DON ANTONIO

martedì 18 ottobre 2011

Valore delle sofferenze e della morte di Cristo di GIOVANNI PAOLO II

1. I dati biblici e storici sulla morte di Cristo, che abbiamo riassunto nelle catechesi precedenti, sono stati oggetto di riflessione nella Chiesa di tutti i tempi, dai primi Padri e Dottori, e dai Concili ecumenici, ai grandi teologi delle varie scuole che si sono formate e succedute nei secoli fino ad oggi. L'oggetto principale dello studio e della ricerca, è stato ed è quello del valore della passione e morte di Gesù in ordine alla nostra salvezza. I risultati raggiunti su questo punto, oltre a farci conoscere meglio il mistero della redenzione, sono serviti a gettare nuova luce anche sul mistero della sofferenza umana, della quale si sono potute scoprire impensate dimensioni di grandezza, di finalità, di fecondità, da quando è stato reso possibile il suo confronto e anzi il suo collegamento con la croce di Cristo.
2. Alziamo gli occhi prima di tutto a colui che pende dalla croce, e chiediamoci: chi è questo sofferente? E' il Figlio di Dio: uomo vero, ma anche Dio vero, come sappiamo dai Simboli della fede. Per esempio, quello di Nicea lo proclama “Dio vero da Dio vero... che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso, si è incarnato e... ha sofferto” (Denzinger-Schönmetzer, 125). Il Concilio di Efeso, per parte sua, precisa che il “Verbo di Dio ha sofferto nella carne” (Denzinger-Schönmetzer, 263). “Dei Verbum passum carne”: è una sintesi mirabile del grande mistero del Verbo incarnato, Gesù Cristo, le cui sofferenze umane appartengono alla natura umana, ma devono essere attribuite, come tutte le sue azioni, alla persona divina. Si ha dunque, in Cristo, un Dio che soffre!
3. E una verità sconvolgente. Già Tertulliano chiedeva a Marcione: “Sarebbe forse tanto sciocco credere in un Dio che è nato, precisamente da una vergine, precisamente carnale e che è passato per le umiliazioni della natura?... Di' invece che è saggezza un Dio crocifisso” (Tertulliano, “De carne Christi” 4,6-5,1). La teologia ha precisato che ciò che non possiamo attribuire a Dio come Dio, se non per una metafora antropomorfica che ci fa parlare della sua sofferenza, dei suoi patimenti, ecc., Dio lo ha realizzato nel suo Figlio, il Verbo, che ha assunto la natura umana in Cristo. E se Cristo è Dio che soffre nella natura umana, come vero uomo nato da Maria Vergine e sottoposto alle vicende e ai dolori di ogni figlio di donna, essendo egli, come Verbo, una persona divina, dà un valore infinito alla sua sofferenza e alla sua morte, che rientra così nell'ambito misterioso della realtà umano-divina, e tocca, senza scalfirla, la gloria e la felicità infinita della Trinità. Senza dubbio, Dio nella sua essenza rimane al di sopra dell'orizzonte della sofferenza umano-divina: ma la passione e la morte di Cristo, penetrano, riscattano e nobilitano tutta la sofferenza umana, giacché egli incarnandosi ha voluto essere solidale con l'umanità la quale man mano si apre alla comunione con lui nella fede e nell'amore.
4. Il Figlio di Dio, che ha assunto la sofferenza umana, è dunque un modello divino per tutti coloro che soffrono, specialmente per i cristiani che conoscono e accettano nella fede il significato e il valore della croce. Il Verbo incarnato ha sofferto secondo il disegno del Padre anche perché noi potessimo “seguirne le orme”, come raccomanda san Pietro (1Pt 2,21; cf. S. Thomae “Summa theologiae”, II, q. 46, a. 3). Ha sofferto e ci ha insegnato a soffrire.
5. Ciò che più spicca nella passione e morte di Cristo è la sua perfetta conformità al volere del Padre, con quella obbedienza che è stata sempre considerata come la disposizione più caratteristica e più essenziale del sacrificio. San Paolo dice di Cristo che si è fatto “obbediente sino alla morte di croce” (Fil 2,8), raggiungendo così lo sviluppo estremo della “kenosi” inclusa nell'incarnazione del Figlio di Dio, in contrasto con la disobbedienza di Adamo, che aveva voluto “rapire” l'uguaglianza con Dio (cf. Fil 2,6). Il “nuovo Adamo” ha così compiuto un rovesciamento della condizione umana (una “recirculatio”, come dice sant'Ireneo): egli “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso” (Fil 2,6-7). La lettera agli Ebrei ricalca lo stesso concetto: “Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Ma è egli stesso che in vita e in morte, secondo i Vangeli, offrì se stesso al Padre nella pienezza dell'obbedienza: “Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). San Paolo sintetizza tutto ciò quando dice che il Figlio di Dio fatto uomo “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).
6. Al Getsemani vediamo quanto questa obbedienza sia stata dolorosa: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice... Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). In quel momento si svolge in Cristo un'agonia dell'anima, ben più dolorosa di quella corporale (cf. S. Thomae “Summa theologiae”, III, q. 46, a. 6), per il conflitto interiore tra le “ragioni supreme” della passione, fissata nel disegno di Dio, e la percezione che Gesù ha, nella sensibilità finissima della sua anima, dell'enorme bruttura del peccato che sembra rovesciarsi su di lui, fatto quasi “peccato” (ossia vittima del peccato), come dice san Paolo (cf. 2Cor 5,21), perché il peccato universale sia espiato in lui. Così Gesù arriva alla morte come all'atto supremo di obbedienza: “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito” (Lc 23,46): lo spirito, cioè il principio della sua vita umana. Sofferenza e morte sono la definitiva manifestazione della totale obbedienza del Figlio al Padre. L'omaggio e il sacrificio dell'obbedienza del Verbo incarnato sono una mirabile attuazione di disponibilità filiale che dal mistero dell'incarnazione sale e in qualche modo penetra nel mistero della Trinità! Con l'omaggio perfetto della sua obbedienza Gesù Cristo riporta una perfetta vittoria sulla disobbedienza di Adamo e su tutte le ribellioni che possono nascere nei cuori umani, più specialmente a causa della sofferenza e della morte, sicché anche qui si può dire che “dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). Gesù riparava infatti la disobbedienza, che è sempre inclusa nel peccato umano, soddisfacendo al nostro posto le esigenze della giustizia divina.
7. In tutta quest'opera salvifica, consumata nella passione e nella morte in croce, Gesù ha spinto fino in fondo la manifestazione dell'amore divino per gli uomini, che è all'origine sia della sua oblazione, sia del disegno del Padre. “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3), Gesù ha dimostrato tutta la verità contenuta in quelle sue parole preannunciatrici: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Diventando “uomo dei dolori” egli ha stabilito una nuova solidarietà di Dio con le sofferenze umane. Figlio eterno del Padre, in comunione con lui nella sua eterna gloria, nel farsi uomo si è ben guardato dal rivendicare privilegi di gloria terrena o almeno di esenzione dal dolore, ma è entrato nella via della croce, ha scelto come sua parte le sofferenze non solo fisiche ma anche morali che lo accompagnano fino alla morte: tutto per nostro amore, per dare agli uomini la dimostrazione decisiva del suo amore, per riparare al loro peccato e ricondurli dalla dispersione all'unità (cf. Gv 11,52). Tutto, perché nell'amore di Cristo si rifletteva l'amore di Dio per l'umanità. Così san Tommaso può asserire che la prima ragione di convenienza che spiega la liberazione umana mediante la passione e la morte di Cristo, è che “in questo modo l'uomo conosce quanto Dio lo ami, e l'uomo a sua volta viene indotto a riamarlo: e in tale amore consiste la perfezione dell'umana salvezza (S. Thomae “Summa theologiae”, III, q. 46, a. 3). E qui il santo Dottore cita l'apostolo Paolo, che scrive: “Dio dimostra il suo amore per noi in questo, che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
8. Dinanzi a questo mistero, possiamo dire che senza la sofferenza e la morte di Cristo, l'amore di Dio per gli uomini non si sarebbe manifestato in tutta la sua profondità e grandezza. E d'altra parte la sofferenza e la morte sono diventate, con Cristo, un invito, uno stimolo, una vocazione all'amore più generoso, come è avvenuto per tanti santi che giustamente possono essere definiti gli “eroi della croce”, e come sempre avviene in tante creature, note e ignote, che sanno santificare il dolore riflettendo in se stesse il volto piagato di Cristo. Esse si associano così alla sua oblazione redentrice.
9. Resta da aggiungere che, nella sua umanità congiunta alla divinità, e resa capace, in virtù dell'abbondanza della carità e dell'obbedienza, di riconciliare l'uomo con Dio (cf. 2Cor 5,19), Cristo è stabilito come l'unico mediatore tra l'umanità e Dio, a un livello ben superiore a quello nel quale si pongono i santi dell'antico e nuovo testamento, e la stessa santissima Vergine Maria, quando si parla della loro mediazione o se ne invoca l'intervento. Eccoci dunque dinanzi al nostro redentore, Gesù Cristo crocifisso, morto per noi per amore, e diventato per questo l'autore della nostra salvezza. Santa Caterina da Siena, con una delle sue immagini tanto vivaci ed espressive, lo paragona ad un “ponte sul mondo”. Sì, egli è veramente il ponte e il mediatore, perché attraverso di lui viene agli uomini ogni dono del cielo e sale a Dio ogni nostro sospiro, ogni nostra invocazione di salvezza (cf. S. Thomae “Summa theologiae”, III, q. 26, a. 2). Stringiamoci con Caterina e tanti altri “santi della croce” a questo nostro dolcissimo e misericordiosissimo Redentore, che la stessa senese chiamava Cristo-amore. Nel suo cuore trafitto è la nostra speranza, la nostra pace.
http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/07-2/GP8828.html


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