DON ANTONIO

giovedì 13 ottobre 2011

La misericordia di Dio è come la migliore giustizia. FONDATI NELLA SPERANZA

Misericordia e giustizia: antinomie o polarità convergenti?
Il campo semantico del termine ‘giustizia’, tradotto in greco con ‘dikaiosyne’, comprende
vari termini quali giustificazione, giusto, giustificare, prescrizione legale, decreto. In tutti questi
vocaboli la radice comune è il sostantivo: dike che significava nell’antica Grecia colei che indica,
che indirizza, quindi anche: direttiva, indicazione, ordine. La personalizzazione della giustizia
vedeva infatti svolgere questo compito alla figlia di Zeus, Dike, che partecipava con suo padre del governo del mondo. Da questo punto di vista, la giustizia è diretta a regolare la convivenza umana.
Nel periodo postomerico, è stata intesa come espiazione, punizione, fino ad essere un concetto
portante della regolazione della vita della polis. Platone sosteneva che la giustizia avrebbe regnato definitivamente quando ciascuno avrebbe fatto ciò che gli spettava. Giusto era, quindi, accettare diversi poteri e dignità all’interno di una compagine sociale e assumere di conseguenza il proprio posto all’interno di quest’ordine.
L’evoluzione del sostantivo ci porta a scoprire altri significati:
-Giusto è colui che si comporta in maniera conforme alla sua collocazione nella compagine
sociale di cui fa parte e osserva tutti i doveri verso gli dei e gli uomini;
-Si accentua la componente etico-giuridica per cui giusto è rapportato all’uniformità alla legge, all’ordine stabilito;
-Il sostantivo nel tempo apre la strada alla giustizia distributiva, nel senso di applicare a
qualcuno il diritto che gli spetta, sia nel ritenerlo giusto che nel punirlo;
-Da qui, deriva il giudizio: come azione che applica la giustizia.
Nell’AT.
E’ interessante notare come l’idea veterotestamentaria di giustizia non si basa sulla corrispondenza tra le azioni e determinate norme legali generali o assolute, ma sulla conformità e rettitudine di un atteggiamento all’interno di una relazione bilaterale. La giustizia divina, perciò, si rivela nella sua maniera di operare nei confronti del suo popolo, cioè, nella sua azione redentrice e salvifica (Is 45,
21; 51, 5ss; 56, 1; 62,1). Prima dell’esilio, chiunque anelasse alla salvezza invocava la giustizia di
Dio, cioè, il suo intervento favorevole. Una costante è che non si parla mai di giustizia in termini di punizione. La cosa si riflette anche nei rapporti sociali: non si dice mai che il colpevole viene punito giustamente ma che il giusto viene dichiarato giusto e il colpevole colpevole (Dt 25,1). L’esilio ha costituito una svolta non solo storica ma anche spirituale per Israele: da allora, si comincia a parlare della giustizia dell’uomo pio di fronte a Dio. La legge divenne l’ambito entro il quale si realizzava e si provava la partecipazione alla giustizia di Dio. Quando il salmista si attribuisce l’aggettivo di ‘giusto’ (Sl 7, 9; 17, 1-5; 18, 22-24; 26, 1-6) lo fa nella consapevolezza di appartenere al popolo cui Dio ha concesso di partecipare alla sua giustizia. E’ un’attribuzione che ha valore di una
confessione di fede; attribuendo a sé il titolo di giusto, non si faceva altro che professare nella legge
la fonte della propria vita quotidiana. Solo raramente troviamo già l’affermazione che di fronte a
Dio non ha nessun valore la propria giustizia (Sl 143, 1; Gb 4,17); quel che conta è la sua
misericordia (Dn 9, 18). E’ così che sempre più la parola giustizia acquista il significato di bontà
(grazia), che viene accostata all’imparziale giudizio di Dio come elemento correttivo.
Il NT.
Ci presenta il gruppo di vocaboli un po’ in tutti i suoi scritti e con sfumature differenziate,
soprattutto, per il termine: giusto. Tuttavia, resta patrimonio prevalente del vocabolario paolino, soprattutto, della Lettera ai Romani. In Mt, Gesù parla frequentemente dei giusti di Israele (Mt 10, 41; 13, 17; 23, 15.29), ma contesta scribi e farisei che credevano di essere sulla via della giustizia (Mt 23, 27ss) perché non la concepiscono come un dono della libera grazia di Dio e restano legati
ad una concezione meritocratica della giustizia, in cui non c’è spazio per la gratuita chiamata di Dio
rivolta a ingiusti e peccatori. Anche Luca sottolinea questa sfumatura, che raggiunge il suo apice
nell’episodio del fariseo e del pubblicano al tempio (Lc 18, 9-14). Per la potenza della parola di
Gesù si apre una nuova possibilità di vita rinnovata per gli uomini perduti, irretiti nel peccato: basti
pensare alla conversione di Zaccheo (Lc 19). In tal senso, in Lc Gesù è il giusto per eccellenza; Dio

lo risuscita prima che avvenga la risurrezione di tutti i giusti e lo investe del potere di giudicare tutti
i popoli con giustizia (At 17, 31). Nel Vangelo di GV la giustizia si è manifestata nel ritorno di
Gesù al Padre perché il mondo non ha in sé l’esperienza della giustizia, neppure nel più degno dei
suoi abitanti. Essa proviene solo da Dio ed è presso di lui. Per questo Gesù ha dovuto separarsi dai
discepoli, affinché non riponessero in lui speranze terrene ma confidassero unicamente nel Padre, con cui egli è una cosa sola. In Paolo troviamo la più vasta gamma di sfumature, condensabili nella concezione della giustizia di Dio come l’opera divina svolta a favore del popolo sulla base della sua alleanza. Dio non si lascia distogliere dal suo piano di salvezza dal peccato dell’uomo ma l’azione giusta di uno solo (Gesù Cristo), la sua assoluta fiducia in colui che può giustificare gli empi ha dischiuso per l’umanità la possibilità di un’illimitata fiducia in Dio. Nella sua dottrina della giustificazione, l’empio viene giustificato da Dio (cfr Rm 4,5), il che comporta che giustificare equivale a dichiarare giusto. In tal senso, il giudizio di Dio più che riconoscere una realtà di
giustizia già in atto, la crea, ovvero: per mezzo del giudizio divino, l’uomo peccatore diventa giusto.
Come a causa di Adamo gli uomini sono diventati realmente peccatori, così, a causa di Gesù sono
resi realmente giusti. (cfr Rm 5,19).

Il concetto di misericordia, a sua volta, rende il significato di tre sostantivi greci:
-Éleos: il sentimento di intima commozione che suscita la vista di qualche male che ha
colpito altre persone, senza loro colpa;
-Oiktirmós: atteggiamento compassionevole di fronte alle disavventure del prossimo, compianto per la morte di una persona cara;
-Splanchna: indica la sede dei sentimenti: viscere (sede dell’ira, del desiderio, dell’amore) o
cuore (centro della sensazione e del sentimento).
I verbi corrispettivi di questi termini esprimono tutti nella forma attiva l’applicazione pratica del
soccorso altrui; nella forma passiva, l’esperienza della misericordia.
Nella parabola del padre misericordioso, l’uso di splanchnízomai mira ad esprimere la totale
disponibilità del padre ad un atteggiamento esistenziale di soccorrevole apertura che segna una
svolta positiva a tutta la vicenda.
Nel suo insieme, la Bibbia concepisce la misericordia a partire non dai sentimenti (anche se sono
molto coinvolti) ma dalla fedeltà di Dio, infatti, il corrispondente di éleos (greco) è hesed (ebraico) appunto: fedeltà, grazia. Misericordia in tal senso è la fedeltà che Dio garantisce e mantiene
storicamente verso il suo popolo ‘alleato’ Israele e che in Gesù si allarga fino ad abbracciare
l’umanità intera. Dio agisce senza riserve e riversa la sua misericordia su tutti, soprattutto, in Gesù,
sui ribelli e verso la loro misera condizione. Gesù si fa carico di ogni miseria umana; la sua morte a favore dei peccatori suoi nemici è il coronamento della sua solidarietà con gli empi. L’universalità
dl suo dono viene comunicata al credente nel battesimo e ogni volta nella predicazione e nel
banchetto dell’alleanza; quindi, a tutti gli uomini che l’accolgono con fiducia. Nel suo modo di
amare, Gesù propone nuovi criteri di azione all’umanità: noi che abbiamo riconosciuto e ricevuto la sua misericordia, siamo debitori agli altri della testimonianza di Gesù Cristo, quindi, sulle sue orme, il grado di disponibilità che dobbiamo manifestare al prossimo è determinato dalla situazione in cui
i fratelli si trovano. Scrive un biblista, H.-H. Esser: “Misericordia è la riconoscente risposta
dell’uomo, dell’umanità, nel momento che questa viene in soccorso senza riserve di quanti sono
completamente rimessi alla misericordia e su di essi riversa tutti i doni di grazie di cui dispone,
personali, comunitari, sociali, materiali.[…] Operare la misericordia è qualcosa che Dio attende
dall’uomo […] Dimostrare a nostra volta misericordia, questo e non altro sarà il criterio del giudice
universale, quando i misericordiosi e coloro che hanno sperimentato misericordia si troveranno di
fronte nell’ultimo giudizio”1.
Viene scardinata così la presunta giustizia di alcuni a danno di altri e si apre per tutti la solidarietà
nella ricerca di una salvezza comune come vocazione umana annunciata da Gesù stesso: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di
lui” (Gv 3, 17). La tentazione del giudizio manifesta il peccato originale, la pretesa sempre in
agguato di conoscere il bene e il male, di deciderlo con atto proprio. Invece, secondo Bonhoeffer,
“conoscendo Gesù, l’uomo non deve più ricercare la conoscenza del bene. […] L’uomo conoscerà
tutto, non più conoscendo il bene e il male, ma conoscendo Cristo come origine e come
riconciliazione”2. Essere di Cristo, seguire Cristo nella storia significa rinunciare a
quell’atteggiamento del fariseo di presunta giustizia che sottopone il fratello al giudizio che
proviene dalla norma del bene e del male. La possibilità unica di giudizio che potrà esercitare il
credente sarà, ancora secondo Bonhoeffer, “nell’orientare fraternamente, nel raddrizzare, nel
riportare sulla buona strada, nell’ammonire e nel consolare e, se fosse necessario, nell’escludere ‘ad tempus’ dalla comunità, ma sempre in modo che lo spirito sia salvo”3.

In un’enciclica degli anni ’80 che varrebbe la pena rileggere e meditare, Dives in
misericordia, Giovanni Paolo II scriveva: “Nella parabola del figliol prodigo non è usato neanche
una sola volta il termine «giustizia», cosi come, nel testo originale, non è usato quello di
«misericordia»; tuttavia, il rapporto della giustizia con l 'amore che si manifesta come misericordia
viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese
che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della
giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre,
merita - dopo il ritorno - di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed
eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però mai
più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più
che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva
toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta. Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva
privato della dignità filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva
anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fìn dei conti, del proprio figlio, e tale
rapporto non poteva essere né alienato né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è
consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a
fargli valutare rettamente il posto che ancora poteva spettargli nella casa del padre” (DM, 5).

In un celebre testo di Henri J.M. Nouwen, L’abbraccio benedicente, il testo evangelico e gli
elementi artistici sono il pretesto per una profonda meditazione sulla parabola della vita umana
come cammino dell’uomo che, dopo aver vissuto il dramma della perdita di senso e aver vagato in
luoghi fisici e metaforici, si riscopre pienamente uomo, rivestito della dignità piena di questo nome,
solo nell’esperienza del ritorno a casa, coincidente nel ritorno tra le braccia del padre, la cui figura era stata inizialmente rifiutata o svalutata, nella pretesa di un’autoaffermazione di sé ricercata al di
fuori di questa relazione. Nouwen arricchisce di elementi autobiografici il suo scritto, provocando
di fatto il lettore ad un viaggio interiore in se stesso per giungere alla consapevolezza che questa
esperienza appartiene a tutti e a ciascuno. Siamo tutti cercatori inquieti di pienezza e spesso la
cerchiamo al di fuori di noi e lontano da Colui che solo dopo tanto ‘vagare’ riconosciamo come
radice, fonte e senso della nostra stessa esistenza.

Scrive Nouwen: “Tornare a casa per me significava camminare passo passo verso Colui che
mi attende a braccia aperte e mi vuole stringere in un abbraccio eterno. […] Più parlavo del Figlio
prodigo e più riuscivo a vederlo come il mio dipinto personale, il dipinto che conteneva non solo il
cuore della storia che Dio vuole raccontarmi, ma anche il cuore della storia che io voglio dire a Dio e al popolo di Dio. Lì c’è tutto il Vangelo. Lì c’è tutta la mia vita. Lì c’è la vita di tutti i miei amici.
Il dipinto è diventato una finestra misteriosa attraverso la quale posso accedere al Regno di Dio. E’ come un enorme cancello che mi permette di trasferirmi dall’altro lato dell’esistenza e da lì
guardare indietro allo strano assortimento di persone ed eventi che costituiscono la mia vita
quotidiana.”

Sono convinta che anche per noi accostare il tema del rapporto fra misericordia e giustizia
chieda il coraggio di ribaltare la prospettiva da cui guardare persone, cose ed eventi; chieda, cioè, di
ripartire dalle radici della nostra storia, dalla relazione fontale con Colui che ci genera, ci
accompagna e ci salva, nella fedeltà del suo Amore eterno, discreto, libero, indistruttibile, che sa
attendere con fiducia incrollabile, senza mai recriminare il tempo perduto, il rapporto mancato.
Ribaltare la prospettiva comporta per noi uscire dal cerchio angusto e stringente di una concezione della giustizia prevalentemente retributiva e meritocratica.

La tentazione sempre in agguato è quella di assumere senza volerlo l’atteggiamento dei
personaggi che fanno da contorno alla scena centrale del dipinto e che con intenso acume Nouwen sfuma così: “Le due donne che stanno dietro al padre a distanze diverse, l’uomo seduto che guarda
fisso nel vuoto senza guardare nessuno in particolare e l’uomo alto che sta in piedi e osserva in
modo critico l’evento che si sta svolgendo sulla pedana dinanzi a lui – tutti costoro rappresentano modi diversi di non essere coinvolti. In loro c’è indifferenza, curiosità, un sognare ad occhi aperti e
uno scrutare attentamente; […] c’è un rimanere nello sfondo, un appoggiarsi ad un’arcata, uno stare
seduto con le braccia incrociate e uno stare in piedi con le mani in mano. Ognuna di queste
posizioni interiori ed esteriori mi è fin troppo familiare. Alcune sono più comode di altre, ma sono
tutte dei modi di non essere coinvolti direttamente. Passare dall’insegnamento a studenti universitari
a una vita con persone handicappate mentali era, almeno per me, un passo verso la pedana dove il
padre abbraccia il figlio inginocchiato. E’ il luogo della luce, il luogo della verità, il luogo
dell’amore. E’ il luogo dove desidero tanto stare, ma dove ho paura di rimanere. E’ il luogo dove
riceverò tutto ciò che desidero, tutto ciò che ho sempre sperato, tutto ciò di cui potrò avere bisogno,
ma è anche il luogo dove devo abbandonare tutto ciò a cui più di tutto voglio rimanere attaccato. E’
il luogo che mi mette di fronte al fatto che accettare veramente l’amore, il perdono e la
pacificazione interiore è spesso più difficile che darli. E’ il luogo al di là del lucro, del merito e
della ricompensa. E’ il luogo dell’abbandono e della fiducia totali”.

Ancora in Dives in misericordia, 6 troviamo: “Il padre del figliol prodigo è fedele alla sua
paternità, fedele a quell'amore che da sempre elargiva al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella
parabola non soltanto con la prontezza immediata nell'accoglierlo in casa, quando ritorna dopo aver
sperperato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con quella gioia, con quella festosità
cosi generosa nei confronti del dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l'opposizione e
l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal padre e non ne aveva
abbandonato la casa.

La fedeltà a se stesso da parte del padre - un tratto già noto dal termine vetero-testamentario
«hesed» - viene al tempo stesso espressa in modo particolarmente carico di affetto. Leggiamo infatti
che, quando il padre vide il figliol prodigo tornare a casa, «commosso gli corse incontro, gli si gettò
al collo e lo baciò». Egli agisce certamente sotto l'influsso di un profondo affetto, e così può essere
spiegata anche la sua generosità verso il figlio, quella generosità che tanto indigna il fratello
maggiore. Tuttavia, le cause di quella commozione vanno ricercate più in profondità. Ecco, il padre
è consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene dell'umanità del suo figlio. Sebbene
questi abbia sperperato il patrimonio, è però salva la sua umanità. Anzi, essa è stata in qualche
modo ritrovata”. […] Proseguendo, si può dunque dire che l'amore verso il figlio, l'amore che
scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver sollecitudine
della dignità del figlio. Questa sollecitudine costituisce la misura del suo amore, l'amore di cui
scriverà poi san Paolo: «La carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse, non si
adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della verità..., tutto spera, tutto sopporta» e
«non avrà mai fine». […] Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente
umiliato, ma come ritrovato e «rivalutato».

Fondati nella speranza
Ogni possibilità reale di vita rinnovata trova il suo fondamento primo ed ultimo nella
risurrezione, o meglio, nell’esperienza del mistero pasquale di Cristo, che si ripete quotidianamente
nella vita del discepolo. In Cristo ritorna a noi la nostra vita liberata dal peccato e dalla morte. Tutti
i figli di Adamo, dopo il peccato, hanno paura della morte e cedono senza accorgersi alla mentalità che nasce da questa paura e che fa ricercare la propria salvezza a discapito di quella dell’altro:
“l’uomo che mi hai messo accanto…la donna mi ha dato…il serpente mi ha detto…sono forse io il
custode di mio fratello?” (cfr Gn 3-4)..

Cristo, invece, si espone liberamente alla morte, prende su di sé quanto noi cerchiamo di
scrollarci di dosso: il nostro peccato, quello altrui, e si fa penetrare dalla morte, sconfiggendola dal di dentro e riproponendo un’umanità non più soggiogata dalla paura. Le sue ferite sono la memoria
immortale della concretezza dell’amore con cui è stato amato l’uomo da Dio e l’annuncio di una
riconciliazione che non si muove nell’orizzonte del timore ma dell’amore che non ha mai fine.

L’uomo è così abilitato a vivere in Cristo una vita nuova, rinnovata; vivere con Cristo
significa piano piano giungere ad una morte simile alla sua.

Scrive Marco Rupnik in un saggio molto bello: “Se durante questa vita terrena si aderisce a
Cristo, quest’adesione si compie nel sacrificio per amore, nel consumarsi per una vita secondo le
parole e l’immagine di Cristo. Lì troviamo la nostra umanità plasmata dal Figlio con lo stesso
amore che lui ha per suo Padre. […] Questo è opera dello Spirito Santo che ci rende cristoformi e
che fa confluire la nostra umanità alla figliolanza, al Figlio. E’ un processo che non accade in modo
astratto, pensato idealmente. Si tratta invece di un evento preciso, il battesimo”

Nel battesimo la nostra vita è praticamente la vita dopo la risurrezione, la nostra risurrezione
è già avvenuta nel battesimo; lì Cristo ci raggiunge nella nostra morte perché noi moriamo con Lui
nella sua morte. Entriamo in tal modo nella croce per morire all’uomo vecchio e ricevere la vita
nuova plasmata ad immagine del Figlio di Dio, tanto da diventare figli adottivi.

Tutta la vita spirituale non è altro che la nostra collaborazione a far crescere dentro di noi
l’uomo nuovo, l’uomo interiore, che si fa carico dell’uomo di terra. Nella vita della Chiesa e ogni
giorno Cristo continua a camminare con noi e in Lui viviamo la nostra incessante redenzione, che si
compie nella liturgia e nei sacramenti, rivivendo soprattutto nell’Eucaristia il mistero pasquale con
cui ci ha raggiunti e coinvolti nell’amore.

Vivi perché in relazione

Andare alle radici della nostra fede e al fondamento della nostra speranza nella risurrezione
dal peccato e dalla morte ci apre all’orizzonte della vita nuova improntata all’edificazione di
relazioni nuove. Siamo vivi perché in relazione con la Trinità Santa, rimaniamo vivi nella
partecipazione alla loro Vita e nella condivisione dell’amore con i fratelli. Quando pensiamo alla
vita eterna, dunque, dobbiamo pensare alla comunione libera e fedele di Dio con ogni uomo. “Solo una relazione libera, tra persone che liberamente aderiscono con amore alla comunione – sottolinea
Rupnik – è sottratta alla morte e alla corruzione”7. Nelle Tre Persone divine, questo è il circolo di
Amore sempre attuale; questa è la vita che attende anche noi se accettiamo di entrare in questo
circolo, in questo vortice che si apre a tutti, senza escludere nessuno.

Cosa comporta per l’umanità tutto questo?
Tutti i battezzati in Cristo, - dice Paolo – sono stati rivestiti di Cristo; perciò, “Non c’è più giudeo
né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Questa verità fonda nella libertà e nell’agape la nuova umanità redenta dal sacrifico del Figlio.

Di conseguenza, scrive ancora Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Dives in misericordia: “La
misericordia autenticamente cristiana è, in certo senso, la più perfetta incarnazione
dell'«eguaglianza» tra gli uomini, e quindi anche l'incarnazione più perfetta della giustizia, in
quanto anche questa, nel suo ambito, mira allo stesso risultato. L'eguaglianza introdotta mediante la
giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria. In pari tempo, l'«eguaglianza» degli uomini mediante l'amore «paziente e benigno» non
cancella le differenze: colui che dona diventa più generoso quando si sente contemporaneamente
gratificato da colui che accoglie il suo dono; viceversa, colui che sa ricevere il dono con la
consapevolezza che anch'egli, accogliendolo, fa del bene, serve da parte sua alla grande causa della
dignità della persona, e ciò contribuisce a unire gli uomini fra di loro in modo più profondo.

Così dunque, la misericordia diviene elemento indispensabile per plasmare i mutui rapporti
tra gli uomini, nello spirito del più profondo rispetto di ciò che è umano e della reciprocafratellanza. È impossibile ottenere questo vincolo tra gli uomini se si vogliono regolare i mutui
rapporti unicamente con la misura della giustizia. Questa, in ogni sfera dei rapporti interumani, deve
subire, per così dire, una notevole «correzione» da parte di quell'amore il quale - come proclama
san Paolo - «è paziente» e «benigno» o, in altre parole, porta in sé i caratteri dell'amore
misericordioso tanto essenziali per il Vangelo e per il cristianesimo. Ricordiamo, inoltre, che
l'amore misericordioso indica anche quella cordiale tenerezza e sensibilità di cui tanto
eloquentemente ci parla la parabola del figliol prodigo, o anche quelle della pecorella e della
dramma smarrita. Pertanto, l'amore misericordioso è sommamente indispensabile tra coloro che
sono più vicini: tra i coniugi, tra i genitori e i figli, tra gli amici; esso è indispensabile
nell'educazione e nella pastorale” (DM, 14).

Peccatori amati

Il cammino della vita che percorriamo verso il Signore e avendo lui stesso come compagno
di viaggio insieme a tutti gli uomini salvati dal suo Amore senza preferenze di alcuni ed esclusione di altri ci fa capaci di accogliere la nostra identità più profonda: siamo peccatori amati.

Nell’orizzonte di questa consapevolezza non ci accompagna più l’interrogativo di una
presunta giustizia o la ricerca di una misericordia elargita a piene mani; viene liberata, invece, una
modalità nuova di guardare noi stessi e gli altri.

Diventiamo capaci di porci con serenità filiale sotto lo sguardo di Dio, di guardarci come ci
guarderebbe lui. “Porsi sotto lo sguardo di Dio – scrive Sr. Anna Bissi, della Fraternità della
Trasfigurazione di Vercelli, psicologa e psicoterapeutica – non significa solo conoscersi nella verità,
ma innanzitutto, sapersi salvati e amati. E’ questa la grande differenza tra un’immagine di sé basata
su categorie unicamente psicologiche e la percezione di se stessi in Dio. […] Questa fede
incrollabile, questa umile certezza di essere amati nel nostro limite apre in noi una dolce ferita,
quella di un nuovo amore per il Signore. Nel mondo interiore allora si apre un varco e la ferita si
dilata. Lì vengono ad abitare i fratelli, amati, perdonati, accolti in un modo del tutto nuovo. L’umile
fiducia sgorgata da un amore più forte del nostro peccato si fa compassione, la misericordia
incontrata in modo inaspettato sul nostro cammino rende a sua volta misericordiosi. E’ la ferita del
farsi prossimo, del divenire attenti a coloro a cui passiamo accanto, capaci di farci vicini, di piegarci
a nostra volta sui loro dolori, di trasformarci in balsamo per le loro ferite, di prenderci cura di loro,
pagando anche il prezzo necessario (cfr Lc 10, 30-37). La persona umile, abitata dall’amore di Dio
che le ha ferito il cuore e da quello dei fratelli nel cui volto di peccatori ritrova se stessa, si accorge
a sua volta di dimorare in lui, nella sua ferita. Nascondimi dentro le tue piaghe, dice la famosa
preghiera tanto cara a Ignazio di Loyola”.

http://www.figliedellachiesa.org/_fdc/Documents/misericordia%20e%20giustizia.pdf

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