DON ANTONIO

martedì 6 settembre 2011

Verona 2006: è l'ora dei laici.Bartolomeo Sorge S.I.

«Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo». È il tema del IV Convegno ecclesiale nazionale, che si terrà a Verona dal 16 al 20 ottobre 20061. L'evento si annunzia importante anche perché è la prima volta che tutta la Chiesa italiana si riunisce in assemblea con Benedetto XVI, dopo il lungo pontificato di Papa Wojtyla. Segnerà l'inizio di una nuova stagione? Lo auspichiamo.
Scopo del Convegno ecclesiale è «chiamare i cattolici italiani a testimoniare, con uno stile credibile di vita, Cristo Risorto come la novità capace di rispondere alle attese e alle speranze più profonde degli uomini d'oggi»2. Tutta la Chiesa italiana è chiamata a impegnarsi. Tuttavia, oggi più che mai emerge il compito specifico dei fedeli laici. Nessun altro potrebbe sostituirli: «moltissimi uomini non possono né ascoltare il Vangelo né conoscere Cristo se non per mezzo dei laici, che siano loro vicini»3. Ciò spiega perché il Convegno di Verona, fin dalla convocazione, ha messo al primo posto il problema dei fedeli laici: «Le comunità cristiane dovranno essere attente a coltivare cristiani adulti, consapevoli e responsabili, capaci di dedizione e di fedeltà. Ce n'è urgente bisogno»4.
Per contribuire alla riflessione comune, è utile anzitutto richiamare brevemente il contesto sociale ed ecclesiale in cui si colloca il IV Convegno ecclesiale e insistere poi sulla necessità di riscoprire l'autenticità e la purezza originarie della testimonianza cristiana5.

1. Il contesto sociale
La nostra società oggi è disorientata, sembra avere smarrito il senso della storia e il sapore della esistenza. Come restituirle speranza e gusto di vivere? È l'interrogativo da cui parte il Convegno nazionale ecclesiale di Verona 2006.
La diagnosi è ormai largamente condivisa. «Siamo oggi di fronte a eventi e fenomeni spettacolari e inquietanti, destinati a segnare fortemente il futuro. Non è facile poter dire se le coordinate culturali che hanno plasmato l'epoca moderna siano ancora del tutto attuali o se, al contrario, siamo all'alba non solo di un nuovo secolo, ma anche di una nuova società, di nuovi modi di pensare, di giudicare, di orientare, di organizzare l'esistenza. La tecnologia e la scienza, l'economia e la politica stanno ridisegnando i confini tradizionali del sapere e della convivenza, in un crogiuolo di culture che postulano nuove sintesi. Nuovi popoli e nuovi poteri sembrano spostare il baricentro dell'ordine mondiale verso direzioni difficilmente decifrabili. Scienze e tecnologie aprono scenari impensabili e frontiere sconosciute al nostro rapporto con il corpo, con gli altri e con il mondo»6. Insomma, il clima culturale e quello sociale oggi sono in gran parte inediti e incerti.
La conseguenza è che l'uomo contemporaneo, fino a ieri sicuro della propria identità e fiducioso di potersi liberare da solo e di raggiungere la felicità con le proprie forze, si accorge invece che la scienza, la tecnica e il progresso gli consentono sì di «avere» tutto, ma non bastano a farlo «essere» di più: «il dominante "sentimento di fluidità" è causa di disorientamento, incertezza, stanchezza e talvolta persino di smarrimento e disperazione»7 e giunge a mettere in discussione anche il senso della vita e la propria identità. Benedetto XVI ha sempre visto nel relativismo «il problema più grande della nostra epoca»8. Senza certezze e senza speranza non si può vivere.
Qual è la causa principale di una crisi tanto profonda? «Alla radice dello smarrimento della speranza - risponde Giovanni Paolo II, riferendosi soprattutto al contesto europeo - sta il tentativo di far prevalere un'antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l'uomo come il "centro assoluto della realtà", facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l'uomo che fa Dio ma Dio che fa l'uomo»9.
Tuttavia, la gravità della crisi non giustifica il pessimismo. Perciò il Papa, mentre denuncia con chiarezza gli errori, nello stesso tempo coglie importanti segni di speranza nella evoluzione del Vecchio Continente: «la crescente apertura dei popoli, gli uni verso gli altri, la riconciliazione tra nazioni per lungo tempo ostili e nemiche [...]. Riconoscimenti, collaborazioni e scambi di ogni ordine. [...] ciò che è stato fatto per precisare le condizioni e le modalità del rispetto dei diritti umani. [...] mentre registriamo i segni della speranza offerti dalla considerazione data al diritto e alla qualità della vita, ci auguriamo vivamente che [...] sia garantito il primato dei valori etici e spirituali»10. Il XXI secolo, insomma, con i suoi stridenti contrasti offre alla Chiesa e ai cristiani un'occasione propizia per riproporre la «speranza» che «non delude» (Romani 5, 5). In questo contesto socio-culturale contraddittorio si situa, dunque, il Convegno di Verona.

2. Il contesto ecclesiale
Che dire del contesto ecclesiale attuale? Karol Wojtyla, divenuto papa nel 1978, portava con sé una sensibilità distinta da quella di Paolo VI. Secondo il grande papa polacco, la Chiesa e le nazioni che, come l'Italia, hanno ricevuto da essa l'annuncio cristiano sono destinate a rimanere strettamente unite tra loro da un nesso non solo spirituale, ma anche sociale11. Questa concezione del rapporto tra Chiesa e nazione spiega l'orientamento nuovo che Giovanni Paolo II ha impresso al cammino della comunità ecclesiale italiana, intesa come «forza sociale» e, in certo senso, garante e responsabile dello spirito nazionale.
All'inizio anche i vescovi fecero fatica ad accettare questa ottica diversa. Nel postconcilio, infatti, la Chiesa italiana era arrivata, non senza qualche difficoltà, ad accettare la «scelta religiosa» di Paolo VI12; ora era spinta da Giovanni Paolo II ad accettare l'idea di una Chiesa «forza sociale», mettendo in qualche modo in discussione la chiara distinzione, cara a Papa Montini (e al Concilio), tra il piano pastorale proprio della Chiesa gerarchica e quello socio-politico proprio dei fedeli laici. Si trattava di spostare l'accento dalla «cultura della mediazione», tipicamente montiniana, alla «cultura della presenza», tipicamente wojtyliana.
Un primo segno che il clima ecclesiale stava cambiando si ebbe quando il documento del Consiglio Permanente della CEI: La Chiesa italiana e le prospettive del Paese (1981), l'ultimo di chiara impostazione montiniana, nonostante l'accoglienza favorevole, di fatto fu lasciato cadere13. Tuttavia, la svolta vera e propria si ebbe al Convegno di Loreto (1985), dove Giovanni Paolo II, che già durante la preparazione aveva esortato i vescovi a intervenire in modo più deciso, insisté apertamente sul ruolo pubblico della Chiesa e sull'unità politica dei cattolici: «la Chiesa - disse - è chiamata a operare [...] affinché la fede cristiana abbia, o ricuperi, un ruolo-guida e un'efficacia trainante [...]. Non si appiattisca la verità cristiana, e non si nascondano le differenze, finendo in ambigui compromessi [...]: non temete il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia»; nonostante le tensioni esistenti tra i cattolici - concludeva il Papa - doveva prevalere «la tendenza verso un impegno [anche politico] che, nella libera maturazione delle coscienze cristiane, non poteva non manifestarsi unitario»14. Da questa linea (nonostante alcune importanti puntualizzazioni fatte dal Papa) non si discostò sostanzialmente neppure il Convegno di Palermo (1995), sebbene la DC fosse già scomparsa da due anni15. Quale sarà ora il messaggio di Benedetto XVI a Verona? Riuscirà la Chiesa italiana a fare sintesi tra «mediazione» e «presenza», tra Paolo VI e Giovanni Paolo II? Il tema stesso di Verona sembra suggerirlo usando il termine «testimonianza», che dice insieme presenza e mediazione.
La difficoltà maggiore proviene dal fatto che gli stessi cristiani sono tentati dalla sfiducia. Si lamentano che i loro concittadini sono indifferenti verso il cristianesimo; ma quanti sono oggi in Italia - chiediamo - i cristiani convinti e ferventi? «La comunità cristiana, a volte, appare disorientata di fronte a questo mutato scenario storico»16: le forze vengono meno, i problemi da affrontare appaiono montagne invalicabili; dopo la stagione della «cristianità» - gli «anni della onnipotenza» -, la Chiesa italiana si scopre in minoranza, impotente e disarmata.
Occorre, perciò, che i credenti per primi ricuperino fiducia. Il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo insegna che la forza della Chiesa sta - paradossalmente - nella sua debolezza, non nei soldi, nei privilegi o nei concordati; le sue armi sono la Parola di Dio, la santità dei suoi figli, la povertà e il servizio dei poveri. La storia dimostra che ogni qual volta la Chiesa finisce col mettere la propria fiducia nella potenza terrena, lo Spirito che la guida la purifica, la rende povera e umile, la riporta alla purezza e alla autenticità delle origini. Nello stesso tempo, ogni qual volta la Chiesa si ritrova umiliata e osteggiata, si è alla vigilia di una nuova primavera cristiana: «così avverrà oggi se ci lasceremo permeare dalla forza del Vangelo nell'affrontare la crisi attuale»17.
In questo contesto sociale ed ecclesiale, non del tutto sereno e pacificato, si terranno i lavori del IV Convegno ecclesiale nazionale.

3. Riscoprire l'autenticità e la trasparenza originarie della testimonianza cristiana
Poiché la «testimonianza» cristiana è insieme «presenza» e «mediazione», se si vuole testimoniare al mondo Gesù risorto, occorre riscoprire la autenticità e la trasparenza originarie che Cristo stesso chiede alla presenza e all'azione dei cristiani, paragonandoli al «sale della terra», alla «città posta sul monte» e alla «luce del mondo». Che cosa significa ciò nel contesto sociale ed ecclesiale dell'Italia di oggi?
Certamente, le parole del Vangelo rimangono sempre le stesse e valgono dappertutto. Tuttavia il procedere della storia presenta situazioni nuove che, se da una parte richiedono di essere interpretate alla luce della Parola di Dio, dall'altra ne consentono una comprensione più profonda e una espressione più incisiva in termini nuovi, riportando la testimonianza della fede alla autenticità e alla purezza originarie e liberandola dalle incrostazioni. Questo, appunto, dovrebbe essere il frutto principale delle giornate di Verona: ridire in termini nuovi la testimonianza del Risorto nella società italiana di oggi, riscoprendo il senso evangelico della «identità», della «visibilità» e della «laicità» dei cristiani, dopo averle liberate da tutte le incrostazioni e restituendole alla purezza e allo splendore originari.
a) Significato evangelico della «identità» cristiana
Un discorso serio sulla testimonianza del Risorto nella società del nostro tempo deve iniziare col riscoprire il senso autentico della identità cristiana, primo elemento essenziale di ogni testimonianza evangelica: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale diventa insipido, con che cosa si dovrà dare sapore ai cibi? A null'altro sarà più buono, se non a essere gettato via e calpestato dalla gente» (Matteo 5, 13). Che cosa significano oggi queste parole di Cristo per la Chiesa italiana?
In primo luogo, esse avvertono che, per portare la speranza del Risorto alla società delusa dei nostri giorni, occorre cominciare da se stessi: «Se non abbiamo fatto abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma perché non lo siamo abbastanza»18. Prima di lamentarsi che la società è lontana dal Vangelo e cresce il numero degli abbandoni, occorre chiedersi se ciò non dipenda anche dalla incoerenza dei cristiani, dal fatto cioè che, mentre a parole si proclamano credenti, poi per primi vivono «come se Dio non ci fosse». Quante volte sono proprio i cristiani con i loro comportamenti ambigui a rendere opaca e non credibile la testimonianza della fede! Sarebbe bene, perciò, che a Verona si cominciasse con un umile e coraggioso «esame di coscienza» per riconoscere le responsabilità, paure e lentezze, che appannano e incrostano la identità cristiana.
Ma come mantenere il sapore del sale evangelico mentre ci si deve «impastare» nella cultura e nelle sfide del tempo per salarle dall'interno? Come essere cristiani autentici, senza cedere alle opposte tentazioni dell'integrismo e del relativismo?
Occorre tenere fermi i due aspetti qualificanti dell'identità cristiana. Il primo - ad intra - sta nella comunione di vita con Cristo, nella identificazione con lui nostra speranza: «Cristo in voi» è la «speranza della gloria» (Colossesi 1, 27). «A Verona - sottolinea Benedetto XVI - occorrerà dunque concentrarsi anzitutto su Cristo e pertanto sulla missione prioritaria della Chiesa di vivere alla sua presenza e di rendere il più possibile visibile a tutti questa medesima presenza»19. Il secondo - ad extra - è strettamente congiunto al primo, abbraccia la vita quotidiana, privata e pubblica e consiste nell'amore fraterno. «Il discepolo di Gesù, attraverso lo Spirito, dà alla propria vita la forma "filiale" di Gesù e assume i lineamenti stessi del Figlio. È lo Spirito che ci rende liberi: liberi e capaci di discernere e trasformare la nostra esistenza, aprendola alla fraternità»20.
Dunque, il fatto che la speranza cristiana sia di natura religiosa e trascendente non significa affatto che sia disincarnata. La salvezza promessa da Dio in Cristo risorto comincia a realizzarsi all'interno delle vicende umane: il dono di Dio «deve essere pazientemente condotto nel corso della storia, per essere pienamente realizzato nel giorno della venuta definitiva del Cristo»21. Questa consapevolezza è necessaria per intendere rettamente l'identità cristiana e liberarla dalle incrostazioni: «il contatto vivo con Cristo è l'aiuto decisivo per restare sulla retta via: né cadere in una superbia che disprezza l'uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedirebbe di lasciarsi guidare dall'amore e così servire l'uomo»22.
La speranza in Gesù risorto, dunque, non solo non induce a fuggire dall'impegno storico concreto, ma spinge all'azione; non è un oppio che addormenta, ma una forza che impone «il dovere di annunziare la liberazione di milioni di esseri umani [...]; il dovere di aiutare questa liberazione a nascere, di testimoniare per essa, di fare sì che sia totale»23. I cristiani sarebbero ipocriti, se nascondessero la speranza che li anima e della quale devono sempre essere pronti a rendere ragione.
Nello stesso tempo, però, la fede cristiana non può essere ridotta a mero impegno civile, come vorrebbero certi «atei devoti» dei nostri giorni. San Paolo stesso ammonisce severamente: «Se abbiamo avuto speranza in Cristo solamente in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (1 Corinzi 15, 19). Infatti, la speranza in Cristo risorto suppone innanzi tutto la liberazione dal peccato, che è il male radicale dell'uomo separato da Dio. Solo di conseguenza, e come momento integrante della conversione interiore, la speranza cristiana si traduce in contributo determinante alla costruzione della città dell'uomo e al raggiungimento del bene comune. Un compito, questo, che i cristiani sono chiamati ad affrontare insieme con tutti i loro concittadini, senza pretendere di imporre né la propria fede religiosa, né un'etica confessionale.
Il cristiano perciò, impegnandosi nella costruzione della casa comune, affronterà i rischi e compirà le scelte, condividendo insieme con tutti gli altri le incertezze della ricerca, compresa anche la possibilità di sbagliare. Ciononostante egli si sforzerà sempre di mantenere sia uno stile proprio e coerente, sia la tensione verso la civiltà dell'amore, da costruire sul rispetto della dignità della persona umana e dei suoi diritti inalienabili, sulla solidarietà, sulla difesa e promozione della legalità, della giustizia e della pace. Tutto ciò nella osservanza delle regole democratiche, della laicità e del pluralismo, sapendo che non tradirà la propria identità se, in circostanze particolari, dovrà accettare sul piano legislativo un male minore per evitarne uno maggiore, e sottostare alla necessaria gradualità nel perseguire la traduzione in termini politici di valori in sé non negoziabili. Nello stesso tempo, però, il cristiano non nasconderà mai la sua identità e continuerà a combattere la battaglia in favore dei valori irrinunciabili in cui crede, proponendosi di perseguire il maggior bene possibile e usando a questo fine tutti gli strumenti democratici disponibili.
La riscoperta della propria identità, insieme coerente e responsabile, consentirà al cristiano di dialogare lealmente con gli appartenenti a culture e a religioni diverse. Se è vero che il Vangelo non si può imporre a nessuno, è anche vero che «non dobbiamo avere paura che possa costituire offesa all'altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore [...] che abbiamo il dovere di annunciare»24. Questa riscoperta di una identità cristiana autentica oggi è necessaria e urgente più che mai, affinché la testimonianza del Risorto sia sintesi matura di presenza e di mediazione.
b) Alla ricerca di una «visibilità» rinnovata
La riscoperta di una identità cristiana autentica è strettamente collegata a quella di una visibilità rinnovata del cristiano nel mondo d'oggi: «Una città posta su un monte non può restare nascosta» (Matteo 5, 14). La fede non può rimanere confinata nella sfera privata della propria coscienza. Ecco perché anche la visibilità dei cristiani va liberata da tutte le incrostazioni e restituita alla purezza originaria.
In primo luogo, deve essere chiaro - puntualizzano i vescovi italiani - che l'identità (e la visibilità) del cristiano, «a scanso di equivoci, non coincide con i programmi di azione culturale o sociale o politica che i cristiani, singoli o associati, perseguono. Si fonda invece sulla fede e sulla morale cristiana, con il loro preciso richiamo all'insegnamento in campo sociale; si vive nella comunione ecclesiale e si confronta fedelmente con la Parola di Dio letta nella Chiesa»25. Il cristiano, cioè, non impone ad altri la concezione di vita di cui è portatore, sebbene abbia il diritto-dovere, come cittadino, di presentare programmi coerenti, senza pretendere però che essi coincidano con la «identità cristiana».
In secondo luogo, visibilità non è sinonimo di sovraesposizione mediatica, né di manifestazioni pubbliche di potenza. La visibilità del cristiano sta soprattutto nel testimoniare in tutti gli ambiti della vita quotidiana la speranza in Cristo risorto con la parola e con la vita26. Infatti, «la speranza, oggi come ieri, si comunica attraverso un "racconto", nel quale il testimone dice come si è lasciato plasmare dall'incontro con il Risorto, come questo incontro riempie la sua vita e come, giorno dopo giorno, si diventa credente cristiano (christifidelis)»27.
In terzo luogo, la visibilità del cristiano non si può nemmeno ridurre alla sola testimonianza personale. È necessario che i cristiani si rendano visibili anzitutto come comunità di fede («città posta su un monte»), assidui nella preghiera, nell'ascolto e nell'annuncio della Parola di Dio, nello spezzare il pane eucaristico, nell'unione fraterna. La testimonianza pubblica di comunione, di unità nella diversità, è fondamentale per rendere visibile e credibile il mistero cristiano in un mondo come il nostro, lacerato e profondamente segnato dall'egoismo e dall'individualismo.
D'altra parte, proprio perché il mondo è cambiato, per restituire alla visibilità il significato originario di testimonianza del Risorto speranza del mondo, occorre andare per strade nuove se si vuol raggiungere il cuore dei contemporanei. In particolare, la strada obbligata attraverso cui oggi la speranza cristiana dovrà rendersi visibile è il «dialogo» (oltre a quella insostituibile della testimonianza della vita). Paolo VI lo ha detto in forma molto incisiva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio»28.
Dialogare con il mondo significa oggi soprattutto tradurre in termini laici le ragioni dell'antropologia ispirata ai valori evangelici, così da renderle comprensibili e accettabili agli uomini di buona volontà, anche non credenti o diversamente credenti: ecco perché «una più condivisa identità cristiana è la base anche per il dialogo con i credenti di altre religioni e con gli uomini di buona volontà»29. Non è solo questione di metodo. La categoria del dialogo è centrale nella stessa rivelazione cristiana e quindi nella evangelizzazione: «La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con l'umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel vangelo. [...] Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio [...], per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d'instaurare e di promuovere con l'umanità»30.
Ora, riscoprire il dialogo come forma della visibilità cristiana significa riscoprire il ruolo insostituibile dei fedeli laici. È loro compito specifico, infatti, illuminare dall'interno le realtà temporali, non solo attraverso la testimonianza della vita personale e comunitaria, ma soprattutto attraverso la partecipazione e il dialogo. Presenza e mediazione. Occorre, cioè, che i laici cristiani si accostino a tutte le culture (e alle altre religioni) con l'atteggiamento rispettoso di chi è cosciente che non ha solo qualcosa da dire e da dare, ma anche qualcosa da ascoltare e da ricevere: «La società in cui viviamo va compresa nei suoi dinamismi e nei suoi meccanismi, così come la cultura va compresa nei suoi modelli di pensiero e di comportamento, prestando anche attenzione al modo in cui vengono prodotti e modificati. Se ciò venisse sottovalutato o perfino ignorato, la testimonianza cristiana correrebbe il rischio di condannarsi a un'inefficacia pratica»31.
Ecco perché la visibilità della Chiesa è universale come universale è il dialogo: «La vita cristiana non può restare rinchiusa nell'orizzonte di una cultura e di istituzioni definite»32. Il cristianesimo non si può identificare con una determinata cultura, neppure con quella occidentale. I cristiani, perciò, sono chiamati a confrontarsi (ed eventualmente anche a scontrarsi) con tutte le culture, non escluso il «pensiero unico» oggi dominante, chiuso all'altro e all'Assoluto, che esalta l'individualismo e il soggettivismo e antepone l'interesse particolare al bene comune.
Qui si pone la questione della visibilità (e del dialogo) dei fedeli laici sul piano sociale e politico. È un problema particolarmente avvertito in Italia, non ancora affrontato e risolto in modo soddisfacente. Quale visibilità conservare, con chi dialogare politicamente, affinché non diventi insignificante il contributo del cattolicesimo democratico, di cui l'Italia ha bisogno? Non ha senso rimpiangere i tempi che furono, quando nel Paese i cristiani erano maggioranza anche politica. D'altra parte, essere minoranza non significa affatto essere marginali, se è vero che la testimonianza e il servizio cristiano, più che sulla quantità e sul numero, poggiano sulla qualità e sulla esperienza dello Spirito e della sua forza. A questo punto, però, il discorso sul dialogo e sulla visibilità si intreccia necessariamente con il discorso sulla laicità.
c) Una «laicità» autentica
Il terzo elemento essenziale della testimonianza cristiana che oggi occorre riscoprire nella sua purezza originaria è indicato da Cristo nel Discorso della montagna con la similitudine della luce: «Voi siete la luce del mondo [...]. Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio; la si pone invece sul candelabro affinché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Matteo 5, 15). Oltre al primo e ovvio compito che la luce ha di orientare chi cammina, è possibile scorgerne un altro. Come la luce non si sostituisce agli oggetti che illumina, ma ne rispetta la identità, le forme, la consistenza, rendendoli visibili ciascuno con il proprio colore e con le proprie caratteristiche, così la fede, illuminando la storia e le realtà temporali (tra cui la politica, l'economia, la cultura, le scienze), non si sostituisce a esse, ma ne rispetta l'autonomia, le finalità, le regole e gli strumenti propri che non sono di natura «confessionale», ma «laici», secondo il disegno stesso di Dio creatore. La laicità, dunque, è un valore cristiano, fondato sulla teologia delle realtà terrestri, e il cristiano è tenuto a rispettarne sia le diversità, sia la autonomia.
La ricaduta pratica di questi principi sulla vita interna della comunità cristiana e sui rapporti esterni di questa con le istituzioni pubbliche non è ancora del tutto scontata, nonostante i chiarimenti del Concilio Vaticano II. Per quanto concerne la vita interna, il fatto che la struttura della Chiesa, come Cristo la ha voluta, comporti una distinzione di grado e di funzione tra Gerarchia e laici «non significa che nella Chiesa vi sia una zona riservata all'opera dei pastori e una riservata all'opera dei laici»: la missione è unica. Essa si attua nella comunione ecclesiale sotto la guida del vescovo, con compiti diversi ma complementari tra pastori e fedeli laici; tanto è vero che «pure l'azione pastorale nell'ambito secolare è altrettanto condivisa fra tutti i membri della Chiesa, anche se questa è ambito peculiare dei laici»33. Quello di cui oggi c'è bisogno, dunque, è soprattutto la rivalutazione della missione dei laici nella vita stessa della Chiesa. Senza un laicato maturo non è possibile una testimonianza esemplare della comunità cristiana.
Per quanto concerne, poi, i rapporti della comunità cristiana con la società civile e lo Stato, è necessario che sia i vescovi, sia i fedeli laici acquistino una coscienza matura del valore cristiano della laicità. Concretamente, non tocca ai vescovi mediare i valori cristiani in scelte operative o legislative: «Quando i pastori, mossi dai principi del Vangelo, intervengono nella società con la predicazione e la parola senza avanzare il diritto di dettare un'etica pubblica per tutti i cittadini, essi chiedono di essere ascoltati, consigliano, mettono in guardia, ma non pretendono che la legge evangelica sia tradotta in legge vincolante per tutti, se non quando la coscienza di tutti è concorde nel richiederlo: la Chiesa accetta pacificamente di entrare nell'azione e nell'agorà con le proprie proposte, fa valere democraticamente le proprie posizioni, ne mette in luce le positività anche a livello antropologico e sociale, ma non pretende di essere l'unico criterio etico fondante la convivenza civile»34. Certo, i vescovi possono e devono giudicare della conformità o meno dei programmi e delle leggi con il Vangelo e con la dottrina della Chiesa, ma spetta ai fedeli laici compiere responsabilmente e con coscienza illuminata le necessarie mediazioni di natura tecnica, sociale, politica ed economica. Lo ha chiarito, a suo tempo, il Concilio Vaticano II: «Bisogna che i laici assumano l'instaurazione dell'ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operino direttamente e in modo concreto»35. Lo ha ribadito, ai nostri giorni, Benedetto XVI: «Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica. [...] Missione dei fedeli laici è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la propria responsabilità»36. È l'ora dei laici.
Su questo punto la Chiesa italiana è ancora in ritardo. La questione della presenza politica dei cristiani è stata praticamente rimossa dopo la fine dell'unità nella DC: la diaspora che ne è seguita non ha consentito ancora di trovare il modo di mediare «laicamente» i valori cristiani nella cultura e nella società secolarizzata e pluralistica di oggi. Risolvere questo problema non spetta esclusivamente ai fedeli laici, ma esso va affrontato insieme dalla comunità cristiana. Purtroppo non c'è ancora uno spazio adeguato per farlo. Non si chiede certo di creare uno spazio «politico», che non avrebbe senso neppure ipotizzare all'interno della Chiesa; d'altra parte non possono servire a questo scopo i «Consigli pastorali», già esistenti ma con finalità diverse. È necessario invece che nella Chiesa italiana (a livello nazionale e locale) si crei un luogo, nel quale pastori e fedeli laici si incontrino, si ascoltino gli uni gli altri, discutano dei gravi problemi soprattutto di etica pubblica, imparando a tradurre gli insegnamenti evangelici e del Magistero in termini antropologici «laici», cioè comprensibili e accettabili da tutti i cittadini, mostrando così che la dottrina sociale della Chiesa offre un servizio alla libertà, alla dignità dell'uomo e alla qualità della vita nella società. Il timore di possibili incomprensioni e difficoltà non può impedire l'esercizio ecclesiale del discernimento. Perché, per esempio, non ripensare a fondo il «progetto culturale» proposto al Convegno di Palermo, trasformandolo in «scuola di discernimento spirituale e culturale»? Toccherà poi ai fedeli laici, debitamente formati, decidere liberamente e responsabilmente come rendersi visibili, se e come organizzarsi nella vita sociale e politica in coerenza con la dottrina sociale della Chiesa, nel rispetto della laicità, delle regole democratiche e del pluralismo.

Sono questi alcuni temi di fondo con i quali la Chiesa italiana non potrà non confrontarsi nel Convegno di Verona. Per rispondere alle sfide di oggi e per comunicare la speranza alle donne e agli uomini del nostro tempo, bisogna dunque riscoprire l'autenticità e la purezza originarie della testimonianza cristiana, come sintesi tra presenza e mediazione. È il modo migliore di rispondere al comando con il quale il Signore conclude nel Discorso della montagna: «così risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5, 16).

http://www.aggiornamentisociali.it/0609sorge.html

Nessun commento:

Posta un commento