DON ANTONIO

venerdì 21 ottobre 2011

Omelia sulle virtù cristiane a Vicoforte

Fede

Iniziamo con la fede e cerchiamo di partire dalla festa di oggi: non mi è difficile, proprio
perché il vangelo ha presentato la beatitudine di Maria in quanto ha creduto.
Elisabetta, piena di Spirito Santo, esclamò: “Benedetta tu, fra le donne, e benedetto il frutto
del tuo grembo. Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha
detto”.
Maria è beata soprattutto perché ha creduto; è infatti più importante in Maria che sia
discepola di Cristo piuttosto che madre di Cristo. È fonte di beatitudine per lei, cioè di
felicità, il fatto di avere creduto al Signore, di avere accolto la sua parola e averla realizzata
nella propria vita.
“Maria peregrinò nella fede”. È una formula che il Concilio, nella Lumen Gentium, ha
espresso in modo coraggioso; Maria peregrinò, cioè camminò come una pellegrina nella
fede, quindi visse una vita di fede, fino al compimento glorioso. Dunque, la fede è
anzitutto un abbandono a Dio, un atteggiamento di fiducia, di accoglienza. Non possiamo
infatti ridurre la fede all’accettazione di teorie, questo è un aspetto, ma minimo.
L’atteggiamento della fede è quello della relazione da persona a persona. Avere fede in
Dio significa mettere la propria vita nelle mani di Dio, è un affidamento personale alla
persona del Signore, è l’atteggiamento di chi si fida, perciò si affida, di chi confida in lui,
crede alla sua parola e fa credito della propria vita, cioè si abbandona al Signore affidando
a lui la guida della propria esistenza.
Maria peregrinò nella fede perché dall’inizio fino alla fine visse in modo mirabile –
veramente santo – questo abbandono fiducioso in Dio e arrivò alla gloria proprio perché si
fidò.
La fede, dicevamo, è dono di Dio, ma ogni dono deve essere accolto e non è colpa di Dio
se qualcuno non ha fede, come talvolta si sente dire: “Se è un dono di Dio, e io non ce l’ho,
vuol dire che lui non me lo ha dato”. Questo perché il dono non fa tutto da solo, ma chiede
la responsabilità, chiede la risposta. Il dono iniziale abilita la persona alla relazione con
Dio, perché partendo da me non potrei fare niente. Questo dono teologale mi è però dato
nel battesimo, che è un germe in crescita, e la mia responsabilità sta proprio nel rispondere
alla grazia, accogliendo quel poco in modo tale che cresca. Successivamente, allenandomi
ad accogliere, ad abbandonarmi, ad affidarmi, a confidare nelle piccole cose, divento
capace di affrontare le grandi.
In tutto, nella nostra vita, per imparare a fare grandi passi cominciamo con i piccoli passi.
Non si diventa esperti in un attimo, da zero a mille, e la fede non è mai una magia, ma una
relazione che la persona coltiva crescendo in relazione con la persona del Signore.
Maria è cresciuta, peregrinò nella fede, non nella visione, ma nella fiducia e arrivò alla
pienezza della gloria. Noi contempliamo in Maria assunta in cielo la meta dove anche noi
siamo chiamati ad arrivare. Se è stato possibile per lei è possibile anche per noi, perché lei
ci è arrivata per grazia e anche non ci arriveremo per grazia, non perché conquisteremo
qualcosa, ma anche noi peregrinando nella fede, credendo alla parola che il Signore rivela.
Chiediamo, come abbiamo già fatto nella preghiera iniziale della celebrazione eucaristica
di questa festa, la capacità di “vivere in questo mondo costantemente rivolti ai beni eterni”;
questo è un aspetto della fede. Una persona di fede vive orientata ai beni eterni, ha cioè
uno sguardo lontano, non si ferma e non si fissa sulle cose transitorie, su queste realtà;
tiene invece d’occhio la meta, sa dove vuole andare e sa che quello è importante. Tutto il
resto viene fatto con impegno, con serietà, ma nella consapevolezza che è transitorio, che
non è importante e che verrà lasciato. C’è invece qualche cosa di eterno, di fondamentale
che ci interessa più di ogni altra cosa: è ad esso che tendiamo costantemente. Usiamo
quindi saggiamente dei beni di questo mondo incessantemente orientati ai beni eterni.
Questo è concretamente un atto di fede.
Chiediamo al Signore che ci aiuti a vivere peregrinando nella fede come Maria e che ci dia
la grazia di crescere fino ad arrivare alla gloria, come Maria.

Speranza

Noi viviamo “nell’attesa della beata speranza”. Qualche tempo fa una signora mi aggredì
improvvisamente dicendomi: “Non ci credete nemmeno voi preti”. Così a bruciapelo non
sapevo che cosa rispondere e ho chiesto che si spiegasse meglio. Mi dice: “Lo dite
addirittura nella Messa”. Che cosa diciamo nella Messa? “Di aspettare la beata speranza”;
e allora? “E allora se è una beata speranza vuol dire che non ci credete!”.
Pian pianino cominciavo a capire che la parola speranza era intesa in modo sbagliato. Poi
con quell’aggettivo “beata” sembrava quasi sinonimo di “bella favola”. Nell’attesa della
beata speranza, come dire: pia illusione che ci portiamo dietro. A lei dava fastidio questa
espressione e la sentiva come una mancanza di fede.
In realtà la beata speranza è tutt’altro che mancanza di fede, ma nel nostro linguaggio
corrente, purtroppo, sia il verbo credere, sia il verbo sperare, hanno perso la loro forza
teologica. Infatti, quando nel parlare comune usiamo il verbo credere, è perché non siamo
sicuri di qualcosa. Lo diciamo proprio sostenendo realtà di cui non siamo certi.
Se io ti chiedo se il tale verrà all’incontro, la risposta in genere è: “Mah! Credo di sì, ma
non sono sicuro”. Vuol dire che credere è una questione fortemente incerta. Ugualmente il
verbo della speranza è stato canonizzato da quel ragazzo di Napoli reso famoso dal suo
maestro: “Io speriamo che me la cavo”, dove speriamo significa: “Forse sì, forse no”.
Credere è fondamento, fede è sostanza, sperare è attendere certo. La speranza non è una
ipotesi, ma è una attesa sicura. La virtù della speranza è virtù teologale, non semplicemente
perché l’uomo si aspetta qualcosa, ma perché è la capacità di desiderare con tutte le forze e
di essere certi che quello che si aspetta si realizzerà.
Allo stesso modo la fede non è una delle tante possibili opinioni, ma è una virtù perché
dono di Dio che rende certi: “credo”, cioè ne sono sicuro; “spero” cioè attendo con
certezza. Che cosa? Non qualunque cosa, non quel che in qualche modo mi piace.
Noi possiamo dire, in modo scorretto, di sperare che ci sia meno caldo, di sperare che
venga il sole o che piova, ma in quel caso è semplicemente un desiderio: mi piacerebbe che
il clima fosse così, se arriva sono contento.
La speranza cristiana ha invece per oggetto Dio, esattamente come la fede. Credo in Dio e
spero la sua salvezza. Se ricordate l’Atto di speranza, in esso si dice che spero “la vita
eterna”; l’oggetto sperato è la vita eterna. Per le tue promesse, per i meriti di Gesù Cristo,
spero la vita eterna. In forza della tua promessa, visto che me lo hai promesso e visto che
Gesù Cristo ha realizzato la possibilità, io aspetto con certezza la vita eterna, non perché è
una mia idea, ma perché me lo hai detto tu.
Allora la speranza, come virtù, è desiderio, ma desiderio certo. Viviamo nella beata
speranza che si compia il progetto di Dio; non è una pia illusione, ma la speranza è
desiderio, è passione, è tensione, non semplicemente idea di qualche cosa che ci sarà, ma è
desiderio che ci sia presto, di tensione a questa pienezza di vita.
Chiediamo allo Spirito di Dio che accenda in noi la luce della fede e il desiderio della
speranza e che ci faccia crescere nelle sue sante virtù.

Prudenza

La fede e la speranza sono virtù teologali; vi aspettate adesso che parli della terza e invece
passo alla quarta. Le quattro virtù cardinali si chiamano così perché costituiscono i cardini
della vita umana e il primo di questi quattro cardini è la virtù della prudenza, perché
insieme a fede e speranza ci vuole umanamente prudenza. Che cos’è la prudenza?
Anche qui spesso rischiamo di banalizzare o ridurre il significato per cui uno prudente è
una persona che va piano, che non rischia, che ha paura di diverse situazioni, che non osa.
Notate l’insistenza sul “non fare”: è prudente uno che non fa cose spericolate. In realtà
dobbiamo invece sottolineare piuttosto l’aspetto positivo. Che cosa fa una persona
prudente? Sceglie la strada giusta. La definizione classica di prudenza è questa: “La
capacità di scegliere il mezzo migliore per raggiungere il fine desiderato”.
La prudenza è la scienza pratica, è la capacità di valutare le realtà e di scegliere bene.
Se io devo andare in un paese lontano devo scegliere un mezzo di trasporto e lo scelgo con
dei criteri; posso anche scegliere la bicicletta, però devo tenere conto delle migliaia di
chilometri che ci sono e devo verificare se sono in grado di fare con la bicicletta tutti quei
chilometri e constato che non ci riuscirò in un giorno. Dovrò quindi dormire e mangiare
lungo il tragitto. Chi parte in bicicletta per percorrere mille chilometri senza pensare alle
proprie forze, senza portarsi da mangiare, senza prevedere dove dormire è una persona non
prudente, mentre la prudenza insegna a scegliere in modo proporzionato. Puoi andare in
bicicletta, puoi andare anche in treno o in aereo; se progetti di andare in bicicletta però
progetti e pensi a quello che serve per quel tipo di viaggio.
Hai un fine da raggiungere? Con quale mezzo lo puoi raggiungere? La prudenza è una
virtù umana, cioè appartiene alla nostra umanità, non è un dono infuso, è una qualità della
natura che matura, si sviluppa, cresce. Siamo quindi chiamati a crescere nella prudenza,
cioè nella sapienza pratica, in quella intelligenza concreta che ci fa scegliere ciò che è
bene, perché vogliamo arrivare al fine che è la gloria del regno e non tutti i mezzi portano a
casa.
Se devo andare al di là del mare la bicicletta non va bene; posso attraversare tutta la
Francia, ma quando arrivo sulla Manica la bicicletta non mi porta in Inghilterra, devo
cambiare mezzo, altrimenti non arrivo alla mia meta. Questo vale anche per la nostra
esistenza.
C’è una prudenza grande che ci fa tenere in considerazione la meta ultima e definitiva e
quindi la scelta concreta, giorno per giorno, della strada giusta, dei mezzi opportuni per
arrivare a casa, per raggiungere il fine. Ci sono poi tante scelte pratiche e concrete;
possono essere di speranza, di fede, ma molte volte sono umanamente guidate dalla
prudenza.
Prima di tirare in ballo la speranza teologica, la fede nelle grandi realtà divine, è necessario
umanamente sviluppare una intelligenza pratica, una capacità di gestire bene la propria
vita, di organizzare le cose che facciamo, il nostro tempo, i nostri soldi, le nostre doti, i
mezzi per raggiungere il fine.
Chiediamo al Signore che ci aiuti a maturare umanamente; la prudenza è uno dei quattro
cardini su cui la persona si muove. Chiediamo agli angeli di Dio che ci accompagnino in
questo cammino di maturazione umana, che ci insegnino la strada, ci diano la capacità del
discernimento per essere in grado di scegliere ai bivi la strada giusta per arrivare alla meta,
ricuperare il tesoro ed essere a casa.

Giustizia

La giustizia, insieme alla prudenza, è una virtù cardinale. L’atteggiamento di giustizia –
virtù umana – è un cardine portante della nostra umanità: è la capacità di essere giusti.
Secondo la definizione classica, “giustizia” è dare a ciascuno il suo. È la giustizia di chi
deve pagare e paga in modo giusto se dà a ciascuno quello che gli viene. È però
l’atteggiamento umano, in genere, di chi riconosce le persone, sa attribuire a ciascuna
l’onore che le compete, sa distinguere fra il Creatore e le creature, sa dare a ciascuno il suo
e, ancora, sa dare peso alle realtà terrene distinguendo ciò che è importante da ciò che lo è
meno. La persona giusta sa quindi riconoscere ciò che è definitivo rispetto a ciò che è
effimero e transitorio.
La giustizia è dare a ciascuno il suo, dare importanza alle cose che hanno importanza, dare
poca importanza alle cose che ne hanno poca, altrimenti è atteggiamento ingiusto, non
equo, non equilibrato.
Riconoscere a Dio l’onore di Dio è la somma giustizia. I teologi scolastici ritengono che la
virtù della giustizia sia alla base della religione; l’atteggiamento religioso è, appunto, il
frutto della giustizia umana che riconosce a Dio il posto divino, il primo posto. Se si
comincia a violare la giustizia, non riconoscendo il ruolo primario di Dio, si continua a
invertire i ruoli, a cambiare i valori, a non riconoscere ciò che vale veramente; in questo
modo si moltiplica l’ingiustizia.
Noi viviamo in una società in cui vengono denunciate molte ingiustizie, eppure dobbiamo
riconoscere che noi uomini non siamo in grado di fare giustizia. Anche se il nostro
atteggiamento di fondo deve essere giusto, l’autentica giustizia noi non la realizziamo.
Che cosa vuol dire “fare giustizia”? È una espressione che sentiamo tante volte ormai
purtroppo ai telegiornali o leggiamo sui giornali: i parenti delle vittime chiedono giustizia.
Ma come si fa a dare giustizia ai parenti di qualcuno che è stato ucciso? Facendo indagini e
scoprendo il colpevole, poi processandolo e punendolo severamente.
Quando è stato trovato il colpevole ed è stato punito, giustizia è fatta? I parenti della
vittima ottengono giustizia in questo modo? È un itinerario, è il massimo che l’umanità
possa fare e tuttavia non è ancora giustizia. Tenere in prigione il colpevole non è
sufficiente. Non intendo dire che sarebbe giustizia eliminarlo, sarebbe invece giustizia
renderlo buono.
L’unico modo di fare giustizia è fare diventare santo il peccatore, questa è giustizia.
Giustizia è fatta quando il colpevole si pente e cambia vita, allora giustizia è fatta. Questa è
la giustizia, rendere a ciascuno il suo, cioè rendere possibile all’uomo di avere il suo cuore
originale secondo il progetto di Dio: avere la possibilità di amare in modo pieno. Questo è
il mio che mi spetta, che pure non ho e che desidero avere.
Noi crediamo che l’opera di giustizia fondamentale l’abbia realizzata Gesù nella sua morte
da innocente a favore dei peccatori. Guardate però che qui avviene il contrario, perché se la
morte di Cristo in croce opera, realizza la giustizia, di fatto – da un punto di vista umano –
è il massimo della ingiustizia, perché non è stato dato a ciascuno il suo, ma all’unico
innocente è data la morte, mentre ai colpevoli viene data la vita. Vi sembra giustizia?
La croce di Cristo capovolge quindi la situazione e crea veramente giustizia perché
capovolge la situazione. Ci fa infatti prendere coscienza di un desiderio profondo che
abbiamo, di una incapacità umana a raggiungerlo e ci dona la possibilità della giustizia
come grazia, non come esercizio ferreo della legge, ma come accoglienza della grazia.
Per grazia è stato dato a noi ciò che appartiene a Dio; lui ha fatto giustizia e noi lo
riconosciamo restituendo a Dio ciò che è di Dio.

Fortezza

Per essere persone veramente umane ci vuole una grande forza, non basta seguire
istintivamente quello che riesce semplice e facile. Ci vuole forza, decisione, impegno,
costanza, ci vuole fortezza e infatti la terza virtù cardinale è appunto la fortezza.
La fortezza è una virtù umana; in qualche modo è anche dono dello Spirito Santo, è uno dei
sette doni dello Spirito, al centro proprio del settenario. Vuol dire che, per essere forti, da
una parte ci vuole l’impegno umano, dall’altro è necessario l’aiuto divino.
Non possiamo però aspettare che questa forza scenda magicamente dall’alto; umanamente
ogni persona deve quindi metterci quell’impegno di forza nel fare il bene, nell’evitare il
male. È qui il punto delicato: la virtù della fortezza coincide con la capacità di scegliere il
bene. Voi mi dite: “Non è facile”: per quello ho detto che ci vuole la virtù della fortezza, se
fosse facile non servirebbe nessuna virtù.
In discesa si va facilmente; se poi la discesa è tenue si scende tranquillamente. Il prudente,
che ha scelto di andare in bicicletta, sa che per fare le salite ci vuole forza; per pedalare in
salita ci vuole la virtù della fortezza e il bene… è spesso in salita.
È più comodo non impegnarsi, è più comodo andare dietro all’istinto, è più facile fare il
male o non fare niente e quindi, capite, è necessario quell’impegno virtuoso che mi fa
forza. Non è facile, ma io ci metto la forza per riuscire, voglio scegliere il bene, mi
impegno positivamente, mi costa, ma lo faccio con forza. Non voglio essere un braghe
molle, voglio essere un uomo forte.
Una donna forte è elogiata dalla Scrittura, ma la forza non si misura con i muscoli, si
misura nella capacità di mandare avanti una famiglia, di mandare avanti una comunità, di
sopportare le situazioni difficili, di stringere i denti e di continuare.
La forza si vede laddove c’è la delusione, per cui non ne hai più voglia, ritieni che gli altri
non si meritino nulla, ma non lasci, non desisti, ti impegni ugualmente. Ci vuole forza per
affrontare l’ingratitudine, ci vuole forza per vincere le tentazioni del male; è certamente
molto più facile cedere. Se uno cede subito le tentazioni scappano, ma quella è la via
facile, non serve niente, basta lasciarsi andare, ma non è vita umana, è semplicemente un
cedimento agli istinti.
Tutti quegli animali che si muovono dentro di noi: i conigli, i pavoni, gli orsi, i lupi, i
porci, i serpenti, gli scorpioni, le vipere, sono dentro il nostro cuore, sono quegli istinti che,
se li lasciamo fare, si sbizzarriscono. Per tenere sotto controllo delle bestie ci vuole però
forza; per dominare il cavallo, il cavaliere deve essere forte. È molto più forte il cavallo,
ma un abile cavaliere lo doma e lo fa andare dove vuole lui; lo ferma, lo blocca, lo fa
galoppare e lo fa stare fermo. Ci vuole forza, non fisica. È la virtù della fortezza che ci
permette di essere veramente persone umane, mature, che hanno il coraggio di scegliere il
bene e di respingere il male per tutta la vita.
Chiediamo al Signore che ci aiuti a crescere come persone forti.

Temperanza

La quarta virtù cardinale è alla base di tutte le altre; con una terminologia antica viene
chiamata temperanza. Noi potremmo rinominarla equilibrio, moderazione; è la virtù di una
persona equilibrata, non esagerata, né nel poco né nel tanto. La temperanza ci può
richiamare linguisticamente il clima temperato. È un clima ideale, né troppo caldo né
troppo freddo. La temperanza è un clima spirituale di persona che vive in questo sapiente
equilibrio, capace di dare valore alle varie realtà, ma senza esagerare. Il pericolo infatti da
una parte è quello dell’eccesso di impegno, anche religioso, del fare troppo, mentre
dall’altra c’è l’uguale pericolo, sebbene opposto, di fare poco. Allora c’è qualcuno che
vuole esagerare nel digiuno e c’è qualcuno che esagera nell’eliminare completamente il
digiuno. C’è qualcuno che fa preghiere lunghissime e qualcuno che prega pochissimo.
L’equilibrio, dicono, non è di questo mondo, come la giustizia, eppure giustizia e
temperanza sono virtù cardinali, cioè sono elementi basilari su cui ruota la nostra vita.
Non è però questione di mediocrità. Secondo il principio antico la virtù sta nel mezzo, ma
il mezzo non è il criterio della mediocrità; non significa non essere né caldo né freddo, cioè
tiepido, ovvero una condizione un po’ indifferente, sopra le parti. Nell’Apocalisse il Cristo
rimprovera la chiesa di essere tiepida e una persona tiepida al Cristo dà la nausea –dice
l’Apocalisse – provoca il vomito e questa chiaramente non è una virtù.
La moderazione sta invece proprio nella capacità di contemperare i vari elementi, l’umido
e il secco, il caldo e il freddo. Ci vogliono entrambi, ma in una giusta misura, in un
equilibrio.
Visto che abbiamo fatto ripetuti paragoni alimentari, in una buona ricetta ci vogliono tanti
ingredienti, ma nella misura giusta, nel buon rapporto. Non si tratta di mettere metà di
tutto, si tratta di mettere la farina e lo zucchero, ma nella misura proporzionata, a seconda
di che cosa vuoi fare. Se fai la pasta lo zucchero non ce lo metti. Non è che lo zucchero sia
cattivo o sia buono, in alcuni alimenti ci vuole ma in altri no. Molte volte, invece, noi
siamo esagerati nella vita spirituale: se una cosa ci vuole ce la mettiamo sempre. Dato che
una cosa è bella, facciamo sempre quella. Una cosa bella, esagerata, diventa brutta. Se
metti lo zucchero nella pasta viene fuori una cosa orribile; se non metti lo zucchero nella
torta non è torta.
Ci vuole allora quell’equilibrio intelligente di mettere le dosi proporzionate a seconda di
che cosa vuoi fare e la temperanza e la prudenza lavorano insieme; una porta non si regge
su un cardine solo. Una porta grande a due battenti ha quattro cardini: prudenza, giustizia,
fortezza e temperanza. Equilibrando bene insieme queste doti umane, naturali, di sapienza
pratica, di forza di fronte alle avversità, di giustizia nel dare a ciascuno il suo e
nell’equilibrio della moderazione, la porta della nostra vita si apre e si chiude e il Signore
vi entra attraverso.
Chiediamo al Signore il dono dell’equilibrio, che cresca di più nella nostra vita questa
moderazione sapiente che ci aiuta a vivere bene.

Carità

Dio è amore e l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio; quindi possiamo
dire che anche la persona umana è amore. Questa è la realizzazione piena del nostro essere,
è il progetto a cui tende il cammino della vita. Siamo stati progettati per essere amore, non
lo siamo ancora e ne sentiamo la nostalgia, sentiamo la mancanza di questa pienezza di
amore, sentiamo il desiderio della totalità proprio perché sperimentiamo quanto sia
lacunoso il nostro amore.
Il vertice di tutta la vita spirituale, animata dalle virtù, è costituito proprio dalla virtù della
carità, virtù teologale, che deriva da Dio e ha Dio come oggetto. Se non ci viene infuso
questo dono celeste, la nostra capacità di amare è estremamente ridotta.
Umanamente una buona natura umana, educata, formata, può essere prudente, può essere
giusta, può essere moderata, può essere forte, ma non può essere capace di amare
veramente. La nostra natura umana, segnata dal peccato, è infatti limitata, incapace,
impotente. Desideriamo l’amore, ma non siamo capaci di amare veramente. Abbiamo
bisogno di questo aiuto divino, di questa presenza di Dio in noi che ci conformi
all’immagine del Figlio suo.
Ora, sostanzialmente, dentro di noi ci sono due possibilità: essere orientati a Dio oppure al
nostro io. Non c’è una terza alternativa: o io o Dio e qui è il discernimento di fondo che
dobbiamo imparare a fare. È la struttura di base della nostra personalità, tutto il resto è di
conseguenza e la scelta che noi facciamo, in forza della grazia che Dio ci ha dato, è proprio
la scelta di essere per Dio, non per me: è l’orientamento di fondo, è l’opzione
fondamentale.
Da questa scelta decisiva di orientare la mia vita a lui deriva tutto il resto dei
comportamenti, delle scelte, dei progressi e la virtù della carità – dono di Dio infuso in noi
per grazia, rinnovato ogni volta che celebriamo i sacramenti – ci orienta sempre di più a
Dio. Si tratta di tenere la strada, si tratta di prendere la strada giusta e di conservare la
direzione.
La scelta l’abbiamo già fatta, ma non è decisiva; molto spesso questa scelta è mescolata
con altre scelte, l’orientamento non è sempre così netto. In teoria la nostra scelta l’abbiamo
fatta, in pratica poi ci barcameniamo un po’ qui e un po’ là, perché l’amore è veramente
uscita da sé e orientamento all’altro.
Non possiamo infatti ridurre la virtù della carità a quell’atteggiamento servizievole,
gentile, premuroso, perché quello fa parte del carattere e nasconde altri pericoli, tipo quello
del dominio, del controllo dell’altro. Molte persone servizievoli e generose in realtà sono
possessive e manipolatrici, mettono il guinzaglio all’altro e lo dominano. Quello non è
amore, è semplicemente un istinto possessivo che si manifesta con tante gentilezze.
Il discernimento dell’amore autentico ci deve portare al superamento di noi stessi e questo
amore grande ci orienta a Dio in modo tale da renderci capaci di essere veramente
amorevoli nei confronti degli altri, liberatori. È questione di legami, di affetto, di relazione
intensa.
Ancora al di là del servizio, delle cose da fare, la virtù della carità ci porta a un affetto
profondo. Ho iniziato infatti dicendo che la nostra vocazione è essere amore, non fare delle
cose, dei gesti, degli atti. Proprio questo modo di essere, questo atteggiamento, questo stile
di vita, questo abito mentale è possibile solo per l’azione di Dio e per la nostra
collaborazione.
Gli angeli collaborano con Dio e con noi perché noi possiamo aderire a lui con tutto il
cuore e amarlo sopra ogni cosa, per essere capaci di amare i fratelli con quello stesso
amore, orientati dove è la vera gioia. È quindi necessario usare saggiamente dei beni
terreni, amare ciò che comanda per ottenere ciò che promette, tenere l’orientamento finale
dove sappiamo essere la vera gioia, cioè la piena realizzazione della nostra persona.
In questo modo potremmo continuare il nostro cammino verso di lui con un atteggiamento
di legame, di affetto, di capacità di relazione aperta, capace di coinvolgere, di dare e non di
dominare.
Chiediamo al Signore che ci doni sempre più la virtù della carità per orientare la nostra vita
a Dio e per distoglierci sempre di più dal nostro io che è la rovina del mondo, perché
l’angelo nemico continua a dirci: “Coltiva il tuo io che è la cosa migliore”.
Più stai dietro al tuo io, fai quello che ti piace e ti coltivi, più il mondo andrà male e lo
spirito nemico regnerà. Più noi ci orientiamo a Dio e più il mondo andrà bene.
http://dondoglio.wordpress.com/2011/10/19/le-omelie-di-vicoforte-e-terra-santa-in-formato-testo/

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