fosse ben limitato nei suoi temi, che in fondo questo maiuscoli fra le Salterio che tanto esaltiamo non dicesse che una cosa, non svelasse che uno degli atteggiamenti propri dell'uomo: come facciamo a trovare tutta la vita umana, tutta la storia degli uomini in questi brevi canti che sono un fastidioso ripetersi di lamenti? Veramente fastidioso perché poi, oltre tutto, non fanno che ripetersi. Com'è che si può dire che il Salterio sia un grande libro di preghiera? L'uomo sembra che non sappia liberarsi della sua pena, non fa che assaporarla e forse anche esagerarla per ottenere più facilmente l'aiuto di Dio. Così ero tentato di credere, poi mi sono detto che non potevo essere io a giudicare il Salterio, era anzi il Salterio che giudicava me; non posso io giudicare la parola di Dio, è la parola di Dio che giudica me. Il Salterio ci dice veramente quella che è la condizione dell'uomo, quella condizione che l'uomo molto spesso cerca di nascondere anche a se stesso o di cui non si accorge a causa della sua superficialità. La condizione dell'uomo quaggiù! Ma è spaventosa! È veramente tragica se Dio non è con noi. Tutti i contenuti che il mondo ci può offrire, non parlo delle cose cattive, parlo delle cose più alte, non sono che un palliativo per questo senso di solitudine che l'uomo prova, per questo senso della fragilità mostruosa e terribile dell'essere suo. Non abbiamo davanti che la morte e non viviamo nel momento presente che estranei a tutto, mentre tutto è estraneo a noi.
Veramente il peso della vita ci dovrebbe schiacciare se noi non avessimo la possibilità di trasformare l'angoscia in preghiera. Ed è proprio questo che fa il Salterio: trasforma la pena umana, così universale, in una preghiera universale. È l'unica cosa, direi, che fondamentalmente ci insegna il Salterio. Si può dire, ed è stato anche detto, che è il cristianesimo, in fondo, che è triste, che ci richiama alla meditazione della nostra povertà. Per uno che non fosse religioso, che non fosse cristiano, sarebbe facile liberarsi da questa esperienza e superarla nell'oblio; ma il superamento, se pure è possibile, della nostra sofferenza nell'oblio e nella dimenticanza non sarebbe una più spaventosa miseria per noi? Possiamo noi indurci a vivere una vita di tre giorni senza sentire questo incombere del mistero della morte sulla nostra vita fuggitiva? Possiamo noi non avvertire nell'intimo dell'anima nostra che siamo creati per cose più grandi di quelle che noi non sappiamo definire, che non troviamo quaggiù, onde costantemente e in ogni cosa proviamo l'amarezza della delusione? delusione anche nelle cose più grandi, anzi tanto più dolorosa quanto più le cose sono grandi. Il salmista probabilmente era deluso proprio da Dio, deluso dal modo onde il Signore governava la nazione, onde guidava i suoi passi. Da sua vita individuale, la vita nazionale, non era una gran delusione se egli doveva credere nell'elezione di Dio?
Non ci rimane che la preghiera. E cosa ancora più terribile è questa: che alla preghiera sembra che nessuno risponda; il Salterio infatti non è che questo lamento. Non è un lamento cui segue poi immediatamente la risposta divina! No, la preghiera e speranza.
È certo sicurezza di esaudimento, ma l'esaudimento nel Salterio non c'è: una preghiera di lamento succede a una preghiera di lamento e questa ad un'altra preghiera di lamento. Sono tutte suppliche e tutti lamenti, l'anima rimane costantemente fino alla morte in questo appello alla divina bontà, in questa implorazione alla divina misericordia, e Dio sembra ascoltarla soltanto sostenendo la sua speranza fino all'ultimo giorno, facendo sì che essa non debba precipitare nello scoraggiamento e nell'avvilimento interiore a motivo di questa sua pena che ogni giorno diviene sempre più pesante e più grave. Quanto più l'anima va davvero avanti nel suo cammino anche umano, quanto più cioè essa vive una vita umanamente più intensa, tanto più sperimenta anche la propria estraneità a tutte le cose e agli uomini stessi.
La mostruosa fragilità dell'essere solo! Che cosa noi siamo? Oh! Vivere davvero come uomini vorrebbe dire pregare! Cerchiamo di vivere davvero come uomini, cerchiamo di renderci conto davvero di quello che è la nostra vita e di assaporare fino all'ultimo tutta la sua amarezza, tutta la tremenda sua pena. Saremo sforzati anche noi, necessariamente a trasformare questa pena in preghiera, in implorazione che sale a Dio. Ed è già una cosa mirabile questa. Lasciamo da parte che Dio ci esaudisca o no - è già una cosa immensa questa! Che noi da questo abisso di miseria e di povertà possiamo rivolgerci a Dio, non è già una cosa grande? Non è già una cosa immensa che, mentre tutto si chiude alla nostra parola, Uno invece ci ascolta, ed è il Signore, Dio immenso.
Si parla della preghiera: è possibile davvero questa preghiera? E che cos'è questa preghiera? È una cosa così straordinaria! Pensare che noi si può parlare a Dio, pensare che Dio ci ascolta! Ebbene, tutta la nostra vita, se veramente noi la viviamo con intensità, con sincerità, non può non divenire preghiera. Non potrebbe l'uomo accettare la sua vita, non potrebbe viverla, se non la trasformasse in preghiera. Ed ecco anche perché penso che anche coloro che negano Dio non potrebbero rifiutarsi di pregare, non potrebbero non pregare. Quando l'anima soffre (e l'anima umana sempre soffre) non può accettare questa sofferenza, né viverla, che trasformandola in una implorazione a Uno che ascolta.

Vieni a salvarmi, o Dio,
vieni presto, Signore, in mio aiuto.
Siano confusi e arrossiscano
quanti attentano alla mia vita.
Retrocedano e siano svergognati
quanti vogliono la mia rovina.

Il Salmo è semplicissimo: è un grido di aiuto, ed è questa la preghiera. L'unica cosa che mi sembra si dovesse notare è che il primo versetto non soltanto è usato dalla Chiesa all'inizio di ogni ora canonica: "Deus in audiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina", ma era precisamente questa la continua preghiera dei Padri del deserto, secondo Cassiano. E questo vuol dire che questo grido è veramente il grido che esprime più di ogni altra parola la necessità che ha l'anima del soccorso divino, dell'aiuto di Dio. Però mi sembra che sia più adatta al cristiano quella che poi è divenuta la formula della preghiera continua nell'Oriente, perché nel nostro caso è soltanto un'invocazione a Dio, ma questo Dio non è ancora Cristo Signore; non è ancora esplicito il mistero di una redenzione divina che Dio compiuto nel Cristo. Il soccorso che Dio ci porta si compie nella discesa del Cristo verso di noi, in questa presenza di Gesù che è nostro Salvatore, sicché ci sembra migliore oggi la formula della continua preghiera che è propria dell'Oriente e che anche noi abbiamo fatto nostra: "Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore". Questa preghiera dice da una parte tutta la miseria dell'uomo e il bisogno che ha l'uomo di una grazia divina, di un aiuto di Dio, dall'altra dice in che modo Gesù veramente risponde alla nostra preghiera, in che modo Egli ci soccorre attraverso il mistero del Cristo. Mi sembra che da quando si è detto questo, in fondo, si è detto tutto riguardo a questo Salmo, che non ha bisogno di un grande commento; è una semplice invocazione di aiuto, una invocazione certo veramente viva, una invocazione che nasce da un sentimento profondo della propria miseria e del proprio bisogno. Quello che deve essere l'atteggiamento dell'orante, qui è espresso in modo chiarissimo, ma non è che questo Salmo contenga delle particolari verità, tranne questa: la miseria dell'uomo, la grandezza di Dio, la sua volontà di soccorrerci, la necessità che questo soccorso sia pronto, immediato, perché immediato per l'uomo e il pericolo di una rovina.

© Divo Barsotti

http://www.figlididio.it/salmi/70.html

mercoledì 28 dicembre 2011

Le false verità sul male e la sofferenza

Nella prima parte della sua riflessione, Xavier Thévenot puntava il dito contro alcuni tipici ragionamenti religiosi che incoraggiano a “offrire” la sofferenza a Dio, a vedervi il segno della “predilezione” divina o uno strumento di “redenzione”. Affermazioni tanto sublimi quanto disumane, che negano la verità del Vangelo e producono solo «chiacchiere prive di equilibrio».
In questa seconda parte, Thévenot analizza alcune scorciatoie del linguaggio che alimentano da secoli questa spiritualità deviata, e sottolinea come ciò che ci “salva”, ossia ciò che dà senso e fondamento alle nostre vite, non sia mai la sofferenza in sé, ma ciò che riusciamo a edificare giorno dopo giorno in noi stessi e negli altri, per amore e nella libertà, malgrado «le forze di disunione della sofferenza».
Esempio e aiuto in questo cammino, per il credente, resta sempre e solo Cristo: «Se voglio sapere come Dio si comporta con chi soffre, come Dio stesso ha vissuto nella sua umanità la sofferenza, devo ritornare a Gesù». Nella lotta quotidiana contro il male e il dolore, ciò che è davvero decisivo e normativo per la persona di fede è vedere come Cristo ha sofferto e come ha vissuto la sua sofferenza: continuando ad amare, perdonando i suoi persecutori, e donando a chi lo circondava un futuro di vita anche nei momenti finali della sua esistenza, durante l’agonia in croce. Ma come sostiene un altro grande uomo spirituale del nostro tempo, Enzo Bianchi, l’esperienza personale di Gesù indica come l’amore vissuto nella libertà possa essere un cammino di umanizzazione e di felicità, seppur a caro prezzo, valido per tutti, e non solo per i credenti, perché tutti cerchiamo un motivo valido per vivere e morire, e aspiriamo a rendere pieno di senso il nostro cammino sulla terra (E. Bianchi, Le vie della felicità: Gesù e le beatitudini, Rizzoli 2010).
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Diffidare delle scorciatoie del linguaggio
Di scorciatoie ne facciamo di continuo... Talvolta è difficile eludere le trappole tese da un linguaggio approssimativo. Dire che Cristo ci redime con le sue sofferenze è una scorciatoia enorme!
Dovremmo dire, invece, che Gesù ci salva, ci libera con la sua intera vita, intessuta d’amore appassionato per l’essere umano, di speranza contro ogni speranza, di fede radicale nel Padre e negli uomini. E questo anche quando lo hanno condotto a soffrire terribilmente. A redimere non è la sofferenza di Cristo in sé, ma il fatto che dentro le sue sofferenze Gesù è stato un uomo che ha vissuto in pienezza l’amore, la fede e la speranza.
Dobbiamo sempre tenere in mente questa verità: solo quello che costruisce e libera l’essere umano redime. Ora, la sofferenza in sé non lo fa, di conseguenza non può redimere. Lo fa, invece, il modo in cui ciascuno cerca di umanizzare la propria vita dentro le sue sofferenze. E questo grazie a Dio e con Dio.
Anche l’espressione “offri le tue sofferenze” è un’enorme scorciatoia. Poiché la sofferenza in sé distrugge, il “piacere” di Dio non dovrebbe essere nel ricevere qualcosa che rovina. Dio, invece, trova la sua gioia nel ricevere ciò che costruisce l’uomo. La sua gioia è nell’accogliere ciò che l’amore di Gesù permette di edificare all’essere umano, malgrado le forze di disunione della sofferenza. Dio ama ricevere la fede, la speranza, l’amore, l’umiltà, la pazienza al cuore delle nostre sofferenze. Davvero ciò che costruisce l’essere umano permette alla persona che soffre di continuare a entrare in relazione!
Non si tratta di essere contro le scorciatoie del linguaggio, ma di essere consapevoli di quello che rappresentano. Altrimenti ci fanno deviare dalla vera fede e rischiano di farci immaginare un Di perverso. Dobbiamo, ad esempio, essere consapevoli che quando dico: «Signore, ti offro le mie sofferenze», in realtà voglio esprimere un’altra cosa: «Signore, ti offro il dono che mi fai di continuare ad accogliere la fede, la speranza e l’amore che tu, Dio, vivi verso di me». Ecco infatti una delle affermazioni più grandi della fede cristiana: Dio crede in me. Si parla sempre della fede dell’uomo in Dio, ma anche Dio crede in me. Dio spera in me. Dio mi ama, e ciò che libera è riconoscere questo dentro la sofferenza e sviluppare il dono che egli mi fa in suo Figlio.

Non cercare “il senso” della sofferenza
Si tratta in realtà di voler rendere la nostra vita più umana, più cristiana, più evangelica, malgrado la sofferenza. A sentire certi cristiani si potrebbe credere che la fede doni il senso della sofferenza: basta aprire la Bibbia, consultare la dottrina della chiesa o anche ascoltare la voce interiore di Dio. Ora, questo modo di pensare è sbagliato e non può che bloccare in vicoli ciechi. La sofferenza è l’esperienza dell’assurdo: non si capisce niente!
La fede cristiana mi impedisce di lasciarmi affascinare da questi sentimenti di stupidità e assurdità. Essa dà la forza di capire che Dio è dalla mia parte e al mio fianco per condurre con coraggio la lotta per dare senso alla mia vita... La fede mi fa compiere un vero e proprio lavoro su di me e con gli altri. Non semplicemente l’elaborazione del lutto, come dicono oggi gli psicologi, ma un lavoro pasquale: si tratta di abbandonare un certo modo di essere in una vita completamente sconvolta dalla sofferenza per trovare a poco a poco un altro modo di assumere il reale. Intuiamo che per un cristiano è molto importante rivolgersi a Dio, perché dispieghi la sua forza nella debolezza del credente e lo aiuti a condurre la buona battaglia. È anche fondamentale rivolgersi al Dio fatto uomo, Gesù di Nazaret. Anch’egli ha dovuto combattere contro l’assurdità e contro la sofferenza. Diventa perciò importante vedere in cosa Gesù ha sofferto e come ha vissuto la sua sofferenza.
Per evitare di perdersi nella riflessione sulla sofferenza, dobbiamo ritornare sempre all’esperienza di Gesù di Nazaret. I teologi ci giocano a volte degli scherzi identici a quelli del nostro psichismo. Ci presentano delle immagini di Dio bizzarre. Ritornare alla parola di Gesù: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9) è l’unico modo di sapere chi è Dio. Se voglio sapere come Dio si comporta con chi soffre, come Dio stesso ha vissuto nella sua umanità la sofferenza, devo ritornare a Gesù. Solo cosi disporrò di un criterio perfettamente sicuro per tentare di umanizzare la mia sofferenza.


http://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php?EW_CHILD=13796

martedì 27 dicembre 2011

La parola della domenica 1 Gennaio 2012 (Casati) Posted: 25 Dec 2011 01:15 PM PST

Nm 6, 22-27
Gal 4, 4-7
Lc 2, 16-21
È sempre con commozione che noi, sulla soglia di un nuovo anno ascoltiamo le parole di benedizione custodite nel libro dei Numeri. E il desiderio che si accende nel cuore di dirle su ogni persona cara."Ecco voi benedirete così... Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio".Secondo la tradizione rabbinica queste erano le parole di benedizione che il sacerdote la sera diceva sul popolo, dopo aver indugiato nel tempio nell'ora dell'incenso.
E voi sapete che una sera Zaccaria, il padre di Giovanni il Battista, uscito dal tempio dopo il sacrificio dell'incenso non poté dire sugli Israeliti le parole di benedizione, era rimasto muto, faceva gesti, ma non gli riusciva di benedire.Ecco, non vorrei - perdonate questo pensiero - non vorrei essere io questa sera un sacerdote muto, che fa gesti, gesticola, ma non dice niente, e non dice bene, non benedice.Ma perché Zaccaria era rimesto muto? Perché non aveva creduto che a Dio nulla è impossibile, e che anche un grembo, in apparenza inaridito, come quello di sua moglie Elisabetta, potesse trasalire, trasalire per il miracolo della vita.Non aveva creduto e così sulle sue labbra non c'erano più parole di benedizione.Perdonate se con una trasposizione forse azzardata io questa sera penso all'anno nuovo come a un grembo, come a quel grembo ritenuto ormai vecchio, inaridito: che cosa può nascere di nuovo?Forse è qui il punto: ci facciamo sì gli auguri, ma sotto sotto, nel pensiero e nel cuore è come se fossimo convinti che è un gioco, e nulla, nulla cambierà. O tutt'al più la novità la lasciamo al caso, alla fortuna: se sei fortunato.No. Vedete: noi leghiamo il trasalire del grembo - del grembo vecchio e inaridito - alla potenza creatrice di Dio.Anche il trasalire di questa terra! che viene dipinta come un vecchio continente, un mondo ormai decrepito.Ecco, Signore, Dio misericordioso, noi ti affidiamo questa nostra terra, questo piccolo povero cuore. Noi crediamo che per tuo dono, per la luce del tuo Spirito, questa terra e questo cuore potranno rigenerarsi e generare qualcosa di nuovo in questo anno.Tu ci benedici. Dici bene a noi e se tu dici bene a noi, a noi viene il bene, quello che ai tuoi occhi è il bene per noi. Viene perché le tue parole non sono come i nostri auguri. I nostri auguri, pur se colmi di affetto, di sentimenti non vanno al di là di un desiderio. La tua parola, Signore, è efficace, la tua benedizione è vera, e si compie.Fa che crediamo, Signore, per non rimanere muti.La parola di benedizione continua così:"Il Signore faccia brillare il suo volto su di te, ti sia propizio".È scritto nel Salmo (44,4): "Non fu il loro braccio a salvarli, ma la tua destra e la luce del tuo volto perché tu li amavi".Come è bello che questa benedizione di Dio sia a pochi giorni dalla memoria del Natale, giorno in cui questo desiderio, questo augurio: "Il Signore faccia brillare il suo volto su di te" ha preso tutta la sua pienezza nella nascita di Gesù: il volto di Dio nella sua infinita benevolenza si è fatto visibile, è brillato su di noi.I pastori tornavano ai loro greggi, alle loro notti, alla fatica di vivere, ma su di loro era brillato il volto di Dio.Così noi ritorniamo alle nostre case, alla fatica di vivere, ma su di noi è brillato il volto di Dio: "faccia brillare su di te il suo volto, e ti sia propizio"."Ti sia propizio": gli esegeti ci dicono che l'espressione "ti sia propizio" dice il piegarsi di Dio, il suo curvarsi amoroso.Ha inclinato i cieli ed è disceso, si è curvato su di noi.Discenderà anche nei nostri prossimi giorni e ancora si curverà - la fede ce lo dice - su di noi.Ce ne andiamo con questa certezza.Come saranno i giorni, i giorni futuri non lo sappiamo.Ma sappiamo che lui, il Signore, si curverà su di noi.


Fonte: sullasoglia

lunedì 26 dicembre 2011

Commento alle letture 1 gennaio 2012 (G.Bruni) Giancarlo Bruni, (1938) appartiene all'Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco a Bose

Letture:Nm 6,22-27; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21.
«Maria, aurora della pace»

1. Oggi il «nato da donna, il nato sotto la legge» (Gal 4,4) è il trovato dai pastori assieme a Maria e Giuseppe (Lc 2,16), un bambino riflesso del volto pacifico e pacificante di Dio (Nm 6,22-27). Aspetto su cui concentriamo la nostra attenzione immaginandoci viandanti non pacificati e non pacificanti in un mondo violento alla ricerca della perla preziosa della pace, così vicina, così lontana, così desiderata. Pace che nel cristianesimo è un nome: «Egli infatti è la nostra pace» (Ef 2,14), Gesù inviato dalla misericordia del Padre quale «sole» a «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79), sole partorito alla storia da una aurora di nome Maria, una nascita al mondo in vista della nascita del mondo alla pace. Questo il paradossale racconto cristiano: una terra perennemente in guerra ad ogni livello e in forme sempre più raffinate è stata e continua ad essere visitata da un Tu, il Dio della pace (Rm 15,33; 1 Cor 14,33; Fil 4,9…), attraverso un Tu, il Signore della pace (2 Ts 3,16; Col 3,15), il Cristo-pace via alla pace intesa come «riconciliazione».

2. Riconciliazione con chi? In primo luogo con Dio: «noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm5,1). Gesù nasce per far nascere l’uomo a una visione di Dio non rivale, non padronale, non punitiva, non esterna, in breve non castrante ma amica, alleata e felice di porsi in dolcezza e rispetto al servizio della compiuta riuscita dell’essere umano. «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20), un Dio nell’uomo in vista della nascita dell’ «uomo nuovo» ad altezza di Cristo. In secondo luogo riconciliazione con sé stessi: «dovete nascere dall’alto» (Gv 3,7). Gesù pone una mano sulla spalla di quanti sono in cammino verso la ricerca della propria profonda verità, in cui stà la propria pace, e li conduce alla sorgente che ha dato origina alla propria verità, il Padre, nome nel quale l’uomo nasce alla conoscenza del proprio nome: generato dall’amore del Padre, inviato dall’amore del Padre e atteso dall’amore del Padre. Lasciatevi riconciliare con voi stessi, nel sì al vostro ineffabile nome dimora la vostra pace. In terzo luogo riconciliazione con l’altro: «Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18), «cercate la pace con tutti» (Eb 12,14) e sarete nella gioia perché «beati sono i costruttori di pace» che a imitazione del Signore della pace hanno distrutto in se stessi l’inimicizia (Ef 2,14-16) ospitando in un cuore amico ebrei, palestinesi, africani, asiatici, occidentali, credenti e non credenti, tutti guardando come figli del medesimo Padre tutti ugualmente fratelli e sorelle, servi della loro gioia e del loro bisogno. Pace in quarto luogo come riconciliazione con sorella natura all’uomo sostentamento, consolazione e insegnamento e che dall’uomo si attende non inquinamento, e infine pace come riconciliazione con sorella morte, via all’incontro definitivo con la Pace e il suo mondo di pace per sempre distrutti i grandi nemici della pace, l’odio e la morte.
3. Oggi le Chiese riunite in preghiera contemplano Maria la generatrice della Pace nell’atto di porgere la Pace che domanda ospitalità: «Vi lascio la pace, vi dò la mia pace» (Gv 4,27), « Pace a questa casa» (Mt 10,12-13), «Abbiate pace in me» (Gv 16,3). Il cristiano è l’inviato a una terra di violenza sapendo di che cosa essa ha bisogno: di conoscere il nome della pace, Gesù nostra pace; di sapere dove essa abita, in ogni cuore, in ogni casa, in ogni istituzione umana che la lasciano entrare; di esperimentare il frutto che essa produce, la riconciliazione Dio-uomo-natura conseguenza di una interiorità ricostruita. Là ove la Pace è fatta nascere lì il cuore violento rinasce pacifico e pacificante, con ricadute positive nell’orizzonte della storia: «Il vero effetto del Natale va ricercato nel cambiamento del cuore dell’uomo che, divenuto uomo nuovo, a sua volta dà agli eventi un orientamento nuovo…: la vittima perdona il carnefice, il sano serve l’ammalato, il ricco spezza il pane con il povero, lo schiavo torna in libertà, gli uomini si scoprono fratelli, la giustizia e la pace si baciano» (B.Sorge). Cristo il volto di pace di Dio è venuto per generare cuori le cui opere di pace il corpo racconta dicendo con stupore Abbà-Padre e custodendo con sollecitudine ogni carne e sorella acqua, nell’attesa di nuovi cieli e terra nuova ove la pace avrà stabile dimora. Il come abitare la terra, l’anno che inizia, di ciascuna Chiesa e di ciascun battezzato è posto: accogliere dalla madre della Pace il Figlio della Pace per divenirne dimora e aurora attesi così dalla terra.

Natale del Signore (omelia di Enzo Bianchi. Posted: 25 Dec 2011 01:32 PM PST

Cari amici,
voi siete certamente consapevoli che i grandi misteri della nostra fede – innanzitutto la resurrezione di Gesù, quindi la sua natività e anche la sua trasfigurazione gloriosa – sono celebrati da noi cristiani nella notte: la veglia pasquale, la santa notte di Natale, la gloriosa notte della trasfigurazione.
Perché in quest’ora in cui gli uomini abitualmente si riposano o addirittura dormono, noi invece celebriamo i nostri santi misteri? Perché noi cristiani amiamo tanto le ore della notte per celebrare la nostra comunione con il Signore? Certamente perché nella notte abbiamo più capacità di concentrazione, siamo meno distratti. Ma io credo che noi cristiani ci esercitiamo nella notte ad attendere – attendere la salvezza, attendere qualcuno che amiamo –, e dunque vegliamo nella notte, per restare vigilanti, per essere pronti ad accogliere il Veniente. Significativamente la chiesa ha sempre chiesto che i cristiani precedessero l’aurora; che i monaci, in particolare, nella notte fossero capaci di interrompere il sonno, per pregare, per mettersi davanti al Signore nella gratuità di un gesto che non solo non è chiesto, ma che magari può essere faticoso.

Ma c’è soprattutto un’altra ragione per il nostro vegliare nella notte: nella notte noi cantiamo il nostro desiderio della luce. Vivere la liturgia nella notte è fare una battaglia contro la tenebra. Noi affermiamo che crediamo al giorno, che crediamo al nuovo Sole che spunta dall’alto, alla Luce radiosa senza tramonto, alla Stella del mattino. Non a caso tutti i nomi dati a Cristo dai profeti e dalla chiesa nascente evocano la luce. Noi uomini in realtà siamo tutti cercatori di luce, siamo tutti dei ciechi che abbiamo bisogno della luce, siamo creature sempre avvolte nelle tenebre. E anzi, più camminiamo verso la luce, più ci rendiamo conto delle tenebre che ci avvolgono.
È anche significativo che in questi giorni in cui le notti sono le più lunghe dell’anno, all’interno della nostra cultura, che è pur sempre una cultura ispirata dal cristianesimo e dai suoi misteri, noi accendiamo molte luci, molte stelle luminose, vogliamo addirittura che le piante siano luminose, che le nostre città siano ornate da luci. Anche questo è molto bello e non dobbiamo ripudiarlo come se fosse semplicemente qualcosa che riguarda gli andamenti delle mode e dei consumi. Perché anche questo dice che noi abbiamo bisogno di luce, che la luce è per noi vita, che la luce ci è necessaria per poter camminare in una direzione. Che cosa è la luce, se non ciò che può toglierci dal nostro disorientamento? Perché la luce è sempre oriente, è sempre «Oriens ex alto» (Lc 1,78) che ci precede: la luce che cantiamo ogni mattino nel Benedictus, la luce che cantiamo in questo tempo di Natale, ma soprattutto in questa notte.
Per questo la Scrittura ci parla di una grande luce che è sorta per le regioni che erano state colpite dall’oppressione babilonese: è a quelle terre di Zabulon e di Neftali che il Signore promette che sorgerà una grande luce (cf. Is 8,23-9,1). Per questo il Vangelo ci parla di luce sulla grotta di Betlemme, quella luce che ha avvolto i pastori – ci dice Luca – nel momento stesso in cui accoglievano l’annuncio dell’angelo (cf. Lc 2,9). C’è stata una luce su quella grotta anche quando giunsero i magi da terre lontane (cf. Mt 2,2.9-10). Ma quella luce che hanno visto i pastori, quella luce che hanno visto i magi, a che cosa serviva, a che cosa faceva segno? In realtà portava i pastori e portava i magi soltanto a contemplare un evento umano: una donna che partorisce un figlio, una donna anonima che nessuno conosceva, giunta per caso a Betlemme, talmente non riconosciuta da non aver nemmeno trovato un posto per partorire nel caravanserraglio; un bambino che doveva ancora ricevere un nome, un infante. Tanta luce per vedere un bambino appena nato, per contemplare un fatto che avveniva da secoli e che avverrà finché c’è l’umanità: una madre che genera un figlio. Questo è ciò che hanno visto i pastori, ciò che hanno visto i magi, ciò che possiamo vedere noi, andando alla grotta di Betlemme.
È vero, c’è anche la rivelazione degli angeli che indica che quel bambino è il Figlio di Dio, il Salvatore, il Messia, il Signore (cf. Lc 2,10). Certamente gli angeli rivelano l’identità profonda di quel bambino, ma al vederlo non c’è nulla di straordinario, nulla che lo testimoni, nulla che possa raccontare la qualità di quel bambino. La qualità di Figlio di Dio va comunque contemplata in un semplice uomo senza gloria e senza splendore, in un bambino avvolto in fasce in una greppia. L’angelo li ha mandati a vedere questo: non hanno visto nulla di straordinario, e soprattutto non hanno vista nulla di religioso. Che cosa c’è di più umano di un bambino? Lo siamo stati tutti noi, e in qualche misura, sappiamo che nella vecchiaia ritorneremo un po’ bambini: per l’impotenza, per la fragilità avremo bisogno che altri ci accudiscano, come quando siamo nati. È l’uomo, siamo ciascuno di noi.
Quel bambino non poteva parlare, non poteva imporre nulla, non poteva imporsi. Questo è il mistero vero del Natale che sta davanti a noi. E il cristianesimo è proprio la religione che, a differenza di tutte le altre, ci dice che un uomo, nient’altro che un uomo, deve essere da noi colto come un figlio di Dio, come una parola di Dio fatta carne (cf. Gv 1,14). E un uomo è sempre qualcuno che attende la nostra presenza, il nostro sguardo come dono. Noi questa sera dovremmo sentire quella voce che ci ha accompagnato lungo tutto l’Avvento e che ci accompagnerà anche nel tempo di Natale: «Io sto alla porta e busso. Se uno ascolta la mia voce e mi apre, io starò con lui e lui con me» (cf. Ap 3,20). Chi lo dice? Chi è colui che dice di stare alla porta? È il bambino di Betlemme? È il Gesù che passava sulle strade di Galilea? È il Signore veniente nella gloria? Sì, ma perché noi riconosciamo il bambino di Betlemme, il Gesù che passa sulle strade di Galilea, il Veniente nella gloria in quanto vivo e risorto, dobbiamo ancora e sempre guardare semplicemente un volto, un uomo che sta davanti a noi. Il Natale ci chiede questo.
C’è un detto di Gesù che, anche se non è entrato nelle Scritture canoniche, esprime bene ciò che Gesù ci ha insegnato: «Hai guardato in faccia un uomo? Hai visto Dio». Il Natale ci ricorda questo mistero.

domenica 25 dicembre 2011

Pastori e pecore nella Scrittura dal sacrificio di Abele ai vangeli dell'Infanzia (Ravasi)Posted: 24 Dec 2011 01:00 PM PST

"Il gregge avanzava dietro un maschio adulto; a un certo punto una pecora gravida si fece inquieta, si arrestò, rimase indietro, colta dalle doglie. Il pastore le passò accanto indifferente. Sapeva che il parto sarebbe stato veloce e che, trattandosi di un animale gregario, la pecora si sarebbe affrettata a rientrare velocemente nel gruppo. Appena partorito, infatti, la pecora leccò il nuovo nato, poi fece un balzo e si mise a correre trascinandoselo dietro. Solo allora il pastore tornò sui suoi passi, prese con sé l'agnello tremante e lo portò vicino a un fuoco per riscaldarlo". Leggiamo questa strana scenetta di vita pastorale tra gli appunti di Jacob Becker, un ebreo di Odessa rifugiatosi in Palestina agli inizi del secolo scorso per sfuggire a un pogrom zarista: giunto a Hebron, la città dei patriarchi biblici, si era offerto come aiuto-pastore a un beduino. Da quelle pagine affiorano ricordi duri e la rappresentazione del mondo dei beduini (termine arabo che significa "nomadi") è disincantata, aspra, segnata dalla miseria, dalla sete, da micidiali calure e da notti gelide.
Per questi uomini, che spesso distano spazialmente da Gerusalemme una decina di chilometri, ma secoli per usi e tradizioni, la patria, la vita, la casa sono tutte in quel deserto che costituisce ampie porzioni di Israele, ma soprattutto della Giordania e in particolare del Sinai. In questa steppa pietrosa, che a primavera per pochi giorni è avvolta da un velo di verde ma che è anche punteggiata da oasi quasi miracolose come quella di Gerico (5 chilometri di diametro), i pastori nomadi si spostano rispettando catasti territoriali solo "orali", tramandati nei secoli. La migrazione, a partire dalla grande transumanza di primavera, non ha mai percorsi casuali ma segue fili misteriosi eppure precisi, sotto cieli tersissimi che lasciano piovere un calore e una luce abbagliante (la temperatura diurna estiva può oscillare tra i 40° e i 50° all'ombra). Cieli che solo d'inverno lasciano cadere acqua, ma che offrono al pastore gli orologi cosmici della luna e delle stelle. Il ritratto più suggestivo del nomade e del suo gregge è comunque in quella deliziosa lirica orante che è il Salmo 23: il pastore "su pascoli erbosi fa riposare il suo gregge, ad acque tranquille lo conduce, rinfranca, guida per il giusto cammino. Se il gregge dovesse percorrere una valle oscura, non temerebbe alcun male perché con lui è il pastore. Il suo bastone e il suo vincastro danno sicurezza".
Ma se la Bibbia - come vedremo - esalta la vita pastorale in modo nostalgico, memore delle sue radici nomadiche tipizzate nei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe ma anche in Mosè e Davide, è altrettanto vero che i pastori sono stati sempre visti con disprezzo e terrore dai sedentari, un po' come da noi oggi sono considerati gli zingari. Così, nella letteratura accadica i pastori sono chiamati "il nulla che viene dalla steppa"; quella sumerica ci ha lasciato questa fisionomia del nomade: "Hanno apparenza di uomini ma la loro voce è quella del cane della prateria"; gli Sciti li chiamavano "i draghi dei monti", mentre altre culture li comparavano a briganti affamati o a cavallette insaziabili. Degli Egiziani, che furono conquistati e sottomessi attorno al 1700 antecedente l'era cristiana dai nomadi Hyksos, la Bibbia ricorda la ripulsa a pranzare coi pastori: "Per loro questo è un abominio" (Genesi, 43,32). Anzi, la stessa Bibbia in una delle sue pagine d'apertura narra il tragico odio di un sedentario, l'agricoltore Caino, nei confronti del pastore beduino Abele (Genesi, 4).
Tre sono i tesori del pastore. Il primo è la tenda che nella lingua accadica è detta "casa della steppa" e in arabo "casa di pelo". Quando l'umanità costruì quella che forse è la prima città della storia tra il 9000 e il 7000 prima dell'era cristiana, proprio nell'oasi di Gerico, modellò la casa sulla tenda circolare dei pastori. Inoltre, quando Israele progettò il suo primo tempio, l'arca dell'alleanza, il santuario mobile dell'Esodo, lo delineò secondo lo schema della tenda dei pastori. Infatti la descrizione dell'arca offerta dal libro dell'Esodo corrisponde visivamente proprio all'espressione principale con cui la si definiva: la "tenda dell'incontro" tra Dio e il suo popolo. Il secondo tesoro è l'acqua dei pozzi (possono raccogliere fino a 13.000 litri d'acqua sorgiva), che erano il centro sociale, culturale, "diplomatico" delle tribù nomadiche, come è spesso attestato anche dalla Bibbia, che, tra l'altro, ci conserva un antichissimo canto degli scavatori di pozzi: "Sgorga, o pozzo, cantatelo! Pozzo che i principi hanno scavato, che i nobili del popolo hanno perforato con lo scettro, coi loro bastoni" (Numeri, 21,17-18). C'è, però, anche quel piccolo pozzo portatile che è l'otre, ove l'acqua è conservata quasi fosse una perla nello scrigno. Stupenda è l'immagine nomadica del Salmo 56: "I passi del mio vagare tu li registri, le mie lacrime nell'otre tuo raccogli". Il Signore è raffigurato come un pastore che raccoglie nell'otre le lacrime degli uomini così che non ne vada persa neppure una.
Il terzo tesoro, il più prezioso, è il gregge. Il pastore non è solo la guida delle pecore ma ne è soprattutto il compagno continuo, ne è quasi il padre; il gregge è parte della sua famiglia, le pecore ricevono dei nomi a cui rispondono, con esse il pastore sopporta il caldo e la sete più ardente, con esse si raccoglie a sera per superare le forti escursioni termiche notturne. A Nuzi, in Mesopotamia, è venuta alla luce una sacca di terracotta di 3.500 anni fa con questa iscrizione: "48 pietre per pecore e capre: 21 pecore da latte, 6 agnelle, 8 agnelli adulti, 4 agnelli maschi, 6 capre da latte, 1 becco, 2 femmine. Sigillo (cioè firma) di Ziqarru, pastore". In un sacco di pelle o di creta si tenevano quindi pietruzze diverse per la contabilità degli animali del gregge. Nella Bibbia questa prassi viene applicata a Dio, il "grande Pastore delle nostre anime", che può raccogliere nel suo scrigno la vita delle sue creature ma purtroppo anche i loro tradimenti: "Tu hai sigillato nel tuo sacchetto i miei errori", esclama Giobbe (14,17).
Il pastore diventa, così, uno dei segni più comuni della vita del Vicino Oriente, una specie di simbolo globale a cui attingono anche i sedentari, forse per un certo senso di nostalgia nei confronti dei grandi spazi aperti e della vita povera, sì, ma libera. Così il dio solare Shamash di Babilonia è invocato come "pastore del popolo" e con lo stesso titolo il celebre re babilonese Hammurabi si presenta nel suo Codice. Persino Omero chiamava i re poimènes laòn, "pastori dei popoli". Ma è soprattutto nella Bibbia che ci incontriamo con un vero e proprio repertorio di immagini pastorali. Il citato Salmo 23 è forse il vertice di questa simbologia applicata innanzitutto a Dio, "il Pastore" per eccellenza. Basta solo sfogliare l'Antico Testamento per imbattersi in frasi di questo genere: "Guidaci e sostienici sempre (...) Guidasti come gregge il tuo popolo (...)Fu loro pastore e li guidò con mano sapiente (...) Tu, pastore d'Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe come un gregge (...) Noi siamo gregge del suo pascolo (...) Radunerò io stesso le mie pecore dalle regioni dove erano state cacciate e le farò tornare ai loro pascoli (...) Ricondurrò Israele nel suo pascolo, pascolerà sul Carmelo, e sui monti di Basan, di Efraim e di Galaad si sazierà". Ma il passo più importante è l'intero capitolo 34 di Ezechiele in cui ai falsi pastori, cioè ai re, ai magistrati e ai sacerdoti d'Israele che hanno sfruttato il gregge di Dio e non l'hanno curato quando era ferito e sbandato, si oppone il nuovo e perfetto pastore, Davide, simbolo del Messia: "Susciterò loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo". Anche un altro profeta, Zaccaria, nel capitolo 11 del suo libro verrà invitato da Dio a "sceneggiare" nella sua persona la figura del buon pastore e del pastore mercenario.
In questo orizzonte segnato dalla luce si colloca soprattutto la figura del Cristo pastore, dipinta in una celebre pagina di Giovanni (10,1-21). Gesù sta parlando forse nel cortile ove si levano le monumentali costruzioni del Tempio erodiano, la sede del Pastore di Israele, il Signore. A fianco si erge la cosiddetta Porta delle Pecore (o Porta Probatica), attraverso la quale i fedeli, il gregge di Dio, accedono all'incontro cultuale col loro Pastore. Sulle labbra di Gesù affiorano quelle parole considerate blasfeme dai suoi ascoltatori: "Io sono il buon pastore (...) Io sono la Porta delle pecore (...) Le pecore mi seguono e conoscono la mia voce e io offro la mia vita per le pecore. Il mercenario, invece, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge". Appare, così, un ritratto di Gesù che già Matteo e Luca avevano abbozzato nella parabola della pecora smarrita (Matteo, 18,12-14 e Luca, 15,1-7).
Su questo ritratto del "pastore grande delle pecore" (Ebrei, 13,20) si modella anche la fisionomia dei pastori da lui inviati. Agli apostoli Gesù dice: "Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d'Israele". A Pietro sul litorale del lago di Tiberiade per tre volte Gesù ripete: "Pasci le mie pecorelle" (Giovanni, 21,15-17). Nel testamento di Paolo ai responsabili della Chiesa di Efeso leggiamo: "Vegliate su tutto il gregge in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come custodi a pascere la Chiesa di Dio" (Atti, 20,28). E Pietro ai capi delle Chiese del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia Minore e della Bitinia scrive: "Pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato (...) non spadroneggiando sulle persone a voi affidate ma facendovi modelli del gregge" (1Pietro, 5,2-3). È su questa base che il simbolo del Buon Pastore entra nell'arte cristiana: ben 120 affreschi dei cimiteri cristiani romani dei primi secoli e 150 sculture adottano questa immagine.
Ma questa simbologia pastorale lentamente ci ha portato lontano da quella vita dura che il pastore palestinese conduce e che abbiamo tratteggiato in apertura.
Eppure nel Vangelo c'è un passo, l'unico del Nuovo Testamento, in cui di scena sono ancora pastori autentici e non pastori simbolici (Luca, 2,1-19). È quel celebre racconto che ascoltiamo ogni anno nella liturgia della notte di Natale. Un racconto notturno che la tradizione ha cercato di strappare al suo realismo quotidiano. L'ha infatti immerso in un'atmosfera tenera, sentimentale e oleografica; l'ha affidato alle statuine, ai muschi, alle stagnole di quel presepe che era sorto proprio in una fredda notte di Natale del 1223 a Greccio ad opera di Francesco, un uomo che era però realmente povero come quei pastori che raffigurava nel suo primo presepe. Questo racconto evangelico è stato anche avvolto nei fili musicali delle dolci "pastorali", spesso straordinarie come lo stupendo Concerto grosso n. 8 per la Notte di Natale di Corelli o la sinfonia dell'Oratorio di Natale di Bach (1734) o come la mirabile pagina natalizia del Messia di Haendel (1742) o ancora come la famosa pastorale di Couperin, oppure come l'"adorazione dei pastori" presente nel Christus, oratorio di Liszt, o l'Enfance du Christ di Berlioz (1850-54) e soprattutto i mille e mille Gloria in excelsis delle messe cantate. Un racconto che è diventato pittura nelle infinite tele che nei secoli hanno riproposto l'adorazione dei pastori a Gesù bambino.
In realtà, uno studio più accurato del contesto storico e culturale della vita d'Israele durante quegli anni cancellerebbe buona parte di questo alone pur suggestivo. Dal paragrafo 25b del trattato Sanhedrin del Talmud, il più famoso documento delle tradizioni giudaiche, apprendiamo, ad esempio, che i pastori non potevano essere eletti giudici e neppure potevano essere addotti come testimoni in un processo perché considerati impuri a causa della loro convivenza con animali e disonesti a causa delle loro violazioni dei confini territoriali. Le loro condizioni di vita erano molto meno "georgiche" e idilliache di quanto ci abbia abituato a pensare Virgilio; la loro esistenza era precaria e anche in quella notte decisiva per l'umanità è probabile che il gelo notturno fosse solo l'ultimo degli incubi di una giornata sempre dura.
Ma cerchiamo per un istante di ricomporre l'orizzonte topografico di quella notte. Siamo nella campagna di Betlemme, la città del pastore Davide, posta a 777 metri di altezza e stretta attorno dal deserto di Giuda. "C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge", così scrive, in apertura al suo racconto, Luca (2,1-20). La tradizione cristiana attuale ci conduce a tre chilometri da Betlemme nel villaggio arabo di Bet-Sahur. L'archeologo francescano Virgilio Corbo ha messo in luce in questa località un monastero bizantino del IV-V secolo che aveva inglobato alcune grotte anticamente usate dai pastori per le loro veglie notturne. Ora, accanto ad esse, si erge una chiesa moderna, eretta nel 1953: in essa l'architetto Antonio Barluzzi, che ha edificato la maggior parte dei santuari francescani di Terrasanta, ha voluto imitare la forma della tenda del beduino e ha tracciato una cupola che lascia filtrare la luce del cielo quasi in un gioco di stelle. L'altare sorretto da quattro pastori oranti è opera di artisti cristiani betlemiti.
Ritorniamo, però, alla pagina lucana.
Si tratta di una narrazione raffinatamente costruita. Lo schema è quello, classico nella Bibbia, delle annunciazioni (nel primo capitolo del suo vangelo Luca aveva già introdotto due annunciazioni, quella a Zaccaria, il padre del Battista, e quella a Maria). Il primo elemento è rappresentato dall'apparizione angelica, segno di una rivelazione divina che squarcia quella povera quotidianità (v. 9). L'angelo, la luce, la gloria di Dio, il timore sono le componenti tipiche dell'incontro col mistero divino. Il messaggio (vv. 10-11) è il secondo dato. Luca nel testo originale greco lo chiama "evangelo", un termine particolarmente significativo per i connotati cristologici che evoca. È il cuore teologico della scena. Esso si apre con un "oggi", un presente che è cronologico ma che si apre alla salvezza permanentemente offerta da Dio all'umanità: "Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore".
Del neonato si professano tre titoli che rappresentano una specie di piccolo Credo: Salvatore, Cristo (= Messia), Signore (= Dio). Anche Paolo, scrivendo ai cristiani di Filippi, cita questo Credo: "Aspettiamo il Salvatore, il Signore Gesù Cristo" (3,20). Nel bambino si intravede già il glorioso "Signore" risorto, proclamato dalla fede pasquale della Chiesa.

sabato 24 dicembre 2011

Torniamo sulla strada di Betlemme (Enzo Bianchi)Posted: 24 Dec 2011 12:59 PM PST La Stampa, 24 dicembre 2011

“Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”. Questa esortazione della Lettera agli Ebrei – che fa riferimento alla vicenda di Abramo che a Mamre accolse tre pellegrini stranieri rivelatisi poi messaggeri di Dio – ci offre una chiave di lettura del Natale e del suo senso nella nostra società oggi. Cosa sapevano gli abitanti di Betlemme di quella coppia in viaggio che cercava un riparo perché la donna incinta potesse partorire? Ne avessero sospettata l’identità, le avrebbero aperto le porte della loro casa, oppure si sarebbero limitati a tollerare che occupasse per un po’ una stalla in disuso? I pastori dei dintorni – gente emarginata nella società e nella comunità religiosa perché inadempienti agli obblighi cultuali e legali – mossi dalla spontanea solidarietà verso chi è costretto a pernottare all’aperto, decisero almeno di andare a vedere:
e sappiamo tutti che, una volta che il nostro sguardo incrocia quello di una persona nel bisogno, ci è molto più difficile non prendercene cura... E quei tre sapienti di un’altra terra e di un’altra religione, cosa sapevano di quel bambino figlio di poveri? Cercavano un re, un inviato da Dio e trovano una famiglia di emigranti... eppure non esitano a colmarla di doni regali. E quei due anziani al tempio di Gerusalemme, come potevano riconoscere in un primogenito, figlio di una famiglia anonima, riscattato con due tortore, offerta dei poveri, il Messia, l’atteso per secoli da tutto il popolo? Anche loro si limitano a prendere il piccolo tra le braccia, a tesserne le lodi, a immaginarne il futuro, come siamo portati a fare con qualsiasi neonato. Davvero un’apparizione nascosta, discreta, quotidiana, quella del figlio di Dio in mezzo alla sua famiglia, l’umanità intera: una presenza ordinaria che dice qualcosa in più solo a chi è disposto all’accoglienza.
Quest’anno molti vivono un Natale più difficile del solito, non solo in quei luoghi dove la vita è sempre faticosa o dove testimoniare la propria fede è sovente a rischio fino alla persecuzione, ma anche nel nostro paese, con sempre più persone in ristrettezze economiche. Questo dato si interseca con una sorta di ambivalenza legata alle festività natalizie: da un lato siamo quasi naturalmente più disposti ad atteggiamenti di benevolenza verso il prossimo, di bontà, di riconciliazione; d’altro canto tendiamo a vivere questi sentimenti “tra noi”, all’interno della ristretta cerchia degli intimi. Ambivalenza che rende ancor più pesante la solitudine e la sofferenza di chi non ha persone care attorno a cui stringersi, di chi le ha perse, di chi le ha lasciate lontano nella speranza di preparare un futuro migliore per loro... Sì, a Natale ci sentiamo tutti più buoni, ma verso chi vogliamo noi, verso chi decidiamo che sia destinatario del nostro affetto. E in tempo di difficoltà economiche la tentazione è quella di rinchiuderci ancora di più nei nostri piccoli nidi rassicuranti.
Solidarietà e accoglienza paiono a prima vista più difficili nelle stagioni dure, nei momenti di difficoltà, soprattutto per chi non le ha assunte come proprio habitus nei giorni più propizi. E invece la storia, anche quella “sacra” legata alla nascita di Gesù, ci insegna che proprio i poveri, i nomadi, i viandanti, gli emarginati, gli stranieri sono le persone più capaci di accoglienza, di apertura all’altro, di condivisione del poco di cui dispongono. E basta conoscerli, parlare con loro, lasciarsi accogliere da loro per sentirli narrare le meraviglie degli incontri gratuiti che hanno avuto: sono storie di ordinaria straordinarietà, vicende di rapporti nati nell’emergenza e divenuti amicizie solide, avventure di un momento burrascoso trasformatesi in storie di amore fedele.
Forse questo Natale potrebbe insegnarci qualcosa in merito: nello straniero che abita a pochi isolati da noi e che incontriamo per strada, nel senzatetto che si rifugia tra i suoi cartoni, nei nuovi poveri in coda per un pasto caldo, nell’anziano che fatica a riscaldare la sua stanza c’è un essere umano portatore di vita e di speranza, ci sono un cuore, un corpo e una mente che desiderano comunione, c’è una presenza dell’assenza lacerante della persona amata. Chi può dire cosa troviamo se ci accostiamo all’altro senza pregiudizi e paure, se gli apriamo la porta del nostro cuore, se gli restituiamo quella dignità che è suo diritto inalienabile? Chi di noi ha guardato, dico “guardato”, negli occhi un volto e si è sentito estraneo, soprattutto quando quel volto presenta i segni della sofferenza? Non lo si dimentichi: Dio si è mostrato in Gesù con tratti umanissimi perché ciò che era straordinario in Gesù non era nulla di religioso ma solo umano, umanissimo. Sì, Dio ha sembianze così umane che rischia di passare inosservato: per riconoscere l’altro in verità, l’unico sguardo lungimirante resta quello dell’accoglienza, oggi come a Betlemme duemila anni fa.

ENZO BIANCHI

venerdì 23 dicembre 2011

Un augurio di un Santo Natale a quanti seguono questo blog



AUGURI

L'augurio di un Santo Natale a coloro

che seguono questo blog.

Il Signore ricolmi di beni e denedizioni

tutti gli amici.

Nelle mie preghiere e specialmente

nell'Eucaristia vi ricorderò,come

ricorderò tutti gli ammalati come me.

Affidiamoci all'Emmanu-El, il Signore

nato,vivo e presente tra noi e in noi

nella certezza che per tutti

Lui è un Padre e Provvidenza

Le quattro Messe di Natale (Andrea Caniato) Posted: 23 Dec 2011 08:28 AM PST Dal Monastero di Bose

Mons. Andrea Caniato: La Liturgia del giorno di Natale è particolarmente ricca: basti pensare al fatto che per un unico giorno liturgico, sono previste ben quattro diverse celebrazioni della Messa. Cerchiamo brevemente di comprenderne l’origine e il significato.
La Messa della sera della vigilia, che appartiene già al Natale, riassume in se stessa tutta l’attesa di Israele e dell’umanità; al centro il brano della Genealogia secondo Matteo, che presenta Gesù da una parte come apice della storia di Israele, con i suoi momenti di gloria e con le sue durezze, dall’altra come intervento soprannaturale dell’Onnipotente.

Molti cristiani sono particolarmente affezionati alla Messa che si celebra durante la notte. Questo rito, che ha un evidente analogia con la veglia di Pasqua, ha la sua origine storica nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, nella cui confessione per volontà dell’Imperatrice Sant’Elena, vennero collocate le reliquie della mangiatoia di Betlemme (presepio). Entrò così anche a Roma, e poi in tutte le Chiese di rito romano, l’usanza betlemmita (testimoniata da Egeria) di celebrare l’Eucaristia durante la notte, a diretto contatto con la testimonianza concreta del fatto che viene rivissuto nel mistero. Questa celebrazione mette in evidenza l’evento in se stesso della Nascita di Gesù, in un momento ben preciso della storia e della geografia: aspetto molto marcato nelle prime parole del Vangelo di Luca.
Nelle prime ore del mattino si celebra la Messa dell’Aurora che ha una origine storica curiosa: anticamente nella città eterna vi era una numerosa e vivace comunità greca, che seguiva le tradizioni liturgiche orientali e che aveva sede nella Chiesa di Sant’Anastasia al Palatino. I greci, che seguivano anche a Roma il rito bizantino, non avevano ancora la festa di Natale, perché l’unica celebrazione della manifestazione di Cristo era a quel tempo il 6 gennaio, la festa della Teofania. Il 25 di dicembre cadeva però la festa della martire Anastasia. I Pontefici Romani, dunque, per onorare la comunità greca, salivano al mattino presto al Palatino per celebrare la Liturgia solenne. I testi liturgici erano comunque natalizi. In maniera casuale (se casualità esiste), ne venne una sintesi impressionante: il mistero dell’Incarnazione,il mistero pasquale (richiamato dal nome della martire che significa letteralmente “risurrezione”)e la testimonianza dei santi, che è il frutto della Redenzione!I testi biblici, soprattutto il Vangelo, in continuità con la celebrazione notturna, evidenziano la figura dei Pastori, che ricevono l’annuncio e si mettono in cammino verso Betlemme, il cui nome tradotto significa “Casa del pane”.
Si arriva così alla Liturgia vera e propria del Giorno di Natale, la celebrazione solare del mistero e dello scambio dei doni: Dio si è fatto uomo, per donare all’uomo la grazia di essere come Dio. Storicamente è, possiamo dire, la vera Messa della festa, celebrata dai Pontefici nella Cattedrale Lateranense o di nuovo a Santa Maria Maggiore. La Liturgia della Parola è dominata dalla lettura del Prologo di Giovanni, ulteriore sottolineatura pasquale: nella logica giovannea infatti, il prologo introduce il Vangelo e il “farsi carne” del Verbo di Dio è certamente riferito alla nascita di Gesù, ma anche alla sua solidarietà con l’uomo nella sua vita e nella sua morte. Basti pensare che nel rito bizantino, ad esempio, il prologo di Giovanni è la lettura propria della Liturgia del giorno di Pasqua; e che nel rito romano antico, lo stesso prologo di Giovanni veniva letto un tempo al termine di ogni Messa, quasi come chiave di lettura per poter interpretare ciò che accade nella stessa celebrazione: “noi vedemmo la sua gloria”.
La festa di Natale è un anniversario: l’aspetto storico e cronologico è molto sottolineato dalla Liturgia. Ma in realtà è molto più che un anniversario. Per la forza del sacramento eucaristico, noi tocchiamo con mano il mistero che celebriamo: il bambino che è nato a Betlemme è il crocifisso risorto; è il Signore, il vivente. Quella forza d’amore che è entrata nel mondo 2000 anni fa a Betlemme, tocca noi qui e ora. Ecco perché la Liturgia usa spesso la parola “oggi”, come nell’antifona maggiore del Vespro:Oggi Cristo è nato, è apparso il Salvatore; oggi sulla terra cantano gli angeli, si allietano gli arcangeli; oggi esultano i giusti, acclamando: Gloria a Dio nell'alto dei cieli, alleluia.

giovedì 22 dicembre 2011

La misericordia

«Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Matteo 5,7). Ai misericordiosi, Gesù promette nient’altro che quello che già vivono: la misericordia. In tutte le altre beatitudini, la promessa contiene un di più, porta più lontano: coloro che piangono saranno consolati, i cuori puri vedranno Dio. Ma che cos’è che Dio potrebbe dare di più ai misericordiosi ? La misericordia è pienezza di Dio e degli umani. I misericordiosi vivono già della vita stessa di Dio.

«Misericordia» è una vecchia parola. Durante la sua lunga storia, ha acquisto un senso molto ricco. In greco, lingua del Nuovo Testamento, misericordia si dice éléos. Questa parola ci è famigliare nella preghiera Kyrie eleison, che è una invocazione alla misericordia del Signore. Éléos è la traduzione abituale, nella versione greca dell’Antico Testamento, della parola ebraica hésèd. È una delle parole bibliche più belle. Spesso, la si traduce molto semplicemente con amore.

Hésèd, misericordia o amore, fa parte del vocabolario dell’alleanza. Da parte di Dio, designa un amore incrollabile, capace di mantenere una comunione per sempre, qualsiasi cosa capiti: «non si allontanerebbe da te il mio affetto» (Isaia 54,10). Poiché l’alleanza di Dio con il suo popolo è sin dall’inizio una storia di infedeltà e nuovi inizi (Esodo 32–34), è evidente che un simile amore incondizionato suppone il perdono, non può che essere misericordia.

Éléos traduce ancora un altro termine ebraico, quello di rahamîm. Questa parola va spesso di pari passo con hésèd, ma è più caricata di emozioni. Letteralmente, significa le viscere, è una forma plurale di réhèm, il seno materno. La misericordia, o la compassione, è qui l’amore avvertito, l’affetto di una madre per il suo bambino (Isaia 49,15), la tenerezza di un padre per i suoi figli (Salmo 103,13), un intenso amore fraterno (Genesi 43,30).

La misericordia, in senso biblico, è molto di più di un aspetto dell’amore di Dio. La misericordia è come l’essere stesso di Dio. Per tre volte davanti a Mosè, Dio pronuncia il suo nome. La prima volta, egli dice : «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14). La seconda volta : «Farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia» (Esodo 33,19). Il ritmo della frase è lo stesso, ma la grazia e la misericordia si sostituiscono all’essere. Per Dio, essere quello che è, è fare grazia e misericordia. Questo conferma la terza proclamazione del nome di Dio : «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Esodo 34,6).

Quest’ultima formula è stata ripresa nei profeti e nei salmi, in particolare nel salmo 103 (v. 8). Nella sua parte centrale, (versetti 11-13), questo salmo si meraviglia della vastità inaudita della misericordia di Dio. «Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia…» : è l’altezza di Dio, la sua trascendenza. Ma è anche la sua umanità, se si osa dire : «Come un padre ha pietà dei sui figli…». Così trascendente e allo stesso tempo così vicina, essa è capace di togliere ogni male : «Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe».

La misericordia è ciò che c’è di più divino in Dio, essa è anche ciò che c’è di più compiuto nell’uomo. «Ti corona di grazia e misericordia», dice ancora il salmo 103. Bisogna leggere questo versetto alla luce di un altro versetto del salmo 8 dove è detto che Dio corona l’essere umano «di gloria e di onore». Creati a sua immagine, gli umani sono chiamati a condividere la gloria e l’onore di Dio. Ma è la misericordia e la tenerezza che ci fanno realmente partecipare alla vita stessa di Dio.

La parola di Gesù : «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Luca 6,36) fa eco all’antico comandamento : «Siate santi, perché io, il Signor, Dio vostro, sono santo» (Levitico 19,2). Alla santità, Gesù ha dato il volto della misericordia. È la misericordia che è il più puro riflesso di Dio in una vita umana. «Con la misericordia verso il prossimo tu assomigli a Dio» (Basilio il Grande). La misericordia è l’umanità di Dio. Essa è anche l’avvenire divino dell’uomo.


http://www.taize.fr/it_article6831.html

mercoledì 21 dicembre 2011

COMUNITA' DI BOSE.Commento alle letture 25 dicembre 2011 (G.Bruni)





Giancarlo Bruni, (1938)
appartiene all'Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco della Comunità ecumenica di Bose. Risiede un po’ a Bose e un po’ all’eremo di San Pietro alle Stinche (FI).


Letture:Gv 1,1-18; Lc 2,16-21; Mt 2,1-12.
«Gesù nasce dove lo si lascia entrare»



1. «Dove dimori?» (Gv 1,38). Sono queste le prime parole rivolte a Gesù nel vangelo di Giovanni, una domanda non riducibile al significato scontato di alloggiare e a cui darà risposta l’intero scritto giovanneo. Gesù il risorto da sempre dimora presso Dio quale sua eterna Parola, rivolto verso il volto del Padre nell’atto di accoglienza di quei segreti che farà conoscere agli uomini suoi amici (Gv 1,1.18; 15,15). Gesù il risorto inoltre, giunta la pienezza dei tempi (Gal 4,4), è «venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), nel suo Israele e nel mondo (Gv 1,14), con quel corpo fragile e mortale preparatogli dal Padre (Eb 10,5) e tessuto dallo Spirito nel grembo verginale di Maria (Mt 1,20-23), sua prima e singolare dimora terrena.
Come sua prima casa sarà quella di Giuseppe e della sua giovane sposa, luogo in cui «il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui» (Lc 2,40.58); casa in cui Maria custodiva e meditava nel suo cuore (Lc 2,19.52) tutto quello che del bambino si diceva. Gesù il risorto infine continua a venire e ad abitare la terra nel povero con il quale si identifica (Mt 25,31-46) e in quanti aprono la porta al suo bussare (Gv 14,20-23; 15,4; 17,21-23; Ap 3,20). In breve Gesù il risorto nasce e dimora là ove lo si lascia entrare, lì è il suo natale al mondo, il cuore dei suoi amici è la sua abitazione terrestre. E ciascuno e ciascuna comunità idealmente possono identificarsi con i personaggi dei Vangeli dell’infanzia, il fronte dell’ «eccomi» alla sua venuta: Giuseppe, Elisabetta, Giovanni il Battista, Zaccaria, i pastori, Simeone, Anna, i Magi, gli angeli e Maria immagine di una accoglienza nella gioia, ruminata nel profondo e motivo di sofferenza nel vedere contraddetto il donato da Dio a resurrezione di molti (Lc 2,33-35), un «no» alla luce esemplificato da Erode. Natale ci ricorda che 25 dicembre è ogni giorno del riconoscimento e della accoglienza di lui come luce che si annida nella tenebra e come vita che si annida nella morte per dar luogo al natale dell’uomo nuovo, il reso capace dalla potenza dell’Amore di sapersi per l’altro e dalla potenza della resurrezione di sapersi per l’eternità.
2. «Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Lc 7,6). Queste parole del centurione sottolineano che nessuna creatura sotto il sole è in sé e per sé degna di ospitare il Sole di Dio che è Cristo. Ma non a caso è la stalla, metaforicamente il cuore irredento, il luogo in cui la stella della redenzione, liberamente e indipendentemente dal merito, ha deciso di nascere mosso da un grande sogno, convertire la stalla in stella, l’irredento in redento, il figlio della inimicizia in figlio della pace. Dire natale è dire nascita di Cristo nell’ignoranza e nel pregiudizio dell’uomo circa Dio in vista di una nascita a verità: il Dio di Gesù non fa paura ma viene nella forma indifesa di un bambino aperto all’accoglienza di tutti, felice nel vedere la crescita in saggezza di ciascuno e totalmente disponibile all’essere-bene e al bene-essere di ogni uomo. Dire natale è dire nascita di Cristo nell’io irredento dell’uomo, l’io soggetto all’istinto della libidine del dominio sugli altri (il volto patologico e cattivo del potere); l’io soggetto all’istinto della libidine della merce, al punto da ridurre a cosa-mercato il corpo e la mente stessa dell’uomo (il volto patologico e cattivo dell’avere), e l’io soggetto all’istinto della libidine ansiosa del successo e dell’apparire (il volto patologico e cattivo della manifestazione del sé). Un nascere in vista della venuta alla luce di un tipo d’uomo redento, tale perché a immagine dell’Uomo che è Cristo: non padrone ma servo, non avido ma creatura di comunione e di condivisione di ciò che si è e si ha, non affannato di notorietà ma discreta presenza che irradia bontà nel fazzoletto di terra che mi è stato dato abitare. Dire natale infine è dire nascita nella morte dell’uomo per redimere l’uomo dal potere della morte. Dio che è passione d’amore per l’uomo, come più volte abbiamo ripetuto, nella nascita del Figlio porta a compimento il suo prendersene cura; accettarne la presenza nella nostra stalla vuol dire nascere a redenzione, a stelle, e tali sono i resi amici di un Dio cantato, di un uomo custodito, diversamente gli siamo Caino, e di una vita che nessuna morte può spezzare per sempre.
3. «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre» (Mt 2,11). Natale è nascita del Sole-Luce tra di noi e in noi in vista della nostra nascita alla relazione buona con Dio, con l’altro e con la morte. E quindi con se stessi. Ove ciò accade la stalla diventa la casa della Presenza, un frammento stabile di luce per i cercatori di luce di ieri, di oggi e di domani esemplificati dai Magi, così come la Chiesa lo è da Maria. Il suo senso stà nell’essere il luogo in cui la Luce dimora, è fatta trovare ed è donata; diversamente è Chiesa mai nata.

martedì 20 dicembre 2011

Riflessioni sulle letture Natale notte (monaco di Bose:Manicardi) Posted: 20 Dec 2011 01:03 AM PST

L’Eucaristia della notte di Natale celebra il Cristo risorto e veniente nella gloria facendo memoria della sua nascita nella carne. Se nella notte pasquale cantiamo che “Cristo è veramente risorto!”, in questa notte cantiamo che il Risorto è veramente venuto nella carne umana condividendo il cammino di ogni uomo. Dio si è fatto carne con la nascita, è divenuto corpo, il corpo fisico di Gesù di Nazaret, e ora questo corpo crocifisso e risorto lo attendiamo come corpo glorioso universale e cosmico, perché la sua salvezza raggiunga tutti gli uomini (II lettura) e la sua pace si estenda su tutta la terra (vangelo). Mentre contempliamo il “Dio-con-noi” (Mt 1,23), attendiamo il “Dio-con-loro” (Ap 21,3).

Annunciata profeticamente dalla rinascita gloriosa delle zone settentrionali d’Israele un tempo umiliate (I lettura), la nascita di Gesù a Betlemme di Giudea (vangelo) è l’evento storico che sta alla base della rinascita del credente che, in Cristo, rinnega l’empietà e vive con sobrietà e giustizia in questo mondo (II lettura).
Il mistero dell’incarnazione celebrato nella notte di Natale rinvia direttamente al mistero dell’amore di Dio. Il Dio che si fa uomo è simile a quel re che voleva sposare una ragazza poverissima e di infime origini e, per non umiliarla in alcun modo, si fece povero come lei divenendo anch’egli un servo e coronando così il suo sogno d’amore. Scrive Søren Kierkegaard a commento di questa storiella: “Questa è l’insondabilità dell’amore, il fatto di non diventare per scherzo, ma seriamente e veramente uguale all’amato… Ogni altro tipo di rivelazione sarebbe un’impostura per l’amore di Dio”.
La seconda lettura, cantando “la grazia di Dio apparsa tra gli uomini, che ci insegna a vivere con sobrietà in questo mondo attendendo la beata speranza e la manifestazione della gloria di Gesù Cristo” (cf. Tt 2,11-13), mostra il riflesso esistenziale dell’incarnazione per i credenti: si tratta di assumere la vita come vocazione e compito; la storia come responsabilità; la speranza del Regno come magistero anti-idolatrico.
Mentre l’imperatore Cesare Augusto, che godeva di titoli divini, dispiega il suo potere di controllo su tutti e ciascuno nel mondo ordinando un censimento della terra abitata, Dio manifesta la sua signoria sulla storia attraverso l’evento “invisibile” della nascita di un bambino che è il Salvatore, il Cristo Signore. In lui tutti gli uomini sono chiamati a rinascere e in lui tutto il mondo dovrà essere intestato, ricapitolato. Appoggiandosi su un’antica versione greca (detta Quinta) del Sal 87,6 Eusebio di Cesarea, nel suo Commento ai Salmi, scrive: “‘Nel censimento dei popoli, questi nascerà là’ (Sal 87,6). Chiaramente ha fatto riferimento al censimento durante il quale il nostro Salvatore e Signore è nato, come mostra l’evangelista dicendo (segue la citazione di Lc 2,1)”.
Al censimento che si propone di contare i sudditi dell’impero (per motivi militari e fiscali), si oppone il popolo di Dio, il popolo dei santi che solo Dio conosce e di cui nessuna grandezza storica, religiosa o profana, può farsi padrona. Il popolo dei redenti nell’Apocalisse è descritto come “moltitudine che nessuno poteva contare” (Ap 7,9) e il censimento del popolo di Dio ordinato da David nell’Antico Testamento viene condannato da Dio (cf. 2Sam 24; 1Cr 21). La forza della chiesa non sta nel numero dei suoi adepti, nei numeri esibiti che dicono forza e prestigio, né la chiesa è chiamata a schierarsi tra le forze attive e potenti nello spazio pubblico ponendo sul piatto della bilancia “i numeri” che può vantare. E questo non solo perché la massificazione implicita nella riduzione della persona a numero è sempre pericolosa, ma anche perché solo Dio scruta il cuore umano e conosce la fede dell’uomo, la quale abita una dimensione di mistero che non può essere violata.
Al suo nascere Gesù appare tra gli emarginati, tra le “vite di scarto”, tra coloro che non destano interesse e non contano. E non su di lui si manifesta la luce della gloria divina, ma sui pastori (cf. Lc 2,9): essi ne hanno bisogno per riconoscere la presenza di Dio nella povertà e debolezza della carne umana. E con loro, anche noi ne abbiamo bisogno.
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B

Una preghiera per stasera 20 dicembre





Siamo figli tuoi


Dio,
che sei per noi
padre e madre e tutto,
noi ti ringraziamo
per l’umiliante rivelazione del nostro errare,
per questo tuo ricondurci
fra i più piccoli e i più amati,
per questo crollo salvifico
della nostra confusione
e della nostra ragione.
Dispersi e disorientati,
dobbiamo ricominciare da capo,
come neonati,
come bambini
rallegrarci dei tuoi doni,
come fanciulli
essere riconoscenti.
Come figli tuoi,
sperare tutto da te.

CYRILLUS KORVIN-KRASINSKI

lunedì 19 dicembre 2011

UN "VANGELO"PER IL TERZO MILLENNIO. Ciò che i cristiani credono e vivono alle soglie del nuovo Millennio

CHI E' L'UOMO?

Un Dio così non poteva non inventare grandi cose per l'uomo. Solo conoscendo ciò che Dio ha pensato e fatto per l'uomo, si può scoprire la nostra più profonda identità e l'autentico nostro destino. Tutte le altre perlustrazioni attorno all'uomo sono superficiali e parziali, e perciò non vere. Ed è da questa distorta immagine di uomo che nascono enigmi, paure, pessimismi sulla condizione dell'uomo, l'incomprensione della sua vicenda, e alla fine l'assurdità del suo destino di morte. Solo il mistero di Dio, del Dio fatto uomo - del Verbo incarnato - illumina pienamente il mistero dell'uomo e lo risolve.

Ecco allora in sintesi quali sono le risposte della fede cristiana alle domande fondamentali della vita.

Donde vengo?
Qual è la mia identità più vera?

E' troppo necessario sapere davvero chi siamo. Più di una volta abbiamo rincorso desideri di felicità, che poi ci hanno delusi: il nostro cuore aveva esigenze diverse. Era fatto diverso.

Noi siamo il risultato di un gesto di Dio che ci ha pensati e voluti dall'eternità, "predestinandoci ad essere conformi all'immagine del Figlio suo". Proprio così è capitato. Dio aveva un Figlio Unigenito, col quale c'era piena intesa. Decise un giorno di allargare famiglia e di creare l'uomo come prolungamento del suo proprio Figlio, divenendo Costui da Unigenito primogenito di molti fratelli. Ogni uomo è così creato, "stampato", a immagine del Figlio di Dio, impastato di umano e di divino, voluto e amato da Dio come è amato il Figlio Unigenito; chiamati quindi, ognuno di noi, ad essere figli ed eredi di Dio. Questa è la specifica identità dell'uomo: appena Dio lo pensa, lo vuole subito come suo figlio proprio, destinato a far parte intima della vita Trinitaria.
Se siamo figli propri di Dio, contiamo moltissimo per Lui. Nessuno ci vuol bene quanto Dio, ed è Lui il più appassionato educatore della nostra vita. Ci ha creati liberi perché rispondessimo con libertà e amore a quella sua chiamata di divenirne eredi. Nessuno al mondo quindi quanto Dio rispetta la nostra libertà e sollecita il nostro bene. Lui vede e vuole il mio bene più di quello che io non veda e voglia di me. Non ho che da fidarmi pienamente di Lui, e realizzerò così di me un progetto ben più grande d'ogni mio stesso sogno.

Dove vado?
Qual è il mio destino?

E' domanda troppo importante quella sul nostro futuro. La paura viene da questo futuro ignoto. E invece luminosissimo è il domani del credente. Se Dio ci ha fatti suoi figli è perché ci chiama a divenirne eredi, cioè in un modo pieno partecipi della sua vita perenne in Casa Trinità. Là c'è posto per tutti. Gesù, il nostro fratello maggiore, è andato avanti a prepararcelo. Parlandone un giorno disse: "Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli: in verità vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli" (Lc 12,37). Fantastico, vero! Essere a cena da Dio e Lui nostro inserviente, tanto è contento di averci sempre con Sé!
E perché la nostra esistenza futura sia una vita piena, ci sarà prima "la risurrezione della carne", come professiamo nel Credo, cioè la risurrezione del nostro corpo perché nella vita eterna tutto di noi partecipi alla nuova qualità d'esistenza propria di Dio. Saremo "simili a Lui", eredi di Dio, niente di meno che felici ed eterni come Lui. Chiacchiere e fantasie sono tutti i discorsi sulla reincarnazione...!

La certezza di queste verità ci dà respiro e serenità nel guardare al nostro domani, e ci rende portatori di un messaggio del tutto positivo in mezzo ad un mondo dove tutto sembra avviato all'annientamento.

Qual è la formula magica per la riuscita della vita?

Non c'è formula magica, ma formula sicura di riuscita, ed è quella che Dio stesso è venuto a mostrare - non in un libro, ma in una vicenda umana concreta - quella vissuta dal Figlio di Dio incarnato, l'uomo Gesù di Nazaret.

La sua analisi dei mali dell'uomo è semplicissima e fondamentale: l'uomo ha perso la vita, s'è guadagnato la morte, e con essa sofferenza, egoismo, violenza, semplicemente perché ha rifiutato Dio, pensando di fare da sé. Gesù è colui che fa esattamente il contrario: per tutta la vita si fida di Dio, e il Dio della vita non lo delude: gli restituisce come regalo non solo la vita di prima, ma lo fa "sedere alla sua destra", cioè lo rende partecipe della stessa vita Trinitaria. Un uomo ha già raggiunto quel traguardo dopo aver percorso tutto lo stesso nostro cammino di uomini, ma con la formula giusta che lo ha portato a riuscita, quella della obbedienza a Dio.
Gesù rappresenta quindi il nostro modello di vita. Guardando a Lui noi conosciamo la verità di noi stessi e i passi giusti che dobbiamo fare. Le sue scelte, i suoi insegnamenti ed esempi sono la fotografia dell'ideale di uomo che dobbiamo essere noi. Questo voleva dire Gesù quando diceva: Vieni e seguimi! Tutto è scritto per noi nel vangelo: la Parola di Dio è quindi la vera e unica indicazione giusta, in mezzo alle chiacchiere degli uomini e i falsi modelli di successo umano, e ci è di riferimento sicuro per ciò che è bene e male, utile o non utile alla nostra vera riuscita finale.

Ma sapendo la nostra insufficienza e fragilità, Gesù ha voluto essere per noi un fratello che ha fatto un po' la nostra parte nel riconciliarci con Dio: sono i suoi gesti fondamentali compiuti sulla croce in quanto nostro rappresentante e capo; per le sue piaghe noi siamo stati guariti, il castigo che noi meritavamo per il peccato, lui l'ha condiviso fino alla morte e ha espiato per noi, meritandoci così il perdono di Dio. Il suo sì a Dio Padre è quello che oggi ci dà la capacità di dire anche noi il nostro sì di fede e fedeltà al Signore. Gesù ha come voluto precederci, per darci una mano. La sua presenza e la sua forza oggi è incanalata a noi attraverso il dono dello Spirito santo e i sacramenti.
E' lo Spirito santo appunto la forza divina che ci cambia e ci trasforma interiormente. Col Battesimo ci "incorpora" a Cristo, come parte di Lui, facendoci realmente figli di Dio. Aiuta poi la nostra intelligenza a vedere e giudicare le cose come le vede e giudica Dio: ed è il dono della Fede. Ci aiuta a guardare, desiderare e scegliere i beni più veri e più giusti in vista della nostra felicità: ed è il dono della Speranza, che ci fa vedere in Dio il nostro bene supremo e unico, assieme alla certezza del perdono. Ci carica il cuore della capacità di amare che ha il cuore di Cristo, ed è il dono della Carità, del perdono, della gratuità nell'amare come Dio ha amato gratuitamente noi. Lo Spirito santo inabita in noi, trasfigura la nostra vita conformandola a quella del Fratello maggiore Gesù; e alla fine un giorno "darà vita anche ai nostri corpi mortali a causa del suo Spirito che abita in noi" (Rm 8,11), cioè ci risusciterà come Cristo. E' quindi pegno e strumento di resurrezione della carne e della vita eterna.

E' lo stesso Spirito che ci fa vivere non da soli, ma nella grande famiglia di Dio che è la Chiesa. A ciascuno ha dato doni diversi perché li mettiamo assieme per l'utilità comune di tutti. Doni diversi, compiti diversi ma - come membra di un unico corpo - per l'arricchimento di tutti. Vivere nella Chiesa - cioè in concreto nella propria Chiesa Locale, la propria parrocchia -, è l'unica forma legittima e fruttuosa di crescere da figli di Dio, per fiorire là dove il Signore ci ha piantato, collaborando con quei fratelli, non scelti da noi, ma destinatici da Dio.
La Chiesa ha infine la missione di annunciare a tutti i doni di Dio e l'unica vocazione alla vita che è la santità. Ognuno riceve in dono la fede non per un privilegio, ma per una responsabilità; non siamo cristiani noi prima degli altri perché siamo più belli, ma perché attraverso noi il dono di Dio giunga a tutti, come del resto noi stessi l'abbiamo ricevuto gratuitamente da altri. La missione è dimensione essenziale del battesimo. Missione all'interno della propria Chiesa, che si chiama pastorale; missione all'esterno, che si chiama testimonianza e servizio evangelico al mondo. Non è cristiano vero chi si chiude in se stesso.

Il guado difficile della sofferenza

Ma la vita del cristiano, come quella di ogni uomo, è segnata dalla prova, dalla sofferenza, dall'ingiustizia, dalla violenza, anche degli innocenti. E questo pone problema. Questa è domanda angosciosa soprattutto per chi crede a un Dio buono e provvidente. E' necessario allora raccogliere dalla fede cristiana le risposte illuminanti anche su questo punto di confine, là dove cioè la ragione umana naufraga nell'assurdo e nella ribellione.

La prima risposta chiara nella Bibbia è l'origine del male. Non è da Dio, ma dall'uomo, dall'uomo che vuol fare da sé e rifiuta Dio. "Per il peccato la morte è entrata nel mondo". E con la morte il patrimonio negativo di egoismo, fatica, sofferenza, violenza ..., il male, in una parola! Questo male è diventato eredità di tutti, condizione difficile dell'uomo, come capita tra vasi comunicanti, partecipi cioè del male come del bene di tutti. E il male cresce attraverso il suo organizzarsi fino a condizionarci, a creare così male su male.

Ma anche dentro di noi ereditiamo come una ferita, una debolezza e una insufficienza che ci rende propensi a dire di no a Dio e quindi a ratificare il peccato di tutta l'umanità; ad aggiungere così anche noi male al male comune. E' l'analisi spietata che San Paolo fa della nostra condizione di uomini: vogliamo il bene e non riusciamo a farlo; detestiamo il male e ci troviamo ad averlo scelto più spesso di quanto volevamo. "Io ho sì il desiderio del bene, ma non ho la forza di attuarlo" (Rm 7,17).

A questa triste condizione umana Dio ha posto rimedio con l'opera di salvezza di Cristo: con lui siamo riconciliati con Dio, viene perdonato il peccato ed è ridata energia sufficiente ad ogni uomo per realizzare il bene che vuole e resistere al male che non vuole. E' quello che chiamiamo GRAZIA. Data a tutti gli uomini per dono gratuito di Dio, essa però diviene efficace solo in un cuore che sinceramente si apre ad accoglierla e a collaborarvi. I ritmi lenti e pigri poi della nostra libertà, segnano necessariamente il passo di questa conversione e trasformazione della nostra vita.

Ma tolto il male morale, rimane ancora tutto il male fisico, le prove dolorose che dobbiamo subire dagli altri o dalle circostanze della vita. Qui la fede cristiana ha risposte difficili ma luminose. Per capirci qualcosa bisogna guardare la croce di Cristo. Essa è stata essenzialmente un abbandono d'amore, cioè un atto di fiducia totale a Dio Padre pur in mezzo al rischio e all'assurdo. Si è fidato di Dio anche quando sembrava che tutto andasse verso l'annientamento. Anche quando si è sentito abbandonato da Lui. La sua sofferenza - fino alla morte - il suo sentirsi schiacciato e abbandonato, non l'ha distolto da Dio, ma è stata occasione più forte per gettarsi nelle sue braccia e dire: "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?... pure mi fido lo stesso pienamente di Te!".
Tale è anche il senso e il perché ci è lasciata dopo la Redenzione la sofferenza: perché divenga anche per noi materia per esprimere non a parole ma a fatti concreti il nostro amore verso Dio, e un amore puro, provato, totale. L'amore si prova, come l'oro, col fuoco. E Dio vuole "spremere" da noi un tale amore radicale e puro, come del resto ha fatto Lui sulla croce per noi. La sofferenza e la morte allora vanno vissute come atto di abbandono a Dio, come il nostro sì difficile al Dio che crediamo con eroismo ancora come il nostro unico bene.

Ma tutto questo non è facile, anzi non è alla nostra portata. Ecco allora l'invenzione di Cristo: quel suo atto supremo della croce lo ha reso contemporaneo ad ogni uomo, nella Messa, perché ognuno di noi, partecipandovi, ne riporti il frutto di salvezza, cioè sia caricato della stessa capacità di Cristo di dire di sì a Dio e così compiere il proprio atto di riscatto. Nella Messa - all'offertorio - la Chiesa ci fa mettere alcune gocce d'acqua nel vino che diventerà il sangue di Cristo: sono il simbolo della offerta a Dio delle nostre croci, delle nostre sofferenze, vissute anche da noi con spirito d'abbandono e obbedienza a Dio, perché unite al sangue di Cristo divengano capaci di redenzione. E' quello che chiamiamo "corredenzione", cioè partecipazione alla redenzione di Cristo per la salvezza nostra e del mondo intero.
E' questo uno dei punti più alti della fede, che sa valorizzare al meglio, al positivo, persino quello che ad occhio umano rappresenta lo scarto. E affrontare la malattia o la morte con l'animo di saperne trarre un vantaggio di bene per noi e per gli altri, significa affrontarle con l'animo dell'eroe che accetta volentieri un sacrificio perché lo sa fecondo e fruttuoso.

E alla fine - nonostante questi punti chiari della fede - ci saranno ancora misteri e paure di fronte al dolore. Ci saranno momenti - quando la pelle brucia o una disgrazia imprevista cambia la nostra esistenza - in cui ci sembrerà impossibile credere ancora alla bontà di Dio per noi. E' il momento più alto della prova, quella svolta decisiva che il Signore ha preparato per noi, per l'ultimo salto di abbandono pieno in Lui. Lì, come Giobbe, non abbiamo altro da dire che: "Signore, non capisco, ma mi fido!". Mi fido e credo che tu vuoi comunque il mio bene, anche se per me sembra tutto assurdo. Signore, tienimi per mano, guidami in questo momento così buio, come l'hai vissuto tu al Getsemani, e fa che anch'io possa dire: Padre - Abbà, papà - non la mia ma la tua volontà sia fatta. Nelle tue mani metto tutto me stesso!



Ecco: l'amore di Dio - fino all'eccedenza della croce; l'amore nostro verso Dio fino all'eroismo dell'abbandono. La vita cristiana è una cosa seria, non è un gioco. Dio lo sa, per questo il nostro è un Dio che è venuto via da casa sua per venirci incontro e camminare al nostro fianco, senza scavalcare la nostra libertà e responsabilità, ma con la premura discreta di guidarci e aiutarci.
La Bibbia ha una immagine lirica per esprimere l'atteggiamento giusto da avere con questo Dio, è il Salmo 130: "Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, è l'anima mia". Sentiamoci sereni e fiduciosi nelle braccia di Dio, come un bambino è abbandonato sereno nelle braccia di sua madre.

domenica 18 dicembre 2011

Meditazione: Perdonate e sarete perdonati

In una recente intervista al Card. Carlo Maria Martini è stato chiesto qual è lo specifico dell’essere cristiani. Ecco la sua risposta: “Sono molti i libri scritti, soprattutto in questi ultimi 150 anni e nei Paesi di lingua tedesca, sull’essenza del Cristianesimo, o comunque su ciò che è distintivo nell’essere cristiani. Si parla anche, a questo proposito, di ciò che costituisce la «differenza» di questo movimento religioso rispetto ad altri. Come succede spesso in questi casi, quando tanti si pronunciano sulla stessa cosa, le opinioni sono diverse, ma ciascuna sottolinea qualcosa di buono o di vero. Certamente, se dovessi occuparmi dell’argomento, non farei leva su espressioni come «essere combattente del bene» né insisterei su «cariche aggressive nei confronti dei diversi». La parola di Gesù «chi di voi è senza peccato, getti per primo la sua pietra contro di lei» (Vangelo secondo Giovanni 8,7; ma il passo ha un limitato valore storico: cfr. Lc 21, 38ss, dove alcuni manoscritti aggiungono l’episodio) indica chiaramente la dimensione dell’annuncio evangelico. Si tratta di questioni molto complesse ed elevate, su cui ciascuno poi è inclinato a giudicare a seconda del proprio orizzonte educativo o di senso. Per questo è meglio insistere sulla generosa apertura verso tutti e sul perdono, che costituiscono il cuore e il frutto dell’Evangelo e sono più facilmente accettabili da diverse categorie di persone”. In questo tempo, chiediamo a Dio il coraggio di usare misericordia con tutti, anche quando ci troviamo di fronte ad eventi sconvolgenti, come l’uccisione degli innocenti. Non lasciamoci coinvolgere nella spirale del giudizio e della vendetta, perché noi stessi un giorno potremmo avere bisogno che altri usino misericordia con noi.


http://nonsolopane.myblog.it/archive/2011/03/21/perdonate-e-sarete-perdonati.html





sabato 17 dicembre 2011

Un piccolo paese sull'Altipiano di Asiago:STONER. Un luogo meraviglioso in inverno con la neve

In questo piccolo paese sull'Altipiano di Asiago

a 1100 metri di altitudine,un luogo stupendo

in inverno con la neve da novembre fino a maggio,

sono stato parroco dal 1986 al 2002.

Allora aveva 300 abitanti,adesso poco più

di 100 abitanti.

Durante l'inverno si sperimenta la massima

tranquillità: niente rumori o frastuoni

solo il silenzio della natura.

Anche l'aria che si respira non è

contaminata e tutto

attorno è meraviglioso.


http://italia.indettaglio.it/ita/veneto/vicenza_enego_stoner.html




Le ultime parole di Cristo sulla croce: “Ecco la tua madre...”GIOVANNI PAOLO II

1. Il messaggio della croce comprende alcune parole supreme di amore, che Gesù rivolge a sua madre e al discepolo prediletto Giovanni, presenti al suo supplizio sul Calvario. Ecco, san Giovanni nel suo Vangelo ricorda che “stava presso la croce di Gesù sua madre” (Gv 19,25). Era la presenza di una donna - ormai vedova da anni, come tutto fa pensare - che stava per perdere anche suo figlio. Tutte le fibre del suo essere erano scosse da ciò che aveva visto nei giorni culminanti nella passione, da ciò che sentiva e presentiva, ora, accanto al patibolo. Come impedirle di soffrire e di piangere? La tradizione cristiana ha percepito la drammatica esperienza di quella donna piena di dignità e di decoro, ma col cuore affranto, e ha sostato a contemplarla con intima partecipazione al suo dolore: “Stabat mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum pendebat filius”. Non si tratta solo di una questione “della carne e del sangue”, né di un affetto senza dubbio nobilissimo, ma semplicemente umano. La presenza di Maria presso la croce mostra il suo impegno di partecipazione totale al sacrificio redentivo di suo Figlio. Maria ha voluto partecipare fino in fondo alle sofferenze di Gesù, perché non ha respinto la spada annunciatale da Simeone (cf. Lc 2,35), e ha invece accettato, con Cristo, il disegno misterioso del Padre. Essa era la prima partecipe di quel sacrificio, e sarebbe rimasta per sempre il modello perfetto di tutti coloro che avrebbero accettato di associarsi senza riserva all'offerta redentiva.



2. D'altra parte la compassione materna, in cui si esprimeva quella presenza, contribuiva a rendere più denso e più profondo il dramma di quella morte in croce, così vicino al dramma di tante famiglie, di tante madri e di tanti figli, ricongiunti dalla morte dopo lunghi periodi di separazione per ragioni di lavoro, di malattia, di violenza ad opera di singoli o di gruppi. Gesù, che vede sua madre accanto alla croce, la ripensa sulla scia dei ricordi di Nazaret, di Cana, di Gerusalemme; forse rivive i momenti del transito di Giuseppe, e poi del suo distacco da lei, e della solitudine nella quale è vissuta negli ultimi anni, una solitudine che ora sta per accentuarsi. Maria, a sua volta, considera tutte le cose che per anni e anni “ha conservato nel suo cuore” (cf. Lc 2,19.51), e adesso più che mai le comprende in ordine alla croce. Il dolore e la fede si fondono nella sua anima. Ed ecco, ad un tratto s'avvede che dall'alto della croce Gesù la guarda e le parla.



3. “Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio"” (Gv 19,26). E un atto di tenerezza e di pietà filiale. Gesù non vuole che sua madre resti sola. Al suo posto le lascia come figlio il discepolo che Maria conosce come il prediletto. Gesù affida così a Maria una nuova maternità, e le chiede di trattare Giovanni come suo figlio. Ma quella solennità dell'affidamento (“Donna, ecco il tuo figlio”), quel suo collocarsi al cuore stesso del dramma della croce, quella sobrietà ed essenzialità di parole che si direbbero proprie di una formula quasi sacramentale, fanno pensare che, al di sopra delle relazioni familiari, il fatto vada considerato nella prospettiva dell'opera della salvezza, dove la donna-Maria è stata impegnata col Figlio dell'uomo nella missione redentrice. A conclusione di quell'opera, Gesù chiede a Maria di accettare definitivamente l'offerta che egli fa di se stesso quale vittima di espiazione, considerando ormai Giovanni come suo figlio. E a prezzo del suo sacrificio materno che essa riceve quella nuova maternità.



4. Ma quel gesto filiale, pieno di valore messianico, va ben al di là della persona del discepolo prediletto, designato come figlio di Maria. Gesù vuol dare a Maria una figliolanza ben più numerosa, vuole istituire per Maria una maternità che abbraccia ogni suo seguace e discepolo di allora e di tutti i tempi. Il gesto di Gesù ha dunque un valore simbolico. Non è solo un gesto d'ordine familiare, come di un figlio che prende a cuore la sorte di sua madre, ma è il gesto del Redentore del mondo che assegna a Maria, come “donna”, un ruolo di nuova maternità per rapporto a tutti gli uomini, chiamati a riunirsi nella Chiesa. In quel momento, dunque, Maria è costituita, e quasi si direbbe “consacrata”, come madre della Chiesa dall'alto della croce.



5. In questo dono fatto a Giovanni e, in lui, ai seguaci di Cristo e a tutti gli uomini, vi è come un completamento del dono che Gesù fa di se stesso all'umanità con la sua morte in croce. Maria costituisce con lui come un “tutt'uno”, non solo perché sono madre e figlio “secondo la carne”, ma perché nell'eterno disegno di Dio sono contemplati, predestinati, collocati insieme al centro della storia della salvezza; sicché Gesù sente di dover coinvolgere sua madre non solo nella propria oblazione al Padre, ma anche nella donazione di sé agli uomini; e Maria, a sua volta, è in perfetta sintonia con il Figlio in quest'atto di oblazione e di donazione, come per un prolungamento del “fiat” dell'annunciazione. D'altra parte Gesù, nella sua passione, si è visto spogliato di tutto. Sul Calvario gli rimane la madre; e con gesto di supremo distacco dona anche lei al mondo intero, prima di portare a termine la sua missione col sacrificio della vita. Gesù è cosciente che è giunto il momento della consumazione, come dice l'evangelista: “Dopo questo, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta...” (Gv 19,28). E vuole che tra le cose “compiute” ci sia anche questo dono della madre alla Chiesa e al mondo.



6. Si tratta certamente di una maternità spirituale, che si attua, secondo la Tradizione cristiana e la dottrina della Chiesa, nell'ordine della grazia. “Madre nell'ordine della grazia”, la chiama il Concilio Vaticano II (“Lumen gentium”, 61). E quindi una maternità essenzialmente “soprannaturale”, che si iscrive nella sfera dove opera la grazia, generatrice di vita divina nell'uomo. E dunque oggetto di fede, come lo è la stessa grazia, a cui è correlata, ma non esclude e anzi comporta tutta una fioritura di pensieri, di affetti teneri e soavi, di sentimenti vivissimi di speranza, fiducia, amore, che fanno parte del dono di Cristo. Gesù, che aveva sperimentato e apprezzato l'amore materno di Maria nella propria vita, ha voluto che anche i suoi discepoli potessero a loro volta godere di questo amore materno come componente del rapporto con lui in tutto lo sviluppo della loro vita spirituale. Si tratta di sentire Maria come madre e di trattarla come madre, consentendole di formarci alla vera docilità verso Dio, alla vera unione con Cristo, alla vera carità verso il prossimo.



7. Si può dire che anche questo aspetto del rapporto con Maria è compreso nel messaggio della croce. Dice infatti l'evangelista che Gesù “poi disse al discepolo: "Ecco la tua madre"!” (Gv 19,27). Rivolgendosi al discepolo, Gesù gli chiede espressamente di comportarsi con Maria come figlio verso la madre. All'amore materno di Maria dovrà rispondere un amore filiale. Poiché il discepolo sostituisce Gesù presso Maria, è invitato ad amarla veramente come la propria madre. E come se Gesù gli dicesse: “Amala come io l'ho amata”. E poiché, nel discepolo, Gesù vede tutti gli uomini, ai quali lascia quel testamento d'amore, vale per tutti la richiesta di amare Maria come madre. In concreto Gesù fonda con quelle sue parole il culto mariano della Chiesa, alla quale fa capire, attraverso Giovanni, la sua volontà che Maria riceva da parte di ogni discepolo, di cui ella è madre per istituzione di Gesù stesso, un sincero amore filiale. L'importanza del culto mariano sempre voluto dalla Chiesa, si deduce dalle parole pronunciate da Gesù nell'ora stessa della sua morte.



http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/07-2/GP8832.html





8. L'evangelista conclude dicendo che “da quell'ora il discepolo la prese nella sua casa” (Gv 19,27). Ciò significa che il discepolo ha risposto immediatamente alla volontà di Gesù: da quel momento, accogliendo Maria nella sua casa, le ha mostrato il suo affetto filiale, l'ha circondata di ogni cura, ha fatto in modo che potesse godere di raccoglimento e di pace in attesa di ricongiungersi a suo Figlio, e svolgere il suo ruolo nella Chiesa nascente, sia nelle Pentecoste sia negli anni successivi. Quel gesto di Giovanni era l'esecuzione del testamento di Gesù nei confronti di Maria: ma aveva un valore simbolico per ogni discepolo di Cristo, invitato ormai ad accogliere Maria presso di sé, e farle posto nella propria vita. Perché, in forza delle parole di Gesù morente, ogni vita cristiana deve offrire uno “spazio” a Maria, non può non includere la sua presenza. Allora possiamo concludere questa riflessione e catechesi sul messaggio della croce, con l'invito che rivolgo a ciascuno, di chiedersi come accoglie Maria nella sua casa, nella sua vita; e con una esortazione ad apprezzare sempre di più il dono che il Cristo crocifisso ci ha fatto, lasciandoci come madre la sua stessa madre.