DON ANTONIO

mercoledì 5 ottobre 2011

L'angoscia, la possibilità e la malattia mortale di Kierkegaard

In ogni stadio dell'esistenza l'uomo è possibilità; ma in quanto questa è apertura all'ignoto, essa è angoscia. Questo è il tema di fondo dell'opera Il concetto dell'angoscia. Quegli "attimi" di sospensione del giudizio e dell'azione di fronte agli aut-aut; quella coscienza della propria "libertà di potere" unita all'incapacità di decidere "a ragion veduta"; quella perenne oscillazione generata dal dubbio di non sapere se il "possibile" che si sceglierà sarà, per colui che sceglie, bene o male; anzi, la percezione che in ogni possibile tutto è possibile, cioè che anche la scelta che in apparenza si prospetta favorevole può nascondere una minaccia, e finanche una minaccia di morte; quella condizione in cui l'uomo non è sereno, ma neppure turbato - perché non ha di fronte a sé qualcosa che gli incuta timore -, non è in quiete ma neppure in lotta - perché non ha di fronte a sé un nemico da abbattere -, tutto questo è angoscia.
Il suo simbolo è Adamo: egli non sa che cosa può, ma sa di essere in grado di potere, egli sa di essere possibilità di libertà, e libertà di potere; ma non sa che cosa possa derivare da questa sua possibilità e da questa sua libertà, perché non conosce che cosa è il bene e che cosa il male. L'angoscia di cui parla Kierkegaard, quindi, non è timore: questo insorge di fronte a qualcosa, a qualcosa che è nota, definita, che è qui ed ora, cioè al presente; quella insorge di fronte al... nulla, alle soglie dell'ignoto, al cospetto di qualcosa che non è ma potrebbe essere, cioè al futuro, e che non si può preventivamente determinare; questo può stimolare alla lotta, quella induce solo alla paralisi del pensiero e dell'azione (e infatti, contro che cosa si dovrebbe lottare?).
Quest'angoscia, che può essere piú o meno intensa a seconda del grado di sviluppo della spiritualità del singolo, non è altro, al suo fondo, che angoscia della morte, infatti l'angoscia che assale alle soglie della scelta deriva dal fatto che "il possibile" può nascondere la possibilità della morte; ciò deriva dalla consapevolezza che nel possibile tutto, ma proprio tutto, è possibile.
Quando la morte si presenta nella sua vera faccia scarna e truculenta, non la si considera senza timore, ma quando essa, per burlarsi degli uomini che si vantano di burlarsi di lei, si avanza camuffata, quando soltanto la nostra meditazione riesce a vedere che, sotto le spoglie di quella sconosciuta, la cui dolcezza ci incanta e la cui gioia ci rapisce nell'impeto selvaggio del piacere, c'è la morte, allora siamo presi da un terrore senza fondo.
(Il concetto dell'angoscia)
Contro l'angoscia che avvolge l'esistenza dell'uomo, non c'è rimedio utile, nemmeno l'"accortezza", la "prudenza", la "previdenza". Essa è inevitabile, perché connessa alla natura stessa dell'uomo. Ed è implacabile, perché colpisce senza tregua e infinitamente. Tanto vale allora viverla fino in fondo. Cosí l'uomo non sarà vittima passiva della sua strapotenza, ma la trasformerà in fattore di formazione, di maturazione umana. Bisogna, dice Kierkegaard, lasciarsi educare dall'angoscia, per imparare a svestire dall'illusorietà i vari "possibili", cioè per imparare a leggere nelle prospettive che si aprono alla scelta dell'uomo il loro spessore infinito, la loro infinita possibilità di minaccia.
Tale educazione implica - per Kierkegaard è cosa evidente - la fede, perché solo questa, a suo giudizio, fa compiere quel salto di qualità, quel passaggio dalla condizione finita a quella infinita, senza il quale non è possibile disimpigliarsi dai lacci dell'angoscia.
Nell'opera La malattia mortale Kierkegaard riprende ed approfondisce il tema della disperazione. Abbiamo già visto ch'egli presenta la disperazione sia come l'elemento che caratterizza la vita dell'esteta, sia come la condizione che permette il salto dalla vita etica a quella religiosa. Si tratta di due aspetti, spiega il filosofo, di due facce dello stesso fenomeno. La disperazione, cioè, è sempre una negazione di sé, del proprio io; ma nel primo caso essa ha luogo in quanto l'uomo è sempre alla ricerca di se stesso, di un io che non coincide mai con quello che di volta in volta egli è, e che però egli non trova mai; nel secondo caso essa è rifiuto totale di sé, è quella rinuncia a sé che si traduce, sul piano della fede, nella assoluta autodonazione a Dio.
Anche la disperazione dunque, come l'angoscia, caratterizza un rapporto: la seconda, quella del singolo con il mondo, la prima quella del singolo con se stesso. Infatti l'angoscia insorge al cospetto di quegli "infiniti possibili", e dell'"infinità del possibile" che il mondo rappresenta per l'uomo; la disperazione nasce invece di fronte a quella radicale incognita che è il proprio io.
Due sono i possibili modi di relazionarsi a se stesso; uno è quello di accettare di essere se stesso, l'altro è quello di rifiutare di essere se stesso; ma la disperazione si verifica in entrambi i casi, sia quando l'uomo vuole essere se stesso, sia quando non vuole assolutamente essere se stesso, cioè quando egli rinnega totalmente se stesso, quello che è e quello che potrebbe essere. Nel primo caso il singolo si dispera perché vuole ma non riesce a trovare se stesso nei vari possibili, in quanto tutte le possibilità di essere se stesso si rivelano insufficienti e inadeguate. Nel secondo caso egli si dispera quando percepisce che non c'è piú alcuna possibilità di trovare il vero se stesso, e vi rinuncia; e vorrebbe semplicemente distruggere se stesso senza potervi riuscire. Questa seconda è dunque la forma piena, totale, della disperazione; è quella che Kierkegaard chiama malattia mortale.


Cadere nella malattia mortale è non poter morire; ma non come se ci fosse la speranza della vita; l'assenza di ogni speranza significa qui che non c'è nemmeno l'ultima speranza, quella della morte. Quando il maggior pericolo è la morte, si spera nella vita; ma quando si conosce un pericolo ancora piú terribile, si spera nella morte. Quando il pericolo è cosí grande che la morte è divenuta la speranza, allora la disperazione nasce venendo a mancare la speranza di poter morire. In quest'ultimo significato la disperazione è chiamata la malattia mortale: quella contraddizione penosa ... di morire eternamente, di morire e tuttavia di non morire, di morire la morte. Perché morire significa che tutto è passato, ma morire la morte significa vivere, sperimentare il morire.
(La malattia mortale)
Questa disperazione è la porta della fede.
È evidente che il pensiero di Kierkegaard si presenta come antitesi radicale al sistema hegeliano. Anzi gli stessi concetti fondamentali su cui è articolato il suo discorso sembrano il contrappunto "negativo" di quelli basilari della speculazione hegeliana. L'uomo non è Spirito universale autocosciente, ma Singolo; la sua vita non si colloca nella trama universale dell'Idea, e quindi non possiede garanzia metafisica di razionalità, né ha uno scopo storico, né una funzione sociale; egli è chiuso nella sua dimensione finita, gravato dal peso delle sue responsabilità, condannato all'indecisione, all'angoscia, alla disperazione. Il punto d'arrivo della sua spiritualità non è, come per Hegel, la filosofia, non è l'autocontemplazione filosofica, che per Kierkegaard comporta solo l'idealizzazione di sé; bensí la fede, che è rinuncia a sé.
Ancora: per Hegel la libertà coincide con la necessità, nel senso che l'uomo è libero nella misura in cui la sua azione coincide col "plano" dello Spinto universale; per Kierkegaard invece la libertà è l'esperienza dolorosa di poter scegliere, ma senza avere i criteri di scelta. Per Hegel l'astuzia della ragione elimina l'errore dalla storia come pure lo scacco dell'esistenza individuale; per Kierkegaard ogni uomo sperimenta sulla propria pelle il naufragio continuo della sua esistenza. Mentre per Hegel le opposizioni si mediano in una sintesi che le conserva integrandole e superandole, per Kierkegaard gli opposti, gli aut-aut che si presentano alla scelta dell'uomo, restano tali, sono inconciliabili, inintegrabili, irriducibili fra loro, reciprocamente escludentisi. E si potrebbe continuare a lungo di questo passo nel delineare le differenze tra le due concezioni.
Ciò che però è interessante notare, è che Kierkegaard introduce nel discorrere filosofico concetti nuovi che saranno ripresi nella speculazione del Novecento, e che hanno aperto nuove prospettive di lettura del fenomeno uomo. In ciò egli è da considerarsi anticipatore di una sensibilità moderna. Ma poiché il carattere sottinteso della sua ricerca è quello - com'è stato segnalato - di "un'apologetica religiosa e precisamente il tentativo di fondare la validità della religione sulla struttura dell'esistenza umana come tale" (N. Abbagnano), in ciò egli è stato irrimediabilmente uomo del passato.

http://www.ministridimisericordia.org/

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