DON ANTONIO

venerdì 19 agosto 2011

Vivere la speranza "dentro" le paure




1. La paura fa parte della condizione umana. Anzi ne è una dimensione
essenziale e irrinunciabile. L'esistenza dell'uomo è radicalmente attraversata da conflitti
interiori ed esterni, che mettono a dura prova la sua capacità di resistenza. Le difficoltà
di rapporto con gli altri e il conseguente stato di solitudine esistenziale, la minaccia
sempre incombente della natura, le frustrazioni personali, che accompagnano i processi
di crescita individuale e collettiva e, più profondamente, l'orizzonte onnipresente della
morte sono altrettanti "sintomi" di una situazione di malessere ontologico, che suscita
paura e persino disperazione.
A ciò si deve aggiungere, oggi, il diffondersi di un senso generalizzato di
impotenza, che sembra allargarsi a macchia d'olio e diventare un tratto caratteristico
della coscienza umana. Il crollo di attese, fondate sul progresso o sulla liberazione
socio-politica e alimentate da ideologie e utopie di messianismo terrestre, finisce per
rinchiudere sempre più l'uomo dentro se stesso, spingendolo verso l'isolamento e la
rinuncia o verso forme di irrazionalità incontrollata, che spesso sfociano nella violenza.
Il ritorno al "privato" e, in certa misura, la stessa rinascita del "sacro" sono segni
emblematici di questo itinerario; rappresentano cioè il tentativo - consapevole o
inconscio - di sottrarsi a una situazione di disagio e di paura, evadendo dal mondo e
creandosi un mondo alternativo, una sorta di paradiso artificiale al quale ancorarsi o
dentro il quale ritrarsi per poter sopravvivere.
A ben guardare, disimpegno e violenza sono come due facce della stessa
medaglia. Nascono dal rifiuto della realtà, considerata invincibilmente opaca e senza
senso. Sono il segno di una follia collettiva, di una maniacale tendenza autodistruttiva,
che, a livelli diversi e con diversi esiti, sembra essersi impossessata dell'umanità.
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2. Dalla paura cosmico-sacrale alla paura antropologica. Ma quale paura?
Quali le cause che l'hanno prodotta e i contenuti concreti a cui si riferisce? Quali i
contorni con cui si esprime?
Per rispondere è, anzitutto, necessario prendere seriamente in considerazione il
profondo mutamento dell'autocoscienza umana, prodottosi in questi ultimi decenni: il
passaggio cioè da un'interpretazione della vita e della storia in senso "sacrale" a una
lettura e interpretazione delle stesse in senso profano e secolare.
In un mondo, come quello del passato, nel quale l'orizzonte "sacrale" era
predominante, la paura dell'uomo aveva valenze e connotati prevalentemente
cosmologici. Natura e storia venivano considerate come epifenomeni del "divino",
perciò come realtà non dominabili dall'uomo, ma alle quali egli doveva fatalisticamente
piegarsi, esorcizzandone, nei limiti del possibile, gli effetti negativi mediante riti
propiziatori, invocazioni o scongiuri. La stessa tradizione cristiana subiva l'influsso di
tale concezione. La dimensione storico-temporale, che qualifica il cristianesimo delle
origini e prima ancora l'esperienza giudaica, lasciava il posto alla dimensione cosmicospaziale,
propria delle religioni più arcaiche dell'oriente e dell'occidente. Dio veniva
sempre più concepito come immediatamente all'opera nei cieli della natura, che egli
stesso regolava, a suo piacimento, grazie alla sua onnipotenza. Il "sacro" si identificava
in qualche modo con il "cosmico"; e si trattava per lo più di un "cosmico" negativo, che
incuteva nell'uomo apprensione e terrore.
La dipendenza dell'uomo dalla terra, in una società contadina, alimentava questa
convinzione, fino al punto che il Dio della Bibbia, che è il Dio della vita e della storia,
veniva, di fatto, confuso con una divinità astratta e terribile, senza volto e senza nome.
Il sentimento prevalente nei confronti di essa non poteva più essere quello evangelico
dell'amore, ma piuttosto quello del timore e della sottomissione. L:obbedienza
ossessiva alla legge diventava la condizione necessaria per evitare il rigore della
giustizia divina, che si rendeva manifesta, in questa vita, attraverso le malattie e le
calamità naturali, le quali altro non erano che il preludio di quanto si sarebbe potuto
verificare nella vita futura.
La paura dell'uomo si identificava, dunque, con una sorta di panico irrazionale
nei confronti del mistero del cosmos, le cui leggi rimanevano sconosciute e attraverso il
quale il divino si rendeva trasparente.
Lo sviluppo della ricerca scientifico-tecnologica ha messo definitivamente fine a
questa interpretazione del mondo. La natura appare ormai come realtà soggetta al
dominio dell'uomo. La conoscenza sempre più approfondita delle dinamiche che la
connotano e dei processi a essa immanenti consente all'uomo di intervenire su di essa,
programmandone il corso, asservendola alle sue esigenze ed evitandone, entro certi
limiti, gli effetti negativi. In altri termini, il mondo si afferma sempre più come mondo
dell'uomo. L’esperienza del mondo appare ormai come totalmente originata dall'uomo.
Ha scritto J.B. Metz:
Ciò che oggi immediatamente ed in primo luogo nel mondo colpisce il nostro sguardo non sono
le vestigia Dei, bensì le vestigia hominis. La "creazione" di Dio appare sempre più mediata e filtrata
dall'opera dell'uomo. In misura più o meno maggiore, in tutto ciò con cui abbiamo a che fare nella nostra
esistenza mondana, noi non ci incontriamo nella natura creata da Dio, ma nel mondo progettato già ogni
volta e trasformato dall'uomo - e quindi ancor una volta con noi stessi (J.ß. Metz, Sulla teologia del
mondo, Brescia 1974, p. 59).
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L’uomo del nostro tempo comprende se stesso nella sua soggettività storica e
libera; sperimenta se stesso come soggetto capace di determinare il corso degli
avvenimenti, cioè di fare storia.
E’ superfluo sottolineare come tutto questo si armonizzi perfettamente con la
visione cristiana della realtà. Nella fede il credente riceve la salvezza di Dio e la
custodia del mondo: tutto lo spazio della vita è consegnato al suo responsabile e libero
agire. Ogni spaccatura tra la sfera del sacro e quella del profano viene a cadere. La
secolarizzazione, in quanto conferisce consistenza alle cose liberandole dalla tutela
sacrale e proclamandone la totale profanità e autonomia, è in profonda sintonia con la
logica della creazione, per la quale il mondo, uscito dalle mani di Dio, è rimesso
totalmente nelle mani dell'uomo perché responsabilmente lo gestisca.
In questo contesto, le ragioni della paura sembrerebbero, di primo acchito, venir
meno. U uomo che padroneggia il mondo è l'uomo sicuro di se stesso; è l'uomo che ha
acquisito la certezza delle proprie possibilità e che vive - in modo quasi prometeico -
l'avventura della trasformazione del cosmo.
In realtà, non è questo il volto della condizione umana contemporanea. La
civiltà tecnologica, lungi dall'aver dato soluzione alle questioni fondamentali della vita,
ha finito per acutizzarle e per sollevarne altre e ancora più drammatiche. La riduzione
della conoscenza a potere, cioè a dominio sulla natura, ha determinato la nascita di un
mondo disumano, dove non c'è più posto per le relazioni interpersonali e per lo sviluppo
della creatività. Le manipolazioni fisiche e biologiche rivelano, ai nostri giorni, la loro
strutturale ambiguità: le potenzialità di vita si sono trasformate in potenzialità di morte.
La maggiore disponibilità che è data all'uomo di programmare il mutamento individuale
e collettivo non coincide, di fatto, con la produzione di una migliore qualità di vita. 1
processi di massificazione sociale e culturale, i rischi originati dalla scoperta e
dall'utilizzazione di nuove energie, il ritmo incalzante della vita e l'accentuarsi, a tutti i
livelli, della conflittualità suscitano un senso crescente di preoccupazione e di disagio,
di frustrazione e di alienazione.
La paura assume così sembianze nuove e inedite: da paura cosmica si trasforma
in paura antropologica, nel senso che trova sempre più nell'uomo le sue motivazioni e il
suo fondamento ultimo. Non sono più le forze misteriose della natura o il sentimento
del "sacro" i fattori che la producono; è piuttosto la realtà del mistero umano con le sue
ambivalenze e i suoi limiti. L'uomo ha oggi paura di se stesso; ha paura dell'altro, che
viene istintivamente considerato come rivale e nemico. Le scienze umane, aprendo alla
comprensione dell'uomo orizzonti finora sconosciuti, hanno notevolmente contribuito a
evidenziare la fragilità della coscienza, i complessi meccanismi che la strutturano e la
forza dei condizionamenti bio-psichici e socio-culturali. Quanto più l'uomo si conosce
tanto più diffida di se stesso, perché diviene consapevole delle potenzialità negative che
sono in lui, delle energie distruttive e degli istinti di violenza e di morte che si annidano
nel profondo del suo io personale, del potere suggestionante e mortale delle ideologie e
dei progetti storici, che egli stesso ha costruito per affrontare la realtà.
Le nuove possibilità che egli ha di dominare il mondo non fanno che acuire il
senso della trepidazione e dello smarrimento. La paura nasce dalla insicurezza nei
confronti di se stessi, dalla convinzione crescente della propria incapacità a orientare, in
modo costruttivo, il progresso verso obiettivi di vera liberazione. Il mondo progettato e
trasformato dall'intervento umano è sempre più carico di tragiche contraddizioni e di
insolubili aporie. L’euforia iniziale nei confronti della scienza e della tecnica va
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tramutandosi in un atteggiamento di terrore per ciò che esse possono provocare e hanno
in parte già provocato. Aumenta la consapevolezza che tutto dipende dall'uomo, che
tutto è lasciato alla sua libera decisione; e questo proprio nel momento in cui egli scopre
più profondamente la sua strutturale debolezza e le sue gravi carenze.
Anche i rapporti interpersonali sono coinvolti in questa spirale di diffidenza e di
paura. L’insicurezza soggettiva rende difficile la relazione con gli altri: alla spontaneità
si sostituisce la programmazione, all'immediatezza naturale il calcolo e l'incapacità di
rischiare. L’incomunicabilità che ne deriva genera solitudine, e la solitudine non fa che
alimentare l'incomunicabilità e la disperazione. Le nuovi e immani responsabilità di
gestione della natura e della vita personale e sociale sembrano dunque accollare
all'uomo un peso insopportabile. La paura è l'esito di questa situazione, suffragata,
peraltro, dall'esperienza dei pesanti scacchi già patiti e dall'assenza di prospettive di
fuoriuscita attendibili per il futuro.
3. Il paradosso della croce. La fede cristiana non esime l'uomo dal vivere, fino
in fondo, "dentro" questa situazione di paura. Il fatto che essa trovi sempre più
nell'uomo e nella sua condizione di artifex del mondo la sua ragione, che in un certo
senso si interiorizzi anziché essere proiettata all'esterno, risponde perfettamente al dato
della rivelazione biblica.
Fin dai primi capitoli della Genesi la storia dell'umanità appare segnata da
terribili conflittualità che connotano le relazioni umane e gli stessi rapporti con il
mondo: è storia di rivalità e di contese, di lotte fratricide e di incomunicabilità radicale,
di fatica e di sofferenza nel dominare la natura (Gen. 3-1 1). Il motivo fondamentale è
la rottura della comunione con Dio, il dramma del peccato di origine, che ha dato avvio
all'insorgere di uno stato di lacerazione interiore, di squilibrio e di disarmonia, di
precarietà e di morte. Rivendicando la propria autosufficienza, e perciò la propria
autonomia nei confronti di Dio, l'uomo si è trovato in balia di se stesso e della propria
impotenza. Nonostante tenda a scaricare la propria responsabilità, oggettivando la
colpa, egli non può evitare la percezione che il mistero del male è in lui, che affonda le
sue radici in quella profonda divisione dell'io, conseguenza del rifiuto della dipendenza
creaturale e dell'amicizia con il Signore.
I profeti, muovendosi nel contesto dell'alleanza, insistono particolarmente su
questa dimensione interiore del disagio umano. Il cuore è Per essi la sede delle
perversioni dell'uomo: da esso traggono origine gli atteggiamenti di egoismo e di
ingiustizia, di sopraffazione dell'altro e di resistenza al bene. Per questo, essi
evidenziano la necessità di un radicale rinnovamento, annunciando, per i tempi
messianici, il dono all'uomo di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, nonché la
partecipazione allo Spirito di Dio (Ez. 36, 24-28; Ger. 31, 31-34).
La riconciliazione, operata da Cristo, coincide con la restaurazione dell'umano
nella profondità ultima del suo essere. L’uomo diviene nuova creatura, chiamata a
vivere nel la giustizia e nella santità della verità. Lo Spirito gli restituisce la capacità di
fare il bene; lo sottrae alla condizione di schiavitù e di impotenza in cui era venuto a
trovarsi e lo mette in grado di vivere la logica del regno. Il dono di Dio fa, tuttavia,
appello alla cooperazione e all'impegno umano. La vita cristiana non cessa di essere il
frutto di una conquista, di un cammino faticoso di sconfessione dell'uomo vecchio per
fare pienamente spazio alla presenza e all'azione dell'uomo nuovo creato da Dio. Il
conflitto e la lotta contrassegnano ancora l'esperienza umana; la paura rimane come
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retaggio irrinunciabile del mistero del male ancora presente. Ma il credente sa che le
forze del bene prevarranno, che gli sarà data la possibilità della vittoria, se egli si rende
totalmente disponibile all'intervento di Dio. La redenzione dell'uomo in Cristo non
elimina, dunque, la conflittualità e la paura, ma le inserisce in un orizzonte nuovo e
diverso. Esse non possono essere interpretate come un destino tragico e ineluttabile, al
di là del quale è impossibile andare; si tramutano in condizioni necessarie, in vie
obbligate per l'accesso dell'uomo alla pienezza della vita.
Tutto ciò diviene ancora più trasparente nella prospettiva del mistero pasquale,
che è il centro della fede cristiana. Accettando di condividere fino in fondo la
condizione umana, Cristo si è assoggettato alla paura in tutte le sue forme: paura
dell'incomprensione e della solitudine, dell'abbandono e del tradimento, della fatica e
della sofferenza fisica e psicologica. L'obbedienza incondizionata al progetto di Dio
non gli ha impedito di sperimentare la debolezza della carne, la violenza della
tentazione, il sentimento istintivo di angoscia e di rifiuto di fronte alla tragedia della
morte (Mt. 26, 36-46). Eppure, proprio la morte, che è il luogo nel quale si condensano
tutte le paure umane, è divenuto, grazie alla sua testimonianza di fedeltà e di amore, il
luogo della liberazione e della vita.
Il paradosso di Cristo è il paradosso della croce. Attraverso di essa l'impotenza e
il fallimento si trasformano in sorgente di speranza. Cristo non ha vinto la morte
fuggendola, ma passandoci dentro, sopportandone il peso, per restituire a essa un senso
e riscattarla dal negativo che la connota, aprendola al mistero della vita che non
tramonta. La risurrezione del Signore rivela l'alternativa della speranza rispetto al
mondo soggetto alla paura. L’inevitabilità della storia è infranta, la necessità del male è
soppressa, la morte è ridotta all'impotenza. La festa della risurrezione è una festosa
ribellione: la vita che ne scaturisce è una vita con una nuova qualità.
Il realismo del cristiano sa:
che l'esistenza dell'uomo passa, in maniera radicale, reale e inevitabile attraverso la morte.
Al cristiano - pur presupposto che si ponga di fronte alla morte - è consentito combattere qualsiasi
battaglia dell'esistenza, nutrire qualsiasi speranza di tipo intramondano, anzi gli è addirittura imposto
di farlo. Però egli è cristiano soltanto se crede che tutta la realtà positiva, bella e fiorente è destinata a
passare attraverso quella che chiamiamo morte. Il cristianesimo è la religione che ha riconosciuto
colui che è stato inchiodato in croce e che vi è morto violentemente come segno di vittoria e come
espressione realistica della vita umana, e ne ha fatto il proprio segno distintivo (K. RAHNER,
Corso,fondamentale sulla fede, Roma 1977, p. 513).
La morte rimane, anche per il credente, lo scacco più terribile, il momento della
più totale frustrazione delle attese di autorealizzazione e insieme il momento della più
radicale solitudine; in una parola, continua a essere il fondamento e l'oggetto della paura
umana. Ma essa, d'altra parte, diviene, nella certezza della fede, il momento della
vittoria definitiva e senza limite. Solo passando attraverso di essa è, infatti, possibile
l'accesso al mistero della risurrezione, che è il contenuto fondamentale della speranza.
Il credente non è dunque sottratto alle paure del vivere e del morire. Anzi,
paradossalmente, proprio accettando il peso di tali paure, vivendole radicalmente e dal
di dentro, egli si apre all'amore sconfinato di Dio, che lo chiama alla beatitudine del
regno. La logica dell'esistenza cristiana è logica pasquale; la sofferenza e la croce sono
la condizione per rinascere. Non c'è risurrezione senza morte; non c'è speranza senza
paura. Le lacerazioni personali e interpersonali e i conflitti collettivi, lungi dal dover
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essere demonizzati, si trasformano in occasione di crescita e di stimolo all'impegno
umano.
La riconciliazione dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il mondo è
possibile fin da quaggiù, perché la pasqua del Signore ha inaugurato i tempi nuovi; ma
essa passa, inevitabilmente, attraverso il mistero della croce, che è un continuo morire a
se stessi, rinnegando il proprio egoismo e la propria volontà di dominio e sopraffazione
per accogliere il dono di Dio e recuperare la propria identità di risorti. L’immenso
travaglio delle sofferenze umane acquista uno spessore positivo. La paura, pur
rimanendo una dimensione ineludibile della condizione umana, non conduce più alla
disperazione, ma suscita nel cuore umano la nostalgia della patria dell'identità e della
vita. E spinge l'uomo a camminare sulla strada della liberazione, contribuendo a
costruire con la fatica del proprio lavoro i cieli nuovi e le nuove terre.
4. Rendere ragione della speranza. Come comunicare questo messaggio di
speranza in un mondo come il nostro, che appare ogni giorno più dominato dalla paura e
attraversato da segni di morte? A quali condizioni i credenti e le comunità cristiane
possono oggi rendere ragione della speranza che è in loro?
La speranza cristiana si oppone tanto al sentimento della disperazione quanto a
quello dell'autosufficienza. Per quanto di segno opposto, questi due sentimenti nascono
dalla stessa matrice: una visione radicalmente antropocentrica della vita e della storia.
In ambedue i casi ciò che è dominante è l'assenza di un orizzonte trascendente, la
riduzione della realtà allo spazio mondano. U atteggiamento che li accomuna è perciò
quello della presunzione. Per questo è facile l'oscillazione dall'uno all'altro, a seconda
delle esperienze personali o dei vissuti storici e socio-culturali. La speranza cristiana si
fonda sulla fiducia in Dio e nella realizzazione della sua promessa; anzi, più
radicalmente, sul mistero della risurrezione di Cristo come compimento di tutte le
promesse e come promessa di un ulteriore e definitivo compimento per l'uomo e per il
mondo.
In quanto confessione del futuro assoluto come futuro dell'uomo, che egli non
raggiunge mai a partire da se stesso, con le proprie forze, ma che gli è donato e fin
dall'inizio per libera grazia, la speranza cristiana suscita il senso della disponibilità e
dell'attesa, della gratuità e della contemplazione; alimenta la coscienza della precarietà e
della provvisorietà di tutti gli sforzi umani come di tutte le aspettative intramondane.
Nessuna ideologia storica e nessun progetto politico può, infatti, esaurirla.
L’escatologia cristiana ha come obiettivo ultimo la consumazione della storia,
l'attuazione cioè della pienezza del regno in un orizzonte metastorico e ultramondano.
La crisi dell'uomo, il prevalere della paura e dell'istinto di morte non nascono
forse, oggi soprattutto, dalla totalizzazione delle ideologie e dalla verifica storica del
loro fallimento? L: aver riposto tutta la propria fiducia nel progresso o nella rivoluzione
sociale e politica, in definitiva nell'autosufficienza umana, è il motivo profondo dello
stato di angoscia e di disperazione in cui l'uomo vive. Il crollo di utopie terrestri, a
lungo vagheggiate come capaci di dare risposta a tutti i problemi umani, ha prodotto (e
non poteva non produrre), come conseguenza, smarrimento e vuoto esistenziale,
sfiducia e non-senso.
Rendere ragione della speranza, da parte dei cristiani e delle comunità cristiane,
significa allora, anzitutto, sconfessare le aspettative umane nella loro pretesa di
assolutezza, nella loro tendenza a installarsi, in modo totalitario, nella coscienza,
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rendendola impermeabile al progetto di Dio. Significa aiutare l'uomo a non confondere
il futuro assoluto con l'avvenire storico-mondano, come avviene nelle ideologie e utopie
rivoluzionarie, le quali altro non sono che una versione secolarizzata dell'escatologia
cristiana, una sorta di messianismo terrestre, che ha usurpato il posto al messianismo
evangelico. Significa restituire all'uomo la capacità di accettare tutte le paure, compresa
quella della morte, nella certezza che esse non sono l'ultimo traguardo e che, in esse e
attraverso di esse, va costruendosi faticosamente il mondo nuovo, inaugurato dalla
redenzione del Signore. Ovviamente, tutto ciò non deve essere interpretato come
sinonimo di disimpegno e di rinuncia. Il kairòs definitivo trova per i cristiani
realizzazione in Gesù di Nazareth; un avvenimento storico è diventato avvenimento
escatologico; il centro del tempo si colloca non oltre questo tempo, ma all'interno di
esso. Esiste, di conseguenza, una relazione precisa tra l'attesa del regno di Dio, che è
attesa del futuro assoluto, e il compito intramondano dell'uomo. Il cristianesimo è
"memoria" rischiosa come forma della presenza escatologica elaborata nella sua
mediazione storica e sociale. Liberando l'uomo dal mondo, la fede lo libera nello stesso
tempo dal suo rifiuto. Poiché essa non vive del mondo è in condizione di vivere per il
mondo. Infrangendo la signoria del mondo, essa conferisce all'uomo la responsabilità
su di esso. La speranza cristiana non mortifica pertanto ma suscita l'attività umana e
chiama alla risposta. E speranza che impegna l'uomo in un cammino di crescita e di
ricerca; speranza che si coniuga con le attese dell'uomo, restituendo senso e valore allo
sforzo di liberazione; anzi, sostenendo tale sforzo con tutte le sue energie.
La festa della risurrezione e dell'eucaristia non è una fuga nei cieli della religione, ma sta in
mezzo alla storia, per congiungervi in mani.era singolare passato e futuro, memoria e speranza. La
riattualizzazione della passione e della morte di Cristo è speranza nel modo della memoria.
L'attualizzazione del regno futuro di Dio è memoria nel modo della speranza. Attraverso l'eucaristia noi
annunciamo la morte di Cristo, fino a quando egli verrà, dice Paolo. L'eucaristia è il sacramento della
memoria e della speranza insieme e, nell'accordo di queste due cose, è l'espressione di una esperienza
attuale di liberazione (J. MOLTMANN, Nuovo stile di vita, Brescia 1979, p. 83).
In un momento storico, come quello che stiamo vivendo, il rischio dell'uomo
non è tanto quello di maggiorare le attese, che nascono dai progetti ideologici e sociopolitici,
quanto piuttosto quello di negare a esse ogni consistenza e valore. La paura
esistenziale, che serpeggia nelle coscienze, è frutto della frustrazione conseguente alla
caduta di ideali e di prospettive per il futuro a lungo coltivate come vincenti. La
tendenza all'individualismo e alla privatizzazione della vita, al qualunquismo e alla fuga
nell'irrazionale e nell'esoterico è il sintomo allarmante del rifiuto del presente, della
rinuncia a lottare, con tutte le proprie energie, per l'instaurazione di un mondo più
giusto, più a misura dell'uomo.
La tentazione di alcuni cristiani è di approfittare di questa situazione di
sconcerto e di paura per riproporre un messaggio astorico e disincarnato,
contrapponendo, in maniera radicale, la speranza cristiana alle speranze umane. Il boom
del "sacro" e della "religiosità popolare" e la nascita di movimenti spiritualistici, di varia
natura e ispirazione ma spesso fortemente caratterizzati da atteggiamenti intimistici e
integralisti, rappresentano, da questo punto di vista, un segno ambiguo. Se essi sono, da
una parte, la testimonianza che la questione del senso ritorna al suo luogo di origine, lo
spazio religioso, sono, dall'altra, l'indice dell'accettazione acritica di una situazione di
sfiducia e di disimpegno, di negazione del mondo e della storia e della possibilità del
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loro riscatto; situazione - purtroppo - consciamente o inconsciamente serpeggiante. C'è,
in altri termini, il pericolo che alla nuova domanda religiosa si dia risposta attraverso la
ricostituzione di una religiosità soprannaturalistica ed evadente, disancorala dai
problemi storici dell'uomo e, in definitiva, alienante; una religiosità che partendo dal
negativo dell'odierna condizione umana diviene compenso consolatorio delle ansie e
delle frustrazioni, delle paure e delle insicurezze dell'uomo, proiettando nell'aldilà - e
soltanto in esso - la soluzione dei problemi umani; una religiosità che, acutizzando la
crisi di fiducia nei confronti del presente, alimenta la rinuncia alla lotta e l'accettazione
dello status quo.
E’ superfluo ricordare quanto questo atteggiamento del resto già presente in altre
epoche storiche - sia gravido di conseguenze negative, non soltanto sul terreno storicosociale,
ma anche su quello della fede e della esperienza cristiana. Ha scritto
acutamente J. Moltmann:
L'orientamento rivolto esclusivamente all'aldilà, che cerca Dio senza il suo regno e vuole avere
la salvezza dell'anima senza una nuova corporeità, non può che favorire l'orientamento rivolto
esclusivamente all'al di qua, che costruisce il suo regno senza Dio e vuole avere la nuova terra senza
avere un nuovo cielo. Il Dio senza mondo degli uni e il mondo senza Dio degli altri, la fede senza
speranza dei primi e la speranza senza fede dei secondi si convalidano a vicenda. Ma in questa
lacerazione la vita cristiana non può che deteriorarsi (Ibi, pp. 39-40).
La speranza, di cui i cristiani sono chiamati a rendere ragione, non è dunque una
forma di evasione dalla realtà o, peggio ancora, di rifiuto di essa; è piuttosto una forma
di partecipazione e di impegno all'interno della storia per trasformarla secondo la logica
del regno. Relativizzando le attese umane, essa libera il credente dalla presunzione
ideologica e dal totalitarismo, e lo mette in grado di accostare serenamente il mondo e la
vita senza lasciarsi condizionare da essi in modo paralizzante. In questo senso vince le
paure dell'uomo, non fuggendole, ma interpretandole come espressione del gemito della
creazione, la quale attende la pienezza della liberazione dei figli di Dio.

http://www.liuc.it/cmgenerale/istituzionale/cm/upload/Viverelasperanza.pdf

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