DON ANTONIO

venerdì 21 ottobre 2011

BEATI QUELLI CHE SOFFRONO?Romano Martinelli

Neppure per un attimo ardisco mettere in questione la verità della beatitudine evangelica...
Tuttavia devo raccogliere l'interrogativo muto di non pochi consacrati, che confidano la loro sofferenza per climi e condizioni così sfavorevoli di vita da trasformare la comunicazione quotidiana in lamentosità e riflessioni sofferte, rammaricate. Il succo del discorso è che la sofferenza è solo perdita, e per la guida il rischio diventa quello di ascoltare delusioni, risentimenti, accuse, parole amare, più che insieme cercare Dio positivamente in tutte le cose. Una benedettina americana, che ha fondato e dirige in Pennsylvania un centro di aiuto e di ricerca per la spiritualità contemporanea, osserva: «Scoprirci costretti e ridimensionati, smascherati nella nostra arroganza dal potere di qualcosa che è più grande di noi (un sistema, una malattia, una situazione che non abbiamo contribuito a creare), è un'esperienza amarissima e disperante». (101)
Davvero sono beati quelli che vivono queste sofferenze? Essi percepiscono che la scelta radicale di vita, a cui si sono sentiti chiamati, gradualmente è diventata un'esistenza grigia, impoverita, defigurata. Incrociando molteplici esperienze di limiti personali e di vulnerabilità (incomprensioni, fatiche apostoliche, problemi di salute, scarsi riconoscimenti), la vita consacrata non diventa più ciò che è chiamata a essere: progressiva trasfigurazione nella Bellezza, segno forte di una vita vera e felice.
Del resto la vita quotidiana di ogni credente è intessuta di risposte che non possono non essere fragili, piccole, comunque inadeguate alle sfide che oggi la società e la stagione della storia ci impongono.
Perché non rileggere il fenomeno della vulnerabilità cercando un'interpretazione più complessiva, prima ancora che decidere che uso farne, come discepoli, come uomini e donne, vivendola secondo la sapienza del Vangelo?
Il problema è urgente e, a onor del vero, non riguarda solo i consacrati.
Per questo di recente si è scritto molto sulla fragilità e sulla debolezza, in particolare sulla loro forza e positività. Meditazioni pie e riflessioni filosofiche impegnate arrivano dagli ambienti più diversi. (102) La preoccupazione di capire quest'ambigua esperienza umana, di apprezzarne la preziosità e di comunicarne il senso, si associa al tentativo di usare un linguaggio divulgativo che consenta di ampliare la condivisione delle scoperte e rispondere alle urgenti domande.
In questa direzione ho cercato molto anch'io, trascinato in una serie di sconfitte, di malattie, di insuccessi educativi. Vivere la povertà quotidiana in modo dignitoso, da credente, nella convinzione che la fede, anche quando si è fragili e deboli, manifesta tutta la sua fecondità e verità per me rimane faticosa conquista, mai definitiva. Senza negare il valore delle acute indagini astratte, preferisco il sapore della testimonianza di quanti, uomini e donne, ragionano a partire dalle proprie debolezze, nella lotta e nel combattimento interiore. La loro comunicazione veicola vibrazioni vere e toni di particolare intensità, capaci di provocare risonanze che evocano in me momenti trascorsi e nuove interpretazioni di passate e presenti debolezze... A partire naturalmente dagli Apostoli, che hanno rivissuto nel ministero la debolezza di Gesù di Nazaret.
La vulnerabilità di Paolo
L'Apostolo è un maestro nell'affrontare le molteplici forme della sua debolezza. Per coglierne la sapiente pedagogia,scegliamo dall'epistolario solo qualche frammento significativo.
Prendiamo in considerazione tutta la Seconda lettera a Timoteo, una sorta di testamento dell'apostolo. In essa Paolo (o chi per esso) si rivolge al giovane annunciatore che tende a essere ansioso e si scoraggia facilmente. Paolo lo richiama; non deve accadere questo! Confida al discepolo lo stato di profonda debolezza che sta attraversando la sua esistenza; nella sua comunicazione affettuosa, disarmata, al tramonto della sua vita, raccomanda: «Sii mio compagno nella debolezza». 103 Egli constata che la morte è sempre più vicina (2 Tm 4, 6-7): la sua corsa è al termine. La solitudine diviene sempre più aspra (2 Tm 4, 10ss). Tutti, vergognandosi delle catene dell'apostolo, lo hanno abbandonato. Si sente accusato, votato alla morte (2 Tm 1, 8.12.16) proprio da quanti si sono allontanati dal Vangelo (2 Tm 1, 15; 4, 10). Nessuno lo assiste, è attorniato da apostasie, infedeltà, opposizioni. La stessa predicazione appassionata non ha successi propriamente travolgenti.
È propria dell'apostolo, e di quanti esercitano il ministero, l'amara esperienza della debolezza, dell'abbandono delle persone più fidate, dell' estenuarsi fisico e psichico, delle catene stesse. N ella Seconda lettera a Timoteo la sofferenza è presentata come la forma del servizio al Vangelo (2 Tm 2,3), un vero martirio quotidiano (2 Tm 1, 8). La debolezza del Vangelo diventa visibile e tangibile nella carne di chi lo annuncia. La debolezza del Cristo, giudicato come un indegno, diviene la debolezza di Paolo gettato in catene e, in futuro, dello stesso Timoteo, che dovrà mettere in conto l'essere trattato come un malfattore. Niente tuttavia potrà incatenare la Parola di Dio, che non si lascerà disattivare né imprigionare, perché anzi in questa situazione sfavorevole scatenerà tutta la sua efficacia.
In Paolo, pertanto, il momento della debolezza non è mai il momento della resa, ma dell'esperienza feconda, in cui egli è sommamente attivo e chiede a Timoteo, con tre immagini, uno sforzo e un' abnegazione concentrata: «Affronta il futuro con la laboriosità del contadino, il coraggio e la pazienza del combattente e del lottatore». (104) Nella sua fragilità rimette a fuoco, sotto l'azione dello Spirito, l'immagine di Dio, ridefinendo la propria vita come benedizione, autocomprendendosi come un dono e vincendo il rischio di vergognarsi del Vangelo.
Già all'inizio della lettera, nella sua fragilità rende grazie, scoprendo quanto Dio sia affidabile (2 Tm 1, 2), capace di compiere le sue promesse senza venir meno (2 Tm 2, 13; 4, 18). Il vigore dello Spirito lo rende più forte di ogni sofferenza (2 Tm 1, 7-8) nei rapporti che vive (2 Tm 1, 3) e nella speranza che sa infondere (2 Tm 1, 9-11). L'uso delle Sacre Scritture gli consente di ravvivare il dono, come fuoco sotto la cenere (2 Tm 1, 6-14) e di apprezzare la vita, non in termini vitalistici, ma quasi per una trasfigurazione che avviene nel ministero. Così può esercitare il suo servizio con energia, misurandosi sulle esigenze di Dio, senza lasciarsi condizionare dalla propria timidezza o dal timore di sedicenti apostoli in concorrenza con lui; «Purché il Cristo sia annunziato». (105) Per i doni posti nelle sue mani (Lettera a Tito, 3, 5) e una nuova comprensione del Mistero di Cristo (2 Tm 2, 13; 4, 18), può edificare, nella gioia della verità, la comunione nella Chiesa di Dio (2 Tm 2, 19-21).
È consolante soffermarsi sulla meditazione che Paolo fa della debolezza, anzi è necessario. Egli giunge alla conclusione di non essere nulla di fronte alla forza di un sistema di falsi valori, solidamente radicato nell'istituzione di una grande società. Qualsiasi tentativo di cambiare questo mondo - che è quanto la sua missione richiede - lo mette necessariamente in conflitto con posizioni ben consolidate. È dunque sincero quando esibisce la propria debolezza, insistendo sulla disparità tra la situazione in cui versa e ciò che dovrebbe essere. (106) Dichiara di mancare proprio di ciò che gli è essenziale, di ciò che sarebbe necessario. Una situazione non scelta né tanto meno coltivata: si dice perdente, perché il ministero lo pone in una situazione perdente! Ma seguire Cristo equivale a portare nel proprio corpo il morire di Gesù (2 Cor 4, 10). (107) Come durante la vita terrena di Cristo fu la sua debolezza a essere manifestata (e così si manifestò la potenza del Padre), così nel ministero si deve manifestare la simultaneità di debolezza e potenza (il morire e il vivere di Gesù). Paolo comprende che la sua Grazia gli basta, perché nella debolezza la potenza di Dio giunga a compimento (2 Cor 12, 9). L'argomentare degli avversari, che lo accusano d'inconsistenza e fragilità, viene così rovesciato a suo favore: «Quando sono debole è allora che sono forte». (108) La sua povertà è il segno della partecipazione al Mistero di Cristo. L'occhio della fede intravede nella propria carne una debolezza condivisa con Lui. Il proprio ministero è ricompreso, non a partire da successi o consensi, ma dalla somiglianza alla vicenda di Gesù.
La debolezza di Dio
Il discepolo, scontrandosi con la propria e altrui fragilità, vive diverse reazioni. Vi è costretto. Non può far finta di niente, ritenendolo un fatto di poco conto. Reagisce in molti modi e le diverse reazioni tradiscono il livello e la qualità della sua fede. Lo fa con tutte le sue risorse, perché la fragilità, anche la meno sofferta, è un fenomeno con il quale non si può semplicemente convivere. Per uscirne, talvolta si tenta l'estremo colpo di reni del volontarismo. Altre volte ci si arrende mistificando il fenomeno. Si tenta anche un'impossibile fuga, oppure ci si scatena in lamentosità aggressive, in deplorazioni o accuse. Non mancano atteggiamenti di negazione del fenomeno o di rassegnazione.
Tutte queste reazioni si condensano in linguaggi ed espressioni rassicuranti o deresponsabilizzanti: «Tanto fan tutti così!... Non c'è problema, tranquillo... Quando c'è la salute... lo non mi arrendo... La colpa è di questa società...». Ma poi ci si accorge sempre più che la debolezza non interpretata né accolta degenera in confusione e disperazione. Viene infatti attaccata la speranza e quindi l'identità del discepolo. Occorre una parola che - come in Paolo - non funzioni come uscita di sicurezza, ma trasformi la crisi e gli ostacoli connessi in opportunità.
Più in profondità, a ben vedere, la debolezza, come ogni forma di sofferenza, chiama in causa l'immagine di Dio o, più precisamente, il modo in cui pensiamo e viviamo il rapporto con Dio. La sofferenza, cioè, mette in questione l'immagine di un Dio ostile o disinteressato verso la nostra profonda aspirazione alla felicità.
Allora, o lo si mette sotto accusa o lo si riscopre. Comunque si è costretti a cercarlo ancora, affinché affiorino nuovi contorni del suo Volto e una forma inedita di vicinanza.
Sovente la gente si rifugia negli stereotipi: «Dio per me non c'è più... La volontà di Dio è questa...». La debolezza vissuta nella fede cela nel suo grembo una rivelazione nuova e insieme una nuova tentazione: quale salvezza? Il tempo che vivo è ora che salva oppure ora che fa morire?
L'icona dell'ora di Gesù nella passione, che non offre una manifestazione di potenza, sembra ambigua, non ora favorevole, ma minacciosa.
Per questo è decisivo ritornare alla sorgente, ride finire l'immagine di quel Dio che serviamo. Chi sia Dio, che cosa faccia Dio per affrontare la congiura diabolica, come provi all'uomo il suo amore sino alla fine: è questo l'interrogativo di fondo. Qual è la vera novità di Dio?
«Avete visto adesso cosa voglia dire essere Maestro e Signore»: (109) la Gloria è questa debolezza. Così il consacrato scopre che nelle sue deboli mani possiede, per Grazia, tutta la potenza di Dio. E la libertà piena e matura, perseverante, nasce solo da questa contemplazione della debolezza di Dio, da questa paradossale teofania.
«Dio è l'Onni-impotenza del Calvario. Ci vuole poca potenza per esibirsi, ce ne vuole molta per nascondersi. Dio è Potenza illimitata di nascondimento di sé». (110) Il cuore della Gloria è questa debolezza. (111)
Con suggestivo linguaggio poetico, un amico prete, nella memoria dei suoi primi venticinque anni di ordinazione, riconosce nella propria debolezza il crescere di una conformità immeritata all'Amore Crocifisso:
Acuto, spada feroce
che percuote la carne,
il senso del peccato
abita in me.
Impietoso, cuore del Dio
fedele all'amore,
il dono non teme
questa umanità.
Attimo di profonda consapevolezza.
Spettacolo di miseria
e di grandezza
davanti ai fratelli:
sono la croce
dalla quale Cristo
grida la sua vittoria.
(don Sandro)
Le vie e i frutti dello Spirito
La trasfigurazione della debolezza in esperienza di novità e annuncio della vittoria di Cristo nella propria carne accade per l'effusione dello Spirito, che viene in aiuto alla nostra fragilità (cfr. Lettera ai Romani, 8, 26). La sua azione potente trasforma la debolezza in chance, in luogo di fruttuosità, ove il discepolo sperimenta in sé ciò che è possibile solo a Dio. La Pasqua di Gesù crea nuove iniziative e possibilità, grazie alla consolazione delle Scritture.
I frutti? Anzitutto, con lucidità, si conosce il proprio vero volto. Si evita quel pericolosissimo trasferimento di aspetti negativi su altri, si guarda la propria immagine reale, vincendo quei modi idealizzati di vedersi, smascherando le fantasie su di sé... Ci si scopre bisognosi di tutto, segnati dal limite. Con letizia si fa la scoperta in assoluto più difficile: una visione positiva della creaturalità che accetta nella propria povertà l'urgenza di ricevere. (112) lo sono ciò che ricevo, io sono in quanto sono amato, guarito, accolto.
Ma dove e come s'incontra lo Spirito che trasfigura? La vita quotidiana è luogo ove si legge e interpreta la fragilità e la debolezza come situazioni di Grazia, sia portando con dignità e serenità le proprie cicatrici, sia amando il proprio lavoro e la propria strada come un cammino di pienezza, voluto per noi dal Signore.
Questo è possibile quando la vita, la consacrazione e l'esercizio del ministero poggiano sulla Pietra scartata, cioè sulle ferme basi indicate dalle Scritture (2 Tm 3, 10-17). Esse effondono lo Spirito, sono strumento di santificazione. È decisivo, a questo proposito, il raccordo con la parola apostolica. Inoltre rimane prezioso, insostituibile, vivere in ascolto dei «maestri che sono anche testimoni». (113)
Su questi sentieri il Signore dissemina le sue gioie, per darei forza e consolazione; vuol darci compiacenza, non disgusto, e lo fa attraendoci con iniziative che legano il cuore non all'effimero, ma a "ciò che rimane" (cfr. Prima lettera ai Corinzi 13), dunque a tutta la felicità possibile. Educandoci a un'attenzione seria ai suoi segni, in continua sintonia con la sua Croce e la sua debolezza, nasce un modo di essere e di vivere pacificato, ancorché paradossale. Allora è vero: Beati quelli che piangono nel Signore!
Ovviamente, la terapia della debolezza guarisce, solo se è accompagnata da una continua attenzione al fratello, poiché in principio sta la relazione.
L'accettazione positiva della propria debolezza genera l'atteggiamento fecondo della compassione e della misericordia, intese come volontà affettuosa di condividere la miseria dell'altro e di supportarla. Poiché siamo chiamati a indicare insieme il Mistero, la fraternità (anche con i laici) è luogo rigenerante di ristoro e condizione per essere evangelizzatori.
Nel cammino ci sostiene la compagnia dei santi, in primo luogo di Maria di N azaret, Madre di misericordia, che canta il rovesciarsi delle situazioni negative, ribaltate dalla fantasia di Dio. È sempre giusto sperare. Il Padre del cielo sa fare anche questa grande cosa: rendere la nostra fragilità un luogo insperato della sua manifestazione. Lo dice bene la Chittister, riflettendo anche a partire dalla sua vicenda personale: «La cosa più difficile da capire nella vita è che l'importante non sono le riuscite, non i ruoli che siamo riusciti a ricoprire, ma è lo stesso divenire. È anche il nostro compito più arduo... La speranza non sta nell'attendere che le cose fuori di noi volgano al meglio. Sta nel costruire dentro di noi un rapporto migliore con quello che accade nel nostro animo. Sta nell'aprirei al Dio della novità». (114)

[100] Romano Martinelli (1940), sacerdote dell'arcidiocesi di Milano, è direttore spirituale del Quadriennio teologico del Seminario arcivescovile di Milano a Venegono Inferiore.
[101] Joan Chittister, Segnati dalla lotta, trasformati dalla speranza, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (M!), 2006, p. 165.
[102] Jean-Claude Larchet, Teologia della malattia, Queriniana, Brescia, 1991. Xavier Thévenot, Avanza su acque profonde, Qiqajon, Bose (BI), 2001. Alexandre Jollien, Elogio della debolezza, Qiqajon, Bose (BI), 2001. Anselm Grun - Maria M. Robben, Come vincere nelle sconfitte, Queriniana, Brescia, 1999. Anselm Grun, Non farti del male, Queriniana, Brescia, 1999. Anselm Grun, Spiritualità dal basso, Queriniana, Brescia, 2005. Bruno Chenu, Dio e l'uomo sofferente, Qiqajon, Bose (BI), 2005. Luciano Manicardi, Il volto del sofferente, Qiqajon, Bose (BI), 2004. Philippe Madre, Guarire la ferita della vita, Gribaudi, Milano, 2005. In particolare segnalo di Carlo Maria Martini, La forza della debolezza, Piemme, Milano, 2000, che è un corso di esercizi a partire dalla Seconda lettera ai Corinzi. Gianfranco Ravasi, Qohelet e le sette malattie dell'esistenza, Qiqajon, Bose (BI) 2005.
[103] Seconda lettera a Timoteo, 2,1-13. Per queste riflessioni su Paolo mi sono servito del contributo suggestivo di Jerome Murphy O'Connor, La Teologia della Seconda lettera ai Corinzi, Paideia, Fiero (BS), 1993. Domenica Pezzini, La forza della fragilità, Paoline Editoriale Libri, Milano, 2004.
[104] Seconda lettera a Timoteo, 2, 1-7.
[105] Lettera ai Filippesi, 1, 18.
[106] A questo punto vanno presi in considerazione anche i capitoli 11 e 12 della Seconda lettera ai Corinzi.
[107] Cfr. anche Seconda lettera ai Corinzi, 4, 10-12; 8,9; 13,4.
[108] Seconda lettera ai Corinzi, 12, 10.
[109] Vangelo secondo Giovanni, 13, 13.
[110] François Varillon, L'umiltà di Dio, Qiqajon, Bose (BI), 1999, p. 61.
[111] Suggestivi sviluppi del tema in Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1989, pp. 440-441.
[112] Per questa riflessione mi sono avvalso del contributo di Carmine Di Sante, La conversione: verso una personalità rinnovata, Paoline Editoriale Libri, Milano, 1985, in particolare il primo capitolo.
[113] Euangelii Nuntiandi, n. 41.
[114] Joan Chittister, op. cit., pp. 178-179.

http://www.atma-o-jibon.org/

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