DON ANTONIO

giovedì 6 ottobre 2011

STORIA E META-STORIA DELLA RESURREZIONE Stanislas Breton

La Resurrezione, secondo la parola di Paolo, è stata e resta ancora una “energia” o virtù (dunamis) che sarebbe stata nulla senza gli “effetti” da essa prodotti, “effetti” che, di diritto, essa è sempre idonea a suscitare. La correlazione tomistica tra “l’essere e l’agire” è in questo contesto, come in ogni altro campo, una connessione indissolubile: operari sequitur esse. Ciò che, da noi, il buon senso popolare traduce a modo suo, in una specie di proverbio: “ciò che non agisce non esiste”.
Se, per giunta, si adotta l’antica tripartizione che distingueva: storia della natura, storia umana, storia soprannaturale, si deve aggiungere che l’energia della Resurrezione si dispiega su questi tre campi, in perfetta armonia. In quanto soprannaturale, essa abbraccia – al tempo stesso – l’umanità e il cosmo. I testi della Scrittura, pur ignorando tale nomenclatura, ne contengono l’essenziale. La teologia orientale che non separa la “Resurrezione” dalla “trasfigurazione” ha saputo meglio accentuare di quanto non abbia fatto la teologia occidentale, questa tri–unità infrangibile. L’icona, in quanto espressione di un’arte animata dalla fede, è il segno sensibile di un universo della Resurrezione. In esso la materia si sublima in luce; i corpi stessi sembrano dimenticare, sotto l’azione della grazia, la loro gravità naturale; i volti, centrati su uno sguardo che, in movimento verso l’assoluto, è pura visione senza oggetto, colti dal bagliore che li fissa, sono solo il riflesso di una invisibile e sovrabbondante gratuità. Così è questo universo “pneumatico” della trasfigurazione e della Resurrezione; un universo attraversato dalle divine “energie” o “potenze, in una circoninsessione in cui tutte le creature sono coinvolte nelle processioni trinitarie. Energeia, dunamis, sono le parole chiave di questo universo pittorico. Gli attributi divini in questo universo non sono più proprietà private di una sostanza: essi irradiano una generosità senza principio e senza fine. Bonun diffusivum sui. Nessuna arte, da allora, ha saputo “dire” come ha “detto” questa, la fluidità di uno spazio che, lungi dal confondersi con un contenente inerte, si identifica con il dinamismo di una potenza espansiva la cui tenerezza infinita assicura e garantisce, nel rispetto delle irriducibili differenze, l’universale comunione di tutti gli esseri, tra di loro e con il loro principio. Ciascuno di essi, nel suo “movimento immobile” si costituisce nel e per uno sguardo di “conversione” che lo restituisce alla sua fonte. A questo “riposo” che è un “transito” perpetuo, si potrebbe applicare ciò che è stato scritto del Verbo e del Cristo: “Egli era in Dio”; “Egli andava passando in mezzo (alle creature)”. L’icona è lo schema magnifico di questo “andare” che non si distingue da un “ritorno”. Essa illustra egregiamente una teologia della Resurrezione che sottintende, come un orizzonte di intelligibilità, le articolazioni del mio discorso.
Vorrei dapprima proporre alcune osservazioni su “storia e meta-storia”. Questi preliminari preparano una riflessione della quale preciso gli stati:
― “corpo spirituale” e storia
― spirito vivificante e esistenza di fede
― azione storica e azione teandrica
― storia e vittoria sulla morte
Si tratta di un modo alquanto timido di affrontare un temibile problema, senza nessuna pretesa, da parte mia, di dare ad esso un adeguata soluzione.


I. Storia e metastoria
1. Non mi è possibile sviluppare a lungo le diverse concezioni della storia, dall’antichità fino ai giorni nostri. Succintamente e assumendo la responsabilità di una sintesi, sempre temeraria, vorrei distinguere due grandi tendenze. Per la prima tendenza – che è anche la più antica – la storia in quanto scrittura è il racconto di quanto fu trasmesso. Essa è la messa in atto di una tradizione. Nel contesto cristiano, se ci si riferisce ai testi neo-testamentari (cf. 1Cor 11, 23 e ss; 15,1; Luca 1,1 e ss. e prologo degli Atti degli Apostoli), è facile osservare che i “racconti” degli avvenimenti così come essi ci sono stati trasmessi da coloro che, sin dall’inizio, furono testimoni oculari e che sono diventati i “servitori della Parola” (Luca 1,1), appartengono a questo primo genere, tradizionale e narrativo, narrativo perché tradizionale e viceversa. “L’acribia” dello storico è fedeltà di una memoria che è anche il servizio di una Parola. La fedele riproduzione dell’informazione ricevuta equivale ad un criterio di oggettività che, nell’obbedire all’ascolto, reprime le deviazioni dovute all’arbitrio individuale.
La seconda tendenza, prevalentemente critica, è originata da un “io penso” di dubbio che accompagna il lavoro dello storico durante tutte le sue ricerche. Non si tratta più di una fedeltà che vuole essere partecipazione attiva “a ciò che fu trasmesso”. Si tratta soprattutto di sapere in che maniera dei giudizi di storia siano possibili. Alla “partecipazione” si sostituisce, allora una specie di difesa spontanea, una presa di distanza. Quest’ultima sostituisce con la lucidità di un Epoca, la luce di un passato fondamentale, lucidità che, per “rendersi conto”, vuole stabilire una messa in questione di ciò che è realmente accaduto. I testi e la tradizione, fragili indizi di ciò che è stato, sono così convocati davanti al tribunale di una ragione che domanda loro delle spiegazioni e ingiunge loro di rendere conto dell’”amministrazione” del passato.
Queste due concezioni, che pongo in netto contrasto, hanno anche oggi i loro seguaci. Ma si possono anche immaginare, tra questi due estremi, delle forme miste che, più o meno abilmente, compongono i contrari. Alcuni preferiranno a questi diplomatici compromessi, il punto di frizione di una differenza chiaramente evidenziata.
2. Chiaramente, se si escludono alcuni brani di scrittura dai quali traspare l’intenzione apologetica o la risposta ad una obiezione, i racconti della Resurrezione si situano nell’asse della fedeltà a “ciò che è stato trasmesso” dai testimoni e dai “servitori della parola”. La storia che essi raccontano è “edificante” nell’accezione meno banale del termine. Essa è pertanto, in quanto narrata, una storia che, attraverso la sollecitazione attiva da essa esercitata, dovrebbe produrre ciò che essa significa. La fede nella Resurrezione oltrepassa con ciò un concetto di Verità che, secondo il modello classico, definirebbe l’adeguamento dell’intelletto a una realtà estranea. La verità consiste in una duplice e reciproca fedeltà: di Dio alla sua Parola, del fedele che “sa a chi si affida”. La correlazione che li unisce oltrepassa la relazione poetica del “conoscente e del conosciuto” e quella della causa e del suo effetto. La vita nuova in Gesù Cristo resuscitato, “testimone veritiero” della promessa divina, non potrebbe risolversi né in rapporti di esteriorità né in una banale “produzione” dell’“oggetto” da parte del soggetto o del “soggetto” da parte dell’”oggetto”. La novità di questa creazione esclude sia l’illusione di menti esaltate sia la verifica estrinseca da parte di una commissione di esperti. Essa si comprende nel modo migliore quando, abbandonando la massiccia opposizione dell’obbiettivo” e del “soggettivo”, la si interpreta come l’espansione di una “azione teandrica” di cui Cristo è il modello che unisce la profondità dell’anima con la profondità del Dio amore.

3. Ne consegue che l’errore mortale, da non commettere, sarebbe quello di allineare “la storia del Resuscitato” alle esigenze di una “storia critica” che esclude ogni partecipazione. Numerosi problemi inesistenti sorgono da queste confusioni o interferenze. Si giungerebbe così ad opporre indefinitivamente l’esegesi “fiscalista” e l’esegesi “pneumatica”. I “segni” nel linguaggio neo-testamentario non sono tanto delle “prove” logiche o sperimentali quanto l’effervescenza di una “vita nuova” o di una “potenza” che – al di là di ogni deliberazione – fa dei suoi “testimoni” l’avvento, “in atto compiuto”, di un mondo nuovo.
E se si vuole parlare di “meta-storia”, bisogna stare attenti a spiegarsi. L’espressione significa al tempo stesso che la storia non si riduce a ciò che di essa ritiene la modernità dello storico, come non si limita, data la sua connotazione “teandrica”, alle dimensioni disgiunte o congiunte del “cosmico” e del “semplicemente umano”. Dopo aver preso queste precauzioni, possiamo addentrarci in modo più sicuro in un “mistero di fede” che, se non stiamo attenti, rischiamo di sciogliere in un fascio di problemi insolubili, moltiplicati all’infinito.


II. Storia e “corpo spirituale”
La storia della Resurrezione è la storia di un “ambiente cristiano” che, da parte, si iscrive nella “storia universale” e dall’altra, in quanto “cristico” e “universale concreto”, comprende e informa il suo proprio “comprendente”. Parafrasando una frase di Pascal, si potrebbe ben dire: l’universo comprende “ciò che è cristiano” e ciò che è cristiano “comprende” l’universo. Non è questo il solo caso in cui è rappresentata la mutua immanenza del particolare e dell’universale. Si potrebbe forse dire che ogni cultura, per quanto regionale essa possa essere, racchiude nella sua contingenza storica, “qualche cosa” che deve parlare a tutti. In modo che i suoi elementi, anche i più strani, riflettono un tratto di umanità nel quale ciascuno di noi potrebbe riconoscersi. Ciò che equivale a dire, con San Tommaso, che non esiste “nulla di tanto contingente (e di tanto “regionale”) che non implichi qualche necessario”, in cui l’umano ci fa un cenno in quanto umano.

1. Sin dalla sua origine il cristianesimo si è affermato nella sua qualità di messaggio e di “potenza senza frontiere”: “andate e ammaestrate tutte le nazioni”. Per basare le nostre ulteriori considerazioni, sarà utile spiegare l’assiomatica intuitiva, la quale ha una “pretesa” che fa scandalizzare qualcuno.
― L’universalismo evangelico ha il suo principio nella condizione umano-divina di Cristo, legame sostanziale” della creazione, di cui egli assomma, per virtù di una “grazia multiforme”, l’innumerevole diversità.
― Tuttavia, questa “universalità” si è affermata come tale solo al tempo della Resurrezione, che doveva renderla “effettiva”.
― A dire il vero non si può separare il positivo dal negativo. Passione e Resurrezione sono inseparabili. Nel clima cristiano, esse sono l’analogo di un ritmo fondamentale. La morte di Gesù infrange il recinto provvisorio di un quadro storico-geografico. La Resurrezione “attualizza” l’universalità potenziale della Passione e della morte. Il battesimo simboleggia questo duplice movimento di immersione e di emergenza.
― La Resurrezione sarebbe così, sulla nostra terra, il segno o la manifestazione della “divina filantropia” che fa brillare il suo sole su tutti, senza eccezione, buoni e cattivi.
― Essa unisce, o dovrebbe unire, nella partecipazione all’amore misericordioso, tutti i cuori e tutti i corpi che formano un “solo corpo”.
― L’immagine del corpo, ripresa senza dubbio da precedenti stoici, è colma di un senso nuovo. Essa significa che i “figli di Dio dispersi”, sono “il corpo stesso di Cristo”. Nessuno è escluso. Ciascuno, nella sua singolarità unica e incancellabile, partecipa alla stessa vita che circola in tutte le membra. Egli si situa in un reticolato in cui “l’ipseità” dello “stesso” si afferma solo assumendo la responsabilità dell’altro in quanto altro.
― Le relazioni orizzontali che collegano ciascuno a tutti e tutti a ciascuno sono, esse stesse, assorbite dalla relazione verticale al Cristo resuscitato, principio di unità, mediazione e mediatore, attraverso il quale il dinamismo delle processioni trinitarie diventa la legge e l’energia di una vita di fede[1].
― Il linguaggio relazionale, così sorprendente nel Nuovo Testamento, utilizza, a questo proposito, le preposizioni chiave che esprimono la connessione di un “tutto organico”. Tra le più usate, segnaliamo quelle che meglio indicano i “tropi” o costrutti dell’essere e del divenir cristiani: in, per mezzo, per, verso, con, seguiti quasi sempre dal loro complemento cristico. Anche se si considera sono la frequenza d’uso, il primato spetta all’”essere-in” (cf. le Epistole paoline e Giovanni XV, 1 ss., dove si incontra spessissimo l’espressione “abitare in me”). Si può scorgere in esso il centro e l’elemento” (nel senso di “ambiente” atmosfera) a partire dal quale si organizza il quasi-gruppo di operazioni designate dalle flessioni “preposizionali” ricordate sopra e che sono altrettanti indicatori di movimenti in una stessa circolazione di vita.

2. L’espressione “corpo di Cristo” sta a suggerire più di un problema. Il qualificativo “mistico” invece di risolverlo, infittisce l’enigma. Ci avverte che dobbiamo superare l’idea, quanto mai banale, di un “corpo sociale” che occupa un certo spazio e le cui membra sono legate da un insieme di fattori comuni (rappresentazioni, regole, ecc.). Il “corpo di Cristo” è una cosa diversa da una società o comunità nel senso corrente del termine. Più esattamente, la comunità che esso rende possibile altro non è se non l’estensione di un principio di vita la cui intensità crea, diffondendosi, lo spazio senza limiti che esso occupa. Ecco perché è stato detto che “lo Spirito di Cristo” resuscitato è “l’anima universale” di questo mondo in espansione di cui il Verbo, nella Trinità, resta l’archetipo o l’idea esemplare. Lo Spirito, poiché Spirito di Cristo, l’organizza in universi di differenze solidali. L’epiteto “mistico”, che qualifica questo corpo, significa dunque due cose: negativamente, l’impossibilità di ridurlo al modello contrattuale o giuridico delle nostre società; positivamente, la necessità di invocare, per fargli giustizia, l’energia spirituale di una gratuità d’amore misericordioso, diverso da una anarchia generalizzata come pure da un legalismo di costrizione, in una gerarchia che avrebbe come unica legge l’obbedienza passiva.

3. I testi relativi alla Resurrezione si fondano su una locuzione tanto strano quanto lo è la prima. Essi parlano di un “corpo spirituale” opposto ad un “corpo psichico” (cf. 1 Cor. 15,45 ss.). Si avverte in queste distinzioni l’eco di divisioni affini che avevano in corso in altri ambienti in cui la corporeità si organizza secondo una pluralità di livelli designati da qualificativi alquanto vicini a quelli adoperati da Paolo.
Tra gli estremi dell’”immateriale” e dell’”empiria somatica”, esse inseriscono un mediano che partecipa degli opposti. Non saprei dilungarmi su queste dottrine più o meno sottili. Nella loro ripresa da parte dei testi neo-testamentari, esse potrebbero chiarire, secondo le loro molteplici dimensioni questo “corpo di Cristo” di cui la chiesa è, sulla terra, la struttura sensibile, magnifica e deludente. Con la prudenza che si impone e azzardando una estrapolazione contestabile quando si applicano queste dottrine alla storia, mi ispirerò liberamente ad esse. Sostengo, senza reticenze, la presenza nella Chiesa dell’”elemento mistico”, “spirituale” o “pneumatico” quale dinamismo di una energia d’amore, trasformatrice e unificante. Tuttavia, questo Spirito del Cristo resuscitato deve farsi corpo in una storia. Orbene, questo “diventare corpo” di uno spirito vivificante cozza inevitabilmente contro le condizioni di tempo, di luogo, di contesto: sociale, economico o politico, che gli impongono i loro limiti. In questo senso, si può discernere una “empiria somatica della Chiesa” che è al tempo stesso una necessità e una tentazione. Una necessità nella misura in cui ogni reale, qualsiasi esso sia, si compone di “determinazioni” che sono altrettante negazioni e restrizioni. Anche una tentazione, se il peso della storia, nell’uno o l’altro dei suoi volti, si converte in assoluto. La Chiesa rischia allora di indugiare nella “volontà fissa di uno stato fisso” e di tradire l’amore misericordioso che la “conduce dove essa non vorrebbe andare”. La preoccupazione dell’autoconservazione o della coesione del “corpo” nella felicità dell’”essere-insieme”, per quanto legittima essa sia, con la sua ossessione offusca a tratti l’imperativo categorico della “morte per la resurrezione”. Si approfondisce il divario tra la chiamata dello Spirito di Cristo, che è la sua anima, e la pesantezza dell’istituzione. Fortunatamente per la Chiesa, essa non dimentica mai completamente il suo essere autentico, nelle cristallizzazioni che fanno di esso uno “stato” fra gli altri. La tensione non sarà mai risolta: poiché l’adeguamento dell’empiria di storia allo Spirito che l’innalza sarebbe un compito senza fine. L’essenziale è che, tra il “corpo spirituale” e la sua “proiezione”, in un’epoca determinata, permanga l’appercezione dolorosa, di una distanza, sempre da ridurre e mai soppressa.


III. Lo spirito vivificante e l’esistenza di fede
Di conseguenza, il divenire del corpo “mistico e spirituale” nelle vicissitudini della storia deve essere considerato come una azione teandrica. Che cosa intendiamo precisamente con questa formula presa a prestito dal teologo? Niente di più, di ciò che fu chiamato un tempo “logica dell’Incarnazione”. La fede in Colui che è figlio di Dio e figlio dell’uomo può essere “coerente”, cioè fedele, solo per il tramite dell’ascolto attivo di una Parola che fu, indissolubilmente, il puro agire, in mezzo a noi, dell’amore misericordioso”. L’”obbedienza” non può essere altro che la messa in atto di una “sinergia” che compie, “in Lui”, per mezzo di Lui, con Lui e per Lui”, ciò che manca alla sua Passione e alla sua Resurrezione. Riconosciamolo, non si tratta di una vocazione debole. Ma come comprendere questa “incompiutezza” che richiede a noi tutti, e cioè alla Chiesa, nella sua diversità ontologica e funzionale l’audacia di una esistenza intrepida, sostenuta dallo Spirito vivificante del Cristo resuscitato?
1. L’esistenza in Cristo resuscitato è descritta con dovizia negli scritti del Nuovo Testamento. Spero che vorrete dispensarmi dall’’insistere su questo. Mi sembra che due aspetti la caratterizzano: da una parte la novità e dall’altra la libertà. I due attributi riguardano l’implicazione formale: impossibile pensare l’uno senza pensare l’altro e viceversa. Nell’ordine dell’agire ciò significa che non esiste novazione se non per mezzo di una agire di libertà e che non esiste agire di libertà se non per mezzo della novazione che esso stabilisce. Il mondo della Resurrezione sarebbe dunque il campo di una “pratica” trasformante.
La “sinergia” o “collaborazione” alla quale siamo invitati comporta un’iniziativa che nessuno potrebbe essere dispensato dall’assumere. Se a prima creazione, almeno nella sua radicalità, “si faceva senza di noi”, la seconda creazione, nella sua dipendenza riconosciuta, impegna l’autonomia di un’azione che è, in ciascuno, tanto originale e insostituibile di quanto lo è l’essere stesso che ne assume la responsabilità. Ma ci si chiederà: questa libertà novatrice per fare che cosa? La risposta non solleva nessun dubbio: “perché cresca il corpo di Cristo fino alla pienezza della sua età”. Ogni agire individuale avrebbe così una portata “storica”. Non è una pretesa eccessiva? Uomini di poca fede, perché ne dubitate? In nome dell’interdipendenza che vincola tra loro le membra del “corpo mistico”, la più umile iniziativa, senza che noi possiamo saperlo o sospettarlo, si ripercuote su tutti i punti dell’universo cristico. San Tommaso osserva in un punto della sua opera: sarebbe una viltà essere al di sotto del livello della sua potenza. Ora, che lo si voglia o no, noi disponiamo di una potenza per quanto modesta essa sia. Ultima domanda: quale è la relazione tra questa “potenza” di libertà e “l’amore misericordioso” di cui essa dà testimonianza?
2. L’amore misericordioso è una “locuzione” che suona male alle orecchie dei nostri contemporanei. In essa si ha il sentore di una condiscendenza altezzosa, soddisfatta da una carità facile che lascia cadere sui “miseri” al di sotto della tavola dei ricchi, le briciole di un festino. Anche se vi si aggiungesse il “sale” della “compassione” questo pane dei poveri non sarebbe per questo meno “miserabile”. Come accontentarsene se non si vuole rinnegare il proprio nome di cristiano?
Per sbarazzarci di questa mediocrità non c’è niente di più salutare che la rilettura silenziosa del terribile capitolo di Matteo (25, 31-46). Il testo è conosciutissimo e molto citato. Ma non è una ragione questa, per attenuare la forza della percussione. E’ importante che ciascuno e la Chiesa stessa si sottomettano senza condizioni al bagliore di questo giudizio finale. Ricordo di questo capitolo i passi più sconvolgenti: “Ho avuto fame, e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato […] . Ogni volta che non avete fatto queste cose ad uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”.
L’amore misericordioso, in questa luce delle grandi altezze, non è più il gesto che acconsente, in soprappiù, una sensibilità più o meno commossa dalla sventura. Esso si identifica con l’atto di una libertà novatrice, con una rivolta contro la sventura che è l’esercizio stesso della Resurrezione. La compassione non è affatto assente poiché la Passione continua. Ma essa si confonde con la generosità attiva che dà senza tenere il conto di quello che dà. Il “corpo mistico” o “spirituale” perde allora perfino l’anonimato relativo che potrebbe essere suggerito dall’espressione. Esso si afferma nel “sì” enigmatico di Cristo, presente nei suoi fratelli e che attende, in essi, il volto che egli ancora non ha. Il Verbo incarnato sarebbe dunque, anche dopo il miracolo di Pasqua “il servitore sofferente, privato di ogni figura umana”. L’unione ipostatica, definita dai concili, si estenderebbe “persino a ciò che non esiste secondo il mondo”? L’enigma di questo Io, che le filosofie non hanno previsto, ci impedisce di dormire. Un lavoro speculativo può aiutare a chiarirlo. Solo l’audacia di un “amore misericordioso”, unita alla gioia esaltante di una libertà novatrice, sarebbe capace di una soluzione effettiva. Blondel ci ha insegnato una volta che l’”azione” va più lontano e più profondità del concetto o dell’idea.
3. Mi rifiuto di sciogliere l’enigma di questo Io misterioso, immanente ai “più piccoli” nell’insieme senza nome delle miserie umane. Come rifiuto anche di confonderlo con un generico imperativo di giustizia, a meno che non si aggiunga, ma questo cambierebbe tutto, che si tratta di una giustizia nei confronti di Cristo stesso. Esiste nell’umano “qualche cosa” che “supera infinitamente” l’uomo delle scienze umane. Infine, i quattro verbi fondamentali del giudizio finale: mangiare, bere, vestirsi, abitare, non hanno solo un significato puramente biologico o vitale. Marx che, stranamente, utilizza anche lui questi quattro verbi, lo ammette senza reticenze. Ma detto questo, bisogna sostenere, contro un’interpretazione troppo “spiritualistica”, che questa prosa quotidiana della vita, di questo necessario diventato per tanti uomini l’impossibile della disperazione, si impone oggi come il compito primordiale di un “amore misericordioso” e di una libertà che fa presa su un universo da trasformare nella luce della Resurrezione. L’assioma di un tempo: “la grazia non distrugge, ma completa la natura”, non è mai stato tanto vero quanto lo è ai giorni nostri, in cui la disperazione non è più localizzabile, in un settore definito: noi sappiamo che esiste oramai una “cattolicità” intensiva e estensiva dell’infelicità, persino a livello del mondo. L’amore misericordioso tradirebbe lo spirito della Resurrezione se esso scadesse, come a volte avviene, nell’insulsaggine delle “parole verbali”.


IV. Storia e vittoria sulla morte
Attraverso questa lotta contro l’infelicità universale, l’amore misericordioso, quale energia di trasformazione, partecipa al dinamismo della Resurrezione. Ora, la Resurrezione è la vittoria, in Cristo resuscitato, sulle forze della morte e sulla morte stessa. La sfida paolina: “Morte dov’è la tua vittoria? è, dunque, anche la sfida della fede. Poiché la Resurrezione, ripetiamolo perché si rischia sempre di dimenticarlo, non si limita a ciò che “è accaduto in Gesù” il mattino di Pasqua. Essa non si coniuga solo al tempo passato del “compiuto”. Se è vero che essa segna uno “stato” che si è verificato in Gesù, è anche vero che inaugura un “divenire” che accompagna con la sua “potenza”. Con ciò stesso essa apre un orizzonte d’avvenire tra le “primizie” pasquali e il compimento ideale di una escatologia. Questo intervallo di speranza è un travaglio che mette alla prova la fecondità della nostra fede e che, in questo senso, la “verifica”.
1. Ci si chiederà forse se questa lotta contro la morte non sia la definizione stessa della storia “umana”. Se così fosse, come si precisa la “differenza cristiana”?
L’importanza della morte non è più evocata dalle diverse culture. Non è certo che il nostro genio tecnico sia riuscito a cancellarla anche quando la occulta sotto le mentite spoglie di una rimozione. Ma che cosa significa questa sfida umana?
Prescindendo dal cristianesimo, si potrebbero discernere due forme di questa lotta contro la morte. La prima fonda la sua speranza sulle forze impersonali di una natura, umana e pre-umana. Le generazioni si susseguono e si sostituiscono nella società come nel cosmo. L’antico proverbio che, a modo suo, commenta la filosofia greca: “la morte dell’uno è la nascita dell’altro” (corruptio unius generatio alterius) recupera il mito dell’”eterno ritorno” in un mondo il cui volto “immutabile e mutevole” riflette, nella permanenza del suoi cicli o leggi, la stabilità dell’eterno. La vittoria sull’inesorabile si risolve in definitiva in un principio di permanenza o di conservazione.
La seconda soluzione, senza negare la prima, rimette l’accento sulla specificità dell’umano. Essa, a sua volta, si ramifica, secondo i vari itinerari che si intraprendono e che, a volte, si intersecano in diversi punti. In un ottica al tempo stesso religiosa e metafisica l’anima, sia essa universale che singolare, trascende il tempo in virtù di una “parte” di se stessa che tocca l’eterno, cioè al di là dell’eternità. Il buddismo, dal canto suo, ignora o vuole ignorare ogni filosofia prima, ogni speculazione. La liberazione del divenire, la vittoria sui cicli della rinascita o di metensomatosi, si ottengono con il rigore di un ascetismo che rifiuta ogni grazia di un salvatore. Il “liberato vivente” è il solo responsabile della sua “salvezza”.
I cristianesimo invoca un salvatore. Esso insiste sulla Resurrezione più che sull’immortalità considerata dalla Riforma una reminiscenza del paganesimo. Rifiuta i vantaggi di una “migrazione” delle anime o dei corpi, migrazione che attutisce la singolarità drammatica della morte. Quest’ultima rappresenta per ciascuno un hapex legomenon. Al rimprovero di egoismo che gli è stato mosso, esso oppone ciò che è stato detto dell’amore misericordioso e del significato dinamico della Resurrezione. Se questo è per la fede, il solo cammino possibile della vittoria sulla morte, abbiamo il diritto di domandarci quali potrebbero essere, di questa vita sotto il soffio del Resuscitato, i segni che mostrano, agli occhi di tutti e nel mondo di oggi, l’irrefutabile testimonianza della sua “efficienza”.
2. La dottrina dei “segni”, nella sua duplice referenza al vangelo e alla tradizione, rispondeva un tempo, nelle teologie classiche, a questo assillante interrogativo. In essa l’intenzione apologetica era tanto evidente che un trattato a se stante si intitolava, appunto, “Apologetica”. Lo scopo del trattato era di “provare” che la religione cristiana non poteva essere che di origine divina, dati i segni o miracoli che avevano resa autentica la missione di Cristo e quella della Chiesa. Gli apostoli e i discepoli hanno condiviso questa divina potenza che, durante i secoli, non ha mai fatto difetto a coloro che, “fedeli alla sua parola”, invocavano il “nome di Gesù”.
La teologia di oggi ha un atteggiamento più riservato nei confronti dei miracoli. Si direbbe che essa abbia timore di anelare con golosità al meraviglioso, fosse questo anche provvisto di condizioni atte a soddisfare ai criteri ben determinati del suo discernimento. Eppure la nostra epoca non è insensibile al meraviglioso. Ma la maggior parte delle volte consacra la sua ammirazione alla prodezza eccezionale, siano esse tecniche o sportive. Bisogna credere che sia indifferente alle forme meno spettacolari della grandezza? Sarebbe temerario pensarlo. L’amore misericordioso non ha finito di sorprenderci. Come dubitare che lo Spirito della Resurrezione non “faccia segno” attraverso le sue opere? La virtù di Cristo nell’audacia della fede non è meno presente di quanto non lo fosse all’inizio. Ma, forse, essa si dà delle apparenze meno strepitose. Come il Maestro che vietava di proclamare i suoi prodigi, essa preferisce la dolcezza dell’insinuazione alle voci confuse dell’acclamazione. Facendosi dimenticare ha più “chances” di toccare i cuori.
Nessun cristiano può essere esente da questa testimonianza di una vita che lascia trapelare la sua fonte. Quanto all’“effetto”, esso sarà più sicuro nella misura in cui sarà meno ricercato. Se il bene non fa rumore, a maggior ragione non deve far rumore la fede. L’essenziale è che l’intrepidezza a servizio dello Spirito di Resurrezione ponga un interrogativo a coloro che non sono del tutto insensibili. Un interrogativo è poca cosa. Ai giorni nostri, tuttavia, per scuotere la nostra fatica, solo questo quasi-niente può testimoniare che il Cristo è ancora tra noi.
Ho evocato all’inizio di questo discorso il mondo dell’icona quale immagine di questo universo spirituale che sarebbe, se tutto fosse compiuto nella vittoria sulla morte, il regno della trasparenza e della divina onnipresenza. Universo della Resurrezione, festa della Trasfigurazione. Gli “occhi della fede” lo “sospettano”; non è dato loro di contemplarlo. Noi non siamo capaci di far discendere il paradiso sulla terra. Tuttavia, quanto desidereremmo che l’energia della fede non si limitasse ad una esperienza d’oltretomba, e che la nuova terra si delineasse in lontananza, “a lode delle sua grazia”!
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* Breton prof. Stanislas, docente alla Facoltà di Filosofia al Institut Chatilique di Parigi e di Lione (Francia).
[1] Nella metafisica della relazione è possibile accentuare sia l’intervallo tra le coordinate, sia la freccia dell’essere-verso che San Tommaso esprimeva con “ly ad”. Si tratta di sfumature da non trascurare che io cerco di introdurre qui come posso con la distinzione: orizzontale-verticale.

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