DON ANTONIO

sabato 22 ottobre 2011

Malattia e morte del Cristianesimo di Don Ermis Segatti

Il segreto richiama ambiti che per ora non conosciamo, ma in un futuro più o meno lontano riusciremo a conoscere, una volta trovatane la chiave di accesso. Il mistero invece è percepito là dove si avverte di essere di fronte a qualcosa che ci trascende, ci supera: non si riuscirà a comprenderlo pienamente né oggi né mai perché si riferisce a realtà che in assoluto, qualitativamente, vanno oltre i nostri limiti, e quindi non sono riducibili alle sole nostre vie di accesso o ai nostri apparati di lettura.
Esperienze quali il dolore, la sofferenza, la malattia, la nascita e la morte bussano alla porta dell’oltre da noi, alla sfera appunto del mistero. Possiamo ragionevolmente supporre che in essi vi sia sempre qualche aspetto che ci mette di fronte all’al di là della nostra esperienza, di fronte alla causa fontale e finale della vita in quanto tale.

S. Agostino, in proposito, suggerisce una eloquente immagine per esprimere l’atteggiamento di rispetto reverenziale (non di sgomento o di tabù) da assumere verso una simile soglia del nostro esistere: “Nulla – egli dice - così poco ci appartiene quanto la nostra vita”. Per affermare che la dimensione più profonda della vita non è, in definitiva, descrivibile in termini di possesso, non è un segreto aperto a possibili scoperte future. La vita è un dato che ci precede nella sua prima origine, come del resto lo è in definitiva tutto quanto esiste; un dato che analogamente sfugge al nostro possesso nel suo esito finale il quale non dipende solo da una decisione personale, come suggerirebbe, ad esempio, un’interpretazione troppo disinvolta della eutanasia.

Il termine forse più adatto al rapporto con la vita è quello della responsabilità nei confronti del suo orientamento, ma non la padronanza assoluta sulla sua origine e sulla sua fine. Oppure silenzio e rispetto, accompagnamento, misericordia, pietà.
Le spiritualità, molteplici e varie nel tempo, si concentrarono e si concentrano con grande impegno intorno a questa responsabilità e a questa gestione: la sofferenza e il dolore rappresentano certo un punto importante della loro proposta e in un certo senso anche il banco di prova della loro validità.
Esse tentarono e tentano in vari modi di predisporre il nostro animo, la nostra coscienza alla accettazione del fatto che proprio dentro tali esperienze possiamo maturare un livello più profondo di percezione del nostro essere. Quando la nostra corporeità versa in condizioni precarie, la coscienza sembra più facilmente portata a superare ogni delirio di onnipotenza.
Mentre per altro verso è appunto la sfera della corporeità che si presta a forme sempre più sofisticate di intervento e di gestione della sofferenza e del dolore con crescente attenzione alla dignità di chi soffre.

Ma appunto queste potenti tecnologie evocano a loro volta (si spera) domande di spiritualità nel loro orientamento. Pericolosi sarebbe infatti un potere e una gestione così invasivi senza una carica corrispondente di umanità e di sensibilità spirituale. È la sfida e la tensione perenne tra umanesimo e potere, tra mezzi e fini.

Il Cristianesimo dà un suo specifico di sapienza
Una spiritualità che trae ispirazione dal Vangelo si orienterà indubbiamente nella direzione sopra segnata da s. Agostino in quanto aiuterà a scorgere nella sofferenza una occasione per avvertire una caratteristica di fondo della condizione dell’uomo in quanto creatura, una condizione che in parte ci appartiene e in parte non ci appartiene.

Tuttavia nell’ottica della fede questa precarietà non è senza interlocutore, non considera l’uomo come individuo che deve salvarsi da sé, che porta in solitudine il suo soffrire e il suo morire. Sottolinea piuttosto che proprio tale condizione pone l’uomo a fronte del suo creatore, partner e interlocutore ultimo quando appunto sono in gioco le domande ultime dell’esistenza, poiché la fede crede e professa fermamente Dio come primo prossimo dell’uomo.

In questo senso il momento della sofferenza può divenire per il credente una occasione forte per riconoscerlo e, al limite, per metterlo in questione, come dimostra così efficacemente il Libro di Giobbe. Ma, se si guarda alle origini degli stessi Vangeli, la passione di Gesù.

In modo significativo, le grandi esperienze collettive di sofferenza del secolo scorso (lager, gulag, etnocidi ecc.) spinsero un certo numero pensatori a porre domande estreme, sul nostro modo di pensare Dio, mettendo in questione la concezione che lo considera essere perfetto, ma intangibile, in sublime distacco nella sua onnipotenza rispetto alle vicende tormentate e tragiche di questo mondo. Domande che fecero e fanno da sempre sollevare il discorso su Dio nel Cristianesimo (ma non solo) a livello metafisico, sul senso ultimo della realtà in quanto tale, del perché della creazione, del perché e del chi di Dio.

Si disse e si dice che una religione la quale professa l’infinita perfezione di Dio creatore cadrebbe in una contraddizione insanabile nel momento stesso in cui esiste “altro” da Dio, e così diverso e lontano dalla sua perfezione. Al limite occorrerebbe perlomeno rinunciare a pensarlo onnipotente, per salvarne la bontà. Come pensare Dio onnipotente e buono, ma impassibile di fronte al male e al dolore?

Qui si innestano, ad esempio, alcuni aspetti veramente interessanti della letteratura gnostica, di recente passata alla ribalta con i vangeli apocrifi, anche se nella parlata corrente furono gestiti in modo assai spregiudicato e approssimativo.

Qui, non solo nell’uomo, ma anche in Dio la sofferenza si apre alle soglie del mistero. Significativamente la gnosi intendeva riscrivere il Libro del Genesi.

Numerosi spunti, tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, fanno riferimento a questa presenza sconcertante della onnipotenza di Dio, quando innanzitutto crea e poi entra in relazione, volendo l’altro da sé, e l’altro all’estremo, cioè capace addirittura di male e voluto-creato responsabile. Il fatto che noi esistiamo così come siamo e il creatore su di noi non eserciti l’onnipotenza come noi la penseremmo, suggerisce qualche elemento, ma non spiega fino in fondo che cosa sia, in effetti, l’onnipotenza di Dio quale si presenta nella rivelazione biblica e nella persona stessa di Gesù sofferente fino alla croce.

È un particolare tipo di onnipotenza quella che ha creato la possibilità del limite. È un particolare tipo di perfezione quella che crea la possibilità dell’imperfetto. È un particolare tipo di bontà quella che permette che la si rifiuti e la si contrasti. Che accetta l’esistenza del male senza dispiegare la sua onnipotenza per distruggerlo. E nello stesso pone come principio della comprensione di Dio non solo che egli è creatore, ma anche che egli è amore; e all’uomo chiede di amare come lui ama.

Cf il recente incontro sul ‘Dio umile’ della sala Carpanini. Questo particolarissima visione di Dio, come si è rivelato nella Bibbia e in Gesù, risulta sempre nuovo da accogliere lungo la storia, poiché si vorrebbe che Dio fosse il Dio vittorioso e garante di onnipotenza, sia pure in nome di ciò che riteniamo giusto.

Per questo la fede cristiana, la quale crede in un Dio che così si è rivelato, lo pone fermamente come riferimento finale sul dolore e sul male. Crede che la sofferenza e il male non sono a loro volta l’ultima frontiera a fronte di un Dio impassibile e indifferente, bensì l’occasione che consente di attraversarli come vie di salvezza.

Ma nello stesso tempo non sottrae il tutto al mistero e non dice, se non peccando di imprudenza spirituale, che tutto ci sia chiaro qui e ora né che tutto sia riconducibile a colpa o punizione o a progetti pienamente decifrabili. Si ricadrebbe in una lettura della giustizia di Dio della quale avremmo noi la piena conoscenza e il totale possesso.

Il dolore non esclude Dio, ma neppure lo include in una lettura chiara e distinta.

“Togliendoci - metaforicamente - i sandali” come Mosè di fronte al roveto ardente, anche noi di fronte al dolore, alla malattia, alla guarigione non useremo, dunque, parole onnipotenti. Il Salmo 36 ci propone, al riguardo, una parola significativa che, resa in un italiano corrente, recita: “Fai silenzio davanti a Dio e spera in Lui”.

Non c’è spazio neppure per la onnipotenza della compassione, la compassione che tutto spiega. L’apporto dei molteplici cammini di spiritualità che traggono ispirazione dalla fede cristiana sarà certamente quello di infondere - in presenza del dolore e della sofferenza - l’accettazione consapevole del nostro limite, senza che ci venga tolta la prossimità di Dio, che questo limite ha creato volendoci diversi da sé, anzi richiamandosi tanto più vicino a noi quanto egli rivela in Gesù l’onnipotenza che condivide il soffrire. Anche se mai in forma di ricette, in quanto, appunto, non alimenta il delirio di onnipotenza. Essa ‘conforta’: in tutta, appunto, la ‘forza’ di questo termine e nell’amore incondizionato per l’uomo che la sostiene.

Nell’ambito poi di quelle che, non impropriamente, vengono definite malattie spirituali, la spiritualità cristianamente ispirata agisce in una forma di terapia diretta, attraverso il ‘conforto’ che viene, appunto, a tutto il nostro essere da una coscienza retta, che si rende retta, attraverso vari percorsi che sono vere terapie dello spirito, collaudate da secoli di esperienza. Così opera Gesù quando di fronte al paralitico gli dice innanzitutto: ‘Ti sono rimessi i tuoi peccati’.

Vi sono delle malattie spirituali eclatanti e particolarmente vistose: malizia, perversione, altre più sottili di auto ed etero-distruzione. Con inflessioni tutte nostrane di recente formazione: indifferenza e chiusura nella propria esclusiva libertà.

La spiritualità aiuta a sanare la malattia che si insedia nello spirito dell’uomo, che ostacola la sua apertura all’amore, meta ultima di ogni spiritualità che si richiami alla fede cristiana. E la malattia prende il nome di egoismo o di idolatria di sé sotto varie forme, una variante del delirio di onnipotenza.

Il Padre Nostro, in particolare nella prima parte, ci propone sotto forma di preghiera indica un chiara proposta al riguardo nell’invocazione, tre volte ripetuto, che ‘sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà’: non la mia.

http://www.allapiazza.it/teologia/malattiasegatti.php

I cammini di spiritualità cristiana offrono un prezioso contributo alla guarigione nel senso che esaltano, rafforzano la capacità di sostenere se stessi e gli altri. Si alimentano e si sviluppano all’interno della sfera del mistero di un Dio che ha rivelato la sua onnipotenza sulla croce, e come tale sostiene anche la nostra croce.

Una particolare croce da sostenere nel mondo occidentale è la diffusa disperazione sul valore stesso della vita perché talora pare si spenga non la voglia di vivere la propria vita, ma la accettazione della vita fuori di sé. O, ancora più profondamente, vedere anche uomini di fede che non credono più, che non hanno più fede. Sono forme profonde di “svuotamento” di inaridimento della vita. Non bastano i sedativi e i calmanti.

Uno degli obiettivi spirituali di noi credenti in Europa non è ottenere appannaggi di varia natura, ma conservare la fede. E’ necessario un rapporto rinnovato e profondo con Dio. Occorre mantenere viva la preghiera: essa è la prima profonda e significativa relazione dell’uomo con Dio. Quando si spegne questa, viene a mancare l’energia dialogica primaria. Non vi è nulla che possa supplire a questa relazione, a ciò che ne può scaturire.

Uno dei problemi dell’Occidente è la solitudine nel senso più radicale della parola: troppo soli, senza Dio. Non c’è nessun palliativo che possa colmare questo vuoto. Scrive Luigi Pintor: “Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro cingendoti il collo possa rialzarsi”. Dal punto di vista spirituale questo ‘altro’ è primariamente Dio.

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