DON ANTONIO

domenica 18 settembre 2011

“L’umano soffrire: approccio biblico”,Formazione permanente del Clero,14 marzo 2011

Di per s’è l’intero racconto biblico si presterebbe ad un’indagine attenta al tema della sofferenza
umana. Come nel testo biblico si riflette l’intera gamma delle esperienze umane, così
l’umano soffrire trova un’attestazione molto ampia. Basterebbe solo menzionare come
questo tema appaia fin dai testi genesiaci e si ripresenti ancora nelle pagine dell’Apocalisse:
a) Inizio e fine
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo
marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie
e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa
tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai
l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da
essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!» (Gen 3,16-17).
La descrizione della Gerusalemme celeste domina gli ultimi due capitoli. Una delle qualifiche
è l’assenza del dolore:
E vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare
non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come
una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la
tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro,
il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né
affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove
tutte le cose» (Ap 21,1-5).
Ma già questo accostamento, ancora solamente iniziale e grossolano (“epidermico”), è
assai indicativo: ci svela subito qualcosa di estremamente prezioso: la sofferenza domina, sì,
l’intera esperienza umana e affiora spessissimo nella testimonianza biblica, ma è estranea
alla volontà originaria di Dio (è completamente assente nei primi due capitoli di Gen e
scompare negli ultimi due capitoli di Ap). Come si può notare, pur con un approccio appena
appena incipiente, si nota come una realtà massicciamente presente nella vita dell’uomo, sia
comunque totalmente estranea ai racconti delle origini e ai racconti del compimento escatologico.
Inizio e fine in qualche modo coincidono: creazione e ricreazione in fondo sono le
due sfumature di un unico progetto buono di Dio, un unico sogno di vita, goduto in pienezza
dall’uomo. Eppure la sofferenza segna l’intero percorso biblico…
b) Chiarimento metodologico
Ovviamente nella ricognizione del testo biblico mi sono dovuto porre dei limiti: non potendo
accostare tutti i testi/brani che parlano o alludono alla sofferenza (un lavoro immane).
Infatti la Bibbia ci mostra tutta la gamma dell’umano soffrire: la sofferenza causata dalla
malattia (Gb 3,24-25:«… al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua
il mio grido, perché ciò che temevo mi è sopraggiunto, quello che mi spaventava è venuto su
di me. Non ho tranquillità, non ho requie, non ho riposo ed è venuto il tormento!»), quella
2
che nasce dall’ostilità di uno o più avversari (Sal 31,16: «Liberami dalla mano dei miei nemici
e dai miei persecutori»), la sofferenza che nasce nella persecuzione, da un lutto (la
morte di un figlio: Rachele, Davide), il soffrire l’assenza di Dio (il suo silenzio: Gb 30,20:
«Io grido a te, ma tu non mi rispondi»), il dolore per il peccato (Sal 32,3: «Tacevo e si logoravano
le mie ossa, mentre (gemevo) ruggivo tutto il giorno»). Per quale di questi optare?
Si poteva pure la categoria quella del non senso, cioè l’umano soffrire come esperienza
assurda, che contraddice la bontà del vivere e pone seri interrogativi sulla natura umana e su
Dio stesso (l’interrogativo classico: si Deus bonus, unde mala?). Tuttavia lo specifico del
testo biblico non è solo l’interrogare di tipo filosofico (come Qohelet) ma mi sembrava un
po’ riduttivo, perché l’uomo biblico se pone delle domande, le rivolge anche a Dio; quindi
mi sembrava che il punto prospettico dell’odierna indagine potesse essere la dimensione appellante
della sofferenza. È un tentativo: vedremo se ne nasce qualcosa…
1) Salmi
In alcuni salmi incontriamo l’orante che chiaramente si trova a sopportare la malattia e
comunica i suoi sentimenti con una vasta gamma di espressioni. Con i lavori di W. B. Jacob
(1897), H. Duesberg (1952) e K. Seybold (1973) si cominciò a parlare del “Salterio dei malati”
o “Salmi della malattia”, stabilendo i criteri in base ai quali si possono individuare quei
salmi in cui chiaramente l’orante si definisce esplicitamente come malato/sofferente o allude
ad una condizione di sofferenza fisica1.
Vi emerge una sorta di “grammatica” del dolore, cioè una facoltà che abilita alla comunicazione
del dolore stesso:
La modernità è caratterizzata dall’incapacità di dar forma ai nostri sentimenti fondamentali, dalla perdita
di un linguaggio. Oggi si muore due volte: prima del decesso, noi moriamo senza aver potuto esprimerci;
moriamo della morte della Parola in noi. Mentre le società tradizionali esprimono il tragico della
vita umana in maniera diretta e cruda, grazie a rituali che ci sono ormai sconosciuti e facendo ricorso in
particolare al linguaggio forte e rivendicatore dei Salmi, la società moderna spegne il lamento, inibisce la
collera e la rivolta, dimostra imbarazzo davanti all’esplosione degli affetti e delle emozioni2.
Tale grammatica, poi, è declinata in senso corporeo, con il coinvolgimento diretto, verbale,
di alcune parti del corpo. In altre parole è il corpo stesso a fornire il linguaggio.
• le ossa
▪ Svaniscono in fumo i miei giorni e come brace ardono le mie ossa (Sal 102,4);
▪ Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa (Sal 22,17-18);
▪ A forza di gridare il mio lamento mi si attacca la pelle alle ossa (Sal 102,6);
▪ Nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato (Sal 38,4).
• gli occhi
▪ I miei occhi nel dolore si consumano, invecchiano fra tante mie afflizioni (Sal 6,8);
▪ Guarda, rispondimi, Signore, mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno
della morte (Sal 13,4);
1 Tre gruppi: il primo sicuramente di “salmi di malattia e guarigione” (Sal 38,41,88), il secondo con testi che molto probabilmente
sono tali (Sal 30, 39, 69, 102,103, e Is 38,9-20), un terzo gruppo composto di testi che non sicuramente ma
con una certa probabilità possono essere annoverati in tale categoria (Sal 6, 13, 32, 51, 91 e forse anche 31, 35, 71, 73).
2 MOTTU H., “Les Psaumes et le travail de deuil”, ÉTRel 3 (1995), 391.
3
▪ Le forze mi abbandonano, non mi resta neppure la luce degli occhi (Sal 38,11);
▪ Si consumano i miei occhi nel patire (Sal 88,10).
• le lacrime
▪ Sono stremato dai miei lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, bagno di lacrime il mio letto
(Sal 6,7).
Le lacrime sono un linguaggio silenzioso ma eloquentissimo: esprimono dolore, prorompono
come sfogo, e arrecano pure un beneficio; affiorano all’esterno, ma testimoniano qualcosa
di interno all’uomo; nella tradizione ebraica sono più efficaci della preghiera silenziosa
e del grido stesso; nella tradizione del cristianesimo (soprattutto) orientale vengono richieste
come dono (la compunzione); cadono a terra ma salgono verso il cielo. Sono un appello a
Dio perché intervenga: linguaggio eloquente e silenzioso.
• la lingua
▪ Arido come un coccio è il mio vigore, la mia lingua si è incollata al palato (Sal 22,16);
▪ Sono sfinito dal gridare, la mia gola è riarsa (Sal 69,4).
• il cuore
▪ Il mio cuore è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere (Sal 22,15);
▪ Sfinito e avvilito all’estremo,ruggisco per il fremito del mio cuore (Sal 38,9);
▪ Palpita il mio cuore, le forze mi abbandonano (Sal 38,11);
▪ Falciato come erba, inaridisce il mio cuore, dimentico di mangiare il mio pane (Sal 102,5).
• la carne
▪ Per il tuo sdegno, nella mia carne non c’è nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per il mio peccato
[…] nella mia carne non c’è più nulla di sano (Sal 38,4.8).
• i fianchi
▪ Sono tutti infiammati i miei fianchi (Sal 38,8).
• il ventre
▪ Abbi pietà di me, Signore, sono nell’affanno; per il pianto si consumano i miei occhi, la mia gola e le
mie viscere (Sal 31,10).
Questa rapida carrellata mostra come sia il corpo stesso a fornire una sorta di “topografia”
fisica del dolore, limitata quanto alla diagnostica (di quale malattie si tratta? i sintomi
sono troppo generici) ma assai vivace e personale quanto all’espressione dei sentimenti del
malato: il dolore dunque non rimane inespresso, soffocato, rimosso, non detto, ma può essere
collocato/comunicato all’interno di una relazione, di una comunicazione appunto.
Pure l’espressione della collera e della protesta, anche se in forma violenta, sono comunque
manifestazioni di vitalità, di volontà di reagire, di non resa alla malattia e di richiesta di
aiuto. Questo è un passo importantissimo, perché non condanna il malato abbandonandolo
alla sua solitudine e ad un processo autodistruttivo, ma lo mantiene all’interno di un processo
comunicativo. Non dunque una rabbia, una ribellione consumate esclusivamente dentro
di sé, ma espresse, comunicate, dette ai vicini, e rivolte pure a Dio3.
A volte, poi, nei salmi il dolore fisico più che evidenza di una malattia sono l’espressione
sensibile di qualcos’altro rispetto alla malattia stessa. In fondo è questo l’ostacolo principale
3 Cf. MANICARDI L., L’umano soffrire (Qiqajon 2006) 23.
4
per restringere con esattezza il campo dei salmi di malattia; l’orante che esprime dolore fisico
non sempre è malato, ma si trova in condizione di peccato, di minaccia, di pericolo. Tutto
ciò che minaccia la vita. Per l’uomo biblico la sfera della morte fa irruzione in ogni esperienza
di diminuzione della vita: debolezza, malattia, prigionia, minaccia nemica, privazione
dei diritti, accuse e angoscia.
La ragione profonda del terrore che si manifesta in tutto ciò sta nel fatto che il rapporto con JHWH è
interrotto e distrutto. Se la morte separa definitivamente l’uomo da Dio, gli stati di “morte relativa” sono
le infinite vie dolorose dell’abbandono da parte di Dio (Sal 22,2). La realtà della morte comincia, infatti,
là dove JHWH tace, dove l’uomo da lui abbandonato grida dal profondo (Sal 130,1). Se è vero che, secondo
la concezione moderna, lo stato di morte è fissato a partire dal momento dello spegnimento della
vita fisica, nell’AT si trova invece una concezione incomparabilmente più complessa e anche più profonda,
fondata esclusivamente sul rapporto con JHWH. Che cosa sia la vita e che cosa renda tale la morte è
determinato da JHWH soltanto4.
Infatti, per l’orante, ciò che conta è la comunicazione con Dio, a tenerlo in vita è proprio
la relazione con Lui: «A te grido, Signore, mia roccia, con me non tacere: se tu non mi parli,
sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,1).
2) Giobbe
a) Il dolore di Giobbe
Quando si parla dell’umano soffrire nella Bibbia, spontaneamente si corre col pensiero
alla figura di Giobbe, il quale pur essendo «integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male
» (1,1) vien colpito da una piaga dolorosa (2,7).
Giobbe incarna un iter assai interessante nella tormentata assunzione della malattia. Lui
non accetta passivamente il dolore e ingaggia una battaglia. All’invito di maledire Dio,
Giobbe risponderà piuttosto maledicendo il giorno della sua nascita: «Allora Giobbe aprì la
bocca e maledisse il suo giorno. Prese a dire: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in
cui si disse: “È stato concepito un maschio!”» (3,1).
Fin dal primo momento Giobbe è consapevole che l’unico interlocutore competente sulla
sua situazione è Dio, verso il quale egli continua a mantenersi giusto: «In tutto questo Giobbe
non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto» (1,22); e al quale egli si rivolge:
▪ Se ho peccato, che cosa ho fatto a Te, o custode dell’uomo? Perché mi hai preso a bersaglio e sono diventato
un peso per me? (7,20);
▪ Dirò a Dio: “Non condannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi (10,2);
▪ Quel che sapete voi, lo so anch’io; non sono da meno di voi. Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con
Dio desidero contendere (13,2-3);
b) I visitatori e la loro teodicea
Innanzitutto Giobbe contesta radicalmente le facili frasi consolatorie con cui gli amici in
visita tentano di gestire ed esorcizzare il dramma del dolore. Egli rifiuta l’improvvida teodicea
dei saggi che gli fanno visita: essi sono mossi dai più nobili sentimenti e pongono segni
sinceri di partecipazione al suo dolore:
4 H. J. KRAUS, Teologia dei salmi (Paideia, Brescia 1989) 271.
5
▪ Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno
dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare
a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono
la loro voce e si misero a piangere. Ognuno si stracciò il mantello e lanciò polvere verso il cielo sul
proprio capo. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una
parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore (2,11-13).
Tuttavia subito dopo si trasformano ben presto in visitatori molesti e nemici5:
▪ Voi imbrattate di menzogne, siete tutti medici da nulla. Magari taceste del tutto: sarebbe per voi un atto
di sapienza! (13,4-5);
▪ Giobbe prese a dire: «Ne ho udite già molte di cose simili! Siete tutti consolatori molesti (16,1-2).
Giobbe, infatti, sembra addirittura blasfemo e sacrilego agli occhi dei suoi interlocutori,
Elifaz, infatti, gli dice:
▪ Ma tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio (15,4).
D’altra parte lui stesso aveva rivendicato il diritto di godere della vicinanza affettuosa
degli amici, che deve essere donata anche quando il malato abbia abbandonato la fede. Si
tratta di un’affermazione assai ardita:
▪ A chi è sfinito dal dolore è dovuto l’affetto degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio (6,14).
c) La topografia del dolore (come nei salmi)
▪ Ricoperta di vermi e di croste polverose è la mia carne, raggrinzita è la mia pelle e si dissolve (7,5);
▪ Di notte mi sento trafiggere le ossa e i dolori che mi rodono non mi danno riposo […]. Le mie viscere
ribollono senza posa e giorni d’affanno mi hanno raggiunto. Avanzo con il volto scuro, senza conforto,
nell’assemblea mi alzo per invocare aiuto. La mia pelle annerita si stacca, le mie ossa bruciano per la
febbre (30,17.27-30).
L’importanza capitale del non reprimere rabbia e ribellione:
Il momento dell’espressione della collera e della protesta sono manifestazioni di vitalità, di reazione e
non di resa alla malattia. Allora le lacrime, il pianto, il grido, divengono valvole di sfogo importanti attraverso
cui il malato, esprimendo – anche se non con il linguaggio discorsivo – la propria sofferenza, manifesta
un potere sulla sua malattia. Accogliere il malato anche nella sua ribellione diventa così un fattore essenziale
per i suoi accompagnatori, affinché il malato stesso non si rinchiuda nella prigione dell’isolamento
di chi si ribella contro tutti e contro tutto e neppure resti preda delle spire dell’autodistruzione6.
d) Giobbe contesta Dio ma dialogando con Lui
Giobbe poi rifiuta la logica retributiva, secondo la quale l’arrivo di una malattia era causata
sicuramente da qualche peccato. Lui non rinuncia alla certezza di essere innocente e
consapevole dell’eccesso della sua pena, arriva a contestare coraggiosamente anche la stessa
giustizia di Dio. Tanto che continua a chiederGli conto del suo operato verso di lui.
Le domande di Giobbe danno voce all’angoscia più radicale dell’uomo: quella di scoprirsi un figlio
tradito, imbrogliato da un Dio che gli dà una vita limitata e sofferta, e per di più oscurata dal suo ostile silenzio.
In realtà, le sue domande distruggono i confini di una religione appiattitasi nella concezione della
retribuzione; Giobbe mette in crisi il concetto di giustizia distributiva, mostrando come la ripartizione dei
mali è arbitraria e indiscriminata […]. [Dio] riconosce Giobbe innocente, ma vuole stanarlo da quella logica
ristretta per cui l’innocenza dell’uomo vorrebbe che fosse ricompensata nella salute e nei beni; al
5 I visitatori diventano nemici pure nei salmi: «I miei nemici mi augurano il male: «Quando morirà e perirà il suo nome?
». Chi viene a visitarmi dice il falso, il suo cuore cova cattiveria e, uscito fuori, sparla. Tutti insieme, quelli che mi
odiano contro di me tramano malefìci, hanno per me pensieri maligni: «Lo ha colpito una malattia infernale; dal letto
dove è steso non potrà più rialzarsi» (Sal 41,6-10).
6 MANICARDI L., L’umano soffrire (Qiqajon 2006) 23.
6
contrario, postulerebbe automaticamente la colpevolezza di Dio. Giustizia dell’uomo e giustizia di Dio
non sono pensabili soltanto in termini di alternativa, per cui l’affermazione dell’una comporta necessariamente
la negazione dell’altra7.
I capp. 9-10 e 23-24 sono una sorta di atto di accusa a Dio, nella quale affiorano affermazioni
dalle tinte molto forti, che rasentano quasi la blasfemia o somigliano a caricature deformi
(diaboliche) del volto di Dio:
▪ Per questo io dico che è la stessa cosa: egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide
all’improvviso, della sciagura degli innocenti egli ride (9,22-23)
▪ Dalla città si alza il gemito dei moribondi e l’anima dei feriti grida aiuto, ma Dio non bada a queste suppliche
(24,12);
Ma il problema che attanaglia Giobbe nella sua malattia è il silenzio di Dio. Lui lo cerca
appassionatamente per poter porgli domande brucianti e strapparli una risposta, ma Dio si
sottrae a questa ricerca:
▪ Poiché [Dio] non è uomo come me, al quale io possa replicare: “Presentiamoci alla pari in giudizio” (9,32);
▪ Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico? (13,24);
▪ Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi giungere fin dove risiede! […] Ma se vado a oriente, egli non
c’è, se vado a occidente, non lo sento. A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e
non lo vedo (23,3.8-9);
▪ Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta. Sei diventato crudele con me e con
la forza delle tue mani mi perseguiti (30,20-21).
Solo alla fine del suo percorso, vissuto fino in fondo nell’impari “braccio di ferro” con
Dio, Giobbe può veder confermata la correttezza della sua posizione, a contrario di quella
dei visitatori, condannata da Dio. Solo Giobbe ha detto cose rette su Dio (42,7) e può sentire
con le sue orecchie l’intervento di Dio e
Lamentarsi di Dio con Dio è audacia da vero credente, è un atto di fiducia infinita, anzi è la scommessa
più alta e rischiosa della fede che impegna la santità e l’onore stesso di Dio a intervenire, provocando
una vera ordalia in cui nemmeno l’Onnipotente può a lungo sottrarsi8.
3) Gesù
Si impongo alcune scelte: i brani da porre sotto indagine potrebbero moltiplicarsi a dismisura.
Li raccolgo/riduco attorno a tre capisaldi: Gesù che guarisce i malati (a), Gesù che sperimenta
la sofferenza in prima persona (b), la comunità cristiana nei confronti dei malati (c).
a) Gesù guarisce i malati
Quando Gesù guarisce si interessa della situazione del malato, non lo considera un “caso
clinico”, e dà avvio al percorso di guarigione trattandolo da persona, si informa sulla sua
condizione (Mc 9,21) e interpella la sua collaborazione, chiedendo l’adesione di fede (Mc
9,24). «Non risulta che Gesù abbia mai dato ai malati una spiegazione della loro malattia.
7 MARENCO BOVONE M.R., “Introduzione al libro di Giobbe”, Parole di vita 2(2003), 5.
8 BELLIA G., “La contestazione di Dio”, Parole di vita 2(2003), 27.
7
Per il Vangelo l’incontro con il malato non è, anzitutto, il momento della catechesi, ma della
partecipazione»9.
Addirittura Gesù si lascia talmente coinvolgere nel dialogo che giunge a modificare la
decisione iniziale:
▪ Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse
la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù
le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu
guarita (Mt 15,26-28).
Incontrando i malati, Gesù non predica mai rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma
mai che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio, non chiede mai di offrire la sofferenza a Dio, non
nutre atteggiamenti doloristici: egli sa che non la sofferenza, ma l’amore salva! Gesù cerca sempre di restituire
l’integrità della salute e della vita al malato, lotta contro la malattia, dice di no al male che sfigura
l’uomo. Così Gesù, “medico della carne e dello spirito” (Sacrosantum Concilium, 5), fa delle sue guarigioni
un vero e proprio vangelo in atti, delle profezie del regno10.
Nell’episodio del lebbroso, di cui conosciamo a menadito la condizione infima di reietto
dalla società per il timore del contagio, Gesù esprime il coinvolgimento in modo totale: con
gli affetti (ne ebbe compassione), con la vicinanza fisica/corporea (lo toccò), con la volontà
(lo voglio): «Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se
vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio,
sii purificato!» (Mc 1,40-45):
La guarigione emerge qui nella sua dimensione di evento relazionale. Sua premessa è il sapere che la
reintegrazione del malato nella pienezza di vita è voluta da un altro, dà gioia a un altro; cioè che la sua persona
e la sua vita è preziosa per un altro. Gesù allora prova compassione: si lascia ferire dalla sofferenza del
malato e agisce di conseguenza entrando nella sua situazione. Lo tocca e così non solo rischia il contagio,
ma si contamina e contrae impurità rituale, quella che esclude dalla partecipazione a gesti cultuali: questa
esclusione è il prezzo per andare incontro a un escluso strappandolo alla sua solitudine mortale11.
Il coinvolgimento giunge all’apice, quando, nell’episodio di Lazzaro, Gesù è implicato a
tal punto da mettersi a piangere (Gv 11,35-36): il cuore compassionevole di Gesù arriva al
segno umanissimo della commozione.
Con il dialogo, la vicinanza, l’ascolto, il coinvolgimento in prima persona e la guarigione,
Gesù intraprende un percorso, durante il quale segna le tappe con cui restituisce al malato
una dignità che sembrava essere perduta: è un uomo, un essere vivente, non solo un problema
da affrontare o da rimuovere prima possibile. In questo modo viene superata la solitudine
in cui il malato è relegato, e lo fa sentire ancora parte del consorzio dei vivi, gli fa percepire
chiaramente la sua preziosità: è ancora un essere umano, un uomo vivente, nonostante
la malattia.
S. Ambrogio:
Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è medico;
se bruci dalla febbre, egli è la fonte d’acqua;
9 MAGGIONI B., “Ero malato e mi avete visitato”, in La pazienza del contadino. Note di cristianesimo per questo tempo
(Vita e pensiero, Milano 1997) 202.
10 MANICARDI L., L’umano soffrire (Qiqajon 2006) 114.
11 MANICARDI L., L’umano soffrire (Qiqajon 2006) 119-120.
8
se hai bisogno d’aiuto, egli è la forza;
se temi la morte, egli è la vita12.
b) Gesù sperimenta la sofferenza in prima persona: il Getzemani e la croce
▪ Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre
io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco
più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo
calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E
disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non
entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,36-46).
L’episodio del Getzemani, mostra tutta l’intensità spirituale ed emotiva della sofferenza
di Gesù, che cerca conforto sia nella preghiera, sia nella vicinanza degli amici («vegliate
con me»). Il parallelo sinottico ci aiuta a cogliere sia il conforto di Dio tramite un angelo, sia
la somatizzazione del dolore con l’essudazione di sangue (Lc 22,43-44: «Gli apparve allora
un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo
sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra»). I racconti della passione mostrano
come i discepoli non sono in grado di accompagnare con la loro amicizia il cammino di
Gesù e lo lasciano solo con il suo dolore e la sua angoscia. Ed è precisamente qui che inizia
l’itinerario di morte. Gesù non è morto solo nell’attimo in cui è spirato, perché la morte inizia
a dilagare nel momento in cui è condannato all’isolamento, alla solitudine radicale: lo
abbandonano gli amici: «Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono» (Mc 14,50) e si sente
abbandonato perfino dal Padre «Perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). La solitudine assoluta,
è sperimentata sulla croce. Assieme alla esplicita demolizione di ciò che ha sostenuto
l’intera esistenza di Gesù: l’intima fiducia in Dio: «ha confidato in Dio: lo liberi lui ora se
gli vuole bene» (Mt 27,43). Tutta intera la sua vita, la sua intimità col Padre viene in qualche
modo smentita: vi può essere dolore più lancinante di questo?
Lacerante è il grido sulla croce: «Dio mio perché mi hai abbandonato?».
A chi doveva ancora rivolgersi il Gesù abbandonato e reietto, il Gesù tormentato e schernito? A chi se
non a Dio, al quale si sono sempre rivolti i giusti e alla volontà del quale egli si era arreso nel Getsemani?
Ma, adesso, neppure Dio c’è più per lui! Ora, anche lui lo ha abbandonato. Gesù deve ancora patire anche
questo, che Dio gli si sottragga e si nasconda e si spalanchi attorno a lui il tenebroso vuoto del nessuno e
del nulla. Ora egli attinge il profondo e beve fino alla feccia il calice della passione. Anche Dio
l’abbandona. Egli sperimenta per noi l’abbandono totale. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Ma neppure in questo momento egli abbandona Dio! Proprio adesso, nel momento in cui Dio gli fa
gustare anche questo: l’essere senza Dio, il dover patire senza Dio e il morire, egli si volge a Dio e si tiene
saldo a lui. Prega, non grida nel vuoto, ma a lui, verso di lui! Egli si volge, senza Dio, a Dio! Depone ai
piedi di Dio ogni angoscia, e, ora, anche questa tremenda angoscia del morire senza Dio. “Mio Dio, mio
Dio…”. Proprio così facendo, alla fine, egli diviene per tutti il vincitore del morire abbandonati da Dio e
il vincitore della morte senza Dio – per tutti13.
12 De virginitate, 16,99.
13 SCHLIER H., La passione secondo Matteo (Jaka Book, Milano 1979) 97-98.
9
Questo rilievo è importantissimo: al tempo di Gesù i condannati alla crocifissione morivano
in modo tragico, urlando per l’atrocità della sofferenza e bestemmiando per la disperazione.
Ciò nondimeno, nell’apice del suo dolore, Gesù, invece di rinchiudersi nella disperazione,
si apre nonostante tutto al Padre, lanciando a Lui questo dolorosissimo ultimo appello.
Gesù fa del suo grido una preghiera14. E l’immediato successivo squarcio del velo del
tempio indica che la cortina che separava il Santo dei santi da qualunque altro mortale, impedendo
l’accesso a Dio, è rimossa. Ora la comunione con Dio è garantita: non più nella
mediazione del tempio, ma nella mediazione di Gesù crocifisso: in lui ogni uomo ora può
giungere al Dio inaccessibile.
c) La comunità cristiana nei confronti dei malati
La comunità cristiana continua nel tempo la sollecitudine del suo Maestro nei confronti
dei sofferenti, in particolare mediante tre convinzioni: la cura dei malati, la beatitudine riservata
agli afflitti, la convinzione che Cristo si identifica coi sofferenti.
• La cura dei malati
▪ Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato,
ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono:
nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno
qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno (Mc
16,15-18).
L’andare contro corrente imponendo le mani ai malati e facendoli guarire, significa una vera, individuale
– le mani infatti si impongono uno per uno –, autentica, capillare vicinanza all’uomo con la sua malattia,
sofferenze e difficoltà, accettandolo così com’è, standogli vicino, imponendogli le mani con amore
e con fede perché, non per nostro potere ma unicamente nel nome di Gesù, noi pensiamo di poter aiutare
qualcuno. Il vostro andare contro corrente è la vicinanza all’uomo e a tutte le situazioni umane quotidiane
più misere, più abbandonate; le situazioni della parrocchia e del quartiere alle quali nessuno pensa perché
non hanno etichetta e non hanno colore, bensì grigiore15.
Cf. HÄRING B., Preti di oggi preti per domani. Quale prete per la Chiesa e per il mondo? (Queriniana,
Brescia 1995) 20-23.
• La beatitudine riservata agli afflitti
▪ Beati quelli che sono nel pianto (CEI ‘77: afflitti) perché saranno consolati (Mt 5,4).
La beatitudine promessa non sta nel pianto in sé, quasi lo si debba ricercare per essere
nella gioia. La beatitudine sta tutta nella vicinanza provvidente di Dio, il quale – e Lui solo
–, promette la gioia agli afflitti, gioia beata che consisterà nell’essere consolati non nel permanere
nello stato di afflizione ma nella scomparsa definitiva (escatologica) della cause del
pianto.
14 Luca, pur presentando differenze notevoli, mostra comunque come nella morte di Gesù emerga il tratto del rapporto
con il Padre, non nella forma drammatica dell’abbandono, ma in quella della consegna fiduciosa: «Padre nelle tue mani
consegno il mio spirito» (22,46).
15 MARTINI C.M., Liberi di credere. I giovani verso una fede consapevole (Ed. In dialogo, 2009) 156.
10
Il lutto significa un esporsi a quei dolori ed un accettare quelle sofferenze che provocano la morte – ed
il suo ambito – ed il peccato nelle persone che si impegnano in legami stretti e profondi con gli uomini e
con Dio; esso vuol dire accettare e vivere quella vulnerabilità che è una forma della nostra povertà, non
tentare un falso superamento di quest’ultima mediante una chiusura egoistica ed una vita di lusso, ma attendere
da Dio il superamento della detta povertà […]. La seconda beatitudine parla al futuro e presenta,
inoltre, un’azione più specifica di Dio, che, però, fa parte, del suo dominio regale escatologico. Dio consolatore
farà sparire le cause del lutto. Egli mediante la sua presenza manifesta ed il dono della comunione
personale, abolirà la “valle di lacrime” e creerà la nuova città della gioia: «Ecco la dimora di Dio con
gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro". E tergerà
ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di
prima sono passate» (Ap 21,3-4)16.
• Cristo si identifica coi sofferenti
▪ “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero
straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti
a trovarmi” (Mt 25,36).
Gesù afferma una identificazione con i bisognosi. Lui il Risorto, Signore glorioso, si
identifica con chi nella storia soffre. Una immedesimazione così forte non è presente in nessun
altro passo evangelico. Tale rapporto si fonda sulla continuità: Gesù ha sofferto, vivendo
sulla sua pelle rifiuto e dolore, così i sofferenti sono i primi con cui egli si identifica. Nel
momento della parusia, della venuta gloriosa, esplicita di Cristo alla fine della storia, verrà
svelata la venuta umile già accaduta nella storia: la parusia nascosta è in essere in tutti coloro
che soffrono. Al cristiano non tanto il compito di scorgerla, di scoprire la presenza del
Cristo, quanto piuttosto di servirla. Sarà rivelata solo alla fine.
4) Paolo
Di Paolo rammentiamo solo una frase, che forse può aver dato adito a qualche fraintendimento.
Si tratta di Col 1,24.
CEI ’77: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo (avntanaplhrw/)
nella mia carne quello che manca (ta. u`sterh,mata) ai patimenti di Cristo,
a favore del suo corpo che è la Chiesa».
Il problema nasce quando giustamente ci si interroga: manca ancora qualcosa alla passione
di Cristo? Posso io completare la passione di Cristo? Fortunatamente basta seguire la
scansione dei lessemi, rispettandone l’ordine nel testo originario. Ed è quello che ha fatto la
nuova traduzione.
CEI ’08: «Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che,
dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa».
Ciò che manca dunque non riguarda i patimenti di Cristo, ma quello che manca nella carne
di Paolo.
16 STOCK K., Discorso della Montagna. Le beatitudini (Ed. Pontificio Istituto Biblico, Roma 1997) 55-56.
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Le afflizioni (sofferenze) di Cristo sono ormai finite: Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia
totale e attuale del Cristo glorificato, al quale non manca niente, per poterla dimenticare; non
dice che Cristo non abbia compiuto tutto ciò che doveva compiere, né che non abbia sofferto abbastanza,
perché l’apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la chiesa: perché allora, la mediazione
del Cristo non sarebbe perfetta, mentre la lettera non smette di dire il contrario. Ciò che manca,
ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama «tribolazioni del Cristo nella
mia carne», e che riproduce quello del Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire mediante/per
l’annuncio del vangelo e per la chiesa […]. L’apostolo non intende dire che egli aggiunga qualcosa
all’opera mediatrice e salvifica del Cristo […]. Ma egli soffre per il bene della chiesa, per la sua saldezza,
la sua costanza, la sua crescita nella conoscenza dei tesori resi manifesti da Dio in suo Figlio […]. Non è
dunque per masochismo che Paolo si rallegra di soffrire, ma perché quello ch’egli sopporta giova alla
chiesa, e le thlipseis sono un combattimento necessario perché tutti i gentili (ogni uomo) possano intendere
il vangelo, credervi e divenire perfetti in Cristo17.
Conclusione
Dalla rapida indagine che abbiamo condotto, anche se in forma rapsodica e del tutto asistematica,
una categoria fra le altre potrebbe proporsi come approccio fecondo al tema
dell’umano soffrire, così com’è testimoniato nelle Scritture. Tale chiave di lettura unitaria
potrebbe essere proprio la dimensione dell’appello, perché solitamente dalle situazioni di afflizione
sorge una domanda, un’interpellanza (che, tra l’altro, accomuna credenti e non credenti).
Il dolore è un luogo dove si affacciano prepotentemente tante domande (magari fino
a quel momento del tutto latenti): perché? che senso ha? perché Dio lo ha permesso? aiutami!
non lasciarmi solo! L’umano soffrire, dunque, chiede di potersi esprimere e lo fa soprattutto
in forme raccoglibili tutte sotto la categoria – non è l’unica, ovvio – dell’appello, come
invocazione di aiuto e di senso, rivolta ad un altro uomo o a Dio stesso.
Ne emerge una struttura dialogica nel binomio soffrire/ascoltare: persona sofferente/
persona la che ascolta. Se collocata in prospettiva di fede: l’uomo che soffre vuole porre il
suo interrogativo direttamente a Dio, che talora diviene l’unico interlocutore autorevole.
Resta un ulteriore quesito: tale appello trova risposta? Questa domanda sembra in qualche
modo uscire dal testo biblico stesso. Infatti, rispondere frettolosamente che Cristo morto
e risorto costituisce la risposta, non risolve interamente la questione. Perché? Perché questa
dimensione appellante non cerca una risposta discorsiva, argomentativa, una spiegazione.
Invoca piuttosto una compagnia, una relazione. Compagnia che ogni singola esistenza credente
dovrà appassionatamente ricercare, e che la comunità cristiana non si stancherà di donare.
Dice Lévinas:
Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l’appello all’altro,
l’invocazione all’altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che
inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all’altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore
dell’altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre
la sofferenza dell’altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità18.
Dice S. Agostino: «Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore
divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non de-
17 ALETTI J.-N., Lettera ai Colossesi. Introduzione, versione, commento (Scritti delle origini cristiane 12; Dehoniane
Bologna, 1994) 121-122.
18 LÉVINAS E., “Une étique de la souffrance”, in Souffrances. Corps et âme, épreuves partagées, a cura di J.-M. von
Kaenel (Autrement, Paris 1994) 133-135.
12
riva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella
carità degli altri»19.
19 Lettere,

http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/s2magazine/AllegatiTools/222/Martin_Umano%20soffrire.pdf

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