DON ANTONIO

lunedì 3 ottobre 2011

SOFFERENZA, DOLORE, MORTE, CONSIDERAZIONI DEL MEDICO di Fausto Santeusanio

Anche in un’epoca in cui si cerca di nascondere la sofferenza e la morte dell’uomo, ritenuti elementi fondamentali negativi nella concezione odierna della vita, almeno al medico non può sfuggire il contatto quotidiano con l’uomo che soffre e che muore.
Le nuove acquisizioni scientifiche e la realizzazione di tecnologie altamente sofisticate hanno consentito un progresso impressionante nell’ambito della scienza medica.
Su questa scia c’è chi fantastica ad imprese ed ipotesi tecnologiche, quali l’ibernazione, la sostituzione progressiva degli organi, ecc. il cui obiettivo vuol essere quello di sconfiggere la morte. Si tratta di una posizione dell’uomo coerente con la filosofia oggi imperante e che è la negazione e il rifiuto del pensiero della morte.
Pur tuttavia la vita dell’uomo mantiene i limiti di sempre. E’ pur vero che la vita media si è considerevolmente allungata soprattutto nell’ultimo secolo. E tale progresso si deve essenzialmente alle migliorate condizioni igieniche ed alimentari ed alla scoperta di antibiotici e alla pratica di vaccinazioni, che hanno consentito di superare una gran parte della patologia infettiva che un tempo uccideva in fasce di età ancora molto giovani.
Per questo la mortalità infantile è attualmente assai bassa.
Se però la speranza di vita dell’uomo viene analizzata non più alla nascita, ma dopo i 40/50 anni, si osserva come l’incremento avutosi negli ultimi cento anni è assai modesto, vale a dire di appena 3/4 anni. Queste osservazioni trovano la loro giustificazione nel fatto che, mentre i fattori positivi sopra citati hanno significativamente influenzato soprattutto le fasce di età più giovane, nell’età adulta ed anziana si è venuta imponendo una nuova patologia ambientale, ad eziopatogenesi multifattoriale, con caratteristiche tali da non essere facilmente influenzabili dai mezzi terapeutici più moderni e dotati. Le abitudini alimentari, la sedentarietà, il ritmo di lavoro e di vita, in genere frenetico ed assillante hanno indubbiamente favorito, soprattutto per le fasce di età meno giovani, un incremento delle malattie di carattere metabolico, dell’apparato cardiovascolare e del sistema nervoso.
Un contributo del tutto rilevante alla moderna patologia viene fornito dalla infortunistica nel mondo del lavoro e nel traffico stradale, oltre che dalle malattie neoplastiche in sicuro aumento in rapporto all’azione di agenti tossico-ambientali, dalle malattie cosiddette iatrogene, sostenute dall’uso e dall’abuso dell’intervento terapeutico del medico. Questa è la situazione dei Paesi ritenuti abitualmente più evoluti o industrializzati.
Se pensiamo invece alle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, notiamo come la malattia e la morte sono ancora favorite dall’incapacità di assicurare loro le più elementari prestazioni della medicina moderna o della denutrizione.
Partecipazione dell’uomo nella sua globalità alla malattia
Non spetta a me indicare qual è il significato profondo della sofferenza e della malattia. Potrei esprimermi in termini tecnici che in questa sede non avrebbero alcun senso.
Vorrei però fermare la mia attenzione su un concetto che ritengo essenziale, vale a dire che la malattia, che pur trova la sua base in un’alterazione biochimica, coinvolge nella sua interezza l’essere umano.
Nell’unità di un individuo concorrono fattori psicologici, culturali e sociali. La conoscenza completa della malattia esige che si tenga conto di tutti questi fattori e del contesto psicologico e ambientale in cui gli eventi si manifestano.
Per questo esistono non le malattie ma i malati. Posso fare un esempio. Se nel mio reparto vi sono tre pazienti con epatite virale, dal punto di vista umano vi sono tre individui che vivono in maniera diversa la loro malattia, perché ognuno ha una sua storia personale, in cui la malattia si è sviluppata. Non solo l’uomo partecipa emotivamente ad un disordine che ha colpito un suo organo, ma la sua stessa psiche sollecitata dall’ambiente, può indurre alterazioni nell’organismo.
Si parla ormai da tempo di malattie psicosomatiche ad indicare il ruolo di moventi psicologici nella genesi di alcune malattie somatiche. Certe sollecitazioni che raggiungono il cervello, vengono da questo modulate dando luogo a reazioni emotive, quali la paura, l’ansietà, l’ostilità e l’aggressività, che di per sé hanno un carattere di protezione. Tali reazioni direttamente o indirettamente attraverso il sistema endocrino si trasmettono ai vari organi e apparati al soma affinché si realizzi una sorte di adattamento fisiologico, vale a dire di difesa nei confronti dell’ambiente.
Quando tale risposta si protrae o diventa particolarmente intensa, l’effetto può essere dannoso o autolesivo. Tali ipotesi formulate in passato da Cannon, prima, e da Selye, poi, hanno avuto conferma dalla esperienza clinica e da ricerche sperimentali.
In effetti una patologia di questo tipo può trovare la sua espressione in varie malattie quali ipertensione, arteriosclerosi, infarto, angina pectoris, ulcera peptica, cefalea.
La società moderna crea tutti i presupposti per questo tipo di patologia offrendo i vari elementi di stress nella competitività, nell’ambizione, nell’aggressività.
Si comprende facilmente come lo stato di benessere e di salute di un individuo molto spesso derivano da una capacità di adattamento, e dall’equilibrio fra fattori interiori, che possono essere eredità, cultura, carattere, personalità, e fattori esterni ambientali, vale a dire la famiglia, la società, il mondo del lavoro.
Questa concezione di uomo malato, vista nella sua globalità di un contesto psicosomatico ed ambientale, si è perduta sensibilmente negli ultimi decenni. Il medico delle generazioni passate era anzitutto un medico generico. Aveva una visione più ampia del soma e delle sue funzioni. Conosceva bene l’ambiente, la famiglia, il mondo del lavoro, la stessa storia del suo paziente.
La medicina degli ultimi decenni si è frammentata in tante specializzazioni ed è divenuta più tecnica, con il rischio di isolare l’organo malato e di trascurare l’uomo, il soggetto della malattia nella sua globalità. Basti pensare ai computers, cui si vuol affidare anche la soluzione di problemi diagnostici e terapeutici. Il paziente può avere la diagnosi e la terapia senza neppure essere visitato dal medico.
Naturalmente non si deve rinnegare il contributo che le specialità e la tecnologia hanno dato al progresso della scienza medica, ma proprio in questo contesto si avverte l’esigenza di recuperare il soggetto malato come protagonista del processo terapeutico e di considerare la malattia e la guarigione come eventi umani
Medicalizzazione della salute
Un aspetto molto tipico della cultura moderna è quello di voler risolvere ad ogni costo i problemi della salute con i farmaci. Dall’uso spesso esagerato del rimedio farmacologico è derivata una ricca patologia che viene comunemente chiamata "iatrogena", perché indotta dal medico che prescrive i farmaci. Di qui i termini molto usati negli ultimi anni di medicalizzazione della salute e iatrogenesi.
Ivan Illich qualche anno fa, in un suo libro che ha fatto molto scalpore, ha approfondito questi concetti ed ha cercato di demolire il mito del farmaco e degli interventi tecnici della medicina moderna. La sua opinione non può essere certamente condivisa per il modo demolitivi e radicale con cui è espressa, tuttavia ha richiamato l’attenzione su di un problema molto importante.
In realtà la mentalità prevalente nella cultura umana, soprattutto moderna, vede nel farmaco una panacea. E’ certamente nobile la tendenza a trovare rimedi più validi per la cura delle malattie. Ma l’idea di voler riporre sul farmaco la soluzione a tutti i problemi della salute rischia di limitare le capacità dell’uomo a far fronte in modo personale ed autonomo alla sua fragilità. In questo atteggiamento una responsabilità rilevante spetta da un lato alla pubblicità che viene fatta in modo esasperato dall’industria farmaceutica per solo fini economici, e dall’altra al medico che trova molto più semplice prescrivere un farmaco anziché approfondire e chiarire la natura di un certo sintomo o di una certa malattia.
Al farmaco viene così demandata la soluzione di ogni problema fisico e all’individuo viene negata la capacità di superare da solo il dolore, di comprendere la malattia, di accettare la menomazione fisica.
Si può porre un esempio: il dolore è una sensazione spiacevole che ha di per sé una funzione protettiva in quanto rappresenta una spia la cui finalità è quella di proteggere l’organismo da uno stimolo dannoso.
La capacità di sopportare il dolore, entro certi limiti varia da individuo ad individuo, in rapporto all’educazione ricevuta, al contesto sociale e culturale. Oggigiorno si dispone di una miriade di farmaci analgesici e ansiolitici ed i pazienti vi ricorrono con estrema facilità ed incautamente. I medici conoscono le conseguenze talora disastrose anche di una sola compressa di aspirina.
Connesso al problema della medicalizzazione della salute potrebbe essere l’uso della tecnologia assai avanzata di cui dispone la medicina moderna sia per scopi diagnostici che terapeutici. In campo chirurgico si realizzano sempre più trapianti d’organo, sostituzioni di valvole cardiache, correzioni di ostruzioni vascolari ecc. Nell’ambito di questo progresso, che ha il grande merito di aver consentito risultati impensabili, vi è tuttavia il rischio di creare illusioni nella gente, che sulla base di errate campagne pubblicitarie, crede di poter usufruire di quelle tecniche in modo indiscriminato. A parte il fatto che la realizzazione con successo di tali tecniche richiede un impegno pesante del paziente e degli stessi famigliari per un iter difficile non privo di sofferenza e di incertezze, vi è anche da considerare tutta una serie di limitazioni che impegna la capacità tecnica e la coscienza del clinico che ha la responsabilità di operare una accurata selezione dei pazienti.
Ogni paziente deve essere attentamente valutato con una precisa conoscenza delle possibilità e dei limiti della tecnologia di cui si vuol far uso.
Da una selezione errata o da una valutazione superficiale di questi parametri derivano spesso gli insuccessi.
I limiti all’attuazione a scopo terapeutico di certe tecniche avanzate trovano fondamento anche nei motivi etici. Si pensi al problema delle manipolazioni genetiche, ma si entrerebbe in una questione complessa su cui non posso ora fermarmi.
Aspetti medici connessi con la morte
La morte rappresenta nella vita dell’uomo un evento altamente drammatico e temuto per l’istinto di conservazione che ognuno ha in sé. Ma l’uomo sa anche che è un evento naturale a cui deve in qualche modo prepararsi.
Il medico può influire in maniera determinante sull’atteggiamento di un individuo dinanzi alla morte. La sua parola se proposta in un rapporto di serenità può essere ancora più apprezzata di quella del sacerdote e può essere di grande aiuto al paziente nella ricerca del significato estremo della vita. Il medico che ha della morte anzitutto una concezione biologica e che è dalla parte della vita, deve lottare contro questo evento con tutto il suo impegno e tutta la sua forza. Però se per il medico la morte del suo paziente è soltanto una battaglia professionale perduta, egli potrà essere di scarsa utilità nel far raggiungere al paziente equilibrio e serenità.
Viceversa l’atteggiamento del medico potrà essere molto più apprezzato, se oltre a dimostrare tutto il suo impegno nella lotta contro le malattie, rafforzando nel paziente il desiderio di vivere e la speranza di ritrovare la sua salute, sa anche ispirargli il coraggio necessario ad affrontare la morte.
Il diritto alla verità è uno dei problemi più seri che si pongono quando il medico deve informare il suo paziente della gravità della sua malattia.
Nell’atteggiamento comune, almeno nel nostro paese, la gravità di una malattia viene celata ai pazienti nell’imminenza della morte. Certamente un tale comportamento non giova alla realizzazione di un rapporto equilibrato fra paziente da un lato e medico e familiari dall’altro, e all’accettazione serena della propria fine.
Il medico ha il dovere e l’obbligo di informare il paziente su quanto egli vuol sapere della malattia e della sua evoluzione. Egli, grazie alla esperienza acquisita, sa o per lo meno deve saper prevedere le reazioni dei pazienti quando essi vengono informati dello stato della propria salute.
La verità deve essere comunicata con misura e garbo, aggiungendovi sempre una speranza di vita, poiché il giudizio prognostico che è professionale, non è infallibile, almeno in taluni casi. Credo che ogni medico nella sua vita professionale abbia dovuto rettificare in qualche circostanza un giudizio prognostico negativo.
Reazioni drammatiche possono essere presentate dal paziente non solo di fronte alla notizia di una fine imminente, ma anche alla notizia di interventi chirurgici che determinano mutilazioni gravi ed irreversibili, sacrifici e menomazioni della propria integrità personale.
Anche in questi casi l’informazione veritiera e tempestiva è quanto mai importante per una più rapida e serena accettazione. Il medico ovviamente, non dovrà mai abbandonare il suo paziente, ma assisterlo se non altro per aiutarlo a morire attenuando fin dove è possibile la sua sofferenza.
Uno dei compiti della medicina è quello di fornire una definizione di morte e del momento della morte. L’opinione comunemente accettata è che la morte clinica di un individuo coincide con la morte cerebrale. Infatti è il cervello che da all’uomo la sua realtà di vita, rende possibile l’espressione di vita delle sue forme (spirituale, psichica, ecc.). Con la perdita funzionale irreversibile dei centri corticali necessari alla coscienza, alle espressioni tipicamente umane, la vita giunge alla sua fine, anche se le altre funzioni del cervello primordiale mantengono intatte le espressioni della vita neurovegetativa. Il prolungamento della vita così ridotta, mediante l’impegno di strumenti di rianimazione, offenderebbe solo il diritto di morire in pace.
Avrebbe invece senso, anzi diviene doveroso, se vi fossero fondate speranze di restituire al paziente un’esistenza dignitosa per un periodo più o meno lungo. Il prolungamento della vita in individui ormai irreversibilmente decerebrati ha la sua giustificazione in alcune particolari condizioni. Fra queste la preparazione di un organismo all’espianto di organi da trapiantare. Il mantenimento in condizioni funzionalità ottimali degli organi che verranno prelevati da cadavere, è essenziale alla riuscita di un trapianto.
Possono esservi altre particolari situazioni. E’ di questi giorni la notizia di una giovane signora la quale caduta in stato comatoso quando era al terzo mese di gravidanza, ha potuto essere mantenuta in vita con le tecniche di rianimazione sino all’espletamento del parto avvenuto al momento giusto con taglio cesareo e nascita di un figlio sano.
Connesso al problema del prolungamento della vita è quello molto dibattuto della eutanasia. Si distingue comunemente una eutanasia negativa, vale a dire l’omissione pianificata di cure che prolungherebbero probabilmente la vita, ed una eutanasia positiva cioè l’introduzione pianificata di terapie intese a provocare la morte prima di quando dovrebbe verificarsi.
L’eutanasia è eticamente accettata quando l’omissione di trattamenti terapeutici abbrevia un’agonia ad una malattia fatale che potrebbe altrimenti perdurare tra sofferenze e gravi disagi.
Nell’ambito dell’eutanasia negativa potrebbero annoverarsi anche quei casi in cui un trattamento analgesico indicato anzitutto per alleviare atroci dolori, può avere fra gli effetti collaterali quelli di anticipare il decesso del paziente.
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* Santeusanio Fausto, Professore associato di Endocrinologia, Istituto di patologia Speciale Medica, Università di Perugia
http://www.ministridimisericordia.org/

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