DON ANTONIO

sabato 8 ottobre 2011

GESÙ INCONTRA I MALATI di Luciano Manicardi,monaco di Bose

I vangeli testimoniano che Gesù ha incontrato un gran numero di malati, di persone afflitte da svariate malattie: menomazioni fisiche (zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici), malattie mentali (gli "indemoniati" designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, cioè da una serie di mali la cui origine era attribuita a un impossessamento diabolico), handicap e infermità più o meno gravi, cronici o momentanei (lebbrosi, la donna che soffriva di emorragie, la suocera di Pietro colpita da grande febbre). L'incontro con questa umanità sofferente, con i volti e i corpi sfigurati di cosi tanti uomini, ha costituito per Gesù una sorta di Bibbia vivente, in carne e ossa, da cui egli ha potuto ascoltare la lezione della debolezza e della sofferenza umane, apprendere l'arte della compassione e della misericordia, imparare che la malattia e la sofferenza costituiscono il "caso serio" della vita umana.
I vangeli sottolineano il fatto che Gesù cura i malati (il verbo greco therapeuein, "curare", ricorre 36 volte, mentre il verbo iasthai, "guarire", si trova 19 volte), e curare significa anzitutto "servire" e "onorare" una persona, averne sollecitudine. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l'unicità e si relaziona con la totalità del suo essere, cogliendo ne la ricerca di senso, vedendolo come una creatura capace di preghiera e segnata dal peccato, mosso da speranza e disposto all' apertura di fede, desideroso non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza all'intera sua vita. Il Gesù terapeuta manifesta che ciò che conta è la persona malata, ben più della sua malattia.
Incontrando i malati, Gesù non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma mai che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non chiede mai di offrire la sofferenza a Dio, non nutre atteggiamenti doloristici: egli sa che non la sofferenza, ma l'amore salva! Gesù cerca sempre di restituire l'integrità della salute e della vita al malato, lotta contro la malattia, dice di no al male che sfigura l'uomo. Così Gesù, "medico della carne e dello spirito" (1), fa delle sue guarigioni un vero e proprio vangelo in atti, delle profezie del Regno.
Inoltre Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso che prova compassione per loro, cioè entra in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri: egli si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche (paura di contagio) e le convenzioni religiose (timore di contrarre impurità rituale) suggerirebbero di porre una distanza fra sé e lui, come nel caso dei lebbrosi che Gesù non solo incontra strappandoli dall'isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere! Ai lebbrosi, questi malati che vedevano tutte le sfere della loro vita sconvolte dalla malattia, Gesù si fa vicino, parla con loro, tocca il loro corpo, restituisce loro una vicinanza umana e la comunione con Dio. Così Gesù mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c'è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente. L'atteggiamento di Gesù verso i malati mostra sì la potenza divina che agisce in lui, ma soprattutto la sua misericordia.
Egli poi cerca di portare non solo la guarigione, ma anche la salvezza: la potenza dei suoi atti di guarigione è infatti la potenza stessa dell' evento pasquale, che agisce grazie a un suo indebolimento, a una sua perdita di forza e di energia, insomma a una sua morte. I racconti di guarigione lasciano trasparire la lunghezza e la fatica di tali interventi di Gesù: non si tratta di interventi magici, ma di incontri personali, che costano tempo ed energie fisiche e psichiche per condurre colui che sragiona a entrare in una relazione umanizzata (si pensi all'indemoniato geraseno di Marco 5,1-20), che chiedono a Gesù di informarsi e di avere ragguagli sulla malattia del ragazzo epilettico per poter intervenire (cf. Mc 9,14-29), che richiedono la ripetizione di gesti terapeutici (come nel caso della guarigione del cieco di Betsaida in Marco 8,22-26), che gli sottraggono forze (come nell' episodio della guarigione dell' emorroissa di Marco 5,25-34). È la debolezza Llt1Iana in cui agisce la potenza divina: Gesù guarisce grazie a una morte e a una resurrezione. Ogni guarigione rinvia all'unico grande miracolo che è la resurrezione. Dietro ogni guarigione si staglia la sagoma della croce e della sua paradossale potenza vivificante (2).
Gesù e i lebbrosi
Tra i malati incontrati da Gesù vi sono dei "Lebbrosi": la guarigione di un lebbroso è narrata dai vangeli sinottici (cf. Mt 8,1-4; Mc 1,40-45; Lc 5,12-18); Gesù entra in casa di Simone il lebbroso (cf. Mt 26,6; Mc 14,3); guarisce dieci lebbrosi (cf. Lc 17,11-19); la guarigione dei lebbrosi appare come segno messianico (cf. Mt II,5; Lc 7,22). Anzitutto va ricordato che se per noi il termine "lebbra" designa la lebbra classica, il cui bacillo fu scoperto da Hansen nel 1871, per la Bibbia esso si estende ad abbracciare un'ampia serie di affezioni cutanee e malattie della pelle: micosi, psoriasi, leucodermia, leucoplasia, dermatosi con calvizie, eczema. Si tratta insomma di malattie che si evidenziano sulla pelle e divengono una sorta di marchio visibile, non solo della malattia stessa, ma anche della vergogna a essa connessa (3). Per la Bibbia infatti, la lebbra è un castigo divino che punisce peccati commessi: Maria, sorella di Mosè, divenne lebbrosa a seguito del suo peccato di mormorazione (cf. Nm 12,1-10); David invoca la lebbra sulla casa di Joab come castigo per l'omicidio che questi ha commesso (cf. 2Sam 3,29); in Deuteronomio 28,25-27 la lebbra è elencata fra le maledizioni rivolte al popolo di Dio se non obbedisce alla sua voce. Alla sofferenza per la malattia, il lebbroso unisce anche il dolore e la vergogna per la colpevolizzazione, perché la lebbra lo dichiara pubblicamente peccatore e colpito da Dio. Non è solo vittima della malattia, ma ne è anche colpevole! Questo è lo sguardo che gli altri portano su di lui, questo è lo sguardo che lui stesso ar-r-iva ad assumere su di sé. Del resto la sua identità personale è espropriata dalla sua malattia: egli, dice il Levitico, "porterà le vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: 'Immondo! Immondo!' ... Se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento" (Lv 13,45-46).
Il lebbroso incute paura: può contagiare gli altri e perciò è abbandonato dai familiari, evitato dalle altre persone, emarginato dalla società; questa lo espelle e lo costringe a vivere in luoghi distanti dai centri abitati. Normalmente viveva in grotte o capanne e il suo sostentamento era.. :affidato alla carità di parenti o persone misericordiose che portavano cibo e vestiti in questi luoghi, restando però sempre fisicamente a distanza dai contagiati. I rapporti con il lebbroso sono interdetti ed egli è colpito in tutte le sfere relazionali. La sfera fisica: il suo corpo piagato gli diviene estraneo ed egli può arrivare a non riconoscersi più; la sfera familiare, affettiva .e sessuale: estromesso dalla famiglia, ogni contatto con lui è tabù; la sfera sociale: allontanato dalla società, dal lavoro, dalla partecipazione alla vita del villaggio e alle attività comuni; la sfera psicologica e morale: è giudicato peccatore e colpevolizzato; la sfera religiosa: è escluso dalla partecipazione alla vita cultuale del popolo, cui potrà essere riammesso una volta che i sacerdoti ne abbiano constatato la guarigione. Insomma, poiché per la Bibbia la vita è relazione, il lebbroso, le cui relazioni sono compromesse o proibite, è un morto vivente. Egli, dice il libro dei Numeri, è "come uno a cui suo padre ha sputato in faccia" (Nm 12,14). Per la Bibbia la lebbra è il caso di massima squalificazione sociale e personale, è l'insorgenza del caos nella vita di un uomo. Per attualizzare, potremmo pensare ai casi di persone sieropositive. Forse, l'Aids costituisce un parallelo attuale e pregnante della situazione del lebbroso. Ora, se questa è la condizione del lebbroso secondo la Bibbia, è importante vedere come si comporta Gesù davanti a un lebbroso. Particolarmente denso appare il racconto di Marco 1,40-45:
Venne a Gesù un lebbroso e lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Mosso a compassione, [Gesù] stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci". Subito la lebbra scomparve ed egli guado E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: "Guarda di non dire niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro". Ma quegli, allontanato si, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
Colpisce anzitutto l'atteggiamento di quest'uomo. Se la malattia a volte indurisce, incattivisce, isola, porta a una sfiducia radicale verso gli altri e la vita, quest'uomo mostra volontà di vivere e fiducia in Gesù: la guarigione trova nel malato stesso il suo più potente alleato. Anzitutto, egli supera con uno slancio vitale le barriere poste dalla società fra lui e gli altri e si fa vicino a Gesù, quindi gli dice: "Se vuoi, tu puoi guarirmi". Egli trova finalmente un "tu", qualcuno con cui relazionarsi, che non lo lascia nell'isolamento, che gli rivolge uno sguardo non omologato, diverso, di comprensione e condivisione della sua sofferenza e non di paura o di commiserazione, e così lo autorizza a guardarsi lui stesso in modo diverso, più libero e umano. Quest'uomo non si rinchiude nell'autocommiserazione, non si piange addosso, ma si rimette al buon-volere di Gesù, quasi dicendogli: "Se è tua gioia il guarirmi, tu puoi farlo". Non pronuncia neppure una preghiera che chieda qualcosa, ma una confessione di fede: "Tu puoi". Potremmo parafrasare: se ti sta a cuore di me, il cammino di guarigione può iniziare. La guarigione emerge qui nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, dà gioia a un altro; cioè che la sua persona e la sua vita è preziosa per un altro.
Gesù allora prova compassione: si lascia ferire dalla sofferenza del malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio, ma si contamina e contrae impurità rituale, quella che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa esclusione è il prezzo per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale. La carità non è innocente, ma contamina, compromette. Colui che nessuno poteva e voleva più toccare si sente toccato e questo contatto è linguaggio comunicativo, linguaggio affettivo che trasmette il senso di una presenza amica, linguaggio ben colto da quella pelle che non è solo 1'organo di senso più esteso del corpo umano, ma anche luogo dell' esperienza e dello scambio che noi facciamo del mondo e che il mondo fa di noi. Che uno lo abbia toccato, significa che lui stesso può riprendere contatto con se stesso, che la sua situazione di isolamento non è senza speranza. L'incontro con l'altro, con questa compromissione tattile così significativa, può aiutare il lebbroso ad accogliere se stesso e a guardarsi con occhi nuovi. La guarigione sta avanzando a grandi passi! Ma anche a caro prezzo!
Gesù, infatti, viene a trovarsi nella situazione del lebbroso: "Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti" (Mc 1,45). Gesù prende su di sé la sofferenza dell'altro e così appare veramente come il Servo sofferente che ha assunto e portato le nostre malattie e infermità. Non a caso il testo di Isaia 53,4, nella versione latina della Vulgata, parla del Servo sofferente come di un lebbroso: "Nos putavimus eum quasi leprosum", "Noi lo considerammo alla stregua di un lebbroso"4. Al cuore della sofferenza e della malattia sorge la luce dell' evento della redenzione.
Gesù e i sofferenti psichici
I vangeli ci narrano che tra le persone incontrate da Gesù, diverse erano "possedute da spiriti impuri" o "indemoniate". Espressioni che spesso designano uomini e donne sofferenti psichicamente, ovvero afflitti da mali che si manifestavano in modo violento o bizzarro o anomalo e che, per questo, erano attribuiti a spiriti maligni. In questo modo anche malattie inquietanti a cui oggi sappiamo dare il nome di epilessia (cf. Mc 9,14-28) o di schizofrenia (se questa si deve riconoscere nell'''indemoniato'' di Gerasa: cf. Mc 5,1-20), potevano essere sentite non solo come un' assurdità di fronte a cui l'uomo era totalmente impotente, ma recuperate all'interno di una coesa visione del mondo, potevano essere rese sopportabili e anche affrontate e combattute: Dio, infatti, è più forte degli spiriti impuri e demoniaci e può sconfiggerli liberando l'uomo.
La narrazione di Marco 5,1-20 appare particolarmente densa e capace di parlare ancora oggi con speciale pregnanza. L'''indemoniato'' va incontro a Gesù, quasi attratto dalla sua personalità, e in questo suo andare da Gesù mostra la sua sete di relazione, di vita, ma una sete che si esprime in modo impetuoso, aggressivo, che suscita più paura che simpatia. Egli desidera incontrare Gesù, ma le sue parole risuonano come minaccia e quasi incitano a respingerlo e ad allontanarsi da lui. Spesso questi malati sono presentati come abitati da una profonda dissociazione interiore che li porta a parlare di sé al plurale ("Che c'è fra noi e te?": Mc 1,24; "Mi chiamo Legione, perché siamo in molti": Mc 5,9). Straniato da se stesso, quest'uomo è stato anche reso straniero rispetto alla sua comunità civile: la società l'ha relegato a vivere tra le tombe, in un cimitero, in un luogo di morte e non di vita, evidenziando così lo stigma che la società appone a persone con tali disturbi. La compagine civile si difende da questo malato che incarna in sé l'impotenza dei sani e rappresenta oscuramente la paura di qualcosa che può riguardare chiunque: allontanandolo, essa esorcizza la paura che egli suscita. L'autolesionismo di quest'uomo che si percuote, la bizzarria del suo girovagare senza requie nella nudità, il suo stravolgere il rapporto con il corpo, lo spazio, il tempo, gli altri, fanno di lui il rappresentante di quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e che per questo poteva, sia pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla vita ordinaria.
Anche le relazioni familiari sono compromesse quando un componente della famiglia è oppresso da tali disturbi, come appare dal grido disperato del padre del ragazzo epilettico che si rivolge a Gesù implorando: "Abbi pietà di noi e aiutaci" (Mc 9,22).
Gesù non si sottrae alle tensioni profonde che l'incontro con questa persona suscita: egli accoglie le urla e le invettive dell'uomo, non fugge di fronte alla violenza verbale, non si lascia intimidire dalla pericolosità dell'uomo o bloccare dall' espressione esterna del malessere, ma ascolta la sofferenza da cui nascono le grida che proclamano il rifiuto della sua persona sentita come una minaccia: "Non tormentarmi!" (Mc 5,7); "Sei venuto a rovinarci!" (Mc 1,24). Significativamente, gli atteggiamenti di difesa e di non coinvolgimento che la società ha mostrato nei suoi confronti, sono ora gli atteggiamenti che il malato oppone a Gesù.
Gesù guarisce questa persona non in modo magico, ma con l'arte e la fatica dell'incontro e del dialogo. Nelle guarigioni operate da Gesù non vi è nessuna traccia di ricorso alla magia. Non vi è nessuna elaborata invocazione di nomi divini, nessuna sequenza di lettere o sillabe prive di senso, nessuna manipolazione coercitiva di poteri invisibili, cose tutte ampiamente attestate nei papiri magici ellenistici. Non troviamo neppure alcun ricorso a formule tecniche esorcistiche (5). In Marco 5,7 gli elementi sempre ricorrenti nei formulari esorcistici ellenistici dell'epoca sono posti in bocca all'indemoniato: "Gesù, ti scongiuro, per Dio, non tormentarmi". È l'indemoniato stesso che usa la formula esorcistica tecnica "ti scongiuro", che chiama per nome il suo avversario e lo scongiura in nome di Dio ("Per Dio") di non tormentarlo. Siamo di fronte a una demitizzazione delle tecniche esorcistiche allora in voga e a una critica dell'aspetto magico e ritualistico in cui potevano cadere (6).
Gesù scaccia i demoni "con la parola" (Mt 8,16): la sua azione terapeutica avviene all'interno di un colloquio. E, come in un dialogo terapeutico, Gesù inizia chiedendo il nome alla persona (cf. Mc 5,9), cerca cioè di far emergere la sua identità personale, di restituirla a se stessa. Per Gesù la malattia non espropria la persona della propria identità (il malato non è, ad esempio, "un alzheimer"...). A volte Gesù si informa sulla malattia della persona, chiedendo ragguagli ai suoi conoscenti ("Da quanto tempo gli accade questo?": Mc 9,21), sempre spende tempo ed energie in questi incontri in cui con la parola egli scioglie colui che la società voleva legare (cf. Mc 5,3-4). Gesù ascolta, accoglie, sta con, dona il suo tempo, dà la parola, in certo senso presenta "se stesso come farmaco" e così fa dell'incontro lo spazio di trasformazione della persona. La guarigione è anche ritrovamento della relazione e della capacità relazionale. Credendo all'umanità di queste persone, Gesù le personalizza, infonde loro fiducia in se stesse, mostra che un futuro sensato è loro possibile. Vivendo una relazione sensata e normale con loro (senza fusione, ma con la giusta distanza), egli arriva anche a vederle restituite alla capacità di comunicazione con se stesse, con gli altri e con Dio. Né Gesù "si appropria" della persona per cui ha fatto tanto, anzi la restituisce alla sua vita: "Va' nella tua casa, dai tuoi, e annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto" (Mc 5,19). Certo, la guarigione di colui che delirava, girava nudo, si percuoteva e che ora appare "seduto, vestito e sano di mente" (Mc 5,15) ha anche un prezzo sociale: il prezzo simbolizzato dalla perdita dei due mila porci in cui entrano gli spiriti impuri e che affogano nel mare (cf. Mc 5,11-14). "La guarigione profonda dell'uomo chiede un prezzo a quella stessa società civile che non ha saputo accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo reinserimento sociale" (7). E anche quest'ultima osservazione dice l'estrema attualità delle narrazioni evangeliche di guarigioni di "indemoniati".

[1] Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium 5.
[2] Cf. v. Fusco, "Dall'esegesi all'ermeneutica: i miracoli in Marco", in Rassegna di teologia 6 (1984), pp. 481-49I.
[3] Cf. Levitico, a cura di E. Cortese, Marietti, Casale Monferratto 1982, pp. 65-73; E. Testa, "Le malattie e il medico secondo la Bibbia", in Rivista biblica italiana 1/2 (1995), pp. 253-267.
[4] Cf. E. Bianchi, I derelitti nella Bibbia. I) Gli indigenti che Dio ama. II) I senza dignità nell'Antico Testamento, Qiqajan, Base I988.
[5] Cf. H. Clark Kee, Medicina, miracolo e magia nei tempi del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1993.
[6] Cf. E. Bianchi, "Esci da costui! (Mc 1,21-28)", in Parola, Spirito e Vita I9 (1989), pp. 109-137.
[7] Dal discorso del cardinale Carlo Maria Martini al convegno internazionale "La cittadinanza è terapeutica. Confronto sulle buone pratiche per la salute mentale", tenutosi a Milano nei giorni 15-17 aprile 2002.


http://www.ministridimisericordia.org/

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