DON ANTONIO

mercoledì 12 ottobre 2011

SALVIFICI DOLORIS N.2

GESU' CRISTO: LA SOFFERENZA VINTA DALL'AMORE
14. « Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna »(27).
Queste parole, pronunciate da Cristo nel colloquio con Nicodemo, ci introducono nel centro stesso dell'azione salvifica di Dio. Esse esprimono anche l'essenza stessa della soteriologia cristiana, cioè della teologia della salvezza. Salvezza significa liberazione dal male, e per ciò stesso rimane in stretto rapporto col problema della sofferenza. Secondo le parole rivolte a Nicodemo, Dio dà il suo Figlio al « mondo » per liberare l'uomo dal male, che porta in sé la definitiva ed assoluta prospettiva della sofferenza. Contemporaneamente, la stessa parola « dà » («ha dato ») indica che questa liberazione deve essere compiuta dal Figlio unigenito mediante la sua propria sofferenza. E in ciò si manifesta l'amore, l'amore infinito sia di quel Figlio unigenito, sia del Padre, il quale « dà » per questo il suo Figlio. Questo è l'amore per l'uomo, l'amore per il « mondo »: è l'amore salvifico.
Ci troviamo qui — occorre rendersene conto chiaramente nella nostra comune riflessione su questo problema — in una dimensione completamente nuova del nostro tema. E' dimensione diversa da quella che determinava e, in un certo senso, chiudeva la ricerca del significato della sofferenza entro i limiti della giustizia. Questa è la dimensione della Redenzione , alla quale nell'Antico Testamento già sembrano preludere, almeno secondo il testo della Volgata, le parole del giusto Giobbe: « Io so infatti che il mio Redentore vive, e che nell'ultimo giorno... vedrò il mio Dio... »(28). Mentre finora la nostra considerazione si è concentrata prima di tutto e, in un certo senso, esclusivamente sulla sofferenza nella sua molteplice forma temporale (come anche le sofferenze del giusto Giobbe), invece le parole, ora riportate dal colloquio di Gesù con Nicodemo, riguardano la sofferenza nel suo senso fondamentale e definitivo. Dio dà il suo Figlio unigenito, affinché l'uomo « non muoia », e il significato di questo « non muoia » viene precisato accuratamente dalle parole successive: « ma abbia la vita eterna ».
L'uomo « muore », quando perde « la vita eterna ». Il contrario della salvezza non è, quindi, la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l'essere respinti da Dio, la dannazione. Il Figlio unigenito è stato dato all'umanità per proteggere l'uomo, prima di tutto, contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell'uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione.
15. Quando si dice che Cristo con la sua missione tocca il male alle sue stesse radici, noi abbiamo in mente non solo il male e la sofferenza definitiva, escatologica (perché l'uomo « non muoia, ma abbia la vita eterna »), ma anche — almeno indirettamente — il male e la sofferenza nella loro dimensione temporale e storica. Il male, infatti, rimane legato al peccato e alla morte. E anche se con grande cautela si deve giudicare la sofferenza dell'uomo come conseguenza di peccati concreti (ciò indica proprio l'esempio del giusto Giobbe), tuttavia essa non può essere distaccata dal peccato delle origini, da ciò che in san Giovanni è chiamato « il peccato del mondo »(29), dallo sfondo peccaminoso delle azioni personali e dei processi sociali nella storia dell'uomo. Se non è lecito applicare qui il criterio ristretto della diretta dipendenza (come facevano i tre amici di Giobbe), tuttavia non si può neanche rinunciare al criterio che, alla base delle umane sofferenze, vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato.
Similmente avviene quando si tratta della morte. Molte volte essa è attesa persino come una liberazione dalle sofferenze di questa vita. Al tempo stesso, non è possibile lasciarsi sfuggire che essa costituisce quasi una definitiva sintesi della loro opera distruttiva sia nell'organismo corporeo che nella psiche. Ma, prima di tutto la morte comporta la dissociazione dell'intera personalità psicofisica dell'uomo. L'anima sopravvive e sussiste separata dal corpo, mentre il corpo viene sottoposto ad una graduale decomposizione secondo le parole del Signore Dio, pronunciate dopo il peccato commesso dall'uomo agli inizi della sua storia terrena: « Tu sei polvere e in polvere ritornerai »(30). Anche se dunque la morte non è una sofferenza nel senso temporale della parola, anche se in un certo modo si trova al di là di tutte le sofferenze, contemporaneamente il male, che l'essere umano sperimenta in essa, ha un carattere definitivo e totalizzante. Con la sua opera salvifica il Figlio unigenito libera l'uomo dal peccato e dalla morte. Prima di tutto egli cancella dalla storia dell'uomo il dominio del peccato, che si è radicato sotto l'influsso dello Spirito maligno, iniziando dal peccato originale, e dà poi all'uomo la possibilità di vivere nella Grazia santificante. Sulla scia della vittoria sul peccato egli toglie anche il dominio della morte, dando, con la sua risurrezione, l'avvio alla futura risurrezione dei corpi. L'una e l'altra sono condizione essenziale della « vita eterna », cioè della definitiva felicità dell'uomo in unione con Dio; ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata.
In conseguenza dell'opera salvifica di Cristo l'uomo esiste sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne. E anche se la vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali dalla vita umana, né libera dalla sofferenza l'intera dimensione storica dell'esistenza umana, tuttavia su tutta questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una luce nuova, che è la luce della salvezza. E' questa la luce del Vangelo, cioè della Buona Novella. Al centro di questa luce si trova la verità enunciata nel colloquio con Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito »(31). Questa verità cambia dalle sue fondamenta il quadro della storia dell'uomo e della sua situazione terrena: nonostante il peccato che si è radicato in questa storia e come eredità originale e come « peccato del mondo » e come somma dei peccati personali, Dio Padre ha amato il Figlio unigenito, cioè lo ama in modo durevole; nel tempo poi, proprio per quest'amore che supera tutto, egli « dà » questo Figlio, affinché tocchi le radici stesse del male umano e così si avvicini in modo salvifico all'intero mondo della sofferenza, di cui l'uomo è partecipe.
16. Nella sua attività messianica in mezzo a Israele Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza. « Passò facendo del bene »(32), e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo che a quella dell'anima. E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale. Essi sono « i poveri in spirito » e « gli afflitti », e « quelli che hanno fame e sete della giustizia » e « i perseguitati per causa della giustizia », quando li insultano, li perseguitano e mentendo, dicono ogni sorta di male contro di loro per causa di Cristo(33)... Così secondo Matteo; Luca menziona esplicitamente coloro « che ora hanno fame »(34).
Ad ogni modo Cristo si è avvicinato soprattutto al mondo dell'umana sofferenza per il fatto di aver assunto egli stesso questa sofferenza su di se'. Durante la sua attività pubblica provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l'incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente circondato da un cerchio di ostilità e divennero sempre più chiari i preparativi per toglierlo di mezzo dai viventi. Cristo è consapevole di ciò, e molte volte parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte che lo attendono: « Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà »(35). Cristo va incontro alla sua passione e morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere proprio in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza egli deve far sì « che l'uomo non muoia, ma abbia la vita eterna ». Proprio per mezzo della sua Croce deve toccare le radici del male, piantate nella storia dell'uomo e nelle anime umane. Proprio per mezzo della sua Croce deve compiere l'opera della salvezza. Quest'opera, nel disegno dell'eterno Amore, ha un carattere redentivo.
E perciò Cristo rimprovera severamente Pietro, quando vuole fargli abbandonare i pensieri sulla sofferenza e sulla morte di Croce(36). E quando, durante la cattura nel Getsemani, lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice: « Rimetti la spada nel fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire? »(37). Ed inoltre dice: « Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato? »(38). Questa risposta — come altre che ritornano in diversi punti del Vangelo — mostra quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero che già aveva espresso nel colloquio con Nicodemo: « Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna »(39). Cristo s'incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica, va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito al Padre in quest'amore, col quale Egli ha amato il mondo e l'uomo nel mondo. E per questo San Paolo scriverà di Cristo: « Mi ha amato e ha dato se stesso per me »(40).
17. Le Scritture dovevano adempiersi. Erano molti i testi messianici dell'Antico Testamento che preludevano alle sofferenze del futuro Unto di Dio. Tra tutti particolarmente toccante è quello che di solito è chiamato il quarto Carme del Servo di Jahvé, contenuto nel Libro di Isaia. Il profeta, che giustamente viene chiamato « il quinto evangelista », presenta in questo Carme l'immagine delle sofferenze del Servo con un realismo così acuto quasi le vedesse con i propri occhi: con gli occhi del corpo e dello spirito. La passione di Cristo diventa, alla luce dei versetti di Isaia, quasi ancora più espressiva e toccante che non nelle descrizioni degli stessi evangelisti. Ecco, si presenta davanti a noi il vero Uomo dei dolori:
« Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi...
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori,
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l'iniquità di noi tutti »(41).
Il Carme del Servo sofferente contiene una descrizione nella quale si possono, in un certo senso, identificare i momenti della passione di Cristo in vari loro particolari: l'arresto, l'umiliazione, gli schiaffi, gli sputi, il vilipendio della dignità stessa del prigioniero, l'ingiusto giudizio, e poi la flagellazione, la coronazione di spine e lo scherno, il cammino con la croce, la crocifissione, l'agonia.
Più ancora di questa descrizione della passione ci colpisce nelle parole del profeta la profondità del sacrificio di Cristo. Ecco, egli, benché innocente, si addossa le sofferenze di tutti gli uomini, perché si addossa i peccati di tutti. « Il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di tutti »: tutto il peccato dell'uomo nella sua estensione e profondità diventa la vera causa della sofferenza del Redentore. Se la sofferenza « viene misurata » col male sofferto, allora le parole del profeta ci permettono di comprendere la misura di questo male e di questa sofferenza, di cui Cristo si è caricato. Si può dire che questa è sofferenza « sostitutiva »; soprattutto, però, essa è « redentiva ». L'Uomo dei dolori di quella profezia è veramente quell'« agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo »(42). Nella sua sofferenza i peccati vengono cancellati proprio perché egli solo come Figlio unigenito poté prenderli su di sé, assumerli con quell'amore verso il Padre che supera il male di ogni peccato; in un certo senso annienta questo male nello spazio spirituale dei rapporti tra Dio e l'umanità, e riempie questo spazio col bene.
Tocchiamo qui la dualità di natura di un unico soggetto personale della sofferenza redentiva. Colui, che con la sua passione e morte sulla Croce opera la Redenzione, è il Figlio unigenito che Dio « ha dato ». E nello stesso tempo questo Figlio consostanziale al Padre soffre come uomo. La sua sofferenza ha dimensioni umane, ha anche — uniche nella storia dell'umanità — una profondità ed intensità che, pur essendo umane, possono essere anche incomparabili profondità ed intensità di sofferenza, in quanto l'Uomo che soffre è in persona lo stesso Figlio unigenito: « Dio da Dio ». Dunque, soltanto Lui — il Figlio unigenito — è capace di abbracciare la misura del male contenuta nel peccato dell'uomo: in ogni peccato e nel peccato « totale », secondo le dimensioni dell'esistenza storica dell'umanità sulla terra.
18. Si può dire che le suddette considerazioni ci conducono ormai direttamente al Getsemani e sul Golgota, dove si è adempiuto il Carme del Servo sofferente, contenuto nel Libro d'Isaia. Ancora prima di andarvi, leggiamo i successivi versetti del Carme, che danno un'anticipazione profetica della passione del Getsemani e del Golgota. Il Servo sofferente — e questo a sua volta è essenziale per un'analisi della passione di Cristo — si addossa quelle sofferenze, di cui si è detto, in modo del tutto volontario:
« Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza
fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua sorte?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede la sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tumulo,
sebbene non avesse commesso violenza,
né vi fosse inganno nella sua bocca »(43).
Cristo soffre volontariamente e soffre innocentemente. Accoglie con la sua sofferenza quell'interrogativo, che — posto molte volte dagli uomini — è stato espresso, in un certo senso, in modo radicale dal Libro di Giobbe. Cristo, tuttavia, non solo porta con sé la stessa domanda (e ciò in modo ancor più radicale, poiché egli non è solo un uomo come Giobbe, ma è l'unigenito Figlio di Dio), ma porta anche il massimo della possibile risposta a questo interrogativo. La risposta emerge, si può dire, dalla stessa materia, di cui è costituita la domanda. Cristo dà la risposta all'interrogativo sulla sofferenza e sul senso della sofferenza non soltanto col suo insegnamento, cioè con la Buona Novella, ma prima di tutto con la propria sofferenza, che con un tale insegnamento della Buona Novella è integrata in modo organico ed indissolubile. E questa è l'ultima, sintetica parola di questo insegnamento: « la parola della Croce », come dirà un giorno San Paolo(44).
Questa « parola della Croce » riempie di una realtà definitiva l'immagine dell'antica profezia. Molti luoghi, molti discorsi durante l'insegnamento pubblico di Cristo testimoniano come egli accetti sin dall'inizio questa sofferenza, che è la volontà del Padre per la salvezza del mondo. Tuttavia, un punto definitivo diventa qui la preghiera nel Getsemani. Le parole: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu! »(45), e in seguito: « Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà »(46), hanno una multiforme eloquenza. Esse provano la verità di quell'amore, che il Figlio unigenito dà al Padre nella sua obbedienza. Al tempo stesso, attestano la verità della sua sofferenza. Le parole della preghiera di Cristo al Getsemani provano la verità dell'amore mediante la verità della sofferenza. Le parole di Cristo confermano con tutta semplicità questa umana verità della sofferenza, fino in fondo: la sofferenza è un subire il male, davanti al quale l'uomo rabbrividisce. Egli dice: « passi da me », proprio così, come dice Cristo nel Getsemani.
Le sue parole attestano insieme quest'unica ed incomparabile profondità ed intensità della sofferenza, che poté sperimentare solamente l'Uomo che è il Figlio unigenito. Esse attestano quella profondità ed intensità, che le parole profetiche sopra riportate aiutano, a loro modo, a capire: non certo fino in fondo (per questo si dovrebbe penetrare il mistero divino-umano del Soggetto), ma almeno a percepire quella differenza (e somiglianza insieme) che si verifica tra ogni possibile sofferenza dell'uomo e quella del Dio-Uomo. Il Getsemani è il luogo, nel quale appunto questa sofferenza, in tutta la verità espressa dal profeta circa il male in essa provato, si è rivelata quasi definitivamente davanti agli occhi dell'anima di Cristo.
Dopo le parole nel Getsemani vengono le parole pronunciate sul Golgota, che testimoniano questa profondità — unica nella storia del mondo — del male della sofferenza che si prova. Quando Cristo dice: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », le sue parole non sono solo espressione di quell'abbandono che più volte si faceva sentire nell'Antico Testamento, specialmente nei Salmi e, in particolare, in quel Salmo 22 [21], dal quale provengono le parole citate(47). Si può dire che queste parole sull'abbandono nascono sul piano dell'inseparabile unione del Figlio col Padre, e nascono perché il Padre « fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti » (48) è sulla traccia di ciò che dirà San Paolo: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore »(49). Insieme con questo orribile peso, misurando « l'intero » male di voltare le spalle a Dio, contenuto nel peccato, Cristo, mediante la divina profondità dell'unione filiale col Padre, percepisce in modo umanamente inesprimibile questa sofferenza che è il distacco, la ripulsa del Padre, la rottura con Dio. Ma proprio mediante tale sofferenza egli compie la Redenzione, e può dire spirando: « Tutto è compiuto »(50).
Si può anche dire che si è adempiuta la Scrittura, che sono state definitivamente attuate nella realtà le parole di detto Carme del Servo sofferente: « Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori »(51). L'umana sofferenza ha raggiunto il suo culmine nella passione di Cristo. E contemporaneamente essa è entrata in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine: è stata legata all'amore, a quell'amore del quale Cristo parlava a Nicodemo, a quell'amore che crea il bene ricavandolo anche dal male, ricavandolo per mezzo della sofferenza, così come il bene supremo della redenzione del mondo è stato tratto dalla Croce di Cristo, e costantemente prende da essa il suo avvio. La Croce di Cristo è diventata una sorgente, dalla quale sgorgano fiumi d'acqua viva(52). In essa dobbiamo anche riproporre l'interrogativo sul senso della sofferenza, e leggervi sino alla fine la risposta a questo interrogativo.
V
PARTECIPI DELLE SOFFERENZE DI CRISTO
19. Il medesimo Carme del Servo sofferente nel Libro di Isaia ci conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di questo interrogativo e di questa risposta:
« Quando offrirà se stesso in espiazione,
vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza,
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i peccatori »(53).
Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova situazione. Ed è come se Giobbe l'avesse presentita, quando diceva: « Io so infatti che il mio Redentore vive... »(54), e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del suo significato. Nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo — senza nessuna colpa propria — si è addossato « il male totale del peccato ». L'esperienza di questo male determinò l'incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò il prezzo della redenzione. Di questo parla il Carme del Servo sofferente in Isaia. A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della Nuova Alleanza, stipulata nel sangue di Cristo. Ecco le parole dell'apostolo Pietro dalla sua prima Lettera: « Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia »(55). E l'apostolo Paolo nella Lettera ai Galati dirà: « Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso »(56), e nella prima Lettera ai Corinzi: « Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! »(57).
Con queste ed altre simili parole i testimoni della Nuova Alleanza parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la sofferenza di Cristo. Il Redentore ho sofferto al posto dell'uomo e per l'uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. E' chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.
20. I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto. Nella seconda Lettera ai Corinzi l'Apostolo scrive: « Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale..., convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù »(58).
San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani « a causa di Gesù ». Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella Lettera di partecipare all'opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Redentore. L'eloquenza della Croce e della morte viene tuttavia completata con l'eloquenza della risurrezione. L'uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione. Perciò, l'Apostolo scriverà anche nella seconda Lettera ai Corinzi: « Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione »(59).
Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole d'incoraggiamento: « Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e nella pazienza di Cristo »(60). E nella Lettera ai Romani scrive: « Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale »(61).
La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione. Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all'uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato.
Questa scoperta dettò a San Paolo parole particolarmente forti nella Lettera ai Galati: « Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me »(62). La fede permette all'autore di queste parole di conoscere quell'amore, che condusse Cristo sulla Croce. E se amò così, soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive in colui che amò così, egli vive nell'uomo: in Paolo. E vivendo in lui — man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde con l'amore al suo amore — Cristo diventa anche in modo particolare unito all'uomo, a Paolo, mediante la Croce. Quest'unione ha dettato a Paolo, nella stessa Lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno forti: « Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella Croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo »(63).
21. La Croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell'uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale. I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione. Scrive Paolo: « Perché io possa conoscere lui (Cristo), la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti »(64). Veramente, l'Apostolo prima sperimentò « la potenza della risurrezione » di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella « partecipazione alle sue sofferenze », della quale parla, ad esempio, nella Lettera ai Galati. La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla Croce di Cristo avviene attraverso l'esperienza del Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle espressioni dell'Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la Croce di Cristo dà inizio.
I testimoni della Croce e della risurrezione erano convinti che « è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio »(65). E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: « Possiamo gloriarci di voi ... per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel Regno di Dio, per il quale ora soffrite »(66). Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il Regno di Dio. Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo Regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l'infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il Regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell'uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo Regno mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.
22. Alla prospettiva del Regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella Croce di Cristo. La risurrezione ha rivelato questa gloria — la gloria escatologica — che nella Croce di Cristo era completamente offuscata dall'immensità della sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla gloria. Paolo esprime questo in diversi punti. Scrive ai Romani: « Siamo ... coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi »(67). Nella seconda Lettera ai Corinzi leggiamo: « Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili »(68). L'apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole della sua prima Lettera: « Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare »(69).
Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla Croce ed alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all'elevazione di Cristo per mezzo della Croce. Se, infatti, la Croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla Croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell'umiliazione tutta la sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l'agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: « Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno »?(70) A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell'uomo, la sua maturità spirituale. Di ciò hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri ed i confessori di Cristo, fedeli alle parole: « E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima »(71).
La risurrezione di Cristo ha rivelato « la gloria del secolo futuro » e, contemporaneamente, ha confermato « il vanto della Croce »: quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza dell'uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e danno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell'uomo.
23. La sofferenza, infatti, è sempre una prova — a volte una prova alquanto dura —, alla quale viene sottoposta l'umanità. Dalle pagine delle Lettere di San Paolo più volte parla a noi quel paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare dall'Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo. Egli scrive nella seconda Lettera ai Corinzi: « Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo »(72). Nella seconda Lettera a Timoteo leggiamo: « E' questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto »(73). E nella Lettera ai Filippesi dirà addirittura: « Tutto posso in colui che mi dà la forza »(74).
Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della Croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell'impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla Croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella Croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza. Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima Lettera di Pietro: « Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome »(75).
Nella Lettera ai Romani l'apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo « nascere della forza nella debolezza », di questo ritemprarsi spirituale dell'uomo in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo: « Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato »(76). Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l'uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L'uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell'uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con l'opera dell'amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito Santo. Man mano che partecipa a questo amore, l'uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova « l'anima », che gli sembrava di aver « perduto »(77) a causa della sofferenza.
24. Tuttavia, le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella Lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: « Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa »(78). Ed egli in un'altra Lettera interroga i suoi destinatari: « Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? »(79).
Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all'unione con l'uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all'atto del Battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo Sacrificio — sacramentalmente mediante l'Eucaristia — la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, ed in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le citate parole della Lettera ai Colossesi attestano l'eccezionale carattere di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo — come in unione con Cristo sopporta le sue « tribolazioni » l'apostolo Paolo — non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche « completa » con la sua sofferenza « quello che manca ai patimenti di Cristo ». In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza. La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell'uomo. In quanto l'uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo — in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia —, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo.
Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza. In questa dimensione — nella dimensione dell'amore — la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.
In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo. Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell'uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l'opera redentrice di Cristo. Il mistero della Chiesa — di quel corpo che completa in sé anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo — indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo. Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di « ciò che manca » ai patimenti di Cristo. L'Apostolo, del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di « quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa ».
Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell'umanità, è la dimensione, nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell'uomo. In ciò vien messa in risalto anche la natura divino-umana della Chiesa. La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa. Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l'inesprimibile mistero del corpo di Cristo.

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_letters/documents/hf_jp-ii_apl_11021984_salvifici-doloris_it.html

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