DON ANTONIO

mercoledì 12 ottobre 2011

L’AMORE DI DIO E L’INFELICITÀ di Simone Weil N.1

Nel campo della sofferenza l’infelicità è un dolore a parte, specifico, irriducibile. È una cosa ben diversa dalla semplice sofferenza. S’impadronisce dell’anima e la segna, fino in fondo, con un segno suo proprio, il segno della schiavitù. La schiavitù, così come era nell’antica Roma, è soltanto la forma estrema dell’infelicità. Gli antichi, che conoscevano bene la questione, dicevano che un uomo perde la metà della propria anima il giorno in cui diventa schiavo.
L’infelicità è inseparabile dalla sofferenza fisica, tuttavia ne è completamente distinta. Nella sofferenza tutto ciò che non è legato al dolore fisico è artificiale, immaginario e forse eliminabile coi una conveniente disposizione del pensiero. Anche l’assenza o la morte di un essere amato ci procura un dolore la cui parte irriducibile è qualcosa di simile a un dolore fisico: una difficoltà a respirare, una morsa stretta intorno al cuore, un bisogno insoddisfatto, una fame, un disordine quasi biologico determinato dalla brutale liberazione d’una ener¬gia fino in quel momento orientata su quella persona ed ora priva di direzione. Un dolore che non sia raccolto intorno a questo nocciolo irriducibile è puro e semplice romanticismo, è letteratura. Anche l’umiliazione è uno stato violento a cui è sottoposto tutto il nostro essere fisico, il quale vorrebbe scatenarsi a causa dell’oltraggio, mentre è costretto a dominarsi, bloccato dall’impotenza o dalla paura.
Viceversa un dolore esclusivamente fisico è ben poca cosa e non lascia tracce nell’anima. Il mal di denti costituisce un esempio: alcune ore di dolore violento causato da un dente guasto, una volta passate, non sono più nulla.
Diversa invece è una sofferenza fisica lunga o molto frequente. Ma spesso una tale sofferenza non è una sofferenza pura e semplice: è un’infelicità.
L’infelicità è uno sradicamento dalla vita, un equivalente più o meno attenuato della morte, sradicamento che è reso irresistibilmente presente nell’anima dal fatto che essa è colpita direttamente dal dolore fisico. Se il dolore fisico è del tutto assente, non c’è infelicità per l’anima, perché il, pensiero si sposta verso altri oggetti. Il pensiero rifugge dall’infelicità così prontamente, così irresistibilmente quanto un animale fugge la morte. Su questa terra solo il dolore fisico è in grado di incatenare il pensiero, a patto che si assimilino al dolore fisico certi fenomeni difficili da descrivere, comunque corporei e che gli sono rigorosamente equivalenti. La percezione del dolore fisico è di questa specie.
Quando il pensiero è costretto dal dolore fisico, anche leggero, a riconoscere la presenza dell’infelicità, si verifica in noi uno stato violento, simile a quello di un condannato a morte costretto a guardare per alcune ore la ghigliottina con cui gli taglieranno il collo. Ci sono esseri umani che vivono vent’anni o cinquanta in questo stato di violenza. Passiamo accanto a loro senza accorgerci di nulla. Ma quale uomo è capace di capirli, se non è Cristo a guardare con i suoi occhi? Vediamo soltanto che a volte essi hanno un comportamento strano, e biasimiamo tale comportamento.
C’è veramente infelicità solo se l’avvenimento che ha colpito una vita e l’ha sradicata, l’ha toccata direttamente o indirettamente in tutti i suoi aspetti: sociale, psicologico, fisico. Il fattore sociale è essenziale. Non c’è vera infelicità se non quando essa comporta in qualche modo una caduta sociale o la percezione di questa caduta.
Fra l’infelicità e le preoccupazioni che, anche se sono molto violente, molto profonde e durano a lungo, sono molto diverse dall’infelicità vera e propria, vi è nello stesso tempo continuità e separazione da un certo punto, come nella temperatura d’ebollizione dell’acqua. C’è un limite al di là del quale e non al di qua, inizia il regno dell’infelicità. Questo limite non è puramente oggettivo: una varietà infinita di fattori personali entrano in gioco. Uno stesso avvenimento può precipitare un determinato essere umano nell’infelicità e non causare nulla di simile in altri.
Il grande enigma della vita umana non è la sofferenza, ma l’infelicità. Non stupisce che degli innocenti siano uccisi, torturati, cacciati dal loro paese, ridotti in miseria o in schiavitù, rinchiusi in campi o in prigioni, poiché esistono criminali capaci di compiere queste cose. Non stupisce nemmeno che la malattia costringa a lunghe sofferenze che paralizzano la vita e fanno di essa un’immagine della morte, poiché la natura è sottomessa a un gioco cieco di necessità meccaniche. Ciò che stupisce è il fatto che Dio abbia permesso all’infelicità di afferrare l’anima degli innocenti e di impadronirsene totalmente. Nel migliore dei casi, colui che è colpito dall’infelicità non conserverà che la metà della sua anima.
Coloro che sono stati colpiti da uno di quegli avvenimenti dopo i quali un uomo si dibatte sulla terra come un verme tagliato a metà, non hanno parole per esprimere ciò che succede loro. Fra le persone che li incontrano, coloro che, pur avendo molto sofferto, non hanno mai avuto un contatto con la vera infelicità, non hanno alcuna idea del loro stato d’animo. Si tratta di qualcosa di specifico, di irriducibile ad ogni altra cosa, come l’idea del suono per un sordomuto. E coloro che sono stati mutilati dall’infelicità non possono portare soccorso a nessuno e sono quasi incapaci di desiderarlo. Quindi la compassione verso gli infelici è un sentimento impossibile. Quando essa si rivela, si tratta di un miracolo più sorprendente del camminare sull’acqua, della guarigione dei malati e della stessa risurrezione dei morti.
L’infelicità ha indotto Cristo a supplicare d’essere risparmiato, a cercare delle consolazioni presso gli uomini, a credersi abbandonato dal Padre suo. Ha costretto un giusto a gridare contro Dio, il giusto più perfetto che la natura umana possa produrre, forse ancora più perfetto, sempre che Giobbe sia un personaggio storico e non un semplice simbolo di Cristo. «Egli ride dell’infelicità degli innocenti». Non è una bestemmia, è un grido autentico strappato al dolore. Per quanto riguarda l’infelicità, tutto ciò che si allontana da questo modello è più o meno falso.
L’infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura. Una specie di orrore sommerge tutta l’anima. Durante questa assenza non trova nulla che possa amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva: è terribile solo a pensarci.
È necessario che l’anima continui ad amare a vuoto, o per lo meno a voler amare, anche soltanto con una parte infinitamente piccola di se stessa. Allora un giorno Dio stesso viene a rivelarsi a lei e a mostrarle la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe. Ma se l’anima cessa di amare precipita già qui sulla terra in uno stato quasi equivalente all’inferno.
Ecco perché coloro che gettano nell’infelicità gli uomini che non sono preparati a riceverla, uccidono letteralmente delle anime. D’altra parte, in un’epoca come la nostra, in cui l’infelicità è sospesa su tutti, un vero aiuto alle anime è efficace soltanto se le prepara realmente a sopportare l’infelicità. Il che non è certo poco.
L’infelicità indurisce l’uomo e lo rende disperato poiché, come un ferro rovente, imprime fino in fondo alla sua anima una sensazione di disprezzo, di disgusto e di schifo di se stesso, di colpevolezza, di macchia morale, che solo il crimine dovrebbe logicamente produrre, ma che non produce. Infatti il male è presente nell’anima del criminale, ma egli non è consapevole della sua presenza. Tale presenza invece è avvertita dall’innocente infelice. È come se lo stato d’animo, che dovrebbe essere tipico del criminale, fosse stato separato dal crimine e unito invece all’infelicità, e facesse soffrire l’innocente in proporzione alla sua innocenza.
Se Giobbe grida la sua innocenza con accenti disperati, ciò è dovuto al fatto che nemmeno lui riesce a credervi, che la sua anima accetta il giudizio dei suoi amici. Implora la testimonianza di Dio stesso poiché non sente più la testimonianza della propria coscienza: per lui essa è soltanto più un ricordo astratto e morto.
La natura carnale dell’uomo è comune a quella dell’animale; le galline si precipitano a colpi di becco sulla gallina ferita: è un fenomeno meccanico come la gravità. Tutto il disprezzo, tutta la repulsione, tutto l’odio che la nostra ragione sente per il crimine, la nostra sensibilità lo sente per l’infelicità. Eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo.
Questa legge della nostra sensibilità vale anche nei confronti di noi stessi. Il disprezzo, lo schifo, l’odio di fronte all’infelicità, si ritorcono contro lo stesso infelice, penetrano nel cuore della sua anima, e da quel punto si diffondono fino a colorare con la loro tinta avvelenata tutto l’universo. L’amore soprannaturale, allorché riesce a sopravvivere, può impedire questo secondo effetto, ma non il primo. Il primo è l’essenza stessa dell’infelicità: non esiste infelicità dove non si rivela.
«Egli è stato fatto maledizione per noi». Non è solamente il corpo di Cristo sospeso alla croce che è stato fatto maledizione, ma tutta la sua anima. Allo stesso modo qualsiasi innocente, prigioniero dell’infelicità, si sente maledetto. Succede la stessa cosa a coloro che sono caduti nell’infelicità e poi ne sono usciti per un mutamento di sorte, ma sono stati colpiti profondamente da essa.
Un’altra conseguenza dell’infelicità è quella di rendere a poco a poco l’anima sua complice, iniettandovi un veleno di inerzia: chiunque sia stato infelice a lungo, è complice della sua infelicità. Tale complicità rende vano ogni sforzo che l’infelice potrebbe fare per migliorare la sua sorte, ostacola la ricerca dei mezzi idonei a liberarsi dell’infelicità, giunge addirittura a uccidere in lui il desiderio di liberarsene. L’infelice allora resta imprigionato nell’infelicità, tanto che gli altri possono pensare che sia soddisfatto della sua situazione. Questa complicità può addirittura spingerlo, malgrado la sua volontà, a sfuggire i mezzi per liberarsene: essa si nasconde allora sotto pretesti talvolta ridicoli. Anche in colui che non è più attualmente infelice, ma che è stato per sempre ferito dall’infelicità fino in fondo all’anima, vi è un sentimento oscuro che lo risospinge verso l’infelicità, come se questa si fosse installata in lui alla maniera di un parassita e lo guidasse verso i suoi fini. A volte un tale impulso lo trattiene da ogni tentativo di essere felice.

Se l’infelicità è terminata grazie all’intervento di qualcuno, può provocare una forma di odio nei confronti del benefattore: questa è l’origine di certi atti di ingratitudine selvaggia che sono apparentemente inspiegabili. Qualche volta è facile liberare un infelice dall’infelicità attuale, ma è difficile liberarlo dalla sua infelicità passata. Dio solo può farlo. La stessa grazia di Dio non guarisce su questa terra la natura irrimediabilmente ferita: il corpo glorioso di Cristo portava ancora i segni delle ferite.
Non si può accettare l’esistenza dell’infelicità se non vedendola come una distanza.
Dio ha creato grazie ad un atto d’amore e per amore. Dio non ha creato altro che l’amore stesso e i mezzi dell’amore. Ha creato tutte le forme dell’amore. Ha creato degli esseri capaci di amare a tutte le distanze possibili. Egli stesso è andato, dato che nessun altro avrebbe potuto farlo, alla distanza massima, la distanza infinita. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, strappo supremo, dolore a cui nessun altro è paragonabile, meraviglia dell’amore, è la crocifissione. Nulla può essere più lontano da Dio di ciò che è stato fatto maledizione.
Questo strappo, sopra il quale l’amore supremo pone il legame dell’unione suprema, risuona perpetuamente attraverso l’universo, al fondo del silenzio, come due note separate e fuse insieme, come un’armonia pura e sconvolgente. Un’armonia simile è la parola di Dio, e la creazione intera non ne è che una vibrazione. Quando la musica umana, nei momenti di più intensa purezza, ci attraversa l’anima, è quell’armonia che avvertiamo. Quando noi abbiamo imparato ad ascoltare il silenzio, è quell’armonia che cogliamo più distintamente attraverso di esso.
Coloro che perseverano nell’amore avvertono quell’armonia anche nella caduta in cui li ha precipitati l’infelicità. A partire da quel momento essi non possono più avere alcun dubbio.
Gli uomini colpiti dall’infelicità stanno ai piedi della croce, lontano, quanto più è possibile, da Dio. Non bisogna credere che il peccato rappresenti una distanza maggiore fra l’uomo e Dio. Il peccato non è una distanza. È un orientamento sbagliato dello sguardo.
C’è, è vero, un legame misterioso fra questa distanza e una disobbedienza originale. Infatti fin dall’origine, così ci è stato detto, l’umanità ha distolto lo sguardo da Dio e ha camminato nella direzione sbagliata, andando il più lontano possibile. Significa che allora poteva camminare. Noi invece siamo inchiodati al nostro posto, liberi soltanto dei nostri sguardi, sottomessi alla necessità. Un meccanismo cieco che non tiene affatto conto del grado di perfezione spirituale, sballotta continuamente gli uomini e ne getta qualcuno ai piedi della croce. Dipende dagli uomini, e solo da loro, tenere o no gli occhi rivolti a Dio attraverso le scosse: è proprio la sua provvidenza che ha voluto la necessità come meccanismo cieco.
Se il meccanismo non fosse cieco, non ci sarebbe infelicità. L’infelicità è prima di tutto anonima, priva le sue vittime della loro personalità e le trasforma in cose. È indifferente, ed è il freddo di questa indifferenza, un freddo metallico, che gela fino in fondo l’anima di coloro che tocca. Essi non ritroveranno mai più il calore, non crederanno mai più di essere qualcuno.
L’infelicità non avrebbe questo potere se non si mescolasse in parte al caso. Coloro che sono perseguitati a causa della loro fede, e lo sanno, non sono infelici, qualsiasi cosa debbano soffrire. Cadono nell’infelicità solo se la sofferenza o la paura invadono la loro anima al punto da far dimenticare la causa della persecuzione. I martiri che, abbandonati alle belve, entravano nelle arene cantando, non erano infelici. Cristo era un infelice. Egli non è morto come un martire. È morto come un criminale di diritto comune, in mezzo ai ladroni, solo un po’ più ridicolo di quelli. L’infelicità infatti è ridicola.
Soltanto la necessità cieca può gettare gli uomini all’estrema distanza possibile da Dio, accanto alla croce. I crimini umani, che sono la causa della maggior parte dell’infelicità, fanno parte della necessità cieca, poiché i criminali non sanno quel che fanno.
Ci sono due forme di amicizia: l’incontro e la separazione. Sono indissolubili. Racchiudono ambedue il medesimo bene, l’unico bene: l’amicizia. Infatti, quando due esseri che non sono amici sono vicini, non c’è incontro; quando sono lontani non c’è separazione. Racchiudendo il medesimo bene, le due forme di amicizia sono ugualmente buone.
Dio crea se stesso e si conosce perfettamente allo stesso modo in cui noi costruiamo e conosciamo miserevolmente degli oggetti fuori di noi. Ma prima di tutto Dio è amore. Prima di tutto Dio ama se, stesso. Quest’amore, questa amicizia in Dio è la Trinità. Tra i termini uniti da questa relazione di amore divino, c’è qualcosa di più che una vicinanza: c’è vicinanza infinita, identità. Ma a causa della creazione, dell’incarnazione e della passione, c’è anche una distanza infinita. La totalità dello spazio, la totalità del tempo interpongono il loro spessore e pongono una distanza infinita fra Dio e Dio.
Gli amanti e gli amici desiderano due cose: di amarsi al punto di entrare l’uno nell’altro e diventare un solo essere e di amarsi al punto che la loro unione non ne soffra quand’anche fossero divisi dalla metà del globo terrestre. Tutto ciò che l’uomo desidera invano quaggiù, è perfetto e reale in Dio. Tutti i nostri desideri impossibili sono il segno del nostro destino e diventano buoni per noi proprio nel momento in cui non speriamo più di realizzarli.
L’amore fra Dio e Dio, che è esso stesso Dio, è questo legame che possiede una virtù duplice; questo legame che unisce due esseri al punto che essi non sono più separabili e sono realmente un essere solo; questo legame che annulla la distanza e trionfa della separazione infi¬nita. L’unità di Dio, in cui sparisce ogni pluralità, e l’abbandono in cui crede di trovarsi Cristo pur non cessando di amare perfettamente il Padre, sono due forme divine dello stesso Amore, che è Dio stesso.
Dio è essenzialmente amore al punto che l’unità, la quale è in un certo senso la sua stessa definizione, è un semplice effetto dell’amore. All’infinito potere unificatore dell’amore corrisponde l’infinita separazione di cui esso trionfa. Questa separazione è la creazione, che si spiega nella totalità dello spazio e del tempo, fatta di materia meccanicamente brutale, posta fra Cristo e il Padre.
A noi uomini la nostra miseria offre il privilegio infinitamente prezioso di essere partecipi di questa distanza tra il Padre e il Figlio. Ma questa distanza è una separazione solo per coloro che amano. Per coloro che amano, la separazione, per quanto dolorosa, è un bene, perché è amore. L’angoscia stessa del Cristo abbandonato è un bene. Non può esserci per noi quaggiù bene più grande del fatto di essere partecipi di questa distanza. Su questa terra Dio non può essere perfettamente presente a noi, a causa della carne. Ma può diventare quasi perfettamente assente nell’infelicità estrema.
Questa è per noi, sulla terra, l’unica possibilità di perfezione. Ecco perché la croce è la nostra unica speranza: «Nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme».
L’universo in cui viviamo, di cui siamo una particella, è la distanza posta dall’amore divino tra Dio e Dio. Noi siamo un punto in questa distanza. Lo spazio, il tempo e il meccanismo che governa la materia sono questa distanza. Tutto ciò a cui diamo il nome di male rientra in questo meccanismo. Dio ha voluto che la sua grazia, allorché penetra nel cuore dell’uomo ed illumina tutto il suo essere, gli permetta, senza violare le leggi di natura, di camminare sulle acque. Ma, nel momento stesso in cui un uomo si allontana da Dio, cade in potere della pesantezza. Egli è convinto di volere e di scegliere, ma in realtà è solo più una cosa, una pietra che cade. Se guardiamo da vicino, con uno sguardo veramente attento, le anime e le società umane, vediamo che dovunque la forza della luce soprannaturale è assente, tutto obbedisce a leggi meccaniche così cieche e così precise quanto quelle della caduta dei corpi. Sapere questo è utile e necessario. Coloro che noi chiamiamo criminali non sono altro che tegole che sono state staccate dal vento e cadono a caso. La loro sola colpa è la scelta iniziale che ha fatto di loro delle tegole.
Il meccanismo della necessità si attua a tutti i livelli, restando simile a se stesso nella materia bruta, nelle piante, negli animali, nei popoli, nelle anime. Visto dal nostro punto di vista, secondo la nostra prospettiva, è completamente cieco.
Ma, se trasferiamo il nostro cuore fuori di noi stessi, fuori dell’universo, fuori dello spazio e del tempo, là dove c’è il nostro Padre, e se di là osserviamo questo meccanismo, ci apparirà ben diverso. Ciò che sembrava necessità diventa obbedienza. La materia è completa passività, quindi completa ubbidienza alla volontà di Dio. Essa è per noi un modello perfetto.
Non può esistere altro essere all’infuori di Dio e di ciò che obbedisce a Dio. Per la sua obbedienza perfetta la materia merita di essere amata da coloro che amano il suo Padrone, come un amante guarda con tenerezza la spilla che è stata adoperata dalla donna amata che è morta.
Noi avvertiamo questa profonda verità grazie alla bellezza del mondo. Nella bellezza del mondo la necessita bruta diventa oggetto d’amore. Nulla è bello quanto la forza di gravità fra le pieghe fuggitive delle ondulazioni del mare o fra le pieghe quasi eterne dei monti.
Il mare non diventa di certo meno bello ai nostri occhi al pensiero che a volte delle navi colano a picco. Anzi, diventa ancora più bello. Se il mare modificasse il movimento delle sue onde per risparmiare una nave, sarebbe una creatura dotata di discernimento e di scelta e non un fluido perfettamente ubbidiente a tutte le pressioni esteriori. E in questa perfetta obbedienza che consiste la sua bellezza.
Tutti gli orrori di questo mondo sono simili alle pieghe impresse alle onde del mare dalla forza di gravità. Per questo motivo essi racchiudono in sé una certa bellezza. Talvolta un poema, come l’Iliade, rende questa bellezza sensibile.
L’uomo non può svincolarsi dall’obbedienza a Dio. Una creatura non può fare a meno di ubbidire. La sola scelta offerta all’uomo come creatura intelligente e libera di desiderare o di non desiderare l’obbedienza. Se non la desidera, è costretto ad obbedire egualmente, perpetuamente, in quanto creatura sottomessa alla necessità meccanica. Se la desidera, resta, è vero, sottomesso alla necessità meccanica; ma ad essa si sovrapporrà una nuova necessità; una necessità costituita dalle leggi proprie alle cose soprannaturali. Di conseguenza, certe azioni gli diventeranno impossibili, altre si realizzeranno attraverso di lui e talvolta quasi malgrado lui stesso.
Allorché la nostra coscienza ci avverte che in una determinata circostanza abbiamo disobbedito a Dio, vuol dire semplicemente che per un determinato periodo di tempo abbiamo smesso di desiderare l’obbedienza. Naturalmente le azioni di chi ubbidisce volontariamente a Dio sono diverse da quelle di colui che non desidera obbedire; allo stesso modo una pianta cresce in maniera diversa secondo che si trovi esposta alla luce o nelle tenebre. La pianta non esercita alcun controllo né fa alcuna scelta per quanto riguarda la sua crescita. Noi siamo simili a delle piante che abbiano la sola possibilità di esporsi o di non esporsi alla luce.
Cristo ci ha proposto come modello la docilità della materia, consigliando di osservare i gigli dei campi che non lavorano né tessono. Cioè essi non si sono proposti di rivestirsi di questo o di quel colore, non hanno fatto qualcosa per ottenerlo: semplicemente, hanno accolto tutto ciò che la necessità naturale offriva loro. Se ci sembrano infinitamente più belli dei tessuti più ricchi, ciò è dovuto non al fatto che siano più ricchi, ma alla loro docilità. Il tessuto è altrettanto docile, ma docile all’uomo, non a Dio. La materia è bella non quando è docile all’uomo, ma quando lo è a Dio. Se talvolta in un’opera d’arte essa sembra bella quasi quanto lo è nel mare, nelle montagne o nei fiori, lo deve al fatto che la luce di Dio ha colmato l’artista.
Per trovare belle le cose costruite da uomini non illuminati da Dio bisogna aver compreso con tutta l’anima che anche quegli uomini sono soltanto materia che obbedisce inconsciamente. Per chi abbia capito questo, allora tutto sulla terra, assolutamente tutto, diventa bello. In tutto ciò che esiste, in tutto ciò che avviene egli scopre il meccanismo della necessità e nella necessità assapora la dolcezza infinita dell’obbedienza. Questa obbedienza delle cose nei confronti di Dio è simboleggiata per noi uomini nella trasparenza di un vetro esposto alla luce. Dal momento in cui sentiamo questa ubbidienza di tutto il nostro essere, vediamo Dio.
Quando teniamo un giornale al contrario, vediamo le strane forme dei caratteri di stampa. Quando lo raddrizziamo, non vediamo più dei caratteri, leggiamo delle parole.
Il passeggero di una nave sballottata dalla tempesta, avverte in ogni scossa della nave lo sconvolgimento del suo stomaco. Il capitano vi coglie soltanto la complessa combinazione dell’azione del vento, della corrente, dell’ondata con la posizione della nave, la sua forma, la sua velatura, i suoi strumenti di guida.
Come impariamo a leggere o impariamo un mestiere, così possiamo imparare ad avvertire in ogni cosa, prima di tutto e quasi unicamente, l’obbedienza dell’universo a Dio. Si tratta di un vero e proprio apprendistato. Come ogni tirocinio, richiede sforzi e tempo. Chi vi riesce non avverte più alcuna differenza fra le cose e gli avvenimenti, così come colui che sa leggere non la coglie, anche se una stessa frase viene scritta più volte con inchiostri di colore differente, oppure viene stampata in caratteri diversi. Colui che non sa leggere, coglie invece solo delle differenze. Per chi sa leggere tutto ciò è equivalente, perché la frase è la stessa. Per colui che è giunto alla fine del tirocinio, le cose e gli avvenimenti sono dappertutto e sempre le vibrazioni della stessa parola divina infinitamente dolce. Ciò non vuoi dire che egli non soffra. Il dolore è ciò che dà un determinato colore agli avvenimenti. Di fronte ad una frase scritta con l’inchiostro rosso, sia colui che sa leggere sia l’analfabeta vedono il rosso, ma la colorazione in rosso non ha la stessa importanza per l’uno e per l’altro.
Quando un apprendista si ferisce o si lamenta per la fatica, gli operai, i compaesani, hanno un bellissimo e significativo modo di dire: «È il mestiere che gli entra nel corpo». Ogni volta che poi subiamo un dolore, possiamo dire in verità che è l’universo, l’ordine del mondo, la bellezza del mondo, l’obbedienza della creazione a Dio a entrarci nel corpo. E allora come non benedire con la più tenera riconoscenza l’Amore che ci invia questo dono?

http://www.ministridimisericordia.org/Antropologia/tabid/483/Default.aspx

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