DON ANTONIO

martedì 4 ottobre 2011

1.Attese di salvezza in alcune figure del pensiero post-moderno di Pino Lorizio


Nah ist
Und schwer zu fassen der Gott.
Wo aber Gefahr ist, wächst
Das Rettende auch.
(F. Hölderlin - Patmos)
NB.QUESTO E' UN ARTICOLO FILOSOFICO E DI NON FACILE COMPRENSIONE
I versi del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin ricorrono forse troppo spesso in opere di filosofia contemporanea, per cui rischiano di essere fraintesi e interpretati alla stregua del nichilismo dominante o di quella vaga tendenza estetizzante, contrassegno - certo non esclusivo - della postmodernità neo-pagana, che ha trovato in Martin Heidegger uno dei suoi padri fondatori e maestri del pensiero. Il contesto nel quale il filosofo evoca Patmos è quello degli Holzwege, ed in particolare il saggio Wozu Dichter?, nel quale si descrive il nostro tempo come epoca di una povertà tanto radicale da non riconoscere la mancanza di Dio come mancanza. Sarà l'"ultimo dio" dei Beiträge zur Philosophie (composti fra il 1936 e il 1938) o il "solo dio che ci può salvare" della famosa conferenza del 1966 la figura in cui Heidegger troverà rifugio nel tentativo di sfuggire al pericolo derivante dall'ormai universale dominio della scienza e della tecnica, che si esprime nell'impero del "pensiero calcolante" e dei suoi metodi.

Non è questo il luogo in cui avanzare delle proposte interpretative plausibili del pensiero heideggeriano, che rimane tuttavia un riferimento imprescindibile per il Novecento filosofico e teologico. Ci proponiamo soltanto di mostrare - senza alcuna pretesa di esaustività - come il pensiero cosiddetto post-moderno esprima, almeno in alcune sue figure, delle attese di salvezza, ed affronti dei contenuti a partire dai quali sembra possibile attivare un dialogo costruttivo fra teologia e filosofia, nell'orizzonte che ci apprestiamo a precisare, con la speranza di eludere la possibilità di equivoci, senza tuttavia escludere quella - cui l'espressione di ogni proposta è fatalmente soggetta - di fraintendimenti.

0. L'orizzonte della nostra ricerca

0.1. Il proposito sarebbe quello di

A. gettare uno sguardo teologico sul pensiero della cosiddetta post-modernità, rivolgendo l'attenzione piuttosto ai testi dei maestri del nostro tempo, che alle interpretazioni di loro epigoni,

B. all'interno di una prospettiva teologico-fondamentale, nella quale l'auditus temporis si affianca e sostiene l'auditus fidei, senza naturalmente ad esso sostituirsi o sovrapporsi,

C. col duplice atteggiamento della vicinanza simpatetica e della distanza critico-profetica.

A. La legittimità di un approccio teologico alle filosofie che le diverse epoche esprimono (il che, per la legge della reciprocità, non esclude la possibilità, anzi la auspica, di accostare filosoficamente le teologie) si fonda sulla impossibilità per il teologo di spogliarsi del contesto da cui promana il suo sapere per camuffarsi di volta in volta da filosofo, storico, sociologo o psicanalista, producendosi in esercizi ed acrobazie intellettuali, che rischiano di renderlo ridicolo. Si tratta evidentemente non solo di leggere, ma di avere il coraggio di interpretare, i filosofi, con la correttezza che ogni ermeneutica richiede, senza esimersi dal pronunciare giudizi e dall'esprimere di volta in volta consenso o dissenso rispetto ai contenuti e alle prospettive studiati.

B. Qui, tuttavia, non ci dedichiamo alla ricerca filosofica nell'intento di individuare un'adeguata infrastruttura concettuale attraverso la quale esprimerci nel momento speculativo del nostro teologare, bensì intendiamo situarci al livello del cosiddetto momento positivo della ricerca, che comprende in primo luogo l'auditus fidei e le sue esigenze, ma che non ci sembra debba escludere l'auditus temporis, ossia un'adeguata lettura e interpretazione del contesto nel quale situare il nostro sapere. Tale attenzione al contesto non potrà non avere delle ricadute sulla speculazione teologica e sulle sue espressioni. Se l'attenzione al momento contestuale dovrà essere assunta da ogni settore del sapere teologico, essa interpella in maniera particolare la teologia fondamentale, la quale tradizionalmente si situa in posizione di frontiera e che non può certo appiattirsi nel ruolo di porgere gli elementi introduttivi alla dogmatica.

Intendiamo misurarci con l'appello rivolto da Franz Rosenzweig ai teologi, affinché filosofeggino, ma in modo del tutto nuovo rispetto al passato: "Oggi, per giungere a liberarsi dall'aforisma, quindi proprio per mantenere la sua scientificità, la filosofia esige che i "teologi" filosofeggino. Certo, i teologi in un senso nuovo. Perché, come mostreremo, il teologo che la filosofia esige in nome della propria scientificità è a sua volta un teologo che esige la filosofia, in nome della propria onestà intellettuale".

E, più avanti, in un testo che richiama la tematica della redenzione: "Nella creazione è "prevista" la rivelazione con tutto il suo contenuto, e quindi, secondo l'idea di fede dell'epoca attuale, inclusa la redenzione. La filosofia, così come è esercitata dal teologo, diventa profezia sulla rivelazione, diventa, per così dire, l' "antico testamento" della teologia. Ma con ciò la rivelazione, davanti ai nostri occhi stupiti, riassume nuovamente l'autentico carattere del miracolo, autentico in quanto diviene in tutto e per tutto l'adempimento della promessa profetica avvenuta nella creazione. E la filosofia è la sibilla che, per il fatto di predirlo, rende il miracolo "segno", lo rende segno della provvidenza divina".

Se privilegiamo, nella nostra attenzione al contesto, l'istanza filosofica è perché - a nostro avviso - alla filosofia, nonostante la situazione di crisi o di "debolezza" quasi cronica, in cui sembra versare, va ancora riconosciuto il compito - non certamente esclusivo - di ihre Zeit in Gedanken erfassen [= "comprendere il proprio tempo col pensiero" (Hegel)] e quindi di aiutarci a leggere, se non a decifrare, la nostra epoca e le sue contraddizioni, ad un livello diverso da quello delle cosiddette "scienze umane" e dei loro pur preziosi apporti.

C. In relazione agli elementi di superamento della modernità, di cui il "post-moderno" sembra portatore, la Chiesa e la teologia cattoliche perderebbero un appuntamento prezioso con la storia qualora non accettassero di leggere e interpretare la cultura dell'uomo di questo tempo, che è il nostro, nel loro carattere di avvento rispetto all'evangelo del Regno e alla salvezza che il suo annuncio dona. Sarebbe tutt'altro che evangelico proporre il bidone della spazzatura per i frammenti o brandelli di verità che la nostra cultura esibisce. Piuttosto nei loro confronti va esercitata una sorta di pietas paziente e attenta, capace di rilevare le aperture e le disponibilità verso l'annuncio del Regno, senza naturalmente sottovalutare le chiusure e le difficoltà. Pertanto se in cascuna delle tappe del nostro cammino ci soffermeremo piuttosto sulle possibilità che sui rischi insiti in ciascuna delle proposte, attivando un atteggiamento di prossimità simpatetica piuttosto che di distanza critico-profetica, ciò è dovuto alla prospettiva tematica del nostro contributo. Siamo infatti consapevoli del fatto che quelli che abbiamo tra le mani sono soltanto dei frammenti, che siamo chiamati a ricondurre ad un contesto più ampio nel quale possono ricevere un senso, gettarli via significherebbe tuttavia precludere a loro, ma anche a noi stessi, ogni possibilità di redenzione. L'affiancarli è anche un modo di integrarli, in modo che vengano reciprocamente a ridimensionarsi nelle loro eventuali pretese totalizzanti.

0.2. Il "post-moderno"

Nonostante la pretesa di qualche incauto interprete di definirlo, questo nostro tempo, che provvisoriamente ed approssimativamente designamo con l'abusato aggettivo "post-moderno", sfugge ad ogni tentativo di comprensione esaustiva ed unilaterale. La querelle "tra ingegni moderni e postmoderni" è tutt'altro che risolvibile in termini di idee chiare e distinte, per cui la domanda che continua ad assillarci (e ne avremo ancora per molto) ci sembra possa esprimersi in questi termini: in che misura siamo ancora nella modernità e in che misura ne siamo usciti definitivamente? O ancora: in che senso il cosiddetto postmoderno si può considerare figlio legittimo del moderno e in che senso esso si declina nei termini dell'antimoderno? Il fatto stesso che non si riescono a coniare termini più precisi per designare il nuovo, che faticosamente tenta di emergere, è sintomo del disorientamento radicale che caratterizza i momenti di passaggio e le svolte epocali. Essi non accadono in un istante, ma si fanno strada faticosamente nella storia, aprendo dei varchi e tracciando dei sentieri, che solo "il lungo tempo nel quale il vero avviene" (Hölderlin) trasformerà in strade più facilmente percorribili.

Tuttavia non possiamo attendere che la nottola di Minerva levi il suo volo per tentarne una descrizione, senza tuttavia pretendere di offrirne una definizione. Poiché il post-moderno non esaurisce il proprio significato nell'ambito di una mera connotazione cronologica, ma ha la pretesa di indicare un'epoca o il passaggio da un'epoca a un'altra, non possiamo correre il rischio di restare ai margini della storia, in attesa che essa faccia il suo corso, né sarebbe saggio attendere ai bordi del fiume il passaggio del cadavere del nemico. Dobbiamo azzardare di proporre delle chiavi di lettura, disposti a verificarle o falsificarle durante il percorso, adottando le dovute cautele e senza temere il conflitto delle interpretazioni, dal quale possono emergere ermeneutiche più plausibili e rispondenti.

Muoviamo dalla convinzione secondo cui, nella parabola che conduce dalla modernità alla post-modernità, si verifica il passaggio dal sistema ai frammenti (la caduta delle ideologie non è che un modo attraverso cui tale evento si manifesta) e che tale parabola non è affatto conclusa, né di essa si possono prevedere gli esiti: "Come tutti i nomi collettivi, anche il "postmoderno" unifica fenomeni eterogenei e ha, perciò, uno spettro semantico tanto ampio quanto equivoco, ragione non ultima della sua fortuna (come, vent'anni fa, la categoria della "secolarizzazione"). A ben guardare, infatti, l'odierno discorso sul "postmoderno" esprime più una tendenza che non i suoi esiti definitivi, dicendo qualcosa sul distacco rispetto al "già" della precedente fase [...], ma tacendo sulla portata del "non ancora" [...] e sul grado di continuità o rottura tra le due epoche" (La Civiltà cattolica).

A. Se il termine "post-moderno" viene inteso nell'accezione di "anti-moderno", allora questo elemento è presente nel DNA del cattolicesimo ufficiale e nella cultura che da esso promana (si pensi al Sillabo e all'Antimoderno di Maritain). Ma il rapporto fra pensiero cristiano e filosofia moderna abbisogna - a nostro avviso - di un lungo processo di revisione storiografica, tale da attivare un atteggiamento di prossimità simpatetica accanto a quello di distanza critico-profetica, che tende a prevalere, prevaricando anche nella teologia.

B. Tuttavia sembra anche plausibile una lettura del post-moderno che non lo situa soltanto contro il moderno. Infatti "sicuramente il postmoderno fa parte del moderno. Si deve diffidare di tutto ciò che è acquisito, anche solo da ieri [...]. Un'opera può divenire moderna solo se è prima postmoderna. Inteso in questo senso, il postmodernismo non è il modernismo giunto alla fine, ma il modernismo allo stato nascente - e questo è costante" (J. F. Lyotard). In rapporto al post-moderno come prodotto dal grembo della modernità e suo esito, la teologia cattolica ci sembra coltivare - allo stadio attuale della riflessione - un atteggiamento di comprensibile distanza, che si manifesta: 1) come diffidenza nei confronti della rassegnazione alla debolezza del pensiero; 2) come difesa dalla ricorrente tentazione gnostica, che sembra accomunare espressioni delle filosofie e delle nuove religiosità; 3) come tendenza (espressa in tentativi di impostazione e di matrice diversissima) all' oltrepassamento del nichilismo; 3) come custodia gelosa dei misteri speculativi e della metafisica (anche qui in forme differenziate).

C. Considerando, al contrario, il carattere di novità del nostro tempo rispetto al moderno ci sembra di poter scorgere e descrivere tre direzioni, verso le quali il pensiero recente volge la propria attenzione, che cercheremo di raccogliere e di interpretare teologicamente, intorno ad altrettante parole-chiave, secondo noi oltremodo feconde per il nostro tema e per imbastire un dialogo costruttivo fra teologia e filosofia.

1. Alterità. La via della trascendenza

Un primo luogo, cui ci sembra di dover prestare la nostra attenzione e nel quale si manifesta una forma di attesa di salvezza nella filosofia recente, può essere individuato nell'attenzione, molto viva nel dibattito attuale, verso il pensiero ebraico ed alcune sue figure rappresentative. È merito del pensiero di ispirazione biblica, ebraico e cristiano, aver offerto una riflessione profonda sull'intersoggettività e la reciprocità, tale da escludere ogni ritorno all'egoità e rendere possibile un autentico atteggiamento di accoglienza dell'a(A)altro. Se l'esserci heideggeriano continua a muoversi in un orizzonte fondamentalmente soggettivistico, da cui non riescono a sottrarlo neppure le suggestive pagine, poetiche e filosofiche insieme, prodotte dalla cosiddetta Kehre, non così in autori come Buber e Levinas, che si situano nell'orizzonte neo-ebraico, e come Gabriel Marcel, che elabora una filosofia dell'esistenza di chiara ispirazione cristiana. Ci soffermeremo soprattutto sul pensiero levinasiano, che si situa esattamente agli antipodi di ogni concezione soggettivistica, elaborando una eterologia, ricca di spunti per una filosofia dell'accoglienza.

Il punto di vista di questo autore complesso e insieme affascinante è quello dell'etica, il cui primato sull'ontologia risulta chiaramente affermato in ogni pagina sia delle sue opere più propriamente filosofiche che di quelle comunemente definite "confessionali". La Torah e il Talmud sono le fonti inesauribili di questo pensiero, che merita tutta la nostra attenzione anche perché assume come prospettiva privilegiata quella dell'a(A)ltro. Si tratta di capovolgere tutto l'itinerario della filosofia occidentale, che "dalla Ionia a Iena" (Rosenzweig) non sa pensare se non in termini di soggettività. Il nichilismo, pratico e speculativo, che sembra sempre più caratterizzare la post-modernità, non solo filosofica, è frutto di questa direzione impressa al pensiero che non sa "pensare altrimenti" e all'uomo che non sa "essere altrimenti", dove l'avverbio significa semplicemente dal punto di vista altrui, assumendo l'altro come punto prospettico del nostro fare e del nostro dire.

L'espressione "mettersi nei panni dell'altro" non è qui soltanto metaforica. L'a(Altro) infatti irrompe nella mia esistenza provocando la mia responsabilità ed esigendo risposte che giungono alla denucleazione dell'io, al proiettarlo fuori di sé, appunto nell'altro, il cui volto mi interpella scardinando tutte le mie pre-comprensioni intenzionali. L'esperienza del lager costituisce l'orizzonte storico ed esistenziale entro cui questo pensiero si situa. In questo senso l'ebreo è coscienza critica della nostra civiltà occidentale e della nostra Europa, sicché Levinas dedica una delle sue opere principali, significativamente intitolata Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, "alla memoria degli esseri più vicini tra i sei milioni di assassinati dai nazional-socialisti, accanto ai milioni e milioni di uomini di ogni confessione e di ogni nazione, vittime dello stesso odio dell'altro uomo, dello stesso antisemitismo".

Il razzismo antisemita è dunque il paradigma di ogni pensiero egocentrico, che costituendosi in sistema, non si fa scrupolo di sopprimere il diverso o di soggiogarlo. A condizione di pensare altrimenti è possibile il vero esodo del soggetto, che non percorre più l'itinerario di Ulisse, il quale al termine del lungo viaggio si ritrova nella sua stessa casa, allo stesso punto di partenza, bensì il cammino di Abramo, che esce dalla propria terra affidandosi completamente all'Altro che lo conduce non più presso il sé, ma nel luogo che gli ha preparato.

L'etica non è scritta su tavole morte, e tanto meno in trattati teorici, essa è rivelata nel volto dell'altro, che è la traccia dell'Altro o dell'Infinito. In particolare lo sprovveduto, il povero, lo straniero, il diverso, la vittima portano impresso nel loro sguardo il comandamento originario: "Tu non mi ucciderai!", che non va inteso soltanto nel senso della soppressione fisica opera del carnefice, bensì di ogni atteggiamento che porta all'affermazione di noi stessi, prevaricando sugli altri e non mettendoci al loro servizio. L'a(A)ltro è misura di tutte le cose. Pertanto non sarà autenticamente accogliente l'atteggiamento di chi esercita l'ospitalità solo verso persone in grado di ricambiare il suo gesto, magari offrendo semplicemente una presenza gratificante. La sua irruzione nella mia vita viene piuttosto a destabilizzare il mio ego ed in quanto tale questo incontro porta l'esperienza della pura trascendenza, non riconducibile ad alcuna attesa previa.

In questo senso Levinas invita a rompere con una concezione dell'amore, inteso platonicamente come nel mito riportato nel Convivio, dove l'eros non fa che ricongiungere due metà originariamente appartenenti allo stesso essere, allo stesso androgino primordiale. Se così fosse, l'amore sarebbe semplicemente il nome di una forma di egoismo, perché in esso l'uomo in fondo cerca e trova se stesso e non l'a(A)ltro nella esteriorità del suo essere diverso. La bontà e quindi l'amore consistono "nell'andare là dove non l'ha preceduta nessun pensiero illuminante - cioè panoramico -, nell'andare senza sapere dove. Avventura assoluta in un'imprudenza primordiale, la bontà è proprio la trascendenza. La trascendenza è trascendenza di un io. Solo un io può rispondere all'ingiunzione di un volto".

L'io così pensato viene da Levinas interpretato come ostaggio nelle mani dell'a(A)altro. "io, vale a dire eccomi per gli altri, che perde radicalmente il suo posto - o il suo riparo nell'essere - che entra nell'ubiquità che è anche un'utopia". Il Re mendicante che bussa alla porta della mia soggettività esige l'ospitalità, che non consiste solo nell'assunzione di un atteggiamento di buona educazione o di elemosina. "L'altro come lo straniero è l'ospite, verso il quale sono tenuto a esercitare il primo dovere etico: l'ospitalità. La sua condizione di apolide, di senza patria, che lo fa straniero in ogni Paese qualunque esso sia, universalizza l'esigenza dell'accoglienza". Levinas riprende l'ospitalità esercitata da Abramo verso i tre misteriosi visitatori.

La "traccia degli dei fuggiti", che Heidegger scorgeva nella poesia, diviene, nel pensiero levinasiano, traccia del totalmente Altro, presente nel volto dell'altro, che rende manifesta la Trascendenza, rivelando la Torah. La presenza dell'Altro nel volto dell'altro è da ritenersi nel senso di una luce riflessa, obliqua, un'esperienza che richiama quella dei posteriora Dei, nel famoso brano dell'Esodo, che pure Cohen aveva commentato: "L'Altro come traccia. Non la traccia che lascia l'impronta delle dita, dei passi, ma la traccia che è lui stesso o che s'iscrive nel volto. Essenzialmente fuggitiva e traccia cancellata, come una traccia che si è cercato di confondere, e che non è più che la rovina d'una traccia, illeggibile e indelebile. È conforme alla natura della traccia che essa sia allusiva e nascosta [...]".

Il tema della traccia rimanda a quello della gloria. A questo proposito Levinas richiama il nascondersi di Adamo nell'eden, nel tentativo di sottrarsi a Dio che lo cerca: "La gloria si glorifica attraverso l'uscita del soggetto fuori dagli angoli bui del "quanto a sé" che offrono - come i cespugli del paradiso in cui si nascondeva Adamo mentre udiva la voce dell'Eterno Dio percorrendo il giardino dal lato in cui sorge il sole - una scappatoia alla convocazione in cui si mette in moto la posizione dell'Io all'inizio e la possibilità stessa della origine".

Ma di fronte all'a(A)altro che mi interpella, la soggettività del mio io, è priva di vie d'uscita che le consentano in qualche modo di imboscarsi: l'accoglienza dell'a(A)ltro è dunque la prima responsabilità etica, il primo dovere, non estrinsecamente inteso come obbedienza ad una legge convenzionale, bensì inscritto nella stessa traccia che l'a(Altro) porta sul proprio volto. Se le spalle che Dio mostra a Mosé, si possono interpretare come la stessa Torah, che Dio ha donato e continua a donare al suo popolo, allora il primo comandamento e la sua attuazione nella nostra vita, altro non è che l'espressione della gloria di Dio che ci è concessa, mentre abitiamo la contigenza della storia.

Come il rapporto con l'Altro trascendente, così quello con gli altri, risulta sempre a-simmetrico e mai paritario: non vi è reciprocità tra la mia solitudine radicale e l'irruzione dell'altro, che sconvolge la mia esistenza soggettiva. Questi, nella prospettiva levinasiana, ha sempre e comunque il primato, il suo punto di vista, la sua cultura, il suo orizzonte, per quanto immensamente distanti dai miei, richiedono comunque un atteggiamento di profonda e radicale accoglienza. L'apertura della soggettività non costituisce dunque una sorta di hobby, cui dedicare magari il proprio tempo libero e quanto rimane delle proprie energie dopo una giornata o una settimana di duro lavoro. Essa dovrà al contrario costituire una dimensione originaria della nostra esistenza autenticamente intesa: ne va infatti della nostra apertura all'Altro, che viene a redimere la nostra vita: ne va cioè della stessa redenzione.

L'ispirazione ebraica di questo pensiero - come di quello di Rosenzweig, riscoperto all'inizio degli anni '80, alla stregua dell'attenzione verso la filosofia levinasiana - resta radicalmente fedele all'unica alleanza, che per questi autori è quella che per noi è l'antica. Onde evitare l'errore di facili trasposizioni in chiave cristiana, sarà bene richiamare un passaggio della Stella della redenzione, nel quale il Cristianesimo è chiamato a svolgere un ruolo missionario nei confronti dell'ebraismo. Sono parole dure, che non possiamo tralasciare in nome di un dialogo, che altrimenti rischierebbe di diventare irenico: "[...] in questo frattempo il mondo intero si è riempito dell'idea messianica e delle parole della dottrina e dei comandamenti; quell'idea e queste parole si sono diffuse fino ad isole lontane e tra molti popoli di cuore incirconciso e di carne incirconcisa; ora tutti i affaticano sulle parole della Torah e con il problema della loro validità; e gli uni sostengono che quei nostri precetti sono certo veri, ma non sono più in vigore, mentre altri sostengono che vi sono nascosti dei misteri e che nulla vi deve essere inteso secondo il semplice senso letterale, che un giorno il Messia è venuto ed ha svelato il mistero. Ma solo quando verrà infine il vero Messia e questo gli riuscirà e sarà elevato e sublime, allora tutti costoro faranno ritorno a casa e riconosceranno che ciò era frutto di illusione".

Non abbiamo la possibilità di addentrarci nelle tre sezioni che costituiscono la terza parte della Stella, dedicata appunto alla redenzione e dove non è difficile scorgere negli stessi titoli un riferimento cristologico: "Il fuoco o la vita eterna", è la sezione dedicata all'ebraismo, "I raggi o la via eterna", quella dedicata al cristianesimo, "La stella o la verità eterna", il titolo delle ultime pagine nelle quali sembra delinearsi una sorta di terza via o di meta-religione, dove l'ebreo e il cristiano vengono presi in considerazione in quanto "figure dell'umanità", dove si proclama il crollo dell'ebrezza propria di ogni paganesimo di fronte alla verità, e che si chiude con una porta aperta sulla vita: "Camminare in semplicità con il tuo Dio: qui non si richiede nulla più della completa presenza della fiducia. Ma fiducia è una parola grande. È il seme da cui crescono fede, speranza e amore ed il frutto che da essi matura. È la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile. Ad ogni istante essa osa dire "è vero!" alla verità. Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l'esterno. Ma su che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita"




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