DON ANTONIO

giovedì 13 ottobre 2011

L’AMORE DI DIO E L’INFELICITÀ di Simone Weil N.3

Ci domandiamo spesso per quale motivo Dio permette l’infelicità; potremmo anche domandarci allo stesso modo perché Dio ha creato. Sì, è vero, possiamo domandarcelo. Perché Dio ha creato? Sembra talmente evidente che Dio è più grande di Dio e della creazione insieme. Per lo meno, ciò sembra evidente se pensiamo a Dio come essere. Ma non bisogna pensarlo così. Dal momento in cui si pensa a Dio come amore si prova un senso di meraviglia cogliendo l’amore che unisce il Padre e il Figlio nello stesso tempo nell’unità eterna del Dio unico e al di sopra della separazione dello spazio e del tempo e della croce.
Dio è amore e la natura è necessità, ma questa necessità diventa, grazie all’obbedienza, uno specchio dell’amore. Allo stesso modo Dio è gioia e la creazione è infelicità, ma è un’infelicità risplendente della luce della gioia. L’infelicità racchiude la verità della nostra condizione. Coloro che preferiscono scoprire la verità e morire, piuttosto che vivere un’esistenza lunga e felice nell’illusione, vedranno da soli Dio. Bisogna voler andare verso la realtà; allora, mentre si crede di trovare un cadavere, si incontra un angelo che dice: «Egli è risuscitato».
La sola sorgente di luce abbastanza luminosa per rischiarare l’infelicità è la croce di Cristo. In qualsiasi epoca, in qualsiasi paese, dovunque vi sia dell’infelicità, la croce di Cristo ne è la verità.
Ogni uomo che ami la verità al punto da non tuffarsi nelle profondità della menzogna per sfuggire il viso dell’infelicità, partecipa della croce di Cristo, qualunque sia la sua fede. Se Dio avesse acconsentito a togliere Cristo agli uomini di un paese e di un’epoca determinata, noi lo sapremmo grazie a questo segno: fra di loro non esisterebbe l’infelicità. Noi non conosciamo niente di simile nella storia. Ovunque c’è l’infelicità, vi è la croce, nascosta, ma presente a chiunque sceglie la verità invece della menzogna e l’amore invece dell’odio. L’infelicità senza la croce è l’inferno, e Dio non ha posto l’inferno sulla terra.
Reciprocamente, i cristiani, così numerosi, che non hanno la forza di riconoscere e di adorare in ogni infelicità la croce felice, non sono partecipi di Cristo. Nulla rivela la debolezza della fede, quanto la facilità con cui (anche fra i cristiani) si sfugge al punto centrale del problema appena si parla dell’infelicità. 1 discorsi sul peccato originale, sulla volontà di Dio, sulla provvidenza e i suoi piani misteriosi che tuttavia si crede di poter penetrare, sui compensi di ogni specie in questo mondo e nell’altro, o tendono a dissimulare la realtà dell’infelicità oppure non hanno efficacia contro di essa. Solo una cosa permette di acconsentire all’infelicità: la contemplazione della croce di Cristo. Non c’è altro. Basta questo.
Una madre, una sposa, una fidanzata, che sanno che colui che amano si trova in difficoltà e non possono né soccorrerlo né raggiungerlo, vorrebbero almeno subire un dolore equivalente al suo per essere meno separate da lui, per essere liberate del fardello così pesante della compassione impotente. Chiunque ami Cristo e se lo rappresenti sulla croce, dovrebbe provare un sollievo simile quando è colpito dall’infelicità.
Grazie al legame essenziale fra la croce e l’infelicità, uno stato non ha il diritto di separarsi da ogni religione se non nel caso ipotetico in cui fosse giunto a sopprimere l’infelicità. A maggior ragione non ne ha il diritto quando crea egli stesso degli infelici.
La giustizia penale, sciolta da ogni tipo di legami con Dio, ha veramente un colore infernale, non per gli errori giudiziari o per gli eccessi di severità, ma proprio di per se stessa. Si insozza al contatto di tutte le brutture e, non avendo niente per purificarle, diventa essa stessa così sporca che i peggiori criminali possono ancora essere degradati da essa. Il suo contatto è spaventoso per chiunque abbia in sé qualcosa d’integro e di sano; persino coloro che sono ormai marci trovano nelle pene che essa infligge una forma di quiete ancora più orribile.
Per portare la purezza nei luoghi riservati ai criminali non vi è niente che sia sufficientemente puro, se non Cristo, lui che fu un condannato di diritto comune.
Ma, dato che soltanto la croce è necessaria agli stati e non le complicazioni del dogma, è disastroso che la croce e il dogma siano legati da un legame così solido. Questo legame ha tolto Cristo ai suoi fratelli criminali.
Il concetto di necessità, come materia comune dell’arte, della scienza e di ogni specie di lavoro, è la via attraverso la quale il cristianesimo può penetrare nella vita profana e permearla completamente. La croce infatti è la necessità stessa posta a contatto con la parte più elevata e con quella più bassa di noi stessi, con la sensibilità della carne grazie all’evocazione della sofferenza fisica, con l’amore soprannaturale grazie alla presenza di Dio. Di conseguenza, sono inglobati in essa tutti i contatti che le parti intermedie del nostro essere possono avere con la necessità.
Non c’è, non può esserci, in alcun ambito, nessuna attività umana che non abbia per suprema e segreta verità la croce di Cristo. Nessuna attività può essere separata dalla croce di Cristo senza marcire interiormente o disseccarsi come un ramo tagliato. Oggi noi vediamo succedere tutto ciò sotto i nostri occhi senza capirlo, e continuiamo a domandarci il motivo del nostro male. I cristiani lo comprendono meno ancora degli altri poiché, sapendo che quelle attività di cui parlavo (arte, scienza, ecc.) sono storicamente anteriori a Cristo, non riescono ad afferrare il concetto che la fede cristiana ne sia la linfa.
Se noi comprendessimo che la fede cristiana, sotto veli che ne lasciano intravedere la chiarezza, ha sempre prodotto fiori e frutti nelle epoche e nei luoghi in cui vi erano alcuni uomini che non nutrivano odio per la luce, quella difficoltà non ci fermerebbe.
Dall’alba della storia, mai, tranne in un certo periodo dell’impero romano, Cristo è stato assente come oggi. Gli antichi avrebbero giudicato mostruosa la separazione del¬la religione dalla vita sociale che la maggior parte dei cristiani ritiene oggi naturale.
È necessario che il cristianesimo faccia calare la sua linfa in ogni aspetto della vita sociale; ma esso, tuttavia, è fatto prima di tutto per l’essere singolo. Il Padre è nel segreto, e non vi è segreto più inviolabile dell’infelicità.
C’è una domanda che non ha assolutamente significato e, naturalmente, nessuna risposta. Normalmente non ce la poniamo mai, ma l’anima che giace nell’infelicità non può impedirsi di gridarla incessantemente con la monotona continuità d’un gemito. Questa domanda è: Perché? perché le cose sono così? L’infelice lo chiede ingenuamente agli uomini, alle cose, a Dio (anche se a lui non crede), a chiunque. Perché l’infelice non deve avere nulla da mangiare, deve essere sfinito dalla fatica e dai trattamenti brutali o deve essere fucilato, molto presto, o deve essere malato oppure in prigione? Se gli vengono spiegate le cause della situazione in cui si trova, cosa d’altra parte raramente possibile, data la complessità dei meccanismi che intervengono in quella situazione, questo non sarà per lui una risposta. Infatti la sua domanda, «perché?», non significa: per quale motivo? ma: per quale fine? Naturalmente, non possiamo indicargli dei fini, a meno di non inventarne qualcuno fittizio; ma tale invenzione non è una cosa buona.
Il fatto singolare è che l’infelicità altrui, salvo qualche rara eccezione che riguarda, ma non sempre, gli esseri che ci stanno più vicino, non provoca mai in noi questa domanda. Tutt’al più ce la poniamo qualche volta, distrat¬tamente. Ma colui che entra nell’infelicità sente che questa domanda si installa in lui e non smette più di gridare. Perché? Perché? Perché? Cristo stesso l’ha posta: «Perché mi hai abbandonato?».
Il perché dell’infelice non comporta nessuna risposta, poiché noi viviamo nella necessità e non nella finalità. Se ci fosse una finalità in questo mondo, il luogo del bene non sarebbe l’altro mondo. Ogni volta che noi pretendiamo di cogliere la finalità nel mondo, questo ce la rifiuta. Ma, per sapere che ce la rifiuta, bisogna domandarla.
È solo l’infelicità che ci obbliga a domandarla, e anche la bellezza, perché il bello ci rivela così vivamente il senso della presenza d’un bene, che noi cerchiamo in esso una finalità senza mai trovarne una. Anche il bello ci obbliga a domandarci: perché? Perché questo o quello è bello? Ma pochi sono capaci di pronunciare in se stessi questo «perché?» per parecchie ore di seguito. Il perché dell’infelicità dura ore, giorni, anni; non può smettere se non per sfinimento.
Chi è capace non solo di gridare ma anche di ascoltare, intende la risposta. Questa risposta è il silenzio. È il silenzio eterno che Vigny ha rimproverato amaramente a Dio; ma egli non aveva il diritto di dire quale dovesse essere la risposta del giusto a quel silenzio, perché non era un giusto.
Il giusto ama. Chi è capace non solo di ascoltare, ma anche di amare, intende questo silenzio come la parola di Dio. Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio.
Come non c’è albero simile alla croce, così non c’è un’armonia come il silenzio di Dio. I pitagorici coglievano quest’armonia nel silenzio senza fondo che circonda eternamente le stelle.
La necessità quaggiù è la vibrazione del silenzio di Dio.
La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore e lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, poiché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio.
Non ci sono che due vie possibili per questa operazione, con esclusione di tutte le altre. Non ci sono che due punte molto acute capaci di entrare così nella nostra anima: l’infelicità e la bellezza. Spesso si sarebbe tentati di piangere lacrime di sangue al pensiero che l’infelicità distrugge degli infelici incapaci di farne uso. Ma, a voler considerare le cose freddamente, si tratta in quel caso semplicemente di uno sciupio non meno penoso di quello a cui è sottoposta la bellezza del mondo. Quante volte la luce delle stelle, il rumore delle onde del mare, il silenzio dell’ora che precede l’alba vengono inutilmente a proporsi all’attenzione degli uomini? Non prestare attenzione alle bellezze del mondo è forse un peccato d’ingrati¬tudine così grande da meritare il castigo dell’infelicità. Certo, un uomo che si comporti così non viene sempre punito con questo castigo; ma tuttavia un castigo c’è ed è quello di una vita mediocre; ed in che cosa una vita mediocre è preferibile all’infelicità? D’altronde, anche nel caso in cui questo uomo venga colpito da una grave disgrazia, la sua vita rimarrebbe irreparabilmente mediocre. Per quanto è possibile fare delle congetture sulla sensibilità, pare che il male che si trova in un essere gli serva come protezione dal male che lo assale dal di fuori sotto forma di dolore. Dobbiamo sperare che le cose stiano veramente in questi termini e che Dio nella sua misericordia abbia ridotto al minimo la sofferenza inutile del cattivo ladrone. È bene che sia così perché la grande tentazione, che è racchiusa nell’infelicità, consiste appunto nel fatto che l’infelice ha sempre la possibilità di soffrire di meno acconsentendo a diventare cattivo.
Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo (perché sono la stessa cosa), solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. Nello stesso tempo solo costui non ha meritato questo castigo. Ma anche per lui non si tratta di un castigo: è Dio stesso che gli prende la mano e gliela stringe un po’ forte. Infatti, se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio.

http://www.ministridimisericordia.org/

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