DON ANTONIO

giovedì 6 ottobre 2011

IL MISTERO DELLA SOFFERENZA E DELLA MORTE in S. Tommaso d’Aquino Relatrice: Algeri Maria Chiara nel Seminario STB 21 gennaio 2008

La sofferenza e la morte sono due realtà che fanno parte dell’essere creaturale
dell’ uomo e a cui non ci si può sottrarre. Ma, pur essendo comuni a tutti gli uomini, diversificate si presentano a secondo di chi le vive e come le vive: per carattere, ideologia, cultura.
Per il cristiano, la matrice è comune, come identico dovrebbe essere
l’approccio quando l’una o l’altra bussano alla porta della nostra vita. E soprattutto quando la nostra speranza è veramente una speranza certa perché ancorata a Cristo risorto e ci permette di andare oltre il limite del tempo e della storia. Solo in questa ottica possiamo accostarci al mistero della sofferenza e della morte con serenità e pace.
Dicevamo all’inizio che la sofferenza fa parte dell’esistenza umana. Essa non è
solo connaturata al nostro limite creaturale, ma deriva anche dalla massa di colpa che, nel corso della storia, si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile. E’ doveroso fare di tutto per superare la sofferenza, ma pensare di poterla eliminare totalmente dal mondo non sta nelle nostre possibilità perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che è continuamente fonte di sofferenza.
Possiamo cercare di limitare la sofferenza,di lottare contro di essa, ma non possiamo eliminarla.
Dice Benedetto XVI nell’Enciclica ‘SPE SALVI’: “Proprio là dove gli uomini,
nel tentativo di evitare ogni sofferenza, cercano di sottrarsi a tutto ciò che potrebbe significare patimento, là dove vogliono risparmiarsi la fatica e il dolore della verità, dell’amore, del bene, scivolano in una vita vuota, nella quale forse non esiste quasi più il dolore, ma si ha tanto maggiormente l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine.
Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce
l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore.
La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la
sofferenza; in essa il cristiano riesce a trovare un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza.
La fede cristiana ci dice che Dio stesso si è fatto uomo per poter com-patire
con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. Da lì in ogni sofferenza umana è entrato Uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; da lì si diffonde in ogni sofferenza la “con-solatio”, la consolazione dell’amore partecipe di Dio e così sorge la stella della speranza. Questa capacità di soffrire, dipende dal genere e dalla misura della speranza che portiamo dentro di noi e sulla quale costruiamo.
I santi poterono percorrere il grande cammino dell’essere-uomo nel modo
in cui Cristo lo ha percorso prima di noi, perché erano ricolmi della grande speranza.

IL MISTERO DELLA MORTE
C’è un momento della vita in cui “qualcosa” ne indica il compimento. Ma
soltanto nel tempo. Per chi crede, la vita continua in un’altra dimensione in cui
crediamo non solo per fede, ma anche per l’anelito insopprimibile a esistere che abita il cuore dell’uomo.
E tuttavia questo “compimento” rimane un mistero. Ma riceve luce dalla
promessa evangelica: “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me vivrà in
eterno” (Gv. 11,25).
Socrate, nel 399 a.C. poco prima di morire dopo essere stato condannato a morte
perché accusato di corrompere i giovani, così si espresse: “E’ l’ora di andare, io a
morire e voi a vivere. Chi di noi vada verso il destino migliore è oscuro a tutti,
fuorché a Dio. Morire, infatti, può essere solo una di queste due cose: o l’insensibilità completa del nulla, come un profondissimo sonno ristoratore, senza fine; o la migrazione dell’anima dalla terra in un altro mondo, retto dalle supreme leggi della giustizia universale. In ogni caso non mi fa paura, perché una grande verità mi conforta: nessun male può essere fatto all’uomo giusto. Il giusto non può patire nulla di male, né in vita, né in morte. Non in vita, perché gli altri possono ucciderlo ma non alterarne l’armonia interiore. Non dopo la morte perché, se c’è un al di là, egli avrà il suo premio”.
Queste affermazioni del grande filosofo, restano scolpite per sempre
nella coscienza umana perché contengono tutto ciò che è possibile pensare sulla
morte. Ogni uomo, prossimo o meno al grande viaggio, potrebbe ripetere le sue
parole.
Altri, dopo di lui, di fronte all’oscura barriera della morte hanno pronunciato
espressioni di coraggiosa fiducia in una vita senza fine. Quattrocento anni dopo
Socrate, Gesù di Nazareth, anche lui condannato ingiustamente, nel momento di
lasciare questo mondo, si rivolge a Dio con espressioni mai udite: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Da quel momento, il concetto di morte compie un salto di significato: da “scomparsa” e “distacco” si trasforma in “incontro, ritorno, abbraccio”.
Il 3 aprile del 2005 anche il Papa Giovanni Paolo II pronunciò quel nome e disse
nella sua agonia: “Lasciatemi tornare al Padre”.
Anticamente, e ancora oggi nelle società semplici, la visione della morte
faceva parte dell’esperienza quotidiana: i bambini vedevano morire in casa i malati e i vecchi, parlavano con i moribondi, osservavano il cadavere, partecipavano al lutto.
Nelle società industriali l’atteggiamento nei confronti della morte ha
subito profonde trasformazioni: se da una parte è aumentato il contatto indiretto con la morte, attraverso gli strumenti della comunicazione sociale, il contatto diretto è quasi completamente scomparso, in quanto il rapporto con il fatto concreto della morte viene delegato agli ospedali, alle case di riposo, alle agenzie funerarie. La tendenza fondamentale è di giungere a far scomparire la morte dalla società, rendendola culturalmente e socialmente invisibile, sottraendo così all’uomo l’incontro esistenziale con la morte, incontro che risulta sgradevole e imbarazzante.
Di conseguenza, quei pochi incontri diretti che ancora si hanno con la morte, si
riducono ad esperienze momentanee prive di ripercussione interiore, volutamente minimizzate per una apparente volontà di vivere. Lo stesso concetto di morte viene censurato: è un luogo comune della nostra cultura il rappresentarsi la morte come una
disgrazia, come un errore tecnico.

Oggi, la maggior parte della gente pensa alla morte solo quando vi è
costretta dalle circostanze. Purtroppo raramente il tema della morte è presente nella vita del cristiano. Generalmente dimentichiamo che Dio ha inscritto le nostre vite in una vita più vasta, che si estende ben oltre gli orizzonti della nascita e della morte per cui il tempo che ci è concesso di vivere, che sia di trenta o novant’anni, ci dà l’opportunità di dire sì a un dono misterioso che ci viene da Dio, a una realtà che, seppur difficile, ci offre l’opportunità dell’incontro con il divino e di un’intensa, appassionante crescita. Essere davvero guariti, essere definitivamente sanati è appartenere completamente a Dio, nascere a una vita e a un amore che sono eterni; ha più a che fare con il cercare prima il Regno di Dio e con il vedere appagati i desideri più profondi del nostro cuore, che con le condizioni del nostro corpo.
Affrontare la morte intesa in questo modo è tutt’altro che un esercizio
lugubre e deprimente. Al contrario, si rivela un modo per celebrare la nostra vita di figli prediletti di Dio, così da vivere i giorni che ci restano, pochi o tanti che siano, come giorni di costante apertura a ciò che verrà. Il Dio che ci ha creati, e che ci ha chiamati “prediletti” ancor prima che nascessimo, vive con noi e in noi. Nulla può separarci da quell’amore di Dio in Cristo (cfr. Rom. 8,39), neppure la realtà, che in genere preferiamo ignorare o eludere, della morte. Per vivere con gioia la vita e anche la morte dobbiamo dunque imparare a discernere in ogni circostanza la voce del divino amore.
Per vivere così, Gesù insegna e ci esorta a una semplice, lucida visione
della morte; basterebbe riflettere su come Egli risuscitò dai morti Lazzaro nel
Vangelo di Giovanni. Forse, come alcuni di coloro che furono presenti al fatto, anche noi vogliamo solo il miracolo di qualcuno risorto dai morti. Vediamo di buon occhio la promessa di guarigione, ma non altrettanto il turbamento, la partecipazione alla sofferenza, la condivisione del dolore. Ciò che non vogliamo vedere sono le lacrime e l’intenso dolore che portarono Gesù a pregare il Padre suo.
Gesù invece non vuole che evitiamo questo confronto. E’ un caso che egli
sia giunto sulla scena del compianto funebre e del dolore quando ormai da quattro giorni Lazzaro giaceva nel sepolcro? Da giorni Gesù sapeva che Lazzaro era malato.
E tuttavia, egli attese. Voleva forse che nessuno dubitasse che Lazzaro era davvero morto? Quando Gesù ordinò che la tomba fosse aperta, Marta, la sorella del morto, protestò: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni” (Gv. 11,39).
Ma la chiamata alla vita di Gesù scaturì dalle sue lacrime e dalla commozione che saliva dal profondo del suo cuore.
La nostra morte può divenire un segno di gloria. Gesù mostrò quanto
preziosa sia la nostra vita: pianse, si turbò, prese profondamente parte al dolore dei presenti. E da quel dolore nacque nuova vita. E’ attraverso la morte che tocchiamo la vita nella sua essenza più profonda. Dio vuole che partecipiamo all’esperienza della morte. E nel farlo, egli ci verrà in aiuto rafforzando la nostra speranza.
Ora, che cosa è la morte nessuno lo sa, l’unica cosa che sappiamo è che
essa giunge in modi assolutamente unici e individuali. Ci colpisce talvolta per quel suo essere arida come il deserto del Sinai, solitaria come la croce. Pensiamo ad alcuni dei nostri progenitori nella fede: a Mosè non fu dato di conoscere ogni svolta dell’itinerario su cui conduceva il suo popolo fuori dell’Egitto. Gesù attraversò tenebre inaudite, quando dalla croce gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27,46). E tuttavia egli non scese dalla croce, ma compì la volontà del Padre suo per redimere il mondo.
Non possiamo prevedere nulla del futuro con certezza; ogni tentativo di
colmare il vuoto con qualcosa di concreto è più un segno di debolezza della fede che di forza della speranza.
La fede cristiana ci chiede un salto, ci chiede di abbandonarci e credere
che in qualche luogo, in qualche modo, Qualcuno ci afferrerà e ci porterà a casa.
Imparare a morire ha qualcosa a che fare col vivere ogni giorno nella
piena consapevolezza di essere figli di Dio, del Dio il cui amore è più forte della
morte.

Gesù ci dice: “Ti voglio dare il mio amore, il mio cuore, il mio soffio, lo
Spirito. Voglio elevarti alla mia cerchia di prediletti. Non dopo la tua morte, ma ora, in questa vita, così che tu ti senta perdonato, amato, libero”.
Perciò, pensare alla morte come una realtà che ci appartiene, ci
consente di vivere meglio. E di danzare meglio, con la gioia del Signore, attraverso le cupe notti di tribolazione e le serene albe di speranza.
La morte, in conclusione, “deve essere ridotta esattamente a un
confine che nessun uomo può porre, perché nessun uomo può eliminarlo. La morte deve essere e deve diventare ciò che l’ha resa Gesù Cristo: la delimitazione
dell’uomo soltanto da parte di Dio, il quale là dove noi siamo totalmente impotenti, non abusa della sua potenza. Là dove non possiamo fare nulla egli è presente per noi”. (cfr.Jungel, “morte”, Brescia, Queriniana, 1972, p.190).
Per L. Boros, la morte è un sacramento “nel quale si ricapitolano tutti
gli altri sacramenti. Tutto è, in essa, acqua purificatrice, tutto è cristallino, tutto
apporta vita ed io mi immergo e mi tuffo in questa sorgente dell’essere. Tutto è vento sussurrante dello spirito che racconta al mio cuore di misteri mai immaginati. Tutto è qui nutrimento meraviglioso, pane della vita, sangue del Signore che nutre e fortifica.
Tutto è qui pentimento e perdono. Tutto è qui potenza dello spirito di fronte a cui il mondo si piega. Tutto è qui unzione, pace, ristoro, appagamento, ritorno a casa. E’ qui ciò che illuminava le profondità dei miei desideri e dei miei sogni.
Pronuncio adesso l’unica parola ancora possibile al mio amore e che sintetizza tutta la mia vita, tutti i sogni dell’umanità e le brame dell’universo: TU! Da questa parola piena d’amore sorge un abbraccio eterno. Tutto mi è adesso veramente presente ed io abbraccio misteriosamente tutti coloro che sono tristi per la mia dipartita ed anche quelli che mi aspettano presso Dio. Adesso, al sopraggiungere di una calma e di un silenzio assoluti, ricevo con gratitudine disinteressata il dono del Dio Trino, l’eterno regalo del suo amore.

Così la morte costituisce veramente il vertice del divenire del mondo,
l’origine della vita eterna. Per essa l’uomo precipita in una caduta vertiginosa verso le profondità abissali per scagliarsi poi, come onda che si accavalla e sale, verso la pienezza eterna.

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