DON ANTONIO

venerdì 21 ottobre 2011

L'aspetto trinitario della croce di Gesú Cristo o il problema della «sofferenza di Dio»Commissione Teologica Internazionale

Nella teologia di oggi capita spesso, per motivi d'ordine storico o sistematico, che si pongano in dubbio l'immutabilità e l'impassibilità di Dio, soprattutto nel contesto d'una teologia della croce. Cosí sono sorte diverse concezioni teologiche della "sofferenza di Dio". Bisogna saper discernere le idee false dagli elementi conformi alla rivelazione biblica. Poiché la discussione su tale problema è ancora in corso, ci limitiamo a un primo cenno, che tuttavia vuole aprire la via alla soluzione della questione.

1. I sostenitori di questa teologia asseriscono che le loro idee si ritrovano nell'antico e nuovo testamento e presso alcuni padri. Ma l'influsso della filosofia moderna ha certo un peso maggiore, almeno nella sistematizzazione di questa teoria.

1.1. Hegel è il primo a postulare che, per ottenere il suo pieno contenuto, l'idea di Dio deve includere la "sofferenza del negativo", cioè la "durezza dell'abbandono" (die Haerte der Gottlosigkeit). In lui sussiste un'ambiguità fondamentale: Dio ha, o no, veramente bisogno del travaglio dell'evoluzione del mondo? Dopo Hegel, i teologi protestanti cosiddetti della kenosis e parecchi anglicani hanno sviluppato sistemi "staurocentrici", secondo cui la passione del Figlio tocca in modo diverso tutta la Trinità, e manifesta soprattutto la sofferenza del Padre che abbandona il Figlio, "poiché non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti" (Rm 8,32; cf. Gv 3,16); mostra inoltre la sofferenza dello Spirito santo che nella passione prende su di sé la "distanza" tra il Padre e il Figlio.

1.2. Secondo parecchi nostri contemporanei, questa sofferenza trinitaria ha il suo fondamento nell'essenza divina stessa; secondo altri, si fonda in una certa kenosis di Dio che crea, legandosi in qualche modo alla libertà della creatura o, infine, nel patto che Dio ha stipulato e col quale si obbliga liberamente a consegnare suo Figlio. I sostenitori di tale opinione ritengono che quest'atto di "consegnare il proprio Figlio" causa a Dio Padre una sofferenza piú profonda di qualsiasi sofferenza dell'ordine creato. In questi ultimi anni, parecchi autori cattolici hanno fatto proprie simili proposizioni, ritenendo che il compito principale del crocifisso consistesse nel manifestare la passione del Padre.

2. L'Antico Testamento lascia spesso intendere - nonostante la trascendenza divina (cf. Ger 7,16-19) - che Dio è afflitto dai peccati degli uomini. Forse tutte queste espressioni non si possono spiegare come semplici antropomorfismi (cf. per esempio, Gn 6,6: "Il Signore si pentí d'aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo"; Dt 4,25; Sal 78,41; Is 7,13; 63,10; Ger 12,7; 31,20; Os 4,6; 6,4; 11,8 s.). La teologia rabbinica è piú forte ancora su questo argomento e parla, per esempio, di Dio che si abbandona a un lamento a motivo dell'alleanza che ha concluso e che lo vincola, o a causa della distruzione del tempio; e, nello stesso tempo, afferma la debolezza di Dio di fronte alle potenze del male (vedi i testi in P. Kuhn, "Gottes Trauer und Klage in der rabbinischen Uberlieferung", Leiden 1978, 170 ss., 275 ss.). Nel Nuovo Testamento, le lacrime di Gesú Cristo (cf. Lc 19,41), la sua collera (cf. Mc 3,5) e la tristezza che prova (cf. Mt 17,17) sono esse pure manifestazioni d'un certo modo di comportarsi di Dio; altrove si afferma esplicitamente che Dio si adira (cf. Rm 1,18; 3,5; 9,22; Gv 3,36; Ap 15,1).

3. Senza dubbio, i padri sottolineano (contro le mitologie pagane) l'apatheia di Dio, senza negare per questo la sua compassione per la sofferenza del mondo. Per essi il termine apatheia indica il contrario di pathos, parola che designa una passione involontaria, imposta dall'esterno, o anche come conseguenza della natura decaduta. Quando ammettono passioni naturali e innocenti (come la fame o il sogno), le attribuiscono a Gesú Cristo o a Dio in quanto egli sente compassione per le sofferenze umane (cf. Origene, Hom. in Ez. VI, 6; Comm. in Matth. XVII, 20; Sel. in Ez. 16; Comm. in Rom. VII, 9; De princ. IV, 4, 4). Talora si esprimono pure in forma dialettica: Dio in Gesú Cristo ha sofferto in un modo impassibile, perché lo ha fatto in virtú d'una libera scelta (Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum IV-VIII).

Secondo il concilio di Efeso (cf. la Lettera di san Cirillo a Nestorio: COD 42), il Figlio s'appropria i dolori inflitti alla sua natura umana (oikeiosis); e i tentativi di ricondurre questa proposizione (e altre simili che figurano nella tradizione) alla semplice "comunicazione degli idiomi", non ne rendono a sufficienza il senso profondo. Ma la cristologia della Chiesa non consente d'affermare formalmente che Gesú Cristo sia passibile secondo la sua divinità (cf. DS 16, 166, 196 s., 284, 293 s., 300, 318, 358, 504, 635, 801, 852).

4. Nonostante le cose dette or ora, i padri sopraccitati affermano chiaramente l'immutabilità e l'impassibilità di Dio (per esempio, Origene, "Contra Celsum", IV, 14). Cosí, escludono assolutamente dall'essenza divina la mutabilità e quella passività che permetterebbe un passaggio dalla potenza all'atto (cf. Tommaso d'Aquino, Summa Theol. I, q. 9, a. 1, c). Nella tradizione della fede della Chiesa, infine, per chiarire questo problema, s'è fatto ricorso alle considerazioni seguenti:

4.1. Riguardo all'immutabilità di Dio, occorre dire che la vita divina è inesauribile e senza limiti, cosicché Dio non ha in alcun modo bisogno delle creature (cf. DS 3002). Nessun evento creato potrebbe arrecargli alcunché di nuovo o attuare in lui una potenzialità qualsiasi. Dio non potrebbe dunque subire alcun cambiamento, né per diminuzione né per progresso. "Dunque, poiché Dio non è suscettibile di mutamento in nessuna di queste differenti maniere, è sua proprietà essere assolutamente immutabile" (Tommaso d'Aquino, Summa theol. I, q. 9, a. 2, c.). La stessa affermazione si trova nella sacra Scrittura riguardo a Dio Padre, "nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento" (Gc 1,17). Ma quest'immutabilità del Dio vivente non s'oppone alla sua suprema libertà, come dimostra chiaramente l'evento dell'incarnazione.

4.2. L'affermazione dell'impassibilità di Dio presuppone e implica tale modo di comprendere l'immutabilità, ma essa non va concepita come se Dio rimanesse indifferente agli eventi umani. Dio ci ama d'un amore d'amicizia, vuole essere riamato. Quando il suo amore viene offeso, la sacra Scrittura parla di sofferenza di Dio; parla invece della sua gioia, quando un peccatore si converte (cf. Lc 15,7). "La reazione sana della sofferenza è piú vicina all'immortalità del torpore d'un soggetto insensibile" (Agostino, En. in Ps. 55,6). I due aspetti si completano reciprocamente; trascurando l'uno o l'altro, non si rispetta il concetto di Dio quale egli si rivela.

5. La tradizione della teologia medievale e dei tempi moderni ha posto in maggior luce il primo di tali aspetti (cf. sopra 4.1). In realtà, la fede cattolica anche oggi difende cosí l'essenza e la libertà di Dio (opponendosi a teorie esagerate, cf. sopra B, 1); ma anche l'altro aspetto (cf. sopra 4.2) merita una maggiore attenzione.

5.1. Ai nostri giorni, l'uomo desidera e ricerca una divinità che sia onnipotente, certo, ma che non appaia indifferente; anzi, che sia piena di compassione per le miserie degli uomini e, in questo senso, che "compatisca" con loro. La pietà cristiana ha sempre scartata l'idea d'una divinità indifferente alle vicissitudini della sua creatura; è persino incline ad ammettere che, come la "compassione" è una perfezione tra le piú nobili dell'uomo, cosí si dia pure in Dio, senza alcuna imperfezione e in grado eminente, una compassione simile, cioè "l'inclinazione della commiserazione... non la mancanza della potestà" (Leone I: DS 293), e che tale compassione possa coesistere con la beatitudine eterna stessa. I padri chiamano questa misericordia totale per le pene e le sofferenze umane "passione dell'amore", amore che, nella passione di Gesú Cristo, ha superato le passioni e le ha rese perfette (cf. Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum; Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 7: EV VII, 898-903).

5.2. V'è indubbiamente qualcosa da ritenere nelle espressioni della sacra Scrittura e dei padri, come pure nei tentativi recenti, sebbene richiedano un chiarimento nel senso sopra esposto. Ciò forse va detto anche per quanto riguarda l'aspetto trinitario della croce di Gesú Cristo. Secondo la sacra Scrittura, il mondo è stato creato liberamente conoscendo nell'eterno presente - in modo non meno attuale della stessa generazione del Figlio - che Gesú Cristo, agnello immacolato, avrebbe versato il suo sangue prezioso (cf. 1 Pt 1,19 s.; Ef 1,7). In questo senso, vi è una stretta corrispondenza tra il dono che il Padre fa al Figlio della divinità e il dono mediante il quale il Padre consegna suo Figlio all'abbandono della croce. Siccome però la risurrezione è essa pure presente nel piano eterno di Dio, la sofferenza della "separazione" (cf. B, 1.1) è sempre superata dalla gioia dell'unione; la compassione del Dio trinitario nella passione del Verbo viene compresa propriamente come l'opera dell'amore piú perfetto, che è normalmente fonte di gioia. Il concetto hegeliano di "negatività", va escluso radicalmente dalla nostra idea di Dio. Nel tentativo e nell'esperienza di questa riflessione, la ragione umana e teologica affronta indubbiamente problematiche tra le piú ardue (per esempio, quella dell'"antropomorfismo"); ma incontra pure in modo singolare il mistero ineffabile del Dio vivente, e sente i limiti dei propri concetti.

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