DON ANTONIO

giovedì 20 ottobre 2011

PERCHÈ SPESSO C’È TANTO DOLORE E POCA GIOIA DI VIVERE?Collevalenza 18 dicembre 2005

Vi confesso che di fronte al titolo di questo argomento che mi è stato proposto ho provato un duplice sentimento: una sorta di timore di fronte a un tema troppo grande e complesso, intorno al quale girano i più grandi e drammatici interrogativi della nostra esistenza. E d’altra parte, un desiderio di riflettere, meditare su questo binomio misterioso, dolore e gioia, che impasta quotidianamente il nostro vivere. La Parola di Dio è piena di questo binomio e lo coniuga in tante sfumature(1): pensiamo al libro di Giobbe e agli altri libri sapienziali. Così la saggezza e la filosofia, la letteratura di tutti i popoli si è sempre interrogata su questi temi di fondo: perché c’è il dolore? Come può convivere con la gioia? Quale dei due prevale nella nostra quotidiana esperienza?
Il nostro titolo sembra già dare una risposta, nel senso che la dose di dolore avrebbe la parte del leone su quella della gioia: tanto dolore e poca gioia di vivere.
Un racconto dei rabbini sull’inizio della creazione dice così: quando Dio creò il mondo e distribuì le proporzioni della bellezza, assegnò alla terra d’Israele nove parti e al resto del mondo una sola parte. Così fece per la sapienza. Quando arrivò il turno del dolore, Dio mantenne la stessa proporzione, e assegnò a Israele nove porzioni di dolore e al resto del mondo solo una.
Chi può entrare nell’ abisso del dolore e della gioia se non a partire dalla propria esperienza? Si rischia di dire frasi brillanti o solo emotive, ma non vere. Tutti ci accorgiamo che davanti alla sofferenza propria e altrui bisogna entrare in punta di piedi, perché "l’uomo, nella sua sofferenza, rimane un mistero intangibile"(2). I tre amici di Giobbe "sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore" (Gb 2,13). Come aprirono la bocca caddero in prediche e discorsi demagogici.
Perché tanto dolore? (lo "scandalo" della sofferenza)
Perché un ragazzo, nel fiore dell’età, quando davanti a lui dovrebbe schiudersi la speranza e il respiro più ampio della vita, arriva a sopprimere questa vita? Ricordo il pianto inconsolabile di una madre e l’angoscia smarrita di un padre qui a Collevalenza, tre estati fa, dopo che il figlio di 14 anni si era buttato da un ottavo piano. E sappiamo che questi eventi si stanno moltiplicando in modo allarmante. Sì, è un allarme. Ma di che cosa? Perché un ragazzo accumula tanto dolore, spesso mascherato, e tanto poca gioia di vivere?
Mi viene da pensare a due cause:
1. Una attribuibile al tipo di società in cui viviamo, che formulerei in questo modo: grandi promesse che poi non vengono mantenute. Per esempio: la società in generale, e i mass media in particolare, propongono uno standard di vita di un certo livello. Un ragazzo cresce identificandosi con determinati modelli, che dietro la maschera hanno il vuoto. Modelli che non pagano. Si confonde la realtà "virtuale" con la realtà "reale". Prima o poi ci si accorge dell’inganno. Si può continuare a illudersi e a vivere nel "virtuale", ci si può continuare a drogare per non affrontare la realtà. Ma a volte, la delusione è così terribile e fulminante che una personalità fragile non regge la frustrazione e assistiamo al crollo improvviso.
2. Questa causa mi fa pensare a un’altra. Perché un adolescente, apparentemente bravo, buono e studioso, è così fragile che basta un brutto voto a scuola per mandarlo in tilt? A questo punto l’interrogativo si sposta sulle cosiddette "agenzie educative": la famiglia, la scuola, la chiesa stessa. Queste cose ci devono interrogare: che tipi di persone stiamo formando? Non si tratta di affogare in sensi di colpa dannosi e sterili, né tanto meno di mettere sul banco degli imputati i poveri genitori che hanno avuto, nella fattispecie, una così terribile disgrazia, ma di chiederci che cosa possiamo fare per aiutare la crescita di persone che non siano "molluschi": con una corazza durissima all’esterno, fragilissimi all’interno.
"Se ti lasci andare nel giorno dell'angoscia, è segno che la tua forza si riduce a ben poco" (Pr 24,10).
Perché queste personalità–molluschi?
Anche qui possiamo riscontrare varie cause. Voglio sottolinearne due:
Il non saper dire mai di no. Questo atteggiamento ingenera non solo una visione distorta della vita, che prima o poi presenterà i suoi no, ma induce un sospetto terribile nel figlio a cui tutto si permette: i miei genitori non mi amano. Questo è il frutto di una ricerca tra adolescenti e giovani "difficili" negli Stati Uniti. Capite la cosa drammatica: i miei genitori non mi amano, perché mi danno tutto. Il figlio che cresce avverte, anche se non gli piace, che c’è un limite alle cose, che la strada della vita ha dei paletti che vanno rispettati per il suo stesso bene, altrimenti andrà fuori strada e si farà male. Se coloro che gli stanno vicino non gli presentano questi limiti non si sentirà protetto da loro.
Capite che non si tratta di un discorso repressivo, come se non si volesse lo sviluppo sereno, gioioso e positivo di un giovane. E’ un discorso educativo.
Se uno, poi, è cresciuto, senza che qualcuno gli dicesse mai di no, non saprà neanche dire di no a se stesso. Penserà che la vita è tutta una discesa e non si accorgerà del burrone. Pensiamo, in proposito alle parole di Gesù: "Stretta è la via che conduce alla vita. Spaziosa e larga quella che conduce alla perdizione"
Un’altra causa può consistere nell’aver abbassato la qualità della gioia: abbiamo cioè identificato la gioia, e l’ambiente è stracolmo di questo messaggio, con la gratificazione dei bisogni, siano essi di tipo primario-istintivo, o di tipo secondario-sociale.
Abbiamo parlato dei ragazzi, perché ci fa male al cuore questo moltiplicarsi allarmante dei suicidi e omicidi e violenze, tra adolescenti e giovani. Dobbiamo interrogarci seriamente sulle cause e porre dei rimedi, non tanto fare discorsi demagogici o prediche.
Ma forse non c’è tanto dolore e tanta poca di gioia anche tra gli adulti? In fondo i giovani rispecchiano, e magari moltiplicano, ciò che vedono in noi. Perché viene a mancare la gioia di vivere?
A proposito della gioia e dei suoi surrogati
A questo punto mi chiedo: dov’è la vera gioia? Perché spesso, spessissimo, viene confusa con altre cose che non sono gioia, ma surrogati di essa, come il piacere, le gratificazioni di ogni genere. Abbiamo voluto reagire a una cosiddetta società repressiva spalancando le porte di una società permissiva, dove impera, non solo a livello di comportamenti ma anche di idee e valori, quella che il Papa Benedetto XVI chiama "dittatura del relativismo". Ci siamo dimenticati, come dice il card. Biffi, pensando alla vicenda di Pinocchio e Lucignolo che si svegliano asini nel paese dei balocchi, che quando ci si abbandona alla gratificazione selvaggia degli istinti, si subisce "un processo di bestializzazione".
Un autore, che trovo estremamente interessante, C.S. Lewis, ha descritto la sua conversione con questo titolo: "Sorpreso dalla gioia"(3). E sottolinea, con grande lucidità, la differenza tra la gioia vera e i tentativi maldestri di rincorrerla attraverso i suoi surrogati, dai più grossolani a quelli più raffinati:
«Mi avvidi che tutte le mie attese e veglie per la gioia, tutte le mie vane speranze per puntare il dito e dire "eccola!", erano state un inutile tentativo di contemplare il goduto… perché tutte le immagini e le sensazioni, se idolatricamente scambiate per la gioia stessa, dovevano presto onestamente rivelarsi inadeguate… Avevo saggiato in ogni modo animo e corpo; per così dire, chiedendo a me stesso: "E’ questo che vuoi? E’ questo?". Infine mi ero chiesto se quello che volevo era la gioia stessa; e, etichettandola come "esperienza estetica", mi era parso di poter rispondere di sì. Ma anche quella risposta era crollata. Inesorabile, la gioia proclamava: "Tu vuoi qualcos’altro, fuori di te, fuori di te o in un tuo stato d’animo". Ancora non chiedevo: Chi è il desiderato?, ma solo: Che cos’è?»(4)
Alla fine si arrenderà al Signore e scriverà: "La durezza di Dio è più mite della dolcezza umana, e le Sue costrizioni sono la nostra liberazione"(5).
Anche nella conversione di S. Ignazio di Loyola, svolse un ruolo determinante la differenza che lui cominciò a notare nel suo animo, tra due tipi di gioia: quella suscitata dalle letture dei libri cavallereschi, che svaniva in breve tempo, e quella, molto più duratura e di altro genere, lasciata dalla lettura del Vangelo o delle vite dei santi. Fu in quell’occasione che S. Ignazio cominciò a elaborare la sua teoria sul discernimento degli spiriti, e sulla differenza che le diverse esperienze della vita lasciano nel nostro animo.
Pensiamo anche all’esperienza di S. Agostino che, dopo la conversione, arriva a dire: "Quanto tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, quanto tardi ti ho amato! Tu eri dentro di me e io ero fuori di Te. Mi tenevano lontano da Te quelle cose che se non fossero in Te neppure esisterebbero".
Vedete quale meravigliosa coincidenza c’è fra queste varie esperienze. Il dato comune, sorprendente, è che si tratta di un incontro con la Gioia, con la Bellezza. Come siamo lontani da quel sospetto tipico del nostro tempo che vede la vita cristiana come tristezza, rinunce, umore nero e visione pessimista della vita. Chi dice questo non ha ancora bevuto all’acqua viva che Gesù promise alla samaritana (Gv 4).
E quanta sapienza di vita c’è, a questo proposito, nelle parole di Gesù: "Che vantaggio può avere un uomo a guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?" (Lc 9, 25): queste parole cambiarono la vita al giovane Francesco Saverio, brillante e ambizioso studente alla Sorbona di Parigi.
Il dolore accettato, sorgente di saggezza e di forza
Il primo passo per sfuggire alla disperazione del dolore penso sia l’accettazione. Accettazione non come passività e rassegnazione vittimista, ma come presa di coscienza della nostra condizione creaturale (cf il chicco di grano che muore, la donna che partorisce nel dolore).
Dio, infatti, non risparmia la sofferenza ai suoi figli.
Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi.
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio;
essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa – e nutre la speranza
di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto;
essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?
Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza.
(Rm 8, 16-26)
In Gesù Cristo "la sofferenza è vinta dall’amore" (6)
Gesù non ha banalizzato l’esperienza umana della sofferenza, non ha voluto scavalcarla. E’ stato uomo fino in fondo, anzi ha scelto di essere "l’uomo dei dolori, che ben conosce il patire" (Is 53,3). In questo modo ha fatto un passo avanti, anzi un salto di qualità rispetto alla accettazione del dolore. Gli ha dato un senso, un senso di redenzione e di salvezza per tutta l’umanità che fa esperienza del dolore fisico e morale.
«La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e nella morte, e così diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa»(7)
Capite che mi viene spontaneo, in questo Santuario dell’Amore Misericordioso, volgere lo sguardo a quel volto sofferente e sereno nello stesso tempo, il volto che esprime l’infinito amore di un Dio che sta offrendo il suo Figlio per amore dell’umanità. E’ il volto di chi, pur assumendo fino in fondo il calice amaro della sofferenza, fino a sperimentare l’abbandono del Padre (il dolore più grande spesso non è quello fisico, ma quello morale), muore perdonando chi lo sta uccidendo, e proprio così vince il male con l’amore. ‘Solo l’amore è credibile’ ha scritto qualcuno. Solo "questo tipo di amore" è credibile, specificherei.
… e il dolore redento diventa una misteriosa fonte di gioia e di redenzione
E’ possibile la gioia nella sofferenza? Non sembra questo un paradosso masochista? I santi dicono il contrario.
Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte, lettera apostolica scritta al termine del grande Giubileo dell’anno 2000, ha detto qualcosa che mi ha colpito sulla misteriosa unione tra la sofferenza e gioia. Parte dalla contemplazione del "volto dolente" di Gesù:
Di fronte a questo mistero, accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la «teologia vissuta» dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come «notte oscura». Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore. Nel Dialogo della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: « E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente ».13 Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: « Nostro Signore nell'orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa ».14 È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). (NMI, 27)
Permettete che, in questo luogo e in questa data 18 dicembre, in cui un’antica tradizione popolare ricorda la Madonna della Speranza, vi ricordi alcune riflessioni tratte dagli scritti di M. Speranza, che sono indubbiamente frutto della sua esperienza personale:
• "Grazie, Signore, perché mi hai dato un cuore per amare e un corpo per soffrire".
• Diceva che considerava perduta una giornata in cui non aveva avuto qualche sofferenza da offrire al Signore.
• Di fronte alla tentazione di lamentarsi soleva dire a se stessa e agli altri: "Fa, Gesù mio, che non dimentichi che sono la sposa di un Dio crocifisso"
• "Quando si ama si provano tali delizie nel dolore, che non si può vivere senza sofferenza, la si desidera come un cibo gradito"
Ecco, quest’ultima frase ci dà, forse, il segreto che permette l’unione umanamente paradossale tra dolore e gioia: solo l’amore riesce a trasformare la sofferenza in gioia redentrice. Quando si è partecipi delle sofferenze di Cristo, si partecipa anche alla loro forza redentrice. Quanto è illuminante, in proposito l’esperienza di S. Paolo:
E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte,
con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. (Fil 3,10-11)
Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa. Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi (Col 1, 24)
Si potrebbe facilmente obiettare: molto spesso soffriamo, e vorremmo anche offrire al Signore la nostra sofferenza, ma tutto ciò non è accompagnato da un sentimento di gioia e di amore. Io vi confesso che sono ben lontano da questa perfezione dell’amore che trasforma in dolcezza tante amarezze. Ma spero che il Signore mi aiuti a crescere.
Charles de Foucault, beatificato da poco da Benedetto XVI, ha scritto, in proposito, una parola luminosa che mi ha colpito e incoraggiato molto:
"Quando si può soffrire e amare si può molto, si può il massimo che si possa in questo mondo: si sente che si soffre, non sempre si sente che si ama, ed è una grande sofferenza in più!, però si sa che si vorrebbe amare, e voler amare è amare"(8).
Conclusione:
Siamo disposti a diventare buoni samaritani e cirenei?
Alla domanda del nostro titolo, perché c’è tanta sofferenza e tanta poca gioia di vivere?, mi viene, come conclusione, da dare una risposta:
Perché forse siamo poco disposti a prendere su di noi la sofferenza di chi è solo, sofferente per vari motivi, a volte disperato.
Diceva Madre Speranza:
"Se vi capita di trovarvi con una persona oppressa dal dolore fisico o morale non cercate di soccorrerlo o fargli un'esortazione senza avergli, prima, rivolto uno sguardo di compassione.
Il mondo si allontana da coloro che piangono, e quelli che piangono interiormente cercano la solitudine, ma sentono al tempo stesso il bisogno di sfogarsi e noi dobbiamo offrire loro la possibilità di farlo, facendo in modo che la nostra fiducia sia per essi una tavola di salvezza.
Per questo bisogna comprenderli, sentire con loro e simpatizzare con loro. Nel momento in cui avremo dato ad essi l'impressione di averli capiti, li vedremo consolati e le nostre parole saranno un balsamo per le loro ferite."
Ci aiuti il piccolo Bambino, Dio con noi, per intercessione della Madonna della Speranza, a imparare da Lui la lezione del farci prossimi alle situazioni di sofferenza che la vita ci presenta. Sperimenteremo la beatitudine dei misericordiosi che trovano misericordia.
Aurelio Pérez García fam
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1 “La Sacra Scrittura è un grande libro sulla sofferenza” (Giov. Paolo II, Salvifici doloris, lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza umana, n. 7)
2 Salvifici doloris, 4.
3 C.S.LEWIS, Sorpreso dalla gioia, La storia di una conversione, Milano 1994.
4 Ib. p. 160-161.
5 Ib. p. 166.
6 Cf Salvifici doloris, cap. IV.
7 Dives in misericordia, 8 a.
8 Lettera a M.me de Bondy, 1° dicembre 1916 (Opere Spirituali, Ed. Paoline, p. 726)
http://www.collevalenza.it/Convegno/

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