DON ANTONIO

martedì 31 gennaio 2012

Lectio divina.Letture patristiche della Domenica «DELLE GUARIGIONI»V Domenica per l’Anno B.Dal Monastero di Bose





Mc 1,29-39; Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1 Cor 9,16-19.22-23
1. «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21)
"Ora la suocera di Simone stava a letto con la febbre" (Mc 1,30). Dio voglia ch`egli venga ed
entri nella nostra casa, e guarisca con un suo ordine la febbre dei nostri peccati. Ciascuno di noi è
febbricitante. Quando sono colto dall`ira, ho la febbre ogni vizio è una febbre. Preghiamo dunque gli
apostoli affinché supplichino Gesú, ed egli venga a noi e tocchi la nostra mano: se la sua mano ci tocca,
subito la febbre è scacciata. E il Signore un grande medico, un vero archiatra. Un medico era Mosè, un
medico era Isaia, medici sono tutti i santi: ma questo è il maestro di tutti i medici. Egli sa toccare con cura
le vene, sa scrutare nei segreti del male. Non tocca le orecchie, non tocca la fronte, né tocca alcuna altra
parte del corpo: tocca soltanto la mano. Quella donna, infatti, aveva la febbre, perché non aveva opere di
bene. Prima viene dunque sanata nelle opere e poi viene liberata dalla febbre. Non può liberarsi della
febbre se non è guarita nelle opere. Quando la nostra mano opera il male, è come se fossimo costretti a
stare a letto; non possiamo alzarci, non possiamo camminare: è come se fossimo ammalati in ogni parte
del corpo.
E "avvicinatosi" (Mc 1,31) a lei che era ammalata... Essa non poteva alzarsi, giaceva nel letto;
quindi, non poteva venire incontro al Signore che entrava: ma questo misericordioso medico, che la
teneva sulle sue spalle come fosse una morbida pecorella, va lui al letto. «E avvicinatosi...». Si avvicina
spontaneamente, per guarirla di sua propria volontà. «E avvicinatosi...». Stai attento a che cosa dice. E`
come se dicesse: Avresti dovuto correre incontro a me, venire alla porta per accogliermi, affinché la tua
guarigione non fosse soltanto opera della mia misericordia, ma anche della tua volontà: ma, poiché sei in
preda ad una violenta febbre e non ti puoi alzare, vengo io.
E "avvicinatosi la fece alzare". Ella non poteva alzarsi, ed è alzata dal Signore. "E la fece alzare
prendendola per mano" (Mc 1,31). Giustamente la prende per mano. Quando anche Pietro era in pericolo
in mare e stava per essere sommerso, è toccato dalla sua mano e subito si alza. «E la fece alzare
prendendola per la mano»: con la sua mano prese la mano di lei. O beata amicizia, o dolcissimo bacio! La
fece alzare dopo averla presa per mano: la mano di lui guarí la mano di lei. La prese per mano come
medico, sentí le sue vene, costatò la violenza della febbre, egli che è medico e medicina. Gesú tocca, e la
1 Le letture patristiche sono tratte dalla dal CD-Room “La Bibbia e i Padri della Chiesa”, Ed. Messaggero –Padova, distribuito
da Unitelm, 1995.
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febbre fugge. Tocchi anche le nostre mani, per rendere pure le nostre opere. Che entri nella nostra casa:
alziamoci dal letto non restiamo sdraiati. Gesú sta dinanzi al nostro letto e noi non ci alziamo? Leviamoci,
stiamo in piedi: è ignominioso per noi giacere dinanzi a Gesú. Ma qualcuno dirà: - Dov`è Gesú? Gesú è
qui. "Sta in mezzo a voi uno che voi non conoscete" (Gv 1,26). "Il regno di Dio è dentro di voi" (Lc
17,21). Crediamo, e vedremo Gesú qui oggi. E se non possiamo toccare la sua mano, corriamo ai suoi
piedi. Se non possiamo giungere alla sua testa, almeno laviamo con le nostre lacrime i suoi piedi. Il nostro
pentimento è profumo per il Salvatore. Osserva quanto è grande la misericordia del Signore. I nostri
peccati mandano un cattivo odore, sono putredine: tuttavia, se ci pentiamo dei nostri peccati, se
piangiamo, i nostri puzzolenti peccati diventano il profumo del Signore. Preghiamo dunque il Signore
affinché ci prenda per la mano...
Che dice ancora David? "Mi laverai e io sarò piú bianco della neve" (Sal 50,9). Poiché mi hai
lavato con le mie lacrime le mie lacrime e la mia penitenza hanno agito per me come ii battesimo. Potete
costatare da qui quanto sia efficace la penitenza. Egli si pentí e pianse: perciò fu purificato. Che cosa dice
subito dopo? "Insegnerò agli iniqui la tua via, e gli empi si convertiranno a te" (Sal 50,15). Il penitente è
diventato maestro.
Perché ho detto tutto questo? Perché qui sta scritto: "E subito la febbre la lasciò ed ella si mise a
servirli" (Mc 1,31). Non si accontenta di essere stata liberata dalla febbre, ma subito si mette al servizio di
Cristo. «E si mise a servirli». Li serviva con i piedi, li serviva con le mani, correva di qua e di là, e
venerava colui dal quale era stata guarita. Serviamo anche noi Gesú. Egli accoglie volentieri il nostro
servizio, anche se abbiamo le mani sporche: infatti egli si degna di guardare ciò che si è degnato di
guarire. Sia a lui gloria nei secoli dei secoli. Amen.
(Girolamo, Comment. in Marc., 2)
2. «Io sono il Signore che ti guarisco» (Is 60,16)
"E venuto nella casa di Pietro, lo serviva" (Mt 8,14-15). Entrato nella casa di Pietro, il Signore e
Salvatore nostro guarí col solo contatto della sua mano la suocera di lui ammalata gravemente, ed in
questo prodigio mostrò di essere l`autore di ogni sanità, l`autore della medicina celeste, che nel passato
aveva parlato a Mosè dicendo: "Io sono il Signore che ti guarisco" (Is 60,16). Ma in questo, poiché donò
la guarigione col contatto della mano, fu segno non di impotenza ma di grazia. In realtà, anche se
precedentemente aveva guarito il paralitico soltanto con una parola, senz`altro facilmente avrebbe potuto
anche ora fare scomparire le febbri con una parola, ma attraverso il contatto della sua mano mostrò il
dono della sua benevolenza e si manifestò come colui del quale era stato scritto: "Per il contatto della sua
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mano presto ridona la sanità", poiché capiamo che è stato adempiuto in questa stessa opera.
Immediatamente, infine, per il contatto della mano del Signore, la febbre scomparve, la guarigione ritorna
con la fede alla credente, egli che scruta i reni e il cuore [degli uomini] dona i benefici della sanità, e
quelle cose di cui bisognava per il servizio altrui, e restituita alla salute precedente, cominciò in persona a
servire il Signore. Per queste prodigiose azioni senza dubbio si approva chiaramente la divinità del Cristo.
"Venuta, poi, la sera gli presentarono molti, e curò le loro infermità" (Mt 8,16-17).
Il Signore delle virtù ed autore della salvezza degli uomini, elargiva a tutti, come pio e
misericordioso. Dio, il rimedio della medicina celeste, liberava i posseduti dal demonio, scacciava gli
spiriti immondi, faceva scomparire anche tutte le malattie ed infermità del corpo con la parola del suo
divino potere, affinché mostrasse di essere venuto per la salvezza del genere umano, e dimostrasse fino
all`evidenza di essere Dio attraverso un cosí gran numero di azioni prodigiose, perché questi cosí grandi
segni miracolosi non li può effettuare se non Dio solo.
"Affinché si adempisse, disse, ciò che è stato detto per il profeta Isaia: Poiché egli stesso si
addossò le nostre infermità, e portò le nostre malattie" (Mt 8,17).
Inoltre il Figlio di Dio si addossò le infermità del genere umano, affinché rendesse noi, una volta
deboli, forti e ben radicati nella sua fede; per questo prese un corpo da una razza peccatrice, per
cancellare i nostri peccati col mistero della sua carne. Di sera poi ciò che conferí secondo l`intelligenza
dello spirito, fu mostrato come sacramento della passione del Signore, quando lo stesso Figlio di Dio, che
è chiamato sole di giustizia per la nostra salvezza accettò la pena di morte.
E dopo la sua passione tutti quelli che si sono offerti al Signore, o che si offrono, liberati dalle
diverse malattie dei peccati, e dai vari legami del demonio, ottengono dal Signore e Salvatore nostro ed
eterno medico, la salvezza eterna: a Lui la lode e la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
(Cromazio di Aquileia, In Matth., Tract., 40, 1-4)
3. Cristo, salute del corpo
L`evangelista Marco aggiunge la parola «immediatamente» volendo sottolineare la rapidità con
cui la guarigione si verifica (cf. Mc 1,29). Matteo, invece, si limita a menzionare il miracolo senza dare
indicazioni di tempo. Gli altri evangelisti riferiscono, inoltre, che l`inferma stessa chiede a Gesú di
guarirla (cf. Mc 1,30; Lc 4,38), mentre Matteo omette anche questo particolare. Ciò, naturalmente, non
significa che vi sia contraddizione tra gli evangelisti, ma soltanto che l`uno mira alla concisione, gli altri a
una piú completa narrazione dei fatti.
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Ma per qual motivo il Signore entra nella casa di Pietro? Secondo me è per prender cibo;
l`evangelista lo lascia capire dicendo che la donna «levatasi, si mise a servirlo». Cristo, infatti si trattiene
spesso in casa dei suoi discepoli, come fa anche alla chiamata di Matteo, e in tal modo li onora e rende
piú ardente il loro fervore.
Osservate anche in questa circostanza il profondo rispetto che Pietro nutre per il Maestro. Benché
egli abbia in casa la suocera ammalata e con febbre alta, non lo trascina a casa sua. ma attende che abbia
terminato il suo insegnamento sulla montagna e che tutti gli altri malati siano risanati. Solo quando il
Signore entra nella sua casa, l`apostolo lo prega di guarire la suocera: cosí, fin dall`inizio, l`apostolo è
stato educato ad anteporre gli interessi degli altri ai propri. Non è infatti Pietro che conduce il Signore a
casa sua: è il Salvatore che vi entra spontaneamente, dopo che il centurione ha detto: «Non sono degno
che tu entri sotto il mio tetto», dimostrando sino a qual punto favorisca il suo discepolo. Pensate, in realtà,
quali abitazioni potevano avere quei pescatori; ma Gesú non disdegna di entrare nei loro miseri tuguri,
insegnandoci in tutti i modi a disprezzare il fasto e le vanità del mondo.
Notiamo inoltre che il Signore a volte guarisce i malati con le sole parole, a volte stende la mano;
altre volte invece usa parole e gesti insieme per evidenziare meglio la guarigione. Egli difatti non vuole
operare sempre miracoli in maniera straordinaria. Deve star nascosto ancora qualche tempo, soprattutto
per i suoi discepoli, i quali nell`eccesso della loro gioia proclamerebbero pubblicamente tutto ciò che
sanno. E ciò risulta evidente dal fatto che, dopo la sua trasfigurazione sul monte, deve ordinar loro di non
riferire a nessuno ciò che hanno visto (cf.Mt 17,9).
In questa circostanza Gesú, toccando la mano della donna malata, non soltanto spegne l`ardore
della febbre, ma le restituisce perfetta salute. Trattandosi di una malattia leggera, egli manifesta la sua
potenza nel modo in cui la guarisce: il che nessun`arte medica avrebbe potuto fare. Voi ben sapete che
anche dopo la caduta della febbre occorre molto tempo prima che i malati riacquistino completamente la
salute. In questa occasione invece la guarigione e il completo recupero delle forze si ottengono nello
stesso istante. E non solo qui, ma anche sul mare, si hanno contemporaneamente due effetti. Non soltanto
allora Gesú calmò i venti e la tempesta, ma placò istantaneamente anche il movimento delle onde,
operando un prodigio insolito. Come ben si sa, quando cessa la tempesta, le acque rimangono ancora per
molto tempo agitate. La parola di Cristo opera diversamente: fa cessare tutto in un momento e la stessa
cosa si verifica anche nel caso della suocera di Pietro. Volendo far intendere ciò, l`evangelista precisa:
«levatasi, si mise a servirlo»: il che conferma da un lato la potenza di Cristo, e dall`altro la gratitudine che
la donna prova per lui.
Un altro punto che qui dovremmo considerare è il fatto che Cristo per la fede di alcuni concede la
guarigione ad altri - qui, infatti, altri l`hanno pregato (cf. Lc 4,38), come pure nel caso del servo del
centurione. Tuttavia la concede a condizione che colui che sta per essere guarito non sia incredulo e solo a
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causa della sua malattia non possa presentarsi a lui e per ignoranza o per giovane età non riesca a
comprendere la sua grandezza.
"Fattosi sera, gli condussero molti indemoniati, ed egli con una parola scacciò gli spiriti e guarí i
malati, affinché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia: Ha preso le nostre infermità e si è
caricato delle nostre malattie" (Mt 8,16-17; Is 53,4). Notate come è cresciuta ormai la fede della
moltitudine. Non si rassegnano infatti ad andarsene, nonostante l`incalzare del tempo, né ritengono
inopportuno condurre a Cristo i loro malati di sera. Vi prego inoltre di considerare quale numero di
persone risanate gli evangelisti qui sorvolano, senza menzionare e raccontare i dettagli di ogni guarigione.
Con pochissime parole infatti essi passano sopra un mare infinito di miracoli
(Giovanni Crisostomo, Comment. in Matth., 27, 1)
4. La suocera di Pietro (Mt 8,14-15)
Dalla febbre del vizio ero tormentato
Dell`impurità abominevole,
E in letti per mollezza ignobili
Son caduto, incapace di rialzarmi.
Come la suocera del beato Pietro,
Piacciati rialzarmi, Destra del Potente,
Affunché come lei anch`io ti serva,
Tu che ridai la vita alla mia anima.
(Nerses Snorhalí, Jesus, 440-441 )
5. Dio cerca gli uomini, non le cose umane
Chi ascolterà attentamente imparerà dall’evangelo di oggi per qual motivo il Signore del cielo, il
restauratore dell'universo, sia entrato nelle povere dimore terrene dei suoi servi. Ma non c'è da
meravigliarsi che si sia avvicinato a tutti affabilmente, lui che con tanta bontà era venuto per soccorrere
tutti.
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Considerate che cosa abbia attirato Cristo alla casa di Pietro: certo non il desiderio di riposare, ma
l'infermità della paziente; non la necessità di mangiare, ma l'opportunità di salvare; il mettere a servizio il
suo potere divino, non il farsi servire sontuosamente dagli uomini. In casa di Pietro non si versavano vini,
ma lacrime. Per questo Cristo vi entrò: non per banchettare, ma per ridare la vita. Dio cerca gli uomini,
non le cose umane;desidera donare i beni celesti, non ricevere quelli terreni; Cristo viene per recuperare
noi, non per chiedere le nostre cose.
«Entrato Gesù nella casa di Pietro, vide la suocera di lui che giaceva a letto con la febbre» (Mt 8,14).
Cristo, entrato in casa di Pietro, si occupa subito di ciò per cui è venuto: non considera l'aspetto della
casa, non le folle che gli vengono incontro, non l'onore di quanti lo salutano, e neanche bada all'accorrere
dei congiunti; non s'interessa certo del decoro dei preparativi, ma guarda solo al gemito dell'inferma,
all'arsura della febbricitante. La vede grave al di là di ogni speranza umana, e subito stende la mano
all'azione divina: non aveva quasi fatto in tempo a piegarsi verso l'umanità sofferente di lei, che già lei
sorgeva dal giaciglio incontro alla divinità di lui. «Le toccò la mano e la febbre scomparve» (Mt 8,15)
Guardate come la febbre abbandona chi è preso per mano da Gesù: l'infermità non resiste davanti
all'autore della salute; non v'è accesso per la morte là dove è entrato colui che dà la vita. «Venuta la sera,
gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola» ((Mt 16).
Viene la sera quando si conclude la giornata terrena, quando il mondo si allontana dalla luce dei
tempi. Colui che rida la luce viene di sera, per restituire il giorno senza tramonto a noi pagani che
camminiamo nella notte dei secoli. Di sera, cioè negli ultimi tempi, il sacrificio devoto e solenne degli
apostoli offre noi pagani a Dio, e vengono scacciati da noi i demoni che ci soggiogavano con il culto degli
idoli. Infatti, ignorando l'unico Dio, servivamo innumerevoli dèi con sacrilega e spregevole schiavitù.
A noi il Cristo non viene secondo la carne, viene con la parola: ma se la fede dipende dall'ascolto e
l'ascolto dalla parola I-, egli ci ha liberati dalla schiavitù dei demoni, mentre questi da empi tiranni sono
diventati prigionieri. Da questo momento i demoni che ci signoreggiavano sono caduti in mano nostra,
sottomessi al nostro comando: che ora la nostra infedeltà, fratelli, non ci riporti a essere loro schiavi.
Raccomandiamo al Signore noi e le nostre azioni, affidiamoci al Padre, crediamo in Dio: poiché la vita
dell'uomo è nelle mani di Dio, che come Padre guida le azioni dei figli, e in quanto Signore non
abbandona la cura della sua famiglia.
Dai «Discorsi» di san Pietro Crisologo, vescovo.
lunedì 30 gennaio 2012
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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Lectio divina.DOMENICA «DELLE GUARIGIONI»V Domenica per l’Anno B. Dal monastero di Bose





Mc 1,29-39; Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1 Cor 9,16-19.22-23
Canto all’Evangelo Mt 8,17
Alleluia, alleluia.
Cristo ha preso le nostre infermità
e si è caricato delle nostre malattie.
Alleluia.
L’Evangelo di oggi è orientato dalla profezia del Servo sofferente, Is 53,4, che si caricò di tutti i
mali e di tutte le debolezze degli uomini per distruggerle in se stesso e per redimerli. Da notare che tale
citazione viene dal parallelo matteano (Mt 8,14-17) alla pericope marciana di oggi, che invece, essendo
posteriore e secondaria, non la riporta.
La «lettura continua» (o comunque da integrare nell’omelia mistagogica e sempre nella lectio personale)
di Marco obbliga in apertura a tenere presente che il Signore dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e
consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del
Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al padre, e come Sposo per acquistarsi la Sposa
d’Amore e di Sangue. Lungo questo Tempo, privilegiato tra tutti gli altri dell’Anno liturgico, noi
celebriamo Cristo Signore Risorto, mentre Lo contempliamo in uno degli episodi della sua Vita tra gli
uomini, quando insegna, o opera, o prega. Questa Domenica Egli insegna come Profeta e Maestro divino
la Dottrina del Regno di Dio.
Anche la volta scorsa, esaminando la "giornata di Cafarnao", avevamo sottolineato come la guarigione
dalle malattie e dalla sofferenza fosse il segno eloquente della potenza salvifica di Dio in Gesù.
Dalla sinagoga dell'episodio precedente alla casa di Simone ed Andrea (v. 29) dove la suocera di Simone
ha una febbre maligna prosegue il programma battesimale del Signore con lo Spirito: prima l’annuncio,
l'omelia nella sinagoga durante il sabato; segue la verifica operativa: l'espulsione dei demoni e le
guarigioni, segno della presenza del Regno di Dio fra gli uomini (v. 39)
Sofferenza e dolore, parti integranti della vita dell'uomo, sono il problema per il quale cerchiamo una
risposta valida. Mai come in queste condizioni di estrema debolezza l'uomo si trova a riflettere sulla
propria debolezza e sul significato dela presenza di Dio nella sua vita. Il dolore mette a dura prova la
nostra fede è come «il fuoco che purifica l'oro nel crogiolo» (Sap 3,6).
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Nell'Evangelo il racconto della guarigione della suocera di Pietro si concentra in modo speciale su Gesù
che guarisce, pieno di potenza, perché vicino a Dio.
Il brano evangelico, pur nella sua brevità, risulta composto di tre piccole pericopi:
1. la guarigione della suocera di Pietro (1,29-31);
2. le molteplici guarigioni (1,32-34);
3. la preghiera di Gesù (1,35-39),
Esaminiamo il brano
vv. 29 «Usciti... andarono subito»: Soltanto in questo primo capitolo Marco ripete otto volte l'inciso kai
euthỳs («subito, immediatamente»: 1,10.12.18.20.21.23.29.30) e assieme alla straordinaria densità della
congiunzione kai (usata più di 25 volte nei primi 29 versetti) l'espressione conferisce un senso di urgenza
e di rapido progresso a queste descrizioni iniziali dell'attività di Gesù.
Il primo racconto è inserito nel contesto della giornata di Cafarnao e a dispetto della sua brevità ha un
notevole significato Teologico.
L'episodio si pone a metà della giornata, che risulta così divisa: sabato mattina (v. 21) Annucio e
preghiera comunitaria nella sinagoga; mezzodì (v. 29) vita ecclesiale: diaconia in casa con parenti, amici,
ammalati ; sera (v. 35) preghiera personale e solitaria.
Marco si differenzia significativamente dal parallelo di Matteo dove appare un Gesù isolato e in
atteggiamento ieratico, restando da solo faccia a faccia con la malata, quasi a dire che non c'è alcun
intermediario, che Gesù non ha bisogno di nessuno per vedere le nostre infermità e intervenire a salvarci.
Nel brano parallelo di Luca, che pure sembra più vicino a Marco, l'attenzione è concentrata, oltre che
sulla preghiera dei discepoli, sul gesto di Gesù, che si china sulla donna intimando alla febbre di
andarsene.
v. 30 «a letto con la febbre»: Nell'antichità la febbre stessa era considerata una malattia anziché un
sintomo. In Marco il tratto saliente è nei v. 31 con una formulazione abbastanza strana della frase
v. 31 «Accostatosi, la sollevò prendendola per la mano; la febbre la lasciò»: Il centro del brano è
proprio in quel «la sollevò», in greco è usato il verbo egeírō.
Il verbo «alzare» con la connotazione di rimettere una persona in posizione eretta e anche di restituirle la
salute, è caratteristico dei racconti di guarigione di Marco (2,9.11; 3,3; 5,41; 9,27; 10,49). Prima di Marco
è usato in espressioni formulistiche che riguardano la risurrezione di Gesù dai morti (1 Cor 15,4; Gal 1,1;
Rm 4,24; vedi anche At 3,15; 4,10).
Ricordiamo come per Marco la malattia e la morte manifestano l'impero del demonio e ogni guarigione è
una vittoria messianica contro le forze del male. Anche nella guarigione della suocera di Pietro è all'opera
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la stessa forza divina che agirà nella resurrezione di Gesù; il verbo "sollevare" è infatti lo stesso verbo
usato per la resurrezione di Cristo.
Anche il gesto della mano di Gesù ha la sua importanza: l'autore del Sal 72 (73), 23 canta al Signore: «Mi
hai preso per la mano destra»; la mano di Gesù è per questa donna la stessa mano di Dio che interviene
nella sua vita per liberarla (vedi anche icona pasquale della Discesa agli inferi dove l’umanità
rappresentata dalla prima coppia umana, Adamo ed Eva, è potentemente “sollevata” su).
«si mise a servirli»: in gr. diakonéo, il senso primo è qui dare da mangiare, ma in Marco il verbo indica il
dare la propria vita da parte di Gesù (cf. 10,45). La donna guarita è entrata nella stessa logica che guida la
vita del Cristo.
Gesù libera, guarisce, resuscita per rendere l'uomo capace di servizio e di un servizio duraturo, come
appare dal verbo greco all'imperfetto (continuità col passato).
Il servizio inoltre non è solo per Gesù ma per tutti! Ed è un servizio di libertà: la donna supera le rigide
barriere religiose e sociali che impedivano ad una donna di servire un rabbino a tavola, se costui era
circondato dai suoi discepoli.
vv. 32-34 : In questi versetti si ha un sommario dell'attività di Gesù e notiamo come per ben tre volte
appaia il termine «demonio» che ritroveremo ancora ai v. 39.
E' una delle preoccupazioni maggiori di Gesù quella di liberare gli uomini dal potere del male: Lui infatti
è stato presentato come il più forte, l’ ischyrós (cf. 1,7) e la sua lotta durante la permanenza nel deserto è
contro le tentazioni del satana (Mc 1,12-13).
In questi vv. appare per la prima volta il cosiddetto segreto messianico per il quale Gesù impone a tutti:
demoni, miracolati, discepoli il silenzio sulla sua persona,
vv. 35-39: anche se temporalmente è iniziata un'altra giornata di Gesù, dal punto di vista narrativo anche
questo momento, la preghiera nella notte, fa un tutt'uno con la "giornata di Cafarnao". La preghiera solitaria
di Gesù al mattino presto esprime la fedeltà all’insegnamento biblico che invita il credente a prolungare
la preghiera lungo la notte («Benedico il Signore che mi ha dato consiglio; anche di notte il mio animo
mi istruisce» Sal 15,7; «Ecco, benedite il Signore, voi tutti, servi del Signore; voi che state nella casa del
Signore durante la notte» Sal 133,1) e a desiderare di essere in preghiera al sopraggiungere del nuovo
giorno («Svégliati, mio cuore, svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l'aurora» Sal 56,9).
A differenza di Luca, in Marco gli accenni alla preghiera di Gesù sono pochi. Solo tre volte infatti
l'evangelista Marco menziona la preghiera di Gesù: qui, 1,35; 6,46 all'inizio della notte dopo la
moltiplicazione dei pani; 14,36ss la notte del Getsemani. A queste si possono aggiungere le parole di
Gesù sulla croce. Solo pochi cenni, ma posti in contesti importanti.
All'alba Gesù si alza e si reca in un luogo deserto, per poter finalmente raccogliersi da solo a pregare il
Padre (Mc 1,35). Questo è ancora un’insegnamento, poiché per pregare occorre tornare in se stessi, e
quindi occorre "entrare nella propria stanza e chiudere la porta" alle impressioni e pressioni esterne, e
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pregare il Padre (Mt 6,6, preambolo al "Padre nostro"). I Padri spiegano che questa stanzetta misteriosa
significa salire sulla Croce con il Signore e pregare insieme con Lui.
Simone e gli altri di questo non sono contenti. La folla fa pressione su loro, ed essi cercano il Signore e
Lo trovano (Mc 1,36), e perfino Lo sollecitano con un rimprovero: “Tutti Ti cercano..." (Mc 1,37). Certo,
le necessità della povera folla sono penose e infinite, ma il Signore adesso è cercato solo perché è
considerato come il guaritore a disposizione, pronto e gratuito.
«quelli che erano con lui»: Alcune traduzioni preferiscono «i suoi compagni». La nostra traduzione,
anche se più ingombrante, mantiene l'ambiguità dell'originale che non chiarisce se quelli al seguito
fossero i quattro discepoli (1,29) o un gruppo più ampio della famiglia di Simone. Un'analoga espressione
e ambiguità si trova in 3,21 (i suoi «familiari»: letteralmente «quelli attorno a lui»).
«si misero sulle sue tracce»: Il greco katadiṓkō ha la connotazione di «inseguire» in un senso ostile. Nei
LXX è usato per l'inseguimento degli Israeliti da parte dell'esercito del faraone (Es 14,4.8.9.23) e nei
salmi è molto frequente per l'inseguimento del giusto sofferente da parte dei suoi nemici (Sal 7,6; 18,38;
31,16; 38,20; 69,27; 109,16.31; 119,84.86.150.161). Questa è la prima indicazione dei progressivi
malintesi tra Gesù e quelli che gli stanno più vicini - la sua famiglia (3,21-35) e i suoi discepoli - che si
manifesteranno nel corso della narrativa.
«Tutti ti cercano!»: Anche se questo ribadisce il motivo della fama di Gesù (vv. 32-34), il verbo
«cercare» (zētéō) assumerà in Marco una connotazione progressivamente negativa quando la gente
comincia a non capire Gesù (3,32; 8,11-12) o quando sono gli avversari che lo cercano (11,18; 12,12;
14,1; cfr. 3,6). L'idea che «tutti» cercano Gesù è un altro esempio della tecnica di universalizzazione usata
da Marco.
La risposta di Gesù è traversa e significante. Egli ha raccolto i primi discepoli e questi debbono andare
con Lui ormai nei paesi intorno. Lì il Signore deve predicare (kērýssō) l'Evangelo del Regno (vedi quanto
detto per la Domenica III, Mc 1,14-15), poiché per questo scopo preciso venne tra gli uomini (Mc 1,38).
E così va e predica a cominciare dalle sinagoghe (synagōgàs autōō̂n si noti il “loro”), per l'intera Galilea e ancora a recuperare il Regno al Padre, espellendo i demoni e il loro regno (M n si noti il “loro”), per l'intera Galilea e
ancora a recuperare il Regno al Padre, espellendo i demoni e il loro regno (Mc 1,39; vedi anche Mc 3,23-
27; e 1 Gv 5,19).
I testi eucologici
Antifona d'Ingresso Sal 94,6-7
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4/6
Venite, adoriamo il Signore,
prostrati davanti a lui che ci ha fatti;
egli è il Signore nostro Dio.
Al popolo raccolto nel santuario ma ancora non pienamente consapevole, l’orante del salmo, sacerdote e
profeta, rivolge l’esortazione di venire (è un imperativo) alla presenza del Signore per adorarlo, con
amore e con gioia, prostrati davanti al Creatore onnipotente di tutte le cose e in particolare del Suo
popolo(«È lui il nostro Dio e noi il popolo del suo pascolo, il gregge che egli conduce. Se ascoltaste oggi
la sua voce!» v. 7). Tutto questo perché Egli è il Dio dell’alleanza infinitamente fedele che attende il suo
popolo e questi deve attuare da parte sua i contenuti salvifici ricevuti per il suo unico bene. Ritroviamo
qui il vero senso del canto d’ingresso di ogni celebrazione: questa infatti deve cantare il Signore e le sue
meraviglie, non altre “strampalerie”.
Antifona alla Comunione Sal 106,8-9
Rendiamo grazie al Signore per la sua misericordia,
per i suoi prodigi verso i figli degli uomini; egli sazia
il desiderio dell'assetato e ricolma di beni l'affamato.
Ancora un salmo (AGC). I fedeli sono “oggi qui” chiamati dall’orante a celebrare il Signore per le sue
infinite misericordie e tra queste spicca tra tutte la cura personale del Signore che dà cibo divino alle
anime affamate rendendo gradevole la vita davanti a Lui.
Questi fatti si ripetono oggi sia dall’ascolto della Parola, sia dalla comunione dello Spirito che si attinge
alla Mensa dei Misteri, sia dall’appartenenza alla Chiesa, la Sposa del Signore, la Madre, l’Orante.
Colletta
Custodisci sempre
con paterna bontà la tua famiglia, Signore,
e poiché unico fondamento della nostra speranza
è la grazia che viene da te,
aiutaci sempre con la tua protezione.
Per il nostro Signore...
Oppure:
O Dio, che nel tuo amore di Padre
ti accosti alla sofferenza di tutti gli uomini
e li unisci alla Pasqua del tuo Figlio,
rendici puri e forti nelle prove,
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perché sull'esempio di Cristo
impariamo a condividere con i fratelli
il mistero del dolore,
illuminati dalla speranza che ci salva.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
La I preghiera chiede che la “famiglia di Dio” che sono i servi del Signore sia protetta dalla Divina grazia,
nella quale solamente confida.
La II preghiera è più curata e ritroviamo i temi sviluppati nella lectio: l’amore di Dio e la sua misericordia
per le necessità dell’umanità sofferente, che vengono redente perché unite alla sofferenza di Cristo sulla
Croce e alla sua Resurrezione.
lunedì 30 gennaio 2012
Abbazia Santa Maria di Pulsano
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lunedì 30 gennaio 2012

Riflessioni sulle letture 5 febbraio 2012 (Luciano Manicardi) monaco a Bose





Gb 7,1-4.6-7; Sal 146; 1Cor 9,16-19.22-23; Mc 1,29-39




Il confronto con la malattia, con il proprio corpo malato (Giobbe) e con i corpi segnati da malattia di altri uomini e donne (Gesù): questo il tema che unifica la pagina di Giobbe e quella evangelica.
E anzitutto emerge la legittimità del linguaggio di protesta e di contestazione da parte dell’uomo quando si trova nella situazione di malattia. Giobbe si ribella alla situazione di disgrazia che si è abbattuta su di lui e grida a Dio la propria rabbia. Giobbe arriverà a bestemmiare Dio, mostrerà aggressività verso i suoi amici che si rivelano in realtà nemici, “medici da nulla”, ma non conforma il proprio discorso a quello teologicamente corretto dei suoi amici. Giobbe osa esprimere ciò che sente. E Dio stesso, dirà Gb 42,8, gradisce maggiormente le sue invettive che le prediche dei suoi amici. Vi è una legittimità per il malato, nella sua sofferenza, di esprimere una reazione anche di collera, anche irrazionale.
In verità, quell’urlo è la maniera con cui il malato cerca di dirsi nella malattia, cerca di esprimere ciò che sta avvenendo alla propria vita. Ed è un momento positivo e vitale in quanto è il primo passo di un possibile cammino di guarigione, o quanto meno di assunzione della malattia: il malato lotta, chiede “perché?”, inveisce, non si rassegna, non la dà vinta al male. Questa presa di parola di fronte al male che invade il proprio corpo non va soffocata da chi sta accanto al malato con esortazioni al silenzio o a “non dire così” o a non disturbare, ma va accolta come un momento importante del faticoso processo di assunzione della crisi esistenziale introdottasi nella vita dell’uomo. Come dice ancora Giobbe: “Per il malato c’è la lealtà degli amici, anche se rinnega l’Onnipotente” (Gb 6,14); “per il malato c’è la pietà degli amici, anche quando Dio si mette contro di lui” (Gb 19,21).
L’incontro di Gesù con i malati, presentato nella pagina evangelica anche mediante un sommario che parla dell’attività di cura e di guarigione dei sofferenti come di un’attività consueta di Gesù (cf. Mc 1,32-34), è istruttivo per il discorso spirituale cristiano circa malattia e sofferenza. Gesù non predica rassegnazione, non chiede di offrire la sofferenza a Dio, non dice mai che la sofferenza di per sé avvicini maggiormente a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici. Gesù invece lotta contro il male, cerca di farlo arretrare, di ridare salute all’uomo. Egli si presenta come “medico” (Mc 2,17), attualizzando in sé la potenza del Dio il cui nome è “Colui che ti guarisce” (Es 15,26). E soprattutto l’attività di cura e guarigione che Gesù compie sta all’interno della finalità prima della sua missione: “predicare il vangelo” (cf. Mc 1,38; 1,14), annunciare il Regno di Dio: le guarigioni operate da Gesù appaiono così vangelo in atti e profezia del Regno di Dio. La malattia diviene pertanto, in una prospettiva di fede, un possibile luogo di vangelo.
Gesù non si lascia travolgere dalle folle che vogliono guarigioni, ma cerca e trova spazio e tempo di solitudine e di silenzio per pregare. E sa porre un limite all’attività, sa dire dei no, non si lascia sedurre dal fatto che “tutti lo cercano”. Gesù si rifiuta di divenire un fornitore di prestazioni terapeutiche e sa anche sottrarsi alle richieste che provengono dalla gente. I gesti che egli compie sono sacramentali, sono trasparenza dell’azione divina, nella misura in cui egli vive la sua missione non tanto cercando di soddisfare i bisogni di coloro cui è inviato, quanto nutrendo la relazione con colui che l’ha inviato. Per questo Gesù prega e rivendica il primato dell’annuncio della parola sull’operare il bene che pure è una caratteristica del suo agire (cf. At 10,38). Del resto: da dove attinge Gesù la sua forza? Da dove attinge la pazienza, la dedizione, l’abnegazione, lo spendersi? Da dove, se non dalla relazione nutrita quotidianamente con il Padre?

LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola

Nel dolore è deposto un seme di eternità Gianfranco Ravasi, L'Osservatore Romano, 10.2.10





L'11 febbraio di 25 anni fa Giovanni Paolo II pubblicava la lettera apostolica Salvifici doloris, contenente una vasta e appassionata trattazione di uno dei temi più laceranti dell'esperienza umana, quello della sofferenza. I 31 paragrafi di quel documento erano intessuti di rimandi alla Bibbia, «il libro della storia dell'uomo» e quindi «il grande libro sul dolore», delineato in tutte le sue iridescenze oscure ma anche nei suoi squarci di luce e di speranza. Certo, come affermava Thomas S. Eliot nei suoi Quattro quartetti: «people change, and smile: but the agony abides» («la gente cambia, riesce a sorridere, ma l'agonia-lotta della sofferenza permane»). Essa è simile a una roccia contro la quale è facile anche sfracellarsi. Georg Büchner, uno dei più intensi scrittori dell'Ottocento tedesco, nel suo dramma La morte di Danton (1835) si chiedeva: «Perché soffro?». E concludeva: «Questa è la roccia dell'ateismo».
Uno degli approdi estremi a cui può condurre l'esperienza del dolore, soprattutto del dolore innocente, è appunto quello della ribellione, dell'apostasia, del rifiuto di Dio e dell'uomo. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov dove Dostoevskij s'interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l'armonia con la sofferenza». Per millenni l'umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l'antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del «papiro di Berlino 3024» (2200 prima dell'era cristiana), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L'accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall'attacco dell'«ateismo» che fa leva proprio sul dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (c. 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella regione tenebrosa della sofferenza personale che si confrontano le religioni e gli agnosticismi. Emblematica è l'affermazione del pensatore ateo francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell'umanità, ricorrendo appunto a quella «teodicea» a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo - accanto al Dio buono e giusto - un'altra divinità negativa e ostile, un dio del male. Si è appellato alla cosiddetta «teoria della retribuzione», per altro ben attestata anche nella Bibbia: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un'espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell'innocente). Si riconoscerebbe, in tal modo, una sorta di funzione catartica al dolore. Per dirla con lo scrittore americano Saul Bellow, nel suo romanzo Il re della pioggia (1959), «la sofferenza è forse l'unico mezzo per rompere il sonno dello spirito». Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore Albert Camus osservava: «C'è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un'apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell'essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche. In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Anche la Bibbia si trova di fronte a questo mostro proteiforme che in tutte le culture, pur essendo tematizzato in modo astratto, è declinato soprattutto a livello esperienziale, individuale, sociale, cosmico. Sempre in agguato è il rischio della semplificazione teoretica o del dogmatismo ideologico, come è ben attestato dalla polemica di Giobbe nei confronti degli amici «teologi», capaci solo di «raffazzonare menzogne» intonacando i muri delle loro costruzioni ideali (13, 4), pronti a elaborare innocui «decotti di malva» (6, 6) e a rivelarsi come «consolatori fastidiosi» (16, 2). Proprio per questo la Bibbia non offre mai una teoria definitiva, unitaria e sistematica sul tema del male ma cerca di gettare luce su questo groviglio oscuro e soprattutto di individuare qualche itinerario di senso e di redenzione. Proprio in capite alle Scritture c'è subito una considerazione che ribalta la tradizionale impostazione della teodicea. Prima di interpellare Dio per le sue «responsabilità», i capitoli 2-3 della Genesi ci invitano a interrogare l'uomo, la sua libertà e coscienza perché un'ampia porzione del male disseminato nella storia ha una precisa sorgente umana. In quelle due pagine, costruite a dittico, da un lato si delinea il progetto della creazione e della storia secondo il Creatore: armonia dell'umanità con Dio nel dialogo e nel comune «respiro» interiore (nishmat hajjim di 2, 7 è, di per sé, non tanto l'alito vitale ma la coscienza morale), armonia dell'umanità con le altre creature, simboleggiate negli animali, armonia dell'uomo col suo simile, incarnato nella donna, «carne della mia stessa carne» (2, 23). D'altro lato, nel capitolo 3, ecco apparire il progetto alternativo ordito dall'uomo che ha deciso di definire in proprio «la conoscenza del bene e del male»: Dio diventa un estraneo, relegato nel suo Eden trascendente; la terra è devastata e, ridotta a deserto, produce solo «spine e cardi» (3, 18); la donna, cioè il prossimo, è «dominata» dall'uomo che prevarica su di essa (3, 16). Le scelte libere umane, quando si pongono in contrasto con la morale trascendente, generano sofferenza, morte e male. È per questo che i sapienti di Israele ribadiscono con chiarezza la tesi della responsabilità umana: «Non dire: Mi sono ribellato per colpa del Signore, perché ciò che egli detesta non devi farlo (...) Egli da principio creò l'uomo e lo lasciò in balìa del suo volere (...) Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua: là dove vuoi stenderai la mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Siracide, 15, 11-17). Similmente il libro della Sapienza non esiterà ad affermare che «Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c'è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra» (1, 13-14). Delineato questo primo percorso nell'orizzonte del male, non si può, però, ignorare un fatto che il filosofo francese Philippe Nemo ha definito come «l'eccesso del male»: c'è, infatti, un male che «eccede» la pura e semplice responsabilità umana individuale e sociale. È significativo che questa locuzione sia stata coniata dal filosofo per un suo libro su Giobbe. Questo celebre personaggio biblico, protagonista di una delle opere più alte della stessa letteratura universale, si scontra appunto con un male assurdo, che non può essere riportato alle deviazioni morali dell'uomo né che può essere annullato nella tesi che gli «amici» - incarnazione della teologia tradizionale - gli oppongono come spiegazione risolutiva. Si tratta di quella «teoria della retribuzione» a cui sopra si è accennato e che altro non è che un ricorso al giudizio divino sulla responsabilità peccaminosa dell'uomo e, quindi, un rientro per altra via nel percorso precedentemente descritto. Certo, arduo è definire quale sia il tracciato ideale di Giobbe il cui discorso procede in modo ramificato, poetico e simbolico. Ma è indubbio che egli, in pagine grondanti ribellione, protesta e interrogazione, dichiara che non è sufficiente l'uomo a spiegare un certo tipo di male: egli vuole, infatti, coinvolgere Dio in modo diretto nella soluzione del male enigmatico ed eccedente la ragione. E Dio accetta di deporre in questa sorta di processo al quale la vittima del male ha voluto fosse convocato. C'è un aspetto rilevante del male che non può essere «razionalizzato» e quindi Giobbe ha ragione nel protestare (si veda 42, 7): il male urla con tutto il suo scandalo contro la mente dell'uomo, il suo scandalo è accecante. Ma Dio rivela (è, quindi, frutto di una conoscenza che avviene su un altro «canale» di intuizione) all'uomo che esiste una 'esah (38, 2), cioè un «progetto», una razionalità trascendente, da mistero, superiore e totalizzante. Giobbe, a questo punto, è contemporaneamente teso verso la rivolta e la disperazione a cui lo conduce «logicamente» la sua intelligenza di fronte all'«eccesso del male», ma è spinto anche verso la speranza e l'inno di lode a cui lo conduce «misticamente» la rivelazione divina, cioè la conoscenza di fede. È in questo territorio nuovo che può essere introdotto un altro percorso, quello che è aperto da una figura emblematica, il «Servo del Signore», presente nel libro di Isaia, in particolare nel capitolo 53, e ripreso dal Nuovo Testamento in chiave cristologica. C'è un male-dolore che piomba sul giusto - e qui siamo nell'ambito stesso di Giobbe - ma questa irruzione diventa sorgente di liberazione, vita e salvezza per gli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53, 5). È interessante citare al riguardo un passo delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via di Franz Kafka perché illustra in modo «laico» questa comunione nel dolore come via per la crescita comune e la trasformazione solidale dell'umanità. «Tutte le sofferenze che sono attorno a noi dobbiamo patirle anche noi. Noi non abbiamo un solo corpo, ma abbiamo una crescita, e questo ci conduce attraverso tutti i dolori, in questa o quella forma. Come il bambino si evolve, attraverso tutte le età della vita, fino alla vecchiaia e alla morte (e ogni singolo stadio appare fondamentalmente irraggiungibile al precedente, sia nel desiderio che nella paura), così ci evolviamo anche noi (legati all'umanità non meno profondamente che a noi stessi) attraverso tutte le pene di questo mondo». La strada di solidarietà delineata dal Servo del Signore ci prepara ad accostarci al Nuovo Testamento, in particolare ai Vangeli, ove il male sembra incombere come una presenza drammatica ma non tragica. Mai come in questo caso dobbiamo segnalare i limiti di questa nostra analisi che vuole solo indicare un tracciato da seguire poi all'interno dei testi e attraverso una ricerca ben più ampia e sistematica. È significativo un fatto: gli esegeti sono convinti che uno dei «protovangeli», cioè dei primi testi codificati - a noi non pervenuti ma ai quali attinsero gli evangelisti al punto tale da intravederne una presenza in filigrana ai loro racconti - dalla tradizione cristiana delle origini fu proprio una narrazione della passione e morte di Cristo. Il male fisico e morale, la morte e lo scandalo della sofferenza furono subito considerati centrali nell'annunzio cristiano, anche se illuminati dal fulgore della Pasqua. Diversamente dalle cosiddette «Vite degli eroi», molto popolari nel mondo greco-romano, il cristianesimo ha dato una prevalenza sorprendente proprio alla sconfitta del suo fondatore sotto l'impeto del male prima ancora di celebrarne i successi. Questo aspetto è capitale all'interno della teologia dell'Incarnazione. L'Incarnazione è, infatti, la scelta di Dio - che per sua natura è oltre la morte, il dolore, il male - di penetrare e assumere in sé la sarx, cioè la «carne», il limite creaturale, così da condividerla e redimerla dall'interno. In Cristo, Dio e uomo, non si ha tanto la giustificazione o la decifrazione dello scandalo del male in un sistema ideologico o etico coerente. Si ha, invece, la condivisione per amore, che non è però una mera adesione eroica che ha come sbocco l'immolazione della croce, ultimo e conclusivo approdo. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, egli assumendo il male, il dolore e la morte lascia in essi un seme di divinità, di eternità, di luce, di salvezza. L'amore divino non ci protegge «da» ogni male ma ci sostiene «in» ogni male facendocelo superare. L'esperienza del male rimane angosciante come un carcere. L'ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: esso non è sbarrato per sempre, in un'immanenza che si consuma in se stessa, ma viene aperto per un «oltre». Questo «oltre» è illustrato in modo nitido sia attraverso i miracoli compiuti da Cristo sia attraverso la sua Pasqua. La Pasqua è l'inaugurazione di questo riscatto che dovrà distendersi passo per passo durante tutto l'itinerario della storia così da redimerla e far sì che il duello col male e la morte sia condotto a termine (1 Corinzi, 15, 54-57) e «Dio sia tutto in tutti» (15, 28). Alla meta della storia il cristianesimo pone la Pasqua universale umana e cosmica. Essa è stata inaugurata da Cristo con la sua sofferenza, morte e Pasqua. Allora si compirà quello che l'Apocalisse delinea nel suo affresco della Gerusalemme nuova e perfetta: «Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate» (21, 4). Mentre cammina nella storia, il cristiano non ignora il male e il dolore ma sa che in esso Dio - attraverso l'incarnazione del Figlio suo - ha deposto un seme di eternità e di salvezza che cresce silenzioso, per diventare «stelo, spiga e chicco pieno di spiga» (Marco, 4, 28). Noi, però, vorremmo ora - molto più modestamente - indicare due conclusioni sulla base delle considerazioni finora sviluppate, pur consapevoli comunque del mistero che la sofferenza coinvolge. Eschilo nei Persiani pone l'eterna domanda che sale dal respiro di dolore dell'umanità: «Io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell'ombra chi mi ascolterà?» (v. 635). La prima considerazione vuole porre l'accento sulla simbolicità del dolore. Come è noto, il termine «simbolo» deriva dal greco syn-ballein, cioè «mettere insieme»: è il tentativo di unire in sé più significati nella stessa realtà. Ebbene, la sofferenza è di sua natura simbolica; è, come dice il titolo di una suggestiva opera autobiografica della scrittrice americana Susan Sonntag, la metafora di un'esperienza più alta (Illness as metaphor, 1978). È indice di un «male oscuro» e radicale, per usare il titolo di un romanzo del nostro Giuseppe Berto (1964). Kafka nei suoi Diari annotava: «Sono arrivato alla convinzione che la tubercolosi non sia una malattia particolare, un male degno di questo nome, ma soltanto una maggiore intensità del germe generale della morte, la mia ferita, della quale la lesione ai polmoni è solo un simbolo». Similmente, anche se con maggior enfasi, Gabriele D'Annunzio nel suo Libro segreto (1935) dichiarava: «So che le cause del mio male sono nell'oscurità del mio spirito che a poco a poco io rischiaro guarendomi. V'è, se io sono infermo, un fallo di armonia non solo nella mia carcassa ma nella mia anima. Ho in mente che qualcuno abbia considerato la malattia come un problema musicale. Ma forse son io quegli». La sofferenza non è mai solo fisica, ma coinvolge «simbolicamente» corporeità e spiritualità, la «carcassa» e l'«anima». Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità ma può anche trasfigurare, «distillando» come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi. Il grande mistico medievale Meister Eckhart (1260 ca.-1327) affermava che «nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell'aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l'anima più dell'aver sofferto». Proprio per questa dimensione simbolica del soffrire umano, l'approccio nei confronti del malato e del sofferente in genere non può essere parziale. Da un lato, è indubbia la necessità della terapia medica: dopo tutto, quasi metà del Vangelo di Marco è un racconto di guarigioni operate da Cristo al punto tale che un teologo, René Latourelle, ha scritto che «i Vangeli senza miracoli di guarigione sono come l'Amleto di Shakespeare senza il principe». D'altro lato, la pura biologicità e la tecnica asettica sono insufficienti ed esigono un incontro, un dialogo, un supplemento di umanità. Mai come nel dolore ci si accorge di non «avere» un corpo ma di «essere» un corpo che è segno di una realtà interiore più profonda. Sono suggestive dal punto di vista simbolico le citate narrazioni evangeliche delle guarigioni dei lebbrosi: come si diceva, contravvenendo tutti i divieti rituali e sanitari del tempo, Gesù «li tocca» e con questo gesto vuole quasi assumere su di sé il male, condividendone il peso e l'amarezza. Mai come nel dolore l'uomo s'accorge della falsità delle parole di conforto dette in modo estrinseco e senza autentica partecipazione. Anzi, il malato scopre che, alla fine, egli rimane solo col suo male. È lo stesso Giobbe a descrivere in modo pittoresco e persino barocco questo isolamento quando scopre che «a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre» (19, 17). Nel tempo del dolore la verità non riesce a patire contraffazioni. È, allora, in questo momento che deve scattare una specie di alleanza tra paziente e medico - infermiere, parente, assistente, cappellano e così via - tra chi soffre e chi lo vuole sostenere. È questa la seconda considerazione che vogliamo proporre. Nel racconto biblico della creazione della donna si dichiara che l'uomo supera la sua solitudine solo quando trova «un aiuto che stia di fronte» (ke-negdô), che sappia quindi avere gli occhi negli occhi dell'altro, che non troneggi sopra la creatura come una divinità ma che non sia neppure inferiore e inetto come un animale. Questa solidarietà è difficile da creare ma è indispensabile. La conoscenza tra chi cura e chi è curato dev'essere meno fredda e distaccata di quanto spesso accade: dev'essere fatta di comunicazione genuina, di dialogo, di ascolto, di verità detta con partecipazione. Il sofferente deve sentirsi rispettato anche nel momento della debolezza, quando il pianto inonda le sue guance ed è noto che esiste sempre un pudore nel mostrare le lacrime. Dev'essere aiutato a liberarsi dei condizionamenti di una cultura della «forza», di un «maschilismo» vanamente eroico e ad accettarsi anche nel tempo della prova, come affermava Baudelaire: «Signore, la migliore testimonianza che noi possiamo dare della nostra dignità è questo ardente singhiozzo che rotola di età in età e viene a morire ai bordi della tua eternità». Anche Cristo di fronte alla notte della passione implora di essere liberato dal calice della sofferenza (Marco, 14, 36) e confessa di avere «l'anima triste fino alla morte» (Marco, 14, 34), scoprendo però con amarezza di non avere accanto la solidarietà affettuosa dei suoi discepoli: «Così non siete stati capaci di vegliare una sola ora con me?» (Matteo, 26, 40). Bisogna, allora, ribadire una parola tanto abusata ed equivocata, la cui vera declinazione nell'esistenza è sempre ardua, cioè l'amore. Solo se circondato d'amore, il malato riesce ad accettarsi e a superare anche il pudore che è la consapevolezza - come affermava il filosofo Max Scheler - di «un certo squilibrio, di una certa disarmonia tra il significato e le esigenze della sua persona spirituale, da una parte, e i suoi bisogni corporei, dall'altra». In questa luce ci sembra suggestiva una parabola che vorremmo porre a suggello di queste riflessioni molto limitate su un orizzonte immenso e incandescente, incapaci di fissare in un profilo sintetico il volto proteiforme del male. Anche per il credente, il dolore rimane una cittadella il cui centro non può essere completamente espugnato. Come diceva il poeta cattolico francese Paul Claudel, «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza». A questo proposito ci affidiamo a una figura «laica» come lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972). A lui era nata nel 1942 una figlia, Luisa, che già a otto anni aveva iniziato a rivelare un'encefalopatia epilettoide e che è vissuta fino al 1992, curata amorosamente dalla madre, Rosetta Flaiano. Ebbene, lo scrittore abruzzese nel 1960 aveva pensato a un romanzo-film di cui è rimasto solo l'abbozzo. In esso si immaginava il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter ma, come un tempo, attento solo agli ultimi e ai malati. Ed ecco, «un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest'uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli». La scena, come è evidente, si carica di tutta la tenerezza che, con pudore e amore, lo scrittore aveva riversato sulla sua creatura sofferente. In quell'uomo Flaiano vedeva se stesso che s'accostava a Gesù per chiedere non il prodigio ma il dono altissimo della condivisione e della comunione nella sofferenza. E forse, quando in una notte terribile dovette ricoverare la figlia tormentata dagli «orribili assalti del male che la torcevano e la irrigidivano, con una mano tesa verso l'alto», Flaiano padre implorò quel bacio sulla sua figlia, un bacio che certamente non fu negato.


http://alzogliocchiversoilcielo.blogspot.com/2010/02/nel-dolore-e-deposto-un-seme-di.html

domenica 29 gennaio 2012

“Discese agli inferi”: la potenza della morte sacrificale del Cristo di GIOVANNI PAOLO II





1. Nelle catechesi più recenti abbiamo spiegato, con l'aiuto di testi biblici, l'articolo del Simbolo degli apostoli che dice di Gesù: “Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso... e fu sepolto”. Non si trattava solo di narrare la storia della passione, ma di penetrare la verità di fede che vi è racchiusa e che il Simbolo ci fa professare: la redenzione umana operata da Cristo col suo sacrificio. Ci siamo particolarmente soffermati nella considerazione della sua morte e delle parole da lui pronunciate durante l'agonia sulla Croce, secondo la relazione che ce ne hanno tramandato gli evangelisti. Tali parole ci aiutano a scoprire e a capire maggiormente in profondità lo spirito con cui Gesù si è immolato per noi. Quell'articolo di fede si conclude, come abbiamo appena ripetuto, con le parole: “...e fu sepolto”. Sembrerebbe una pura annotazione di cronaca: è invece un dato il cui significato rientra nell'orizzonte più ampio di tutta la cristologia. Gesù Cristo è il Verbo che si è fatto carne per assumere la condizione umana e farsi simile a noi in tutto, eccetto che nel peccato (cf. Eb 4,15). E diventato veramente “uno di noi” (cf. “Gaudium et spes”, 22), per potere operare la nostra redenzione, grazie alla profonda solidarietà instaurata con ogni membro della famiglia umana. In quella condizione di uomo vero, ha subìto interamente la sorte dell'uomo, fino alla morte, alla quale consegue abitualmente la sepoltura, almeno nel mondo culturale e religioso nel quale egli si è inserito ed è vissuto. La sepoltura di Cristo è dunque oggetto della nostra fede in quanto ci ripropone il suo mistero di Figlio di Dio che si è fatto uomo e s'è spinto fino all'estremo della vicenda umana.



2. A queste parole conclusive dell'articolo sulla passione e morte di Cristo, si ricollega in certo modo l'articolo successivo che dice: “Discese agli inferi”. In tale articolo si riflettono alcuni testi del nuovo testamento che vedremo subito. E bene però premettere che, se nel periodo delle controversie con gli ariani la formula suddetta si trovava nei testi di quegli eretici, essa però era stata introdotta anche nel cosiddetto “Simbolo di Aquileia”, che era una delle professioni della fede cattolica allora vigenti, redatta alla fine del IV secolo (cf. Denzinger-Schönmetzer, 16). Essa entrò definitivamente nell'insegnamento dei Concili col Lateranense IV (1215) e col II Concilio di Lione nella professione di fede di Michele Paleologo (1274). Va inoltre chiarito in partenza che l'espressione “inferi” non significa l'inferno, lo stato di dannazione, ma il soggiorno dei morti, ciò che in ebraico era detto “sheol” e in greco “hades” (cf. At 2,31).



3. I testi del nuovo testamento, dai quali è derivata quella formula, sono numerosi. Il primo si trova nel discorso di Pentecoste dell'apostolo Pietro, il quale, richiamandosi al Salmo 16 per confermare l'annunzio della risurrezione di Cristo, ivi contenuto, afferma che il profeta Davide “previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi né la sua carne vide corruzione” (At 2,31). Un significato simile ha la domanda che pone l'apostolo Paolo nella lettera ai Romani: “Chi discenderà nell'abisso? Questo significa far risalire Cristo dai morti” (10,7). Anche nella lettera agli Efesini, vi è un testo che, sempre in relazione a un versetto dal Salmo 69: “Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Sal 69,19), pone una domanda significativa: “Ma che significa la Parola "ascese" se non che prima era disceso nelle parti inferiori della terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli per riempire tutte le cose” (Ef 4,8-10). In questo modo l'autore sembra collegare la “discesa” di Cristo nell'abisso (in mezzo ai morti), di cui parla la lettera ai Romani, con la sua ascensione al Padre, che dà inizio al “compimento” escatologico di ogni cosa in Dio. A questo concetto corrispondono anche le parole messe in bocca a Cristo: “Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,17-18).



4. Come si vede dai testi riportati, l'articolo del Simbolo degli apostoli “discese agli inferi”, trova il suo fondamento nelle affermazioni del nuovo testamento sulla discesa di Cristo, dopo la morte sulla croce, nel “paese della morte”, nel “luogo dei morti”, che nel linguaggio dell'antico testamento era chiamato l'“abisso”. Se nella lettera agli Efesini si dice “nelle parti inferiori della terra”, è perché la terra accoglie il corpo umano dopo la morte, e così accolse anche il corpo di Cristo spirato sul Golgota, come descrivono gli evangelisti (cf. Mt 27,59s et par; Gv 19,40-42). Cristo è passato attraverso un'autentica esperienza della morte, compreso il momento finale che generalmente fa parte della sua economia globale: è stato deposto nel sepolcro. E una conferma che la sua fu una morte reale, e non solo apparente. La sua anima, separata dal corpo, era glorificata in Dio, ma il corpo giaceva nel sepolcro allo stato di cadavere. Durante i tre giorni (non completi) passati tra il momento in cui “spirò” (cf. Mc 15,37) e la risurrezione, Gesù ha sperimentato lo “stato di morte”, cioè la separazione dell'anima dal corpo, nello stato e condizione di tutti gli uomini. Questo è il primo significato delle parole “discese agli inferi”, legate a ciò che lo stesso Gesù aveva preannunziato quando, riferendosi alla storia di Giona, aveva detto: “Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,40).



5. Proprio di questo si trattava: il cuore, o il seno della terra. Morendo sulla croce, Gesù ha rimesso il suo spirito nelle mani del Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Se la morte comporta la separazione dell'anima dal corpo, ne consegue che anche per Gesù si è avuto da una parte lo stato di cadavere del corpo, e dall'altra la piena glorificazione celeste della sua anima sin dal momento della morte. La prima lettera di Pietro parla di questa dualità, quando, riferendosi alla morte subita da Cristo per i peccati, dice di lui: “Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito” (3,18). Anima e corpo si trovano dunque nella condizione terminale rispondente alla loro natura, anche se sul piano ontologico l'anima tende a ricomporre l'unità col proprio corpo. L'Apostolo però aggiunge: “In spirito (Cristo) andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,19). Questa sembra essere una rappresentazione metaforica dell'estensione della presenza del Cristo crocifisso anche a coloro che erano morti prima di lui.



6. Pur nella sua oscurità, il testo petrino conferma gli altri quanto alla concezione della “discesa agli inferi” come adempimento, fino alla pienezza, del messaggio evangelico della salvezza. E Cristo che, deposto nel sepolcro quanto al corpo, ma glorificato nella sua anima ammessa alla pienezza della visione beatifica di Dio, comunica il suo stato di beatitudine a tutti i giusti di cui, quanto al corpo, condivide lo stato di morte. Nella lettera agli Ebrei si trova descritta l'opera di liberazione dei giusti da lui compiuta: “Poiché... i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (2,14-15). Come morto - e nello stesso tempo come vivo “per sempre” - Cristo ha “potere sopra la morte e sopra gli inferi” (cf. Ap 1,17-18). In questo si manifesta e realizza la potenza salvifica della morte sacrificale di Cristo, operatrice di redenzione nei riguardi di tutti gli uomini: anche di coloro che erano morti prima della sua venuta e della sua “discesa agli inferi”, ma che furono raggiunti dalla sua grazia giustificatrice.



7. Nella prima lettera di san Pietro leggiamo ancora: “...è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo subìto, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello spirito” (4,6). Anche questo versetto, pur non essendo di facile interpretazione, ribadisce il concetto della “discesa agli inferi” come l'ultima fase della missione del Messia: fase “condensata” in pochi giorni dai testi che tentano di farne una presentazione accessibile a chi è abituato a ragionare e a parlare in metafore temporali e spaziali, ma immensamente vasto nel suo significato reale di estensione dell'opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, anche di coloro che nei giorni della morte e della sepoltura di Cristo giacevano già nel “regno dei morti”. La parola del Vangelo e della croce tutti raggiunge, anche quelli appartenenti alle generazioni passate più lontane, perché tutti coloro che si sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione, anche prima che avvenisse l'evento storico del sacrificio di Cristo sul Golgota. La concentrazione della loro evangelizzazione e redenzione nei giorni della sepoltura vuole sottolineare che nel fatto storico della morte di Cristo s'innesta il mistero super-storico della causalità redentiva dell'umanità di Cristo, “strumento” della divinità onnipossente. Con l'ingresso dell'anima di Cristo nella visione beatifica in seno alla Trinità, trova il suo punto di riferimento e di spiegazione la “liberazione dalla prigione” dei giusti, che prima di Cristo erano discesi nel regno della morte. Per Cristo e in Cristo si apre davanti ad essi la libertà definitiva della vita dello Spirito, come partecipazione alla vita di Dio (cf. S. Thomae, “Summa theologiae” III, q. 52, a. 6). Questa è la “verità” che si può trarre dai testi biblici citati e che è espressa nell'articolo del Credo che parla di “discesa agli inferi”.



8. Possiamo dunque dire che la verità espressa dal Simbolo degli apostoli con le parole “discese agli inferi”, mentre contiene una riconferma della realtà della morte di Cristo, nello stesso tempo proclama l'inizio della sua glorificazione. E non solo di lui, ma di tutti coloro che per mezzo del suo sacrificio redentore sono maturati alla partecipazione della sua gloria nella felicità del regno di Dio.

http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/07-2/GP891.html

Commento alle letture 29 gennaio 2012 (G.Bruni)Giancarlo Bruni, (1938) appartiene all'Ordine dei Servi di Maria e nello stesso tempo è monaco a Bose

Letture:Dt 18,15-20; 1 Cor 7,32-35; Mc 1,21-28.
«Insegnava loro come uno che ha autorità»

1. Gesù l’annunciatore della vicinanza regale di Dio è la vicinanza regale di Dio, è il farsi prossimo in maniera compiuta di Dio alle attese del povero mondo. Una buona notizia che domanda accoglienza riconoscente e che pone in una nuova condizione, l’ambito dell’amore di Dio. Oggi i chiamati da Gesù entrano con lui nella sinagoga di una città di nome Cafarnao. Di sabato (Mc1,21). E assieme ai presenti nella sinagoga assistono a un primo e singolare porsi in atto della regalità di Dio in Gesù.

2. Sta scritto: «Entrato nella sinagoga… insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc1,21-22). Gesù è un maestro di sapienza nella cui parola il pensiero, il sentimento e il volere di Dio si rendono presenti in maniera diretta, vera, efficace e decisiva per chi ascolta. Con autorità appunto. Egli non appartiene alle scuole della interpretazione della volontà di Dio, egli è il dirsi e il dire di Dio, e questo lo contraddistingue dagli scribi: «Avete inteso…ma io vi dico» dirà analogamente il Gesù di Matteo. E il contenuto di tale volontà viene immediatamente raccontato dall’esorcismo che segue, l’ incontro-scontro tra Gesù e uno spirito impuro a cui è nota l’identità di Gesù: «Io so chi tu sei: il Santo di Dio!» (Mc1,24), e so perché ci sei: «Sei venuto a rovinarci» (Mc1,24). L’evangelista legge l’uomo come terreno di contesa tra uno spirito-demone detto impuro a motivo del suo appartenere alla sfera del male totalmente dedito a inserirvi l’uomo, e Gesù detto santo a motivo del suo appartenere alla sfera del bene totalmente dedito a inserirvi l’uomo. Dio in Gesù è venuto a rovinare chi rovina l’uomo, un chi annidato nell’uomo e di lui padrone (Mc1,23). Uno spirito impuro a cui Gesù ordina: «Taci! Esci da lui! E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (Mc 1,25-26). All’evangelista preme sottolineare tre cose. La prima consiste in una visione disincantata dell’uomo nel senso che il suo profondo può essere abitato, qualunque siano i nomi che gli si voglia attribuire, da forze oscure che lo alienano dalla propria verità muovendolo verso sentieri di menzogna, l’odio che genera morte (Gv 8,44s). La seconda è la proclamazione che Dio nel suo Santo,equivalente di Messia (Gv 6,69; At 3,14; 4,27.30), è più forte di ogni male, è potenza di Dio al cui «esci» segue l’»uscì». E in questo sta l ’insegnare con autorità, il proferire una parola che fa accadere quanto dice, parola che al contempo è ingiunzione di silenzio: «Taci», non è ancora giunto il tempo dei pieni svelamenti della identità di Gesù. Inoltre, detto per inciso, è bene che taccia ora e in ogni tempo una confessione di fede radicalmente sganciata dall’amore e dalla sequela. Lo spirito impuro è dottrinalmente perfetto, inappuntabile dal punto di vista dell’ortodossia cristologica, ed è diabolicamente perfetto nel volere lucidamente stravolgerla. Infatti confessare Gesù il Santo di Dio è proclamarlo traduzione della passione d’amore di Dio per l’uomo, cosa programmaticamente detestata dal male che fa di tutto per spegnerne la presenza e il messaggio nel cuore dell’uomo felice della rovina dell’uomo.Diabolico è il sapere ciò che è vero e il sapere di volere negarlo ad occhi aperti. In questa prospettiva la lotta tra Gesù il bene e il male è senza quartiere, e l’uomo ne è il diretto interessato. La terza cosa infine che Marco vuole sottolineare è lo stupore dei presenti nella sinagoga: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo dato con autorità» (Mc1,27). La novità di una parola che con autorità comanda a chi ha sempre comandato rendendo l’uomo panno sporco.
3. Questo avvenimento accadde di sabato, il giorno consacrato alla proclamazione della parola di Dio nella Legge e nei profeti, e in una sinagoga, il luogo del raduno assembleare per l’ascolto della parola di Dio; questo avvenimento accade oggi di domenica in ogni assemblea attraverso la lettura. Siamo ancora capaci di stupirci di una parola potente che ove accolta è in grado di dire «esci» al male oscuro che impedisce il dilatarsi e l’esprimersi in verità secondo le proprie potenzialità? Siamo ancora capaci di riconoscere in Gesù il medico della nostra interiorità malata? Il sole che chiede ospitalità nella zona d’ombra di ciascuno per guarirla dagli spiriti impuri che la abitano?Il culto di sé, del denaro, del successo, del possesso incontinente di corpi e di merci, del non senso, del demoniaco e ancora di sensi di colpa che straziano legando il presente a un passato che impedisce futuri diversi. Lista breve di un lungo elenco a cui è buona notizia un Dio che in Gesù viene a liberare il tuo cuore da ogni spirito impuro, da ogni pensiero, sentimento desiderio e volere non abitati dal sapersi e dal volersi presenza di bene per l’uomo. La qualità della cui vita dipende da chi e da che cosa lo abita.

sabato 28 gennaio 2012

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo






La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. E', infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l'anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.
Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall'amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell'universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.
La preghiera è luce dell'anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l'uomo. L'anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l'anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.
La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l'anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.
Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l'Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l'anima; chi l'ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.
Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza.



Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 6 sulla preghiera; PG 64, 462-466)

http://www.reginamundi.info/ss/sorres/

Foglietto 29 gennaio 2012 (Famiglie Visitazione)Fonte:dal Monastero di Bose

Marco 1,21-28
1) Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, aCafàrnao, insegnava: nei vangeli più volte si riferisce che Gesù prende laparola nelle sinagoghe. Lc 4,16 ci avverte che Gesù era solito partecipare disabato al culto della sinagoga di Nazareth. Anche i primi apostoli itinerantiiniziavano la loro predicazione nelle sinagoghe della diaspora e Atti 13,15racconta come i capi della sinagoga di Perge invitano Paolo a prendere laparola. Gesù dunque sceglie di iniziare la sua predicazione nel solco dellatradizione di Israele, in quella liturgia della parola, che dopo l’esilio, haassunto un ruolo di grande rilievo nel culto d’Israele.
2) Ed erano stupiti del suo insegnamento, egliinfatti insegnava loro come uno che ha autorità: in Mt 7,29 la stessa fraseviene attribuita a coloro che hanno finito di ascoltare il discorso dellamontagna. Qui Mc non riferisce il contenuto dell’insegnamento di Gesù, ma ilcentro dell’attenzione è l’autorità[lett: potere] di Gesù, nel momentoin cui inizia la proclamazione del vangelo di Dio.
3) Nella loro sinagoga vi era un uomoposseduto da uno spirito impuro: il racconto non ci dà informazioni inproposito, ma è improbabile che partecipasse al culto del sabato una personache potesse disturbare la liturgia. Dunque, come si dice sbrigativamente incerte occasioni, era una persona normale. Nel testo, d’altra parte, non c’è laparola posseduto, ma semplicemente un uomo in uno spirito impuro. Dunque,come in una messa domenicale dei nostri giorni, in mezzo alla gente c’èqualcuno che porta segretamente la pena di una infermità grave.

4) Cominciò a gridare: lo spirito che èdentro l’uomo non resiste alla parola del Signore, una parola di liberazione. La mia parola non è forse come il fuoco –oracolo del Signore – e come un martelloche spacca la roccia? (Ger 23, 29).
5) Io so chi tu sei, il santo di Dio: ildemonio sa perfettamente chi è l’uomo venuto da Narareth, dice la verità. Ma laverità non è sempre buona? Perché il Signore è così deciso (Taci!) nel troncare quel discorso? DiceS. Agostino (Commento a Giovanni, omelia6,21): «Gran cosa è la fede, ma non ti giova nulla se non hai la carità.Anche i demoni confessavano Cristo; credendo in lui senza amarlo, dicevano: che cosa c'è tra noi e te (Mc 1, 24)?Avevano la fede, ma non avevano la carità»
6) E lo spirito impuro, straziandolo egridando forte, uscì da lui: la liberazione di quell’uomo non è una magia,c’è un dramma in questa lotta ingaggiata da Gesù con il male. Il culmine diquesta battaglia sarà la morte in croce di Gesù, lo strazio di quell’uomo èun’anticipazione dello croce. Infattisiete stati comprati a caro prezzo. (1Cor, 6,20)
7) Che è mai questo? Un insegnamento nuovo,dato con autorità: la potenza dell’insegnamento di Gesù è testimoniatadalla liberazione appena avvenuta. Èuna parola che agisce, che compie quelloche dice.

Deuteronomio 18,15-20
1) Questo branosi inserisce negli avvertimenti di Mosè al popolo prima dell’ingresso nellaTerra Promessa. Là il popolo dovrà distinguersi dalle genti, che praticano ladivinazione e la magia (v 14 che precede il brano liturgico): queste pratichevolte a propiziarsi la divinità o a indagarne il volere, non si conciliano conl’Alleanza che è rapporto di fiducia nuziale tra Dio e il suo popolo Israele.
2) IlSignore tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, unprofeta pari a me: La figura del Profeta campeggia in tutto il brano. Èannunciato un profeta del quale Mosè è segno e tipo: sarà un profeta come Mosè che il Signore conosceva faccia a faccia (Dt34,10), che intercede e si fa carico delle colpe del popolo (Cfr. Nm 14,11 ss).Questa promessa si compie nel profeta Gesù come espressamente detto in Atti 3,18.22:Dio ha così compiuto ciò che avevapreannunciato per bocca di tutti i profeti… Il Signore vostro Dio faràsorgere per voi, dai vostri fratelli, un profeta come me: voi lo ascolterete intutto quello che egli vi dirà.
3) …a lui darete ascolto: “ascolta Israele”(Dt 5,1) è il primo grande comandamento che il popolo deve osservare. IlProfeta è il tramite scelto da Dio per trasmettere la sua Parola secondofedeltà e verità: abbiamo solidissima la parola dei profeti, alla quale fatebene a volgere l’attenzione come lampada che brilla in un luogo oscuro… non davolontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi dallo Spirito santoparleranno alcuni uomini da parte di Dio (2Pt 1,19-21).
4) Che ionon oda più la voce del Signore, mio Dio… perché non muoia: nessuno puòvedere Dio e restare in vita, l’uomo dopo il peccato di Adamo “è nudo”, si nascondee fugge (Gen 3,10) non può vivere alla presenza di Dio infinitamente giusto.
5) Quelloche hanno detto va bene, io susciterò loro un profeta… e gli porrò in bocca lemie parole: se al popolo non è possibile avvicinarsi a Dio, è il Signorestesso che si fa prossimo suscitando in mezzo al popolo il profeta a cuiaffidare la Sua Parola: il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e midisse: “ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca” (Cfr. Ger 1,9 e Is6).
6) Se qualcuno non ascolterà le parole che eglidirà in mio nome, io gliene domanderò conto: la Parola potente ed efficacedi Dio passa attraverso la piccolezza e la povertà del mediatore: chi non ascoltail profeta non ascolta il Signore e gliene sarà chiesto conto... fino alProfeta-Messia che ha pagato il conto per tutti: si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… èstato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Ilcastigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui (Is 53,4ss).
7) Ma ilprofeta… che parlerà in nome di altri dei… dovrà morire: il profetache millanta autorità da Dio per parlare a proprio titolo è falso profeta (Cfr.Dt 13,2-6). Il profeta che parla in nome di altre divinità non può essere graditoa Dio: egli parla una parola non autorevole che rende Dio un menzognero. La Paroladi Dio è efficace e si riconosce perché sempre opera ciò che dice (v. vv 21 e22 che seguono il brano liturgico); “Comela pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigatola terra, senza averla fecondata e fatta germogliare,… così sarà della parolauscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operatociò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is55,10.11).

1Corinzi 7,32-35
1) Io vorrei che foste senza preoccupazioni:la preoccupazione (meglio l'ansia) è prima di tutto un affronto alla grazia diDio. Con la Croce di Gesù, l'amore di Dio verso gli uomini, si è manifestato intutta la sua grandezza. Essere quindi preoccupati, ansiosi, è un po’ il nonavere fiducia nella grazia di Dio: noi a lui stiamo a cuore. Perciò io vidico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete,né per il vostro corpo, di quello che indosserete, la vita non vale forse piùdel cibo e il corpo più del vestito? guardate gli uccelli del cielo: nonseminano... ( Mt 6,25 ss)
2) Chi non è sposato si preoccupa delle cose delSignore... chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possapiacere alla moglie... la donna non sposata si preoccupa delle cose del Signore...la donna sposata si preoccupa delle cose del mondo: c'è quindi unapreoccupazione buona (quella dei non Sposati) e una preoccupazione cattiva(quella degli sposati?) Non pare. Anche il non sposato non deve essere ansioso;a parte ogni sforzo che egli compie da parte sua per piacergli, il Signore loama già. Così il matrimonio dove marito e moglie sanno che ogni sforzo perpiacersi sarebbe insufficiente se non fosse preceduto dalla continua benedizionedi Dio sulla loro unione: solo una corda a tre capi non si rompetanto presto (Qo 4,12).
3) questo lo dico per il vostro bene: ilbene è Gesù e il Vangelo vissuti nella propria carne nelle proprie condizioni enelle proprie relazioni: cercate anzitutto il regno di Dio e la suagiustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevidunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascungiorno basta la sua pena. (Mt 6,33ss).

SPIGOLATURE ANTROPOLOGICHE

È significativo che nel Vangelo secondo Marco il primo“miracolo” compiuto da Gesù sia la liberazione da uno “spirito impuro”.L’azione divina è, nella tradizione di fede ebraico-cristiana , sempreliberazione. Liberazione da un “male” che tiene prigioniera la condizioneumana. Liberazione da un male che denuncia e afferma la “divisione”. Divisionetra l’uomo e Dio. Divisione tra persona e persona. Ogni opposizione all’unicocomandamento dell’Amore. Il cuore della fede è la comunione. Il commento albrano evangelico cita in proposito l’importante osservazione di S. Agostino.Tale concezione del primato della comunione è talmente esigente da affermareche per questo neppure il “sapere” è neutrale! Può essere, ed è, saperedemoniaco, se non genera comunione ma divisione: anche i demoni sanno! Mapotrebbe essere causa di divisione anche l’infinita distanza-differenza tra Dioe la sua creatura prediletta. Peraltro tale distanza è quello che distingue lafede dall’idolatrìa, che è adorazione di ciò che non deve essere adorato,perché “non è Dio”. E solo Dio può risolvere il problema cercando e mettendo inopera incessantemente delle “mediazioni” che gli consentano di “scendere” finoall’uomo per comunicarsi e comunicare il suo Amore. Tale è la promessa che ilSignore fa a Mosè nel testo del Deuteronomio con il dono della Parola affidataal profeta. E così fino all’evento supremo della Parola, che è il suo “farsicarne” nella persona e nell’opera di Gesù di Nazareth.
La Parola è l’evento dell’incontro e il grembo dellacomunione. L’alterità è superata nel “farsi povero” di Dio affinché la povertàdell’uomo ne sia visitata e non annientata. Origene afferma che nelle cose delmondo sono i piccoli che vanno verso i grandi, ma nelle cose di Dio sono igrandi a scendere verso i piccoli. La comunione d’amore coinvolge tutta lavicenda dell’uomo e tutta la creazione. La storia è la storia, affaticata etribolata, della “ri-conciliazione” tra Dio e l’umanità, e di ogni creaturaumana con l’altro da sé, e con tutto il creato. Per questo la “pace” è il nomedi Gesù! “Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosasola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, permezzo della sua carne” (Ef 2,14). Questo ha un segno e un’immagine privilegiatanell’unione nuziale.
La preoccupazione di “piacere alla moglie” non deve essereintesa in senso positivo, secondo quello che Paolo afferma nel testo di 1Corinzi.Anche nell’amore nuziale si deve affermare l’unicità del duplice comandamentodell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. E così cadono le “preoccupazioni”mondane. Lo sposo e la sposa sono l’uno per l’altro “segno” del Signore equindi salvezza. Salvezza da tutto quello che ci divide da Dio e tra noi.

www.famigliedellavisitazione.it

giovedì 26 gennaio 2012

La parola della domenica 29 Gennaio 2012 (Casati)Dal Monastero di Bose





Dt 18,15-20
1Cor 7, 32-35
Mc 1,21-28
È il primo dei segni di Gesù nel vangelo di Marco, il primo dei segni che noi siamo soliti chiamare "miracoli".Ed è un segno, un miracolo, senza gesti: basta una parola, una sola parola: "Taci, esci". "Dì una sola parola, una sola parola, Signore, e io sarò salvato".Non so se sbaglio, ma ho come l'impressione che al centro di questo racconto del vangelo di Marco ci sia la parola: e tutti nella sinagoga affascinati, sorpresi e anche imbrividiti da quella parola nuova, la parola di Gesù.
All'inizio del brano: "...ed erano stupiti del suo insegnamento".E alla fine: "...tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità"".Mi incuriosiva, leggendo il testo, il connubio, o il divorzio, di questi due termini: "parola" e "autorità".Mi incuriosiva perché il nostro mondo si segnala per un eccesso di parole, un'invasione di parole: ma ti fanno sussultare come davanti a qualcosa di nuovo? Hanno dentro -le parole- un'autorità? E quando le parole hanno dentro un'autorità?Pensate quante persone erano entrate, durante gli anni, di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Ogni sabato qualcuno si alzava, prendeva il rotolo, lo apriva, leggeva, insegnava.Ma quel sabato nella sinagoga fu una cosa diversa: "erano stupiti perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi".Eppure gli scribi erano un'autorità. Avevano il "ruolo" dell'autorità, ma il loro insegnamento non stupiva nessuno. Erano fermi alle leggi, all'interpretazione delle leggi, all'enunciazione delle leggi. Erano parole vecchie, logore, che non mettevano in moto nessuno: un diluvio di parole da cui salvarsi.Parole da cui salvarsi o parole che ci salvano? Questo è il problema. Enorme la differenza.Parole dette dall'autorità o parole che hanno dentro un'autorità? Autorità nel senso di "augere", di "aumentare", di espandere, di promuovere, di aprire inizi nuovi, di suscitare energie nuove, possibilità nuove.Pensate come spesso abbiamo appiattito l'immagine dell' autorità nell'immagine del contenere, del frenare, del mettere i paletti, del dire il codice, le cose di sempre.Parole stanche, dilavate, senza sussulti. E come si potrebbe fremere o stupirsi?Parole senza brividi di profezia. Elenchi di cose. Parole da cui salvarsi e non parole che salvano.Nelle parole di Gesù c'era il brivido della profezia, la passione del profeta.Parlare come i profeti. I profeti non sono aridi e lontani elencatori di norme. Sono dentro il cammino di un popolo, dentro la storia degli uomini e delle donne del loro tempo. Le parole che i profeti dicono non sono parole che battono l'aria, sono parole accompagnate da un cammino.Per questo il libro del Deuteronomio chiama Mosè profeta: Mosè non era solo parole, era cammino. I suoi occhi non erano pallidi come quelli di coloro che sdottorano da lontano, erano occhi rossi di sabbia e di fatica.Parole con autorità e cioè parole che aprivano piste nuove, suscitavano energie, sostenevano un cammino, parole che liberavano.Così Gesù. La meraviglia della gente - e anche il brivido - era per quella sua parola, una semplice parola, una sola: "Taci, esci da quell'uomo", che era accaduta.Era accaduta! La gente, quella gente, aveva passato anni a sentire parole dopo le quali non accadeva mai niente, ed ecco la sorpresa del Rabbì di Nazaret e di quelle sue parole che accadono: "comanda agli spiriti immondi e gli ubbidiscono". Parole che non si perdono nell'aria, ma accadono.E accade la liberazione. Quando la parola è profezia, è parola di Dio, accade la liberazione.Liberazione da tutto ciò che reprime dentro gli umani. E non sempre è il demonio che soffoca la nostra umanità. Spesso sono cose più vicine: la sete di potere, di denaro, di successo. A volte è il nodo delle nostre depressioni, delle nostre paure.A volte è il tumulto delle parole di coloro che hanno un intento preciso, quello di portarti nel gregge. E gridano e gridano e gesticolano, come il demonio del vangelo. E Gesù zittisce: "Taci". Zittisce quelli che ti gridano intorno.E nel silenzio, nel silenzio del tuo cuore, ti restituisce nella tua dignità, ti ridona un cuore di uomo e donna liberi.


Fonte: sullasoglia

Riflessioni sulle letture 29 gennaio 2012 (Luciano Manicardi monaco a Bose)





Dt 18,15-20; Sal 94; 1Cor 7,32-35; Mc 1,21-28




L’autorità della parola di Mosè e del profeta “pari a Mosè” che il Signore susciterà; l’autorità della parola di Gesù, profeta escatologico: questo un tema saliente che traversa la prima e la terza lettura. Se la parola del profeta, di colui che media la parola di Dio stesso, è finalizzata alla vita del destinatario (Dt 18,15-16), la parola di Gesù è terapeutica. L’autorità dell’insegnamento di Gesù consiste nel fatto che non è frutto di sapere libresco (“non come gli scribi”), non è l’esito di un cursus di studi, ma è afferente alla persona stessa di Gesù. Non è solo autorità della parola, ma di colui che la pronuncia. E si tratta di un insegnamento trasmesso non solo con parole, ma anche con gesti, con azioni (cf. Mc 1,27): la novità che lo contraddistingue è la novità messianica, la novità di Gesù, che “portò ogni novità portando se stesso” (Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,34,1)). Ed è un’autorità percepita dal sensus fidei delle persone. Infine l’autorità della parola di Gesù è nel suo essere totalmente finalizzata alla vita e al bene delle persone: non è autorità che accresce chi la pronuncia, ma volta a far crescere l’altro; è autorità di servizio, non di potere. La logica dell’autorità che discende dal Dio biblico è bene espressa dal Sal 18(17),36: “Abbassandoti tu mi fai grande”. Questa la logica che presiede anche il cammino di Dio verso l’umanità nel Figlio Gesù Cristo.

Di tale cammino il testo evangelico ci fornisce un esempio. A un processo di progressivo restringimento da Cafarnao alla sinagoga, al gruppo di uomini là riuniti, a un uomo preciso di tale gruppo, fino allo spirito impuro che lo abita (vv. 21-24) e che Gesù raggiunge con la sua parola potente (v. 25), segue un movimento di dilatazione dallo spirito immondo all’uomo da cui esce, al gruppo di tutti i presenti nella sinagoga, fino a tutta la Galilea e ovunque (vv. 26-28). La venuta del Figlio di Dio diviene subito una discesa, una catabasi nelle profondità irredente dell’uomo.
Al cuore del testo evangelico vi è infatti l’incontro di Gesù con un uomo “posseduto da spirito immondo”. Ovvero, un uomo sofferente di disturbi psichici o afflitto da mali che si manifestavano in modo bizzarro, violento, anomalo, e per questo attribuiti a spiriti maligni. In realtà, il male che affligge quell’uomo (che frequentava regolarmente la sinagoga, il luogo santo), ha anche una valenza spirituale. Che si manifesta nel suo conoscere perfettamente Gesù, nel confessarlo in modo corretto e ortodosso (“Tu sei il santo di Dio”: Gv 6,69), ma nel non voler aver praticamente nulla a che fare con lui (“Che c’entri con noi?”: Mc 1,24). La diabolicità dell’atteggiamento è lì: si confessa rettamente la fede, ma non ci si coinvolge nella sequela di Cristo fino alla fine. Il vangelo secondo Marco insegna che la confessione autentica di fede deve avvenire sotto la croce (cf. Mc 15,39), è cioè inscindibile da un concreto cammino di sequela fino alla fine, fino allo scandalo della croce.
L’episodio mostra anche la sofferenza che la guarigione costa a quell’uomo: “straziandolo e gridando forte, lo spirito uscì da lui” (Mc 1,26). La parola di Gesù guarisce, ma facendo emergere il male, svelandolo, e consentendone così l’espulsione dal profondo: quel male a lungo soffocato per non soffrire, ora viene portato alla luce e questi spasmi dolorosi si situano a metà tra la morte e la nascita. La parola di Gesù non è edulcorata: essa fa anche male, essa non seppellisce il male, ma osa farlo emergere e affrontarlo apertamente. La parola di Gesù è dunque autorevole perché liberatrice: restituisce l’uomo a se stesso liberandolo dalla divisione che lo lacera e dai fantasmi che lo tormentano; è parola autorevole perché sacramentale: in essa si manifesta la potenza di Dio (v. 27; nell’Antico Testamento è Dio stesso che rimprovera, zittisce e vince Satana: cf. Zc 3,2); è parola autorevole perché testimoniale (essa rivela l’unità profonda della persona di Gesù, del suo parlare e del suo agire).

LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
Fonte: monasterodibose