DON ANTONIO

martedì 18 ottobre 2011

«OBBEDIENTE FINO ALLA MORTE» (Fil1,27; 2,11)

III. 1 LECTIO
27 Comportatevi dunque da cittadini degni del vangelo di Cristo, perché sia che io venga e vi veda, sia che io rimanga lontano, abbia notizie di voi: che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, 28 senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo per loro è presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio. 29 Perché, riguardo a Cristo, a voi è stata data la grazia non solo di credere in Lui, ma anche di soffrire per Lui, 30 sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora.
2,1 Se dunque c'è qualche consolazione in Cristo, se c'è qualche conforto frutto della carità, se c'è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con un medesimo sentire e con la stessa carità. 3 Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. 4 Ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù:
6 egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l'essere come Dio,
7 ma svuotò se stesso,
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
9 Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome;
10 perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11 e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
La seconda parte della nostra Lectio comprende due unità, introdotte da due particelle avverbiali (1,27: monon «soltanto»; 2, 1: oun «dunque»): Fil 1,27-30, in cui si riporta l'esortazione a «vivere come cittadini degni del Vangelo» e Fil 2,1- 11 in cui Paolo invita i cristiani a «rendere piena la sua gioia» mediante l'adesione a Cristo, che si fece servo obbediente di Dio fino alla morte (31).
Nel v. 27 l 'avverbio «soltanto», in posizione enfatica, sottolinea il passaggio ad una sezione esortativa. Dopo aver presentato la situazione del Vangelo e l'incoraggiamento dei cristiani nell'impegno per l'evangelizzazione, Paolo assume un deciso tono esortativo, con una serie di imperativi che spingono i Filippesi a vivere nell'unità e nell'umiltà la testimonianza della fede (32). Il primo imperativo è politeuesthe (comportatevi da cittadini), applicato al modo di vivere degno del Vangelo di Cristo.
L'interpretazione del verbo (33) può intendersi in senso generico di un comportamento sociale nel contesto della città macedone, oppure il verbo può essere interpretato alla luce di Fil 3,20, dove l'Apostolo tratta della «cittadinanza celeste» (to politeuma en ouranon), con un chiaro riferimento alla dimensione escatologica della fede cristiana. Questo invito costituisce il motivo dominante dell'esortazione paolina ai Filippesi: essi sono chiamati a dare una qualificata testimonianza di unità(essere saldi in un solo spirito) e di lotta «per» la fede del Vangelo (34).
Nel v. 28 l 'allusione agli avversari (antikeime¬non) indica la situazione di prova in cui versa la Chiesa filippense. Si tratta di coloro che si oppongono al messaggio della salvezza e che perseguitano i credenti. Paolo esorta tutti i credenti a «lottare insieme», mettendosi dalla parte di Dio. La forza della fede aiuterà la comunità cristiana anche a «soffrire per Cristo» (v. 29: to hyper autou paschein), condividendo il medesimo combattimento (v. 30: ton auton agona echontes) che l'Apostolo sta conducendo nella lontana sua prigionia. Sia nella professione di fede che nella comune lotta contro gli avversari del Vangelo, Paolo e la Chiesa di Filippi devono sentirsi uniti e chiamati a vivere nella comunione vicendevole una coraggiosa presenza cristiana.
In 2,1 con l'avverbio «dunque» (oun) si apre la seconda unità, che raccoglie l'accorato appello di Paolo alla concordia nel «modo di sentire» e nelle relazioni interpersonali. Il tono del discorso è intro¬dotto da quattro brevi frasi condizionali («se c'è.. .»), che delineano in modo essenziale lo stile di vita della Chiesa. La consolazione (paraklesis), il conforto (paramytion), la comunione nello spirito (koinonia tes pneumatos) e le viscere e compassione (splagchna kai oiktirmoi) sono le quattro prerogative della vita comune che l'Apostolo chiede ai Filippesi di ravvivare.
La consolazione è la capacità di sostenere l'altro che vive nell'angoscia (cf. Mt 5,4). In questo caso la figura di Paolo è allo stesso tempo bisognosa di consolazione e consolatrice. Il conforto dell'amore completa l'atto del consolare, partecipando all'altro la capacità di amare e di riempire i vuoti della solitudine. Vi è poi la «comunione dello spirito» che implica il coinvolgimento di tutto l'essere che si dona all'altro in modo gratuito ed incondizionato. Infine i due sostantivi plurali «viscere e compassione» indicano i sentimenti profondi che governano la persona umana e le permettono di comunicare la ricchezza interiore delle proprie emozioni.
L'argomentazione paolina culmina nel v. 2 con l'imperativo aoristo plerosate (rendete piena) seguito dal complemento oggetto mou ten charan (la mia gioia). Paolo invita i Filippesi ad un «sentire unanime» (to auto phroneters, a condividere l'amore e ad essere concordi. Questa sottolineatura della comunione e dell'unità si contrappone alle espressioni del v. 3, in cui si citano gli atteggiamenti negativi da evitare: non agire «per rivalità» (kat' eritheian) né «per vanagloria» (kata kenodoxian), atteggiamenti che generano divisioni e chiusure nella comunità.
Al v. 4 la raccomandazione di Paolo spinge i cristiani alla reciprocità, facendosi partecipi dell' interesse dell'altro; letteralmente, «non guardando ognuno alle proprie cose» (v. 4: me ta eauton eka¬stos skopountes), «ciascuno sappia guardare (anche) alle cose dell'altro» (ta eteron ekastoi). Si costruisce la comunione ecclesiale solo nella capacitàdi saper perdere se stessi e il proprio prestigio personale per il Vangelo (cf. Mt 10,39). In Paolo la parola pronunciata diventa «testimonianza vivente»proprio a motivo della sua condizione di prigionia! I destinatari di questa lettera ne sembrano coscienti, dimostrando una solidarietà senza limiti con l'Apostolo e le sue tribolazioni (36).
Al v. 5 è inserita un'ulteriore breve esortazione, con la ripetizione dell'imperativo phroneite (abbiate un medesimo sentire) che riassume il contenuto essenziale delle precedenti espressioni parenetiche. Il «sentire unanime» dei cristiani deve essere commisurato a Cristo Gesù, la cui persona è presa come modello essenziale su cui "configurare" (syn¬morphizo: cf. Fil 3,10.21; Rm 8,29) la vita personale e comunitaria dei credenti37. In tal modo l'Apostolo introduce i suoi lettori al notissimo brano cristologico, mirabilmente incastonato nei vv. 6-11. Va rilevata la formula finale «in Cristo Gesù» che richiama in modo inclusivo l'inizio del brano parenetico di Fil 2,1.
La composizione cristologica (38) si colloca all'interno dell'esortazione paolina, introdotta dal pronome relativo os (il quale) e seguita da tra verbi all'aoristo indicativo: «non considerò» (ouch egesato), «svuotò se stesso» (ekenosen heauton), «umiliò se stesso» (etapeinosen heauton) e successivamente dal soggetto o theos (Dio) che regge altri due verbi in aoristo che hanno come complemento oggetto la persona del Cristo: «lo sopraesaltò» (auton hyperypsosen), «gli donò» (echarisato auto). Si tratta di un testo narrativo assai complesso (39), che ha conosciuto un'articolata storia interpretativa (40), per via della corretta comprensione di alcuni termini collegati alla natura, alla funzione e alla preesistenza del Cristo (41).
Leggendo il brano cristologico appare evidente la divisione in due unità letterarie all'insegna del duplice movimento dell'abbassamento (vv. 6-8) e dell'innalzamento (vv. 9-11) collegate dalla congiunzione «e perciò» del v. 9 (dio kai) e contrassegnate dalla diversità dei soggetti. Nella fase dell'abbassamento il soggetto è Cristo, mentre in quella dell'innalzamento è Dio. Cristo liberamente «discende» dalla sua condizione divina, si abbassa dal suo trono altissimo fino a prendere la forma umana e a morire in modo ignominioso sulla croce. I tre gradini della discesa del Cristo sono: l'umanità, la morte e la croce. Barbaglio sottolinea la libera scelta di Cristo di rinunciare alla sua condizione divina, di svuotarsi volontariamente e di abbassarsi nella completa obbedienza: tutto questo per amore e per ottenere la salvezza dell'umanità (42).
Nei vv. 9-11 viene descritta la «risposta» di Dio all'azione "kenotica" del Figlio: dopo essersi abbassato fino alla morte in croce, Dio ha "superesaltato" il Cristo donando gli il "nome" più eccelso che esista, il nome divino di «Signore» (v. 11: kyrios). La conseguenza di questa esaltazione è duplice: affinché tutti («in cielo, in terra e sotto terra») si inginocchino e facciano la loro confessione di fede nella divinità del Cristo, signore del cosmo e della storia.
Consideriamo più da vicino i singoli versetti. Il v. 6 si apre con il pronome os riferito a Gesù Cristo, il quale «essendo nella condizione di Dio» (en morphe theou) scelse liberamente di entrare nella «condizione di servo» (en morphe doulou). Si nota il parallelismo tra condizione divina e condizione servile (43). La condizione «di Dio» non fu ritenuta un «privilegio» (harpagmon) («qualcosa da trattenere») (44) ma un «dono» per un progetto più grande, che equivale alla sua missione nel mondo. Nel v. 7 con un'avversativa (alla) si dichiara la scelta paradossale e libera del Cristo: «svuotò se stesso» (heauton ekenosen) per prendere la condizione umana. Va notata la singolarità del verbo kenoun (vuotare, annientare) (45), che esprime l'azione della totale spoliazione del Cristo per farsi uno con l'umanità.
L'espressione si rivela intensa e profonda. Sembra richiamare alla mente, pur nella diversità dei termini, la consegna alla morte del «servo sofferente» in Is 53,12.
Nel v. 8 prosegue l'azione dell'abbassamento con un secondo verbo: «umiliò se stesso» (tapei¬noun heauton), che esprime lo stile assunto dal Cristo nello scendere attraverso la storia dei piccoli e dei poveri fino all'estremo. È l'azione del farsi po¬veri che diventa ricchezza per i credenti (cf. 2Cor 8,9: eptokeusen). Il fatto che il Figlio diventi «obbediente» (genonenos hypekoos) fino alla morte e alla «morte di croce», implica il senso gratuito di questa scelta, che non è frutto di una cieca fatalità né di un meccanismo, bensì di una fedeltà piena a Dio e alla sua missione. L'obbedienza del Figlio culmina nella morte (thanatos): essa indica il massimo grado di sottomissione e la specificazione «morte di croce» esprime il massimo punto di degradazione della condizione umana. Non poteva esserci descrizione più toccante della vicenda del Cristo, fedele al Padre. Rileva Fabris: «Al centro di questa scelta sta la sua radicale ed assoluta fedeltà. Questo elemento contraddistingue il suo essere uomo tra gli uomini, esposto alla miseria della morte crudele ed ignominiosa della condanna alla croce» (46).
Nel v. 9 il nuovo soggetto diventa Dio il quale, di fronte al dono gratuito e paradossale del Figlio «disceso nell'umanità fragile e mortale», ha scelto di «sopraesaltarlo» (hyperypsosen)(47). L'azione di Dio si concretizza nel dono del «nome sopra (hyper) ogni altro nome»: si tratta del nome di «signore» (kyrios) con cui termina il brano al v. 11 e che designa la dignità e la sovranità della stessa posizione del Cristo, partecipe della signoria universale ed assoluta di Dio (48).
Nei vv. 10-11 si delinea la conseguenza dell'esaltazione del Cristo con due subordinate introdotte dalla finale ina (affinché): «ogni ginocchio si pieghi» (pan gony kampsen) e «ogni lingua proclami» (pasa glossa exomologesethai) (49). In queste immagini viene rappresentata la dignità assoluta che Gesù riceve in modo unico e sommo da tutti gli esseri viventi, in cielo, in terra e sotto terra. Tale omaggio è suggerito dal gesto di prostrazione (cf. 1s 45,23; Rm 11,4) e di proclamazione «cosmica» («ogni lingua», cf. Is 66,18b; Dn 3,4.7) che culmina nell'affermazione finale del brano: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre (cf. Rm 10,9-10).
Questo titolo cristologico corrisponde nella Bibbia al tetragramma ebraico JHWH, che è il nome di Dio (cf. Es 3,15; Sal 99,3). In altre parole: al Cristo umiliato ed esaltato viene attribuita la signoria unica ed assoluta che nella tradizione biblica era propria di Dio (50). Questa designazione è da considerarsi il punto di arrivo del brano cristologico e allo stesso tempo l'esperienza intima e mistica che Paolo ha vissuto nel mistero della sua missione a servizio del Vangelo.
III.2 MEDITATIO
La seconda unità contiene il cuore del messaggio cristologico della lettera. Da appassionato predicatore della Parola, Paolo rivolge ai cristiani di Filippi una fondamentale esortazione: la capacità di «sentire insieme» a Cristo. L'avventura vocazionale a cui è destinata la comunità filippense dipende dall'unione con il Figlio obbediente ed esaltato da Dio Padre. Questa dinamica spirituale consente ai credenti di divenire «cittadini degni del Vangelo» (Fil 1,27). La metafora della cittadinanza indica la dimensione relazionale della vita cristiana. Essa si svolge all'interno di una città, che è abitata da uomini e donne che cercano la pace. Il cristiano deve poter contribuire alla crescita della «città» attraverso la sua personale e comunitaria testimonianza di «unità» .
In collegamento con il precedente brano paolino, un secondo motivo è costituito dall'immagine del «combattimento condiviso» da tutti (synathlountes) «per» (o «per mezzo») della fede. La predicazione della Parola chiede di spendersi personalmente e di pagare il prezzo della sofferenza. Non c'è vocazione che non sia «pagata a caro prezzo», non c'è missione che non comporti un coraggioso coinvolgimento nel donarsi e nel soffrire per il Signore. L'Apostolo chiede ai Filippesi di «stare saldi», di non «lasciarsi intimidire» (Fil 1 ,28) dagli avversari e considera la sofferenza come una «grazia» (1,29: echaristhe) assunta «a favore» (hyper) di Cristo. Paolo stesso rappresenta un «esempio nella lotta»: quelle catene portate per Cristo sono l'eloquente messaggio di come può essere interpretata la missione dei cristiani.
Tuttavia il fondamento della novità del Vangelo va cercato nella stessa persona e missione del Figlio di Dio. In Fil 2,1- 4 l 'Apostolo invoca la pienezza della gioia cristiana e rinnova l'invito a non interpretare diversamente il cammino della fede: esso deve necessariamente seguire le stesse orme di Gesù Cristo (cf. 1 Pt 2,21). È utile meditare ed attualizzare i termini che l'Apostolo impiega per parlare al cuore dei credenti: la consolazione, il conforto, la comunione, le viscere e i sentimenti che albergano nell'uomo. Tutto l'uomo deve essere per «tutti i credenti» in un solo spirito, senza interessi e prestigi personali. La comunità cristiana può ben definirsi nell' accoglienza reciproca, soprattutto nel segno dell' Eucaristia.
Il brano cristologico di Fil 2,6-11 ci chiede di meditare sull'unicità della storia di amore che Dio ha voluto e realizzato attraverso il Figlio. Introdotto al v. 5 con l'invito a condividere i medesimi sentimenti di Cristo Gesù, il brano cristologico costituisce una delle più profonde e ricche sintesi del mistero cristiano. Entrare nella «spoliazione» e nella «umiliazione» del Figlio amato, che per amore sceglie di farsi il più piccolo e il più povero tra gli uomini. Non poteva esserci strada più significativa e tangibile per rivelare la vicinanza di Dio all'umanità. E di questa umanità il Figlio non condivide solo la vicenda dolorosa e la debolezza sofferente, ma Egli si immerge nell'«ultima solitudine» che è la nemica morte. Lo scandalo della morte e della terrificante disfatta sulla croce si consegna agli occhi del mondo come contrassegno di un amore senza limiti e senza compromessi.
Tuttavia la missione del Figlio è accolta dal Padre: egli lo ha esaltato «sopra tutti e tutto». Il servo è diventato «signore», la spoliazione e l'umiliazione si sono tramutate in esaltazione: nel trionfo della risurrezione e della vita, Cristo esercita la signoria dell'amore e la sua missione porta il frutto della riconciliazione e della pace. Pertanto i Filippesi devono guardare al Figlio di Dio, conformando la loro esistenza e le loro scelte con la forza di quello stesso amore che ha mutato la morte in vita, la debolezza in forza, lo scandalo della croce in vanto di gloria.
Emerge dalla nostra essenziale analisi la ricchezza spirituale di questa splendida pagina paolina. Il contesto parenetico dell'unità non deve indurci a ritenere queste considerazioni delle pie esortazioni, ma deve spingerci a conformare tutta la no¬stra esistenza vocazionale al progetto di Dio in Cristo Gesù. Misurato con la vicenda del Cristo, umiliato ed esaltato, il cristiano è in grado di interpretare la storia con le categorie e lo stile indicato dal Vangelo. Allo stesso modo ogni scelta vocazionale non potrà che ispirarsi allo schema cristo logico della croce e della gloria, dell'annullamento (kenosi) e della glorificazione (doxa), della concretezza dell'oggi, vissuto nella quotidiana lotta per la fede del Vangelo e della speranza nel domani, atteso in uno stile operoso, nella fiducia che Dio realizzerà le sue promesse.
III. 3 ORATIO
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo»
A voi pellegrini che solcate le strade della vita,
mentre questo tempo scorre inesorabilmente,
cercando nell'uomo e nelle sue innumerevoli risorse,
una risposta alla domanda di felicità,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi ragazzi e ragazze,
speranza di un futuro migliore,
costretti spesso ad inseguire
l'affetto dei vostri cari,
distratti dalle mode e confusi
dai luccichii dei desideri,
desiderosi di capire
e di sedervi alla festa della vita,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi giovani,
coraggiosi interpreti
delle ansie del mondo,
spesso feriti o delusi
dall'atteggiamento degli adulti,
mentre cercate di dare un senso
alla vostra presenza in questa storia,
gridando l'insopprimibile bisogno di amore
e di comprensione,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi padri e madri,
cittadini di una società stanca ed opulenta,
che nella famiglia e
nel lavoro inseguite sicurezze sfuggenti,
carichi di troppe stanchezze,
logori di insofferenze e di oblii,
volete con tutto il cuore un futuro sereno
per la vostra discendenza,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi adulti, attenti giudici
delle regole della convivenza,
che muovete le leve della produzione
e della ricchezza,
tra fragili equilibri,
nuove sfide e grandi aspirazioni,
nella ricerca dell'unità e della pace,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi anziani,
testimoni della sapienza degli anni,
che avete imparato a riassumere
un passato senza rimpianti,
costretti talvolta all'inerzia
e relegati nella solitudine dei giorni,
memori delle fatiche e bisognosi
di nuove rassicuranti presenze,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
A voi che oggi scorrerete queste pagine,
comunque sia il vostro vivere,
tra incroci e labirinti che segneranno
le vostre giornate,
forse nel servizio appassionato
al Vangelo per l'uomo,
o mossi da una flebile domanda
su Dio e sull'amore,
«Abbiate gli stessi sentimenti di Cristo».
III.4 CONTEMPLATIO
«Il Figlio, servo obbediente della missione»
La focalizzazione cristologica caratterizza questo ulteriore momento della nostra lettura vocazionale. Infatti la missione del Padre si realizza nell'obbedienza del Figlio amato, Gesù Cristo. L'Apostolo tratteggia con una impareggiabile riflessione la vicenda di Cristo. In Fil 2,6-11 siamo chiamati a contemplare Gesù in tutti i momenti del suo donarsi per la salvezza del mondo.
In primo luogo ci soffermiamo sulla dimensione del Cristo come «Figlio» (houios). Scrivendo ai Romani Paolo afferma che il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi»(Rm 8,32; cf. Gal 4,4). La missione che Dio ha voluto nel Figlio ha una sua chiara finalità: «affinché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). La vocazione a cui Gesù ha risposto nasce dall'amore «filiale», mediante il quale Dio ci ha riconciliati a sé (Rm 5,10).
Una seconda dimensione è significativa nella qualifica di «servo» (doulos). Pur essendo nella prerogativa filiale e nella piena" condizione divina, Cristo ha liberamente deciso di «farsi servo» per amore. Il servo non è colui che esercita un servizio (ministero) rimanendo libero, ma rimane per tutta la vita legato al suo padrone come schiavo. La forma della schiavitù (a cui si collegano alcune metafore paoline quali il «sigillo») è la strada che Cristo ha scelto per amare l'uomo ed annunciare la salvezza. Paolo stesso assume questa metafora per parlare del suo apostolato in favore del Vangelo, come «schiavo per il Vangelo» (cf. Rm 1,1; 1 Cor 9,19; Tt 1,1).
Una terza condizione è data dall' obbedienza (hypakoe), prerogativa centrale nella riflessione paolina. Dall' etimologia del termine «obbedienza» (ob-audire) ricaviamo il valore dell' ascolto della Parola, che un Altro, al di sopra di noi, ci rivolge. Come per Cristo, così anche per noi, l'obbedienza significa anzitutto disponibilità nell'ascolto e capacità di lasciarci colmare nel cuore. In Ef 1,11-14 si registra la dinamica dell'ascolto che produce l'obbedienza della fede e il dono dello Spirito:
«In lui [Cristo] siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua volontà, perché noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a lode della sua gloria».
Secondo questa prospettiva, la missione del Figlio può realizzarsi unicamente nell'obbedienza totale alla volontà del Padre. Contempliamo Cristo che si consegna eternamente e perdutamente nella volontà e nella libertà a Dio suo Padre. Anche l'autore della Lettera agli Ebrei riassume il senso dell'obbedienza di Cristo nell'affermazione: «Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). Per la Sua obbedienza noi siamo stati redenti ed è stata distrutta la disobbedienza del peccato. Conclude Paolo: «come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
Per vivere questo momento di preghiera e di contemplazione, ti invito a riflettere su un passaggio della lettera enciclica di Benedetto XVI, Spe Salvi (2007):
«La vera grande speranza dell'uomo, che esiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora "sino alla fine", "fino al pieno compimento" (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Chi viene toccato dall'amore comincia ad intuire che cosa propriamente sarebbe "vita". Comincia ad intuire che cosa vuoi dire la parola di speranza che abbiamo incontrato nel rito del Battesimo: dalla fede aspetto la "vita eterna" - la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l'abbiamo in pienezza, in abbondanza (cfr. Gv 10,10), ci ha anche spiegato cosa significhi "vita": "Questa è la vita eter¬na: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv 17,3). La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Co¬lui che è la sorgente della vita» (51).
III.5 ACTIO
«L'obbedienza alla Parola»
L'analisi dei messaggi emersi dalla pericope paolina ci induce a proporre come Actio una riflessione sul senso e sull'importanza dell' «obbedienza alla Parola». Abbiamo sottolineato come nella stes¬sa accezione di obbedienza si collochi la dimensione della Parola. Se la decisione di obbedire è il frutto della nostra personale risposta all'appello divino, la forza di esservi fedele proviene dalla grazia divina e dalla sua misericordia. L'obbedienza alla Parola implica tre relazioni costitutive: a) obbedienza al progetto di Dio; b) obbedienza alla verità nella storia; c) obbedienza al servizio dell'uomo.
In primo luogo nell'ascolto e nell'accoglienza della Parola si compie l'obbedienza al progetto di Dio. Tale «progetto» segnala il «mistero» dell'amore misericordioso (cf. Ef 1,9) che Dio ha voluto rivelare all'umanità. Obbedire alla sua Parola significa accogliere il mistero che penetra la storia umana e realizza la redenzione, mediante la ricapitolazione di ogni cosa in Cristo (Ef 1,10).
L'accoglienza della Parola permette di conoscere la verità e di interpretarla nella storia. Questa dinamica ci aiuta a comprendere come la Parola costituisce la «strada» che Dio ha scelto per comunicare la verità di se stesso e del suo amore agli uomini. La conoscenza della verità non implica un'operazione unicamente mentale, ma un'adesione esistenziale e vocazionale che coinvolge l'intera persona. Allo stesso modo la «storia» dice la concretezza delle relazioni e delle situazioni vissute nel tempo. Chi vive l'obbedienza alla Parola vive allo stesso tempo pienamente la verità di Dio e il realismo della vita umana.
Infine l'ascolto obbediente della Parola spinge il credente ad impegnarsi per il servizio a favore degli altri, soprattutto dei più bisognosi. Ad immagine di Cristo-servo, la Parola che penetra nel cuore dei credenti si trasforma in una dinamica di servizio e di amore. Servizio nel dono di sé e della propria vita per un progetto più grande, non pensato secondo una visione umana e limitata, ma aperto alla missione che Dio ha affidato al Cristo e a coloro che ne sono divenuti discepoli.

NOTE
[31] Fabris individua nella sezione di Fil 1,27-2,18 quattro sottosezioni caratterizzate dal motivo dell'esortazione: Fil 1,27¬30: «esortazione a vivere da cittadini degni del vangelo»; Fil 2,1-5 (6-11): «esortazione a rendere piena la sua gioia con un modo di sentire unanime»; Fil 2,12-l6: «esortazione ad attuare la salvezza e a fare tutto senza mormorazioni e senza critiche»; Fil 2,17-l8: «esortazione a gioire e condividere la sua gioia» (cf. R. FABRlS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 89-92).
[32] Barbaglio fa notare l'introduzione della particella syn (= con), impiegata per usare vocaboli composti in funzione del messaggio comunionale rivolto ai membri della Chiesa: lottare insieme (1,27: synathlountes), sentire insieme (2, 1: to en phronountes; 2,2: to auto phronete), essere unanimi (2,2: sympsychoi); avere lo stesso amore (2,2: ten auten agapen echontes), essere co-imitatori (3,17: symmimetai). Commenta Barbaglio: «Anche al di là delle esortazioni formali è utile rilevare come il motivo dell'unità ecclesiale emerga con forza in Fil» (cf. G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi informa epistolare, 353).
[33] Cf. G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, 354, nota 136. Data la rilevanza del verbo, che viene ripreso in Fil 3,20, alcuni autori ritengono che questo imperativo preannuncerebbe la proposizione dell'intera lettera o della sua parte parenetica (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 92).
[34] L'espressione synalthountes te pistei tou euaggeliou, può intendersi sia «per la fede del Vangelo» o «per mezzo della fede del Vangelo».
[35] Nel significato del verbo phronein (sentire) è presente l'eco della sua radice fisiologica, in quanto il vocabolo phren (diaframma, pericardio) è ritenuto nella visione antropologica antica la sede delle passioni e dei sentimenti sia del pensiero che della volontà.
[36] Il motivo della solidarietà è ben sviluppato in G. BARBAGLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, 346¬-352.
[37] Tra gli autori si è discusso sulla natura del modello cristologico proposto. Per alcuni il v. 5 avrebbe una funzione «etico-esemplare» al fine di aiutare i credenti a comportarsi come Cristo ha fatto. Per altri l'invito di Paolo assumerebbe una connotazione «kerigmatico-soteriologica» con l'intento di presentare l'evento della salvezza ai suoi destinatari. Fabris ritiene preferibile parlare di «conformità» a Cristo piuttosto che di «esemplarità» di Cristo (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 125).
[38] Per la sua rilevanza biblico-teologica il brano di Fil 2,6¬Il possiede un bibliografia molto ampia ed approfondita, cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 94, nota 7. Per un approfondimento in prospettiva vocazionale si veda util¬mente B. MAGGIONI, «Il cammino di Gesù. L'inno cristo logico della lettera ai Filippesi», Rivista del Clero Italiano 74 (1993), 272-282. Un quadro teologico è offerto in J.D.G. DUNN, La teologia del!'apostolo Paolo (Introduzione allo studio della Bibbia Suppl. 5), Paideia, Brescia 1999,289-296.
[39] Più che un «inno», diversi autori propendono per l'individuazione di un genere in prosa con alcuni elementi poetici, individuabili soprattutto nel parallelismo delle frasi. Circa l'attribuzione paolina c'è dissenso tra gli studiosi: alcuni ritengono che si tratti di un testo pre-paolino, altri pensano che Paolo avrebbe integrato un precedente testo cristo logico adattandolo al suo contesto epistolare. Tuttavia non mancano autori che sostengono l'origine paolina ,del brano e vi vedono l'allusione alla figura di Abramo o ai canti del servo sofferente di Jahvé. Infine l'ambiente vitale di questo brano potrebbe richiamare un contesto liturgico della comunità primitiva; alcuni vi vedono il contesto della cena eucaristica (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filip¬pesi. Lettera a Filemone, 100-101).
[40] Per una rassegna dell'interpretazione di Fil 2,6-11, cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 143-147.
[41] Ai fini della nostra analisi evitiamo di presentare il com¬plesso status quaestionis della critica su Fil 2,6-11 e procediamo all'analisi progressiva dei versetti, seguendo le indicazioni e il commento di R. Fabris che propone di articolare il brano nella seguente struttura tematica: Prima Parte: vv. 6-8: A. Spoliazione (Fil 2,6-7c); B. Umiliazione (Fil 2, 7d-8); Seconda Par¬te: vv. 9-11: A. Esaltazione (Fil 2,9); B: Proclamazione (Fil 2,10-11l), cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 98-99. Per il collegamento con la cristologia «adamitica», cf. J.D.G. DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 292-296.
[42] È stato osservato come in questo schema teologico-narrativo della vicenda di Gesù Cristo, non sembra emergere esplicitamente il "valore salvifico" di questa kenosi, che in altri testi della tradizione paolina è invece sottolineato (cf. G. BARBA¬GLIO, La Teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, 360-¬362).
[43] L'interpretazione del concetto di morphé (termine che nel NT appare solo in Mc 16,12 e in questo contesto paolino) allude all'idea di «forma, condizione» o di «aspetto visibile» (eikon), mentre sembrerebbe esclusa l'idea filosofica di «natura» (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 127; cf. I.D.G. DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 291¬292).
[44] Il termine harpagmos può essere inteso in diversi mo¬di: in senso attivo «qualcosa da rapire», in senso passivo «qualcosa da trattenere». Nella resa della LXX può anche avere il significato di «dono fortunato», o «qualcosa da cui trarre vantag¬gio» e di conseguenza «prerogativa, privilegio». In questo senso l'espressione di Fil 2,6 può essere resa così: «Pur essendo nella condizione di Dio, [Cristo] non considerò un privilegio l'essere pari a Dio» (cf. R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lette¬ra a Filemone, 129; J.D.G. DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 293-294).
[45] Cf. Rm 4,14.
[46] R. FABRIS, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, 136.
[47] Il verbo è hapax neotestamentario che sottolinea ulteriormente l'azione dell' esaltazione divina mediante la proclitica hyper. L'effetto interpretativo è quello di fare da contrappunto all'azione dell'abbassamento mediante la «sopra-esaltazione» del Cristo.
[48] Cf. Ef 2,21; Eb 1,4.
[49] Il verbo exomologein (proclamare, confessare, cf. Rm 14, 11; 15,9) fa parte del linguaggio liturgico della Bibbia greca, dove Dio il Signore, o il suo Nome, è riconosciuto e proclamato dalla comunità dei credenti e da tutti i popoli.
[50] Per lo sviluppo del tema cristologico in senso vocazionale, cf. R. FABRIS, «Gesù Cristo», in Dizionario Biblico della Vocazione, 359-365.
[51] BENEDETTO XVI, Spe Salvi, 27.
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