DON ANTONIO

venerdì 14 ottobre 2011

“La sofferenza nell’Antico e nel Nuovo Testamento"

Si deve chiaramente tenere presente che il volontanato non è un’esclusiva dei credenti; storicamente esso nasce
e si sviluppa in ogni contesto sociale dove fioriscono valori umani di solidarietà. La differenza tra la tipologia
laica e quella cristiana risiede, comunque, non tanto nelle cose che si fanno e nelle modalità di farle, quanto nei
valori ispiratori.
Volontariato cristiano e volontariato laico hanno in comune: l’attenzione all’uomo nelle sue condizioni concrete
e con i suoi problemi specifici; l’impegno preferenziale per gli ultimi con taglio promozionale; il senso della solidarietà
reciproca; in gran parte anche la lettura delle cause della povertà e dell’emarginazione; la volontà di realizzare
la giustizia sociale; l’anelito alla pace; l’apertura ai popoli della fame; l’esigenza di costruire insieme, poveri e ricchi, sani e malati, una società solidale.

Il volontariato di ispirazione cristiana trova il suo fondamento e le motivazioni ultime del suo impegno sociale nella
fede: la paternità di Dio dà senso alla fraternità universale. La presenza di Cristo in ogni uomo assicura valore
teologico al servizio dei fratelli; l’inserimento di tutti nel Corpo mistico di Cristo fornisce motivazioni sostanziali sia
alla corresponsabilità reciproca, sia alla certezza che ogni uomo è portatore di valori ed è essenziale al cammino
di tutta la comunità; la prospettiva escatologica fondata sulla presenza di Cristo risorto nella storia assicura
allo sforzo umano un supplemento di speranza e di stabilità, soprattutto di fronte alle difficoltà e alle sconfitte.
Inoltre il servizio di volontariato cristiano trova un sostegno ed un alimento spirituale nella preghiera e nei sacramenti.
In ogni caso il riconoscersi nel Cristo non costituisce, per il volontario cristiano, un motivo di separazione o di supremazia
sugli altri; al contrario è ulteriore spinta all’inserimento nella vita umana ordinaria e alla collaborazione
con ogni uomo di buona volontà.

L’esperienza

L’uomo attua la sua esistenza attraversando e vivendo svariate situazioni ed esperienze. Alcune di esse sono positive
e belle e costituiscono quell’aspetto della vita che potremmo chiamare luminoso, in contrapposizione alla
dimensione notturna e avvilente, segnata da situazioni dolorose ed oscure. Si vorrebbero certo evitare queste
situazioni, ma raramente è concesso. sono esse che s’impongono alla vita, rendendola faticosa e dolente. Queste
esperienze assumono i volti più svariati e differenti. C’è il male della natura e c’è poi il male responsabile, dove
l’uomo è vittima e artefice o carnefice, da quello che accade su vasta scala, a quello che è il male quotidiano,
fatto d’aggressività e di gelosie, di meschinerie e d’individualismi esasperati del “ciascuno per sé”. Opportunamente
il Vaticano TI ha ricordato che è dallo squilibrio “interno dell’uomo” che nascono gli altri conflitti, sì che
l’uomo necessita anzitutto di una riconciliazione con se stesso (Gaudium et spes, 10).
Dove collocare l’ampio e variegato corteo delle malattie che affliggono la persona umana e la costringono a
ricoveri penosi e interminabili nei grandi o piccoli ospedali delle nostre città’? Chi frequenta questi luoghi sa bene
che essi diano l’impressione di essere una sorte di concentrato o sintesi vivente del patire umano, perché chi
soffre nella carne ha dolori ancora più cuoi e devastanti nello spirito.

E chi sarà mai in grado di dare una risposta ai continui interrogativi che assalgono il cuore dell’uomo quando è
sorpreso da simili situazioni?

I gravi interrogativi del dolore

L’umanità ha sempre cerato di darsi un perché nelle sue tribolazioni, ora invocando la fatalità e il destino, ora
cercando dei responsabili e puntando il dito contro presunti colpevoli; oppure evadendo la realtà, ritenendola
illusione, o ancora attribuendo la colpa agli spinti del male e anche accusando Dio o, all’opposto, tentando di
scusarlo e di giustificarlo, se non decretandone l’inesistenza.

L’atteggiamento corretto è lottare insieme agli altri certi che il bene avrà l’ultima parola anche quando il male
sembra chiudere la partita a suo favore (cfr G. Paolo TI, Salvifici doloris, n.30)

Ogni uomo conosce un suo patire. Nessuno sfugge al dolore. La sofferenza è un dato fondamentale della condizione
umana che riguarda tutti, come lucidamente c’insegna il libro del Siracide (Sir. 40, 1-11).
La vita è fatta di luci ed ombre. Di chiaroscuri, dunque, dove il buio è percepibile perché
c’era una luminosità. Intanto si conosce il dolore, perché si è stati nella gioia. Da questo
punto di vista la vita dell’uomo può essere letta su due versanti. Sull’uno vi appare come un
essere che è proiettato nell’esistenza, perché colmo del desiderio di vita che intende realizzare
in un progetto significativo. Ma che cosa accade nell’interiorità di una persona se una
grave sciagura, una diagnosi infausta si abbattono su di lui? La sensazione più acuta è il fallimento
dell’esistenza, la rimessa in discussione di tutto se stessi. Se la situazione persiste e si
aggrava quella sensazione si trasforma in un sentirsi abbandonato, tradito, rigettato dalla
vita.
Non è più opportuno tacere e ascoltare? Che cosa ne dice Lui, di questo nostro patire?
Sembrerà forse singolare e strano, eppure i Vangeli non attribuiscono a Gesù nessuna formula
o discorso di “spiegazione” del dolore, delle nostre malattie, dei nostri mali. Né vengono
riportate parole o proposte di atteggiamenti di rassegnazione. Anzi, egli si adoperò con
la parola e con le opere perché fossero vinte le cause del male. Non cercò mai, per se stesso,
la sofferenza. Quando tuttavia non potè evitarla perché era sulla strada della fedeltà al
Padre, vi si sottomise, la “prese su di sé” (Mt. 8,17), e subito la sofferenza acquistò una qualifica
di senso, perdette la sua inutilità e divenne via d’accesso alla pienezza di vita non solo
per Lui, ma per noi tutti. Ora i credenti in Cristo sanno che la anche il loro patire ha un significato,
un valore salvifico.

I discepoli di Cristo hanno sempre fatto fatica a seguire il loro Maestro quando egli ha parlato
del senso che ha la sofferenza nel disegno del Padre. Chi non ricorda l’incontro di Emmaus,
dove il misterioso viandante si affianca ai due giovani, li rianima e li rincuora spiegando
loro che “bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”
(Lc.24,26-27). Fu dunque necessario che i discepoli tornassero di nuovo a scrutare le
scritture, ma ponendosi in ascolto di Colui che aveva patito.

Quale vangelo della sofferenza (SD cap. VI) avrà loro narrato il viandante perché prima ardesse
loro il cuore nel petto e poi si aprissero i loro occhi e riconoscessero il loro Maestro
(Lc.24,3 1.32), ritrovando la fiducia nella vita’?
La storia della salvezza ha il suo inizio effettivo nella decisione da parte di Dio d’intervenire a
favore del suo popolo che vede oppresso (Es.3,7-1O). Giunge infine, attraverso una marcia
di progressivo avvicinamento di Dio stesso, all’incarnazione del Figlio. Più di avvicinamento
di Dio a noi, è forse meglio dire che si tratta di un ‘entrare di Dio, attraverso il Figlio e lo Spinto
Santo, dentro di noi, nella nostra condizione di finitudine e di peccato.
Ci si dovrà chiedere quale sia il motivo che ha mosso Dio a intraprendere tale discesa nella
nostra condizione creaturale. E’ la domanda centrale della fede cristiana: perché Dio si fa
uomo’? Gesù esprimerà l’obiettivo della sua missione, essendo egli il Messia, consacrato
dallo Spirito e “mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori
spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarce razione dei prigionieri, a proclamare
l’anno di misericordia del Signore”
(Lc.4, 1-2).
Due testi dell’Antico testamento sono particolarmente significativi per cogliere questo
“discendere di dio”. Il momento risolutivo del dramma, tuttavia, si avrà nella venuta del Figlio
di Dio “in mezzo a noi”.

Il Dio dell’Esodo: un Dio “per noi”

“Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
sorveglianti: conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo...” (Es.3,7-8). Dio non
solo conosce gli uomini, ma conosce le loro sofferenze e vuole alleviarle. Egli entra
nella nostra vita e non rimane estraneo alla nostra pena. E’ già cominciata, come affermano
i Padri della chiesa, “1 ‘unione della nostra umanità con il Verbo.”
E’ opportuno osservare che la rivelazione del nome di Dio avviene in un contesto di liberazione
e di pena. La situazione di sofferenza è divenuta il luogo di rivelazione della verità di
Dio, di chi è Dio, ed è manifestazione di un Dio che è per noi. Il Dio d’Israele è il Dio che è e
sarà sempre vicino e solidale ai suoi, pronto ad intervenire a loro favore. Il suo nome è promessa
della sua presenza efficace: “Io sono Colui che è per voi”. E tuttavia Dio non agisce
da solo. Immediatamente chiama un uomo, Mosè e lo fa suo collaboratore. Dio che vuole
la salvezza del suo popolo, si serve della mediazione umana. Vorrà sempre aver bisogno del
coinvolgimento degli uomini per portare avanti il suo disegno di creazione e di salvezza.
D’altra parte la storia della salvezza che è una storia di emancipazione, liberazione, salvezza
da situazioni d’indigenza, di povertà, di schiavitù, di malattia, di miseria, di peccato è
una storia che avverrà all’insegna di una stretta collaborazione tra Dio e l’uomo.
Il Dio di Giobbe: un Dio “con noi”
Il libro di Giobbe rompe con i classici schemi interpretativi tradizionali che generalmente vedevano
nella malattia e nella tribolazione l’intervento punitivo di Dio per una colpa. Con
Giobbe si apre una nuova prospettiva. E’ un testo che si direbbe contemporaneo ad ogni
generazione, tanto è l’attualità che si sprigiona da quella narrazione. Vi si narra di un uomo
timorato di Dio e nemico del male, benestante e felice. Nel breve giro di una giornata perde
tutto (il ricco patrimonio, la famiglia, la salute, gli amici). Come reagisce’?
Il libro attribuisce a Giobbe due differenti atteggiamenti. Nel proemio capp.1-2 e nell’epilogo
(42,7-17), ci presenta Giobbe paziente epio che in tutte le sventure non peccò e non
attribuì a Dio nulla di ingiusto. Rimase integro nella fede. Di fronte alle gravi sventure, la reazione
è colma di serenità: egli sa che dinanzi alle tribolazioni l’uomo deve mantenere la sua
fedeltà a Dio, sottomettendosi umilmente, nella certezza che dio rimane giusto e sapiente.
Ma accanto a questo volto di Giobbe “paziente e pio” il libro ne dipinge un altro che appare
contrastante, se non addirittura contraddittorio. La parte centrale del testo ci presenta
un Giobbe contestatore e ribelle che rifiuta ogni giustificazione teologica del male.
Questi due volti di Giobbe richiamano un dato dell’esperienza umana e cioè che c’è chi
sopporta con pazienza e dignità una sventura e chi invece si nbella.
Spesso questi due atteggiamenti coabitano nella stessa persona. A volte riusciamo a integrare
serenamente una sofferenza, una malattia, un fallimento, un lutto, altre volte vi opponiamo
resistenza, abbiamo la sensazione di un’ingiustizia subita.
Può anche accadere che le due contrastanti reazioni siano presenti contemporaneamente:
ad un certo livello di coscienza accettiamo con rassegnazione il dolore, ma in fondo al
cuore nutnamo sentimenti di rifiuto e di ribellione.
Giobbe, torturato fisicamente e moralmente, reagisce e s’appella a Dio: “perché Dio non
interviene? Perché non risponde? “.
Finalmente Dio si manifesta e respinge l’accusa di essere nemico dell’uomo e della creazione
e di disinteressarsi di essi, quasi fosse un sadico Creatore che distrugge l’opera delle sue
mani.
Nella sua risposta Dio ricorda a Giobbe la giusta collocazione degli interlocutori. La creatura
stia al posto suo, non pretendendo di farsi creatore a suo modo. Giobbe è invitato a ricordare
il dramma delle origini, che ebbe inizio da una simile pretesa.
Giobbe ha cercato di risolvere il tema in chiave di problema, mentre portato dinanzi a dio,
ora si tratta del mistero. Il mistero del male nelle sue relazioni con Dio.
Dio, nel suo rispondere, gli ha mostrato come egli si prenda cura delle sue creature. L’uomo
nel dolore appare come un bimbo che ha smarrito il contatto con i genitori, suoi punti di
riferimento. Ma Dio era là, vicino, anche se Giobbe non ne avvertiva la presenza.
E ora Giobbe lo comprende, e reagisce con grande stupore: “Finora ti conoscevo per sentito
dire, ora i miei occhi ti vedono” (Gb.42,5). Parole che esprimono la ritrovata fiducia, una
fede più matura e adulta.
Dio stesso poi dichiara l’innocenza di Giobbe e qualifica ingiusta la posizione degli amici.
“Non avete detto di me cose rette, come il mio servo Giobbe” (42,8) sta a significare che
Dio ha accolto l’invocazione di Giobbe si è schiarito dalla sua parte; denuncia inoltre il loro
comportamento verso Giobbe come privo di solidarietà e di carità compassionevole ed
operosa.
La soluzione del mistero del dolore in Giobbe sta nell’incontro personale con Dio, in una rinnovata
esperienza della presenza del Dio-Vivente che liberi dalla paura, dall’angoscia del
domani, dall’ansia del futuro.
Gesù ritornerà su questo tema della premura di Dio per la sua creatura: se il Padre, dirà, non
permette che vada perduto neppure un capello della vostra testa (Mt. 10,30), come potete
pensare che vi lasci soli e indifesi nelle prove della vita?
Il Dio di Gesù Cristo: “Uno di noi”
Chi ama davvero una persona e la vede soffrire o morire, vorrebbe sostituirsi a lei, vorrebbe
patire e morire al suo posto. La Bibbia ci testimonia l’amore “folle” del re Davide per il figlio
morto:
“Figlio mio! Assalonne, figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io a/tuo posto!” (2Sam.
19,1). Il NT ritorna su quel grido d’un cuore paterno. Ora però si tratta dell’amore di Dio per
l’uomo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito perché chiunque crede
in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv. 3,16).
Nel Figlio crocifisso Dio ha fatto proprio quanto della condizione umana sembrava più lontano
da Dio. La sofferenza e la morte. Anche Gesù, come i tanti Giobbe, ripete il perché? Di
un tale patire e morire. Quello che era l’interrogativo più acuto e doloroso dell’uomo è diventato
la domanda di Dio stesso.
L’uomo adesso fa dunque l’esperienza di questa partecipazione di Dio al suo dolore. Nel
Cristo sofferente ci viene svelato fino a che punto Dio sia amore, e amore “per noi”, pur di
liberarci dalla condizione di peccato e di mortalità.
E’ singolare il fatto che gli scritti del NT ci presentino Gesù come Colui che è allo stesso tempo
il portatore della gioia, l’amico capace di consolare e di liberare da ogni male e l’uomo
dei dolori, Colui che deve molto patire.
La manifestazione di questo duplice volto del Signore segue un andamento progressivo: prima
Gesù è portatore di gioia e di liberazione, poi diviene il servo umiliato e percosso.
Alla conclusione della sua vita, tuttavia, questi due volti si compongono nel Cristo-Risorto:
“il CrocUìsso è il risorto”. L’ultima parola non appartiene dunque al dolore e alla morte, bensì
alla gioia e alla vita.

Come ha sofferto Gesù?

I Vangeli non ci presentano un Gesù campione della sofferenza, che l’affronta con animo
eroico. Di fronte alla sofferenza, Gesù reagisce come in genere reagiamo noi. Non ha cercato
la sofferenza, come testimonia un testo di Giovanni. “Gesù percorreva la Galilea; non
voleva infatti andare nella Giudea perché i Giudei cercavano di ucciderlo... Poi salì anche
lui (a Gerusalemme), non manifestamente, come di nascosto” (Gv 7, 1.10)
Quando però si rende conto che la sofferenza è ineluttabile, vi si decide con forza (Lc.9,5 1),
ma poi vi reagisce in maniera pienamente umana. Al Getsemani non ha che un solo desiderio,
che la sofferenza si allontani: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice,
però si compia non la mia, ma la tua volontà!”. E cerca sollievo presso gli altri: “vegliate con
me” e presso Dio nella preghiera.
Il come Gesù abbia sofferto ci è chiarito soprattutto dalle sette parole che gli evangelisti
attribuiscono nelle ore di agonia sulla croce.
Quelle parole hanno un duplice obiettivo. Svelare il senso della morte di Gesù nel disegno di
Dio, e rivelare la maniera con cui Gesù stesso ha vissuto quell’evento nella sua coscienza di
uomo e nella sua relazione con Dio.
Sono innanzitutto:

• Parole di verità
“Dio mio, Dio mo, perché mi hai abbandonato?” e poi l’intensa invocazione: “Ho sete! “,
gridata da chi aveva affermato d’essere “sorgente d’acqua viva” dicono la condizione di
un “uomo” che grida e lamenta una condizione di dolore assurda.
Gesù non nasconde la verità della sua povertà umana, il bisogno che ha degli altri, il desiderio
profondo di vivere e adempire la missione della sua vita.
• Parole di perdono, di accoglienza e di speranza
“Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno “; “Oggi sarai con me in Paradiso “;
“Donna ecco tuo figlio..., figlio ecco tua madre”
• Una grande parola di fiducia
“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito! “; Ed ancora una parola di speranza: “Tutto è
compiuto!”
Anche la sua morte non ha nulla di eroico, vi traspare una calda umanità. Vi grida la sua
povertà, vi manifesta la sua fede e la sua speranza. Eppure è proprio in quel momento che
il centunone romano si apre alla fede.
Appunto quando non ci si nasconde dietro false apparenze e si cerca invece di costruire
dolorosamente la lotta per la speranza, Dio ci si manifesta.
E tuttavia il significato definitivo della sofferenza di Gesù appare in maniera compiuta solo
nell’evento della resurrezione. Questa è la risposta ultima del Padre al grido del Figlio, che
dà senso e compimento al suo atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza.
Come Gesù dunque non ha dato una spiegazione alla sofferenza, non l’ha neppure eliminata.
L’ha piuttosto svuotata della sua assurdità, del suo non-senso. Anche se rimane
ancora, la sua radice velenosa è stata divelta, sicchè è destinata a scomparire. E’ già vinta,
anche se rimane tuttora. L’originalità della risposta di Gesù sta nell’averla vissuta e attraversata
personalmente fino in fondo. Egli non ha vinto dolore e morte come dall’esterno e dal
di fuori, rimanendo estraneo alla condizione umana segnata da finitezza, vulnerabilità e
mortalità.
Chiesa, comunità sanante
Quale senso ha dunque ora la sofferenza dell’uomo dopo che il Figlio di Dio incarnato l’ha
vissuta personalmente’? Quali atteggiamenti deve maturare di fronte ad essa il discepolo di
Cristo’?
Una serie di atteggiamenti sono importanti per chi fa pastorale accanto a chi soffre e nel
mondo della salute. Ne sottolineo alcuni:

• Uno sguardo contemplativo sulla vita e un compito profetico
E’ lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità e sa cogliere le dimensioni di gratuità,
di bellezza, di provocazione alla libertà e alla responsabilità. Di chi sa cogliere in ogni cosa il
riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente. Questo sguardo non si arrende
sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza e alle soglie della morte.
L’operatore di pastorale della salute ha anche il compito di vigilanza, perché sia assicurata
a tutti una medicina che cura, e di critica di fronte a una medicina che trasforma i desideri
in diritti (cfr. Eutanasia) ed esigenze di immediata soddisfazione.
• Essere segni della vicinanza del Padre e del suo cuore “materno”
L’ideale verso il quale un operatore di pastorale della salute deve tendere è quello di poter
dire, con
s. Paolo, “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20). Nel suo accompagnamento
al malato l’operatore pastorale può essere segno della vicinanza del Padre. E’
importante, a questo proposito, come egli sa stare vicino a chi vive nel dolore e come sa
parlargli di Dio. E’ sanante quella pastorale che è “teologia” perché sa parlare di Dio a partire
dalla sofferenza dell’ammalato e senza offendere la sua sofferenza, facendogli anzi sentire
che il suo grido non cade nel vuoto. Occorre creare uno spazio di libertà. Libertà data al
paziente perché possa esprimere ciò che sente, attraverso la parola, lo sguardo, il comportamento.
Libertà interiore di chi lo circonda, pronto ad accogliere il gesto di tenerezza o di
ringraziamento o di fede, ma anche le lamentele e la collera. Aiutare vuol dire anche sapersi
ritirare al momento opportuno.
• Essere liturghi dentro / ‘esperienza-salute
Il mistero tnnitano non è solamente un’origine da cui veniamo e una meta finale alla quale
torneremo. E la storia d’amore che quotidianamente dobbiamo narrare con scelte di giustizia
e di cura, come risposta alla chiamata di Dio. L’impegno del credente non si esaurisce
nell’entrare, ma nell’uscire dal tempio. La risposta alla chiamata incontra la storia della missione.
La fedeltà alla propria vocazione attinge alle sorgenti dell’Eucarestia e si misura nell’Eucarestia
della vita. E chi fa pastorale accanto al malato e nel campo della difesa e promozione
della salute non può che ricordarlo a se stesso e agli altri.
Il malato ha diritto che la sua esperienza di malattia trovi spazi e momenti celebrativi significativi
ed appropriati. Ma anche la salute, come dono di Dio, nelle sue varie forme esperienziali,
deve avere celebrazioni di lode e le sue liturgie. Tutta la vita, e concretamente anche
come la si vive nel dolore e nella malattia, è la forma di culto, e cioè la liturgia, che Dio più
gradisce (Rm 12,1-4).
• IViaria icona di salvezza e madre della salute
C’è uno stretto rapporto tra il mistero della Chiesa e Maria “riconosciuta quale singolare
membro de/la Chiesa e sua figura ed eccellentissimo modello nella fede e nella carità”,
venerata nella chiesa cattolica come madre amatissima (Lumen gentium, 53). La pietà popolare
e l’esperienza documentano la spontaneità e la fede con cui i malati si rivolgono a
Maria come a un “tu” vivente e si affidano alla sua intercessione. E da secoli la invocano
come Salute degli infermi. Giovanni Paolo TI la definisce come “icona vivente del Vangelo
della sofferenza “ (Iviessaggio per la celebrazione della 11 giornata del malato, n. 6).
Assunta in cielo, ella è l’immagine definitiva dell’uomo secondo il piano di Dio: è ciò che la
Chiesa non è ancora, ma sarà (LG, 68). In lei la comunità cristiana vede il suo futuro e si apre
alla speranza. Maria però non è soltanto segno del futuro di gioia, ma appare anche come singolare esempio di attenzione e servizio a chi soffre.
http://www.mieacpozzuoli.it/doc/spir0207.pdf

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