DON ANTONIO

mercoledì 5 ottobre 2011

La scienza della croce Scritto da Giuseppe Pulina

Edith Stein, quando Hedwig Conrad-Martius, la sua madrina di battesimo, le poneva domande sulla sua condizione spirituale così rispondeva: secretum meum mihi est! È una risposta che vale anche per noi che cerchiamo di accostarci al volto affascinante, poliedrico e in parte misterioso di questa persona complessa.
Non è facile, infatti, confrontarsi con la pienezza di umanità di Edith Stein, una donna che, anche nello sviluppo del suo pensiero, si è mossa tra il problema dell’empatia, la fenomenologia, l’antropologia filosofica e religiosa, la metafisica, l’etica e, non ultimo, la mistica. È difficile leggere i suoi scritti, spesso travisati, non compresi o mal reinterpretati, come difficile è soffermarsi sulla sua storia personale. Ci sono, però, elementi del suo pensiero e del suo vissuto che ritornano costantemente, mostrandoci Edith Stein come donna del nostro tempo, maestra e uditrice attenta dei segni dei tempi.

L’empatia è dialogo con l’altro
Innanzitutto, non va trascurata la sua tesi di dissertazione, tradotta in italiano con il titolo Il problema dell’empatia. Sebbene in seguito la filosofa non abbia più sviluppato questo argomento, sarebbe farle un torto non analizzare la sua prima opera, che ci trasmette lo sguardo di questa donna sul mondo e sull’altro. Empatia infatti, chiarisce Edith, significa riconoscimento della presenza e della vita del prossimo; non un semplice co-sentire, immedesimarsi e assimilarsi all’altro, ma un atto in cui lo si coglie come un tu, nella sua complessità e unicità, nel suo dirsi ed esprimersi, nel suo stare nel mondo con le proprie personali dinamiche.
Empatia è l’inizio del dialogo e dello scambio reciproco con il mondo e con le persone. È l’incontro con l’alterità; non è dominare l’altro, assorbirlo, tenerlo nelle proprie mani come possesso, ma è riconoscerlo come simile e, al tempo stesso, totalmente diverso da sé, quindi, proteggerlo, custodirlo e tutelarlo in un atteggiamento di libertà e corresponsabilità. L’altro è singolare e domanda di essere colto nella sua unicità: “Se, mentre empatizziamo, ci basiamo sulla nostra costituzione individuale... giungiamo a falsi risultati. Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio, al selvaggio la nostra capacità estetica”.
È un esempio semplice, ma incisivo e significativo: mostra l’obiettivo di non inglobare, imbrigliare e incasellare l’altro nel proprio vissuto, ma di coglierlo a partire dalla sua modalità d’espressione, tenendo presente che, in ogni soggetto spirituale, ciascuna parola, movimento o reazione assume un significato unico e singolare.
Si potrebbe addirittura affermare che Edith Stein può anche essere presa in considerazione come maestra di inculturazione: il suo scritto sull’empatia, infatti, può insegnare un approccio autentico e sano a chi si pone di fronte all’altro, a partire dal suo riconoscimento come persona, con una specificità e complessità spirituale che non va assolutamente ridimensionata, incasellata e semplificata, ma colta in tutta la sua ricchezza.


La domanda sull’uomo
Un approccio sistematico alle opere di Edith Stein evidenzia una domanda costantemente presente: chi è l’uomo?
Se non ci si sofferma sul suo bisogno di trovare risposte a questo interrogativo, il suo percorso spirituale e le drammatiche scelte della sua vita diventano difficili da capire.
Il suo itinerario, infatti, comincia proprio dalla domanda sull’uomo, su questo essere finito e complesso al tempo stesso, in cui corporeità, psichicità e spiritualità si incontrano, dialogano e interagiscono. Per Edith, infatti, l’analisi della persona umana rimanda a una armonia tripartita in corpo, anima e spirito.
In questo tempo in cui domina la parola “frammentizzazione”, è importante ricordare come Edith Stein si sia impegnata a volgere il suo sguardo sull’interezza della persona, in una dimensione in cui corpo, anima e spirito muovono l’essere personale, avendo ogni parte una forza condizionante e coordinatrice dell’altra. Il corpo, senza essere idolatrato, è espressione della presenza concreta della persona, primo elemento dell’incontro con l’altro. L’anima è il centro della vita, il luogo della sensibilità e delle percezioni. Lo spirito, infine, è il luogo del senso, della comprensione e della scelta. Ed è condizione della persona sanamente costituita che queste tre dimensioni agiscano insieme e in modo coordinato.
Nel suo percorso di crescita spirituale il concetto di persona si sviluppa a partire dal versetto del Genesi: “Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò”. Infatti, l’idea che la persona umana sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio comporta per lei una serie di conseguenze fondamentali, prima tra tutte la maturazione di una antropologia religiosa che dà all’uomo la sua massima dignità, ma al tempo stesso domanda responsabilità per quanto gli è stato donato. “Anche l’azione dell’uomo dovrebbe servire a mettere sempre più in luce la somiglianza della natura con Dio. Ogni opera dovrebbe essere non solo utile (servire cioè ai fini dell’uomo), ma anche bella (cioè specchio dell’Eterno)”.
Dignità e responsabilità sintetizzano in modo efficace l’idea antropologica steiniana, insieme alla definizione di essere umano come indifeso e protettore.
Per Edith Stein la vita chiede di essere orientata, resa significativa e compresa al di là della religiosità della singola persona. Solo a partire da un’idea di responsabilità che impregna ogni atto della vita si può comprendere la dinamica della sua esistenza, i suoi intrecci di relazioni niente affatto superficiali, le ragioni per cui decise di abbandonare lo studio per prestare servizio come crocerossina durante la Prima guerra mondiale, la sua incessante ricerca della verità e le scelte che la portarono alla morte.
Il richiamo alla responsabilità e alla cura, come atteggiamenti di fondo che devono investire ogni ambito della vita, sono una costante nelle opere di Edith Stein. La cura, infatti, è il primo atteggiamento a cui rimanda l’osservare fenomenologico, in quanto a esso corrisponde quell’atto di rivolgersi alle cose stesse, proprio del metodo di Husserl. Quella di Edith Stein potrebbe essere definita come una fenomenologia della cura, proprio per la sua attenzione ai problemi della formazione della persona, il suo sviluppo, la dimensione spirituale e il vivere sociale. La persona è corresponsabile del proprio esistere e dell’esistere altrui, come riecheggia il suo riferimento a san Paolo: “Il turbato sospirare della creatura attende la rivelazione dei figli di Dio”.
L’uomo è chiamato a farsi carico del creato e, quindi, degli altri suoi simili. In questo consiste la cura. Allora, a partire dalla propria condizione finita, ciascuno deve riconoscersi a un tempo come indifeso e protettore, in una realtà sociale in cui ognuno deve assumere la propria responsabilità individuale all’interno di quella comune.
Ancora più appropriato, forse, è parlare di corresponsabilità, dato che per Edith Stein l’atteggiamento responsabile e che si prende cura dell’altro è richiesto a tutti, nessuno escluso. L’uomo non è consegnato a un vivere passivo, gettato nell’esistenza come diceva Husserl, ma, anzi, è chiamato a un atteggiamento di attenzione, cura e custodia del vivere che gli è stato affidato.

Investigatrice della vita spirituale
Responsabilità è stare nel mondo con gli occhi aperti, prendersi cura, interrogarsi, cercare e stare in ascolto. Così facendo “nel suo mondo interiore, come in quello esteriore, l’essere umano trova rimandi a qualcosa che è al di sopra di lui e di tutto ciò che esiste, da cui egli e tutto ciò che esiste dipendono. La domanda circa questo essere, la ricerca di Dio appartiene all’essere dell’uomo”.
Anche l’atto fondamentale dell’empatia, si è visto, sta in un atteggiamento di ascolto e comprensione. Persino la fede ha origine da un atto del sentire e del comprendere, dal desiderio di incontro, da un lasciarsi afferrare. Per Edith Stein la persona, una volta scopertasi creata gratuitamente da Dio e a lui legata, è chiamata a mettersi in cammino, ad aprirsi alla scoperta del suo volto, di quel Dio che ha scelto di riconoscere e accogliere in sé. Questo è il cammino spirituale: un continuo cercare l’incontro con un Dio personale e al tempo stesso inafferrabile. Un cammino lungo, perché la “rielaborazione interiore di ciò che penetra nel profondo dell’anima dell’uomo non avviene in un attimo, ma occupa un tempo più o meno lungo, in alcuni casi può richiedere un periodo molto lungo. Ciò che penetra nell’intimo è sempre un appellarsi alla persona”. Oltre ogni umana ricerca della verità, la fede diventa così una chiamata, un appello che Dio rivolge al singolo, perché nel cammino spirituale l’anima “si apra liberamente a lui, e si abbandoni a quell’unione possibile solo tra esseri spirituali”. Solo nella vita eterna si raggiungerà la perfezione, ma un’esistenza a immagine di Dio può iniziare già su questa terra. Cristo è il modello di questa perfezione e ognuno è chiamato a imitare la sua vita, con l’aiuto delle Scritture e della Chiesa. “Fine dell’uomo è che la sua voce entri a far parte del coro celeste”. Questo è l’impegno di chi ha scoperto in Cristo il paradigma del suo vivere.

A colloquio con il Dio crocifisso
La vita non è un blocco monolitico, ma si presenta con mille possibilità di direzione e implica un continuo mettersi in gioco. Non a caso in molti suoi scritti la fenomenologa Edith Stein descrive l’atto della scelta. Una posizione che va analizzata alla luce della sua personale scelta di morire con il suo popolo.
Ma come si può comprendere questa decisione, volta non tanto al martirio quanto a riconfermare l’appartenenza a una stirpe che oggigiorno la considera esclusivamente una santa cristiana, quasi non comprendendo questo suo strano percorso? Penso che anche qui si possa rimanere fermi a quel “Secretum meum mihi est” che ha caratterizzato tutto l’itinerario della sua vita. Al tempo stesso, però, si deve far riferimento a quel suo colloquio intimo e personale con il Dio crocifisso, che al momento della professione solenne le farà assumere il nome di Teresa Benedetta della Croce, non casualmente, come si capisce dal suo scritto su Giovanni della Croce.
Per la mistica Edith Stein la fede religiosa non si riduce in un atto teoretico, sterile e distaccato dal vivere. La contemplazione deve diventare fede viva, colloquio e ascolto con il Dio datore di vita, secondo un’espressione da lei utilizzata, incontro da persona a persona. Edith Stein è entrata in questo colloquiare attraverso la contemplazione della croce, come si può comprendere anche dalle prime pagine di Scientia Crucis: “Quando parliamo di scienza della croce, non si deve intenderla nel significato corrente di scienza: non è una mera teoria, cioè un puro insieme di vere, reali, supposte proposizioni, ma una costruzione ideale strutturata con regolari processi di pensiero.
Una teologia della Croce è una verità ben conosciuta, una verità vivente, reale e operante: viene seminata nell’anima come un granello di frumento, getta le radici e cresce; conferisce all’anima un’impronta peculiare e la caratterizza nel suo agire, tanto che l’irraggia ed è riconoscibile”. Non c’è nulla di più concreto nella vita di Edith Stein del legno della croce.
http://www.diogenemagazine.eu/home/index.php?option=com_content&view=article&id=234:la-scienza-della-croce&catid=25:filosofi&Itemid=107

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