DON ANTONIO

mercoledì 28 settembre 2011

Il male e il senso del peccato nella attuale cultura dell’innocenza. Documento tratto dal sito del Santuario di Collevalenza

Giannino Piana

Qui si vogliono soltanto offrire alcuni spunti di riflessione sul tema del peccato, che
consentano di inquadrare correttamente il discorso, che ha per oggetto l’annuncio
dell’amore misericordioso di Dio all’uomo del nostro tempo. Credo sia importante
sottolineare, fin dall’inizio, il legame profondo che unisce tra loro peccato e perdono. La
percezione del peccato e della sua gravità diventa possibile solo nell’orizzonte della presa
di coscienza dell’amore di Dio come amore misericordioso e perdonante. E, d’altra parte, il
perdono di Dio può essere colto, nella pienezza dei suoi connotati, solo facendo
riferimento alla condizione di peccato in cui l’uomo vive, mettendo, in altri termini, l’accento
sullo stato di contrapposizione e di inimicizia in cui spesso si trova. Peccato e perdono pur
essendo realtà di segno opposto -si illuminano dunque, reciprocamente, sono i due
poli attorno ai quali ruota l’intera storia della salvezza.
E’ questa -penso -la ragione per cui è opportuno partire dalla considerazione del
tema del peccato, non per arrestarsi ad esso, ma per penetrare più profondamente nel
grande mistero della misericordia di Dio e farne emergere le dimensioni più nascoste e più
insospettate.
La proposta, che cercherò di fare, si articolerà in due fondamentali momenti. Nel primo
metterò, anzitutto, l’accento sulle ragioni del peccato nell’attuale contesto sociale, segnato
-come è nel titolo -dalla prevalere della «cultura dell’innocenza»; nel secondo mi sforzerò
di individuare le prospettive per il recupero di un autentico senso del peccato oggi.

La crisi del senso del peccato oggi
Si può, in un certo senso, dire che il peccato più grave del nostro tempo -come già
osservava nei lontani anni ‘50 Pio XII -è costituito dalla crisi del senso del peccato,
dell’attuarsi cioè nella coscienza della percezione della sua gravità o addirittura dalla sua
totale vanificazione.

Questo dato indubitabile, tuttavia, di essere accuratamente analizzato, perché se è
vero che esso rappresenta l’aspetto più immediatamente rilevabile e più preoccupante
messo in luce da ogni osservazione empirica -si pensi alle indagini sociologiche e agli
stessi sondaggi di opinione relativi al costume morale -non è meno vero che esso è
passibile di interpretazioni diverse a seconda dell’ottica di lettura che si privilegia. Così
mentre, da un lato, è evidente, nel nostro contesto culturale, la caduta di tensione etica
nell’ambito della sfera del «personale» -sfera che viene spesso privatizzata anche al
livello del giudizio morale; risulta, dall’altro, più acuta che in altri tempi la tensione etica sul
terreno dei problemi che riguardano l’importante campo della giustizia e delle relazioni
sociali.
E’ come dire che ci troviamo di fronte ad una situazione ambivalente, prodotta da un
complesso di fattori, che non possono essere letti con una chiave univoca, ma esigono di
essere accuratamente esaminati nei risvolti positivi e negativi, nei rischi gravi che da essi
possono derivare, ma anche nelle potenzialità positive che da essi possono sprigionarsi.
Cercherò schematicamente di far luce su alcuni di tali fattori che più hanno concorso a
determinare lo sviluppo dell’attuale «cultura dell’innocenza», non senza evidenziare le è
provocazioni feconde che da essi si sprigionano in ordine al recupero di una più autentica
coscienza del peccato, sia sul piani quantitativo che qualitativo.

1. Il primo -e il più importante di essi, perché costituisce l’orizzonte di fondo entro il
quale vanno collocate anche le riflessioni -è senz’altro rappresentato dal processo di
secolarizzazione -tuttora in corso. Esso coincide con la caduta dell’universo simbolico
religioso come universo di interpretazione globale dell’esperienza umana in tutta la ricerca
e complessa gamma dei suoi significati. L’emancipazione dell’uomo e del mondo dal
«divino», e perciò la rivendicazione della loro autonomia dei confronti di esso, è il risultato
di un ampio iter storico, le cui origini vanno fatte risalire agli inizi dell’epoca moderna.
Natura, politica, etica e cultura sono venute progressivamente distanziandosi dalla
dipendenza sacrale, in cui erano state per tanto tempo mantenute. La scoperta delle leggi
interne alla realtà ha consentito di far luce sui meccanismi che presiedono allo sviluppo del
cosmo e alla stessa vita dell’uomo, imponendo la fuoriuscita da una visione fatalistica e
alimentando il senso dell’impegno e della responsabilità storica.
Questo processo, che ha per molto tempo coinvolto soltanto alcune élites culturali, si è
esteso, con l’avvento della società industriale e soprattutto con l’introduzione dei mass-
media, all’intera popolazione dell’Occidente. L’assorbimento dei modelli della cultura di
massa, anche da parte degli strati più popolari, ha comportato, come conseguenza, il
diffondersi della mentalità secolare a tutti i livelli e la relativizzazione del problema
religioso. La secolarizzazione non comporta, infatti, l’assunzione di un atteggiamento di
rifiuto nei confronti di Dio -atteggiamento che qualificava l’ateismo militante del secolo
scorso e degli inizi del nostro secolo -comporta più radicalmente, l’affermarsi di un
atteggiamento di presa di distanza e di disinteresse. Dio non è più combattuto, ma viene
semplicemente ignorato; la questione religiosa viene considerata come irrilevante e del
tutto inutile per la vita dell’uomo.

E’ evidente che laddove il fenomeno della secolarizzazione si radicalizza produce la
vanificazione della coscienza del peccato. Paradossalmente, un mondo senza Dio è
anche un mondo senza peccato, se è vero che il peccato -come se lo presenta la Bibbia è
innanzitutto rottura del rapporto personale che lega l’uomo al suo Signore. E’ come dire
che senso di Dio e coscienza del peccato sono tra loro strettamente dipendenti, che esiste
un rapporto di proporzionalità diretta tra le due grandezze.

Si deve, tuttavia, osservare che il processo di secolarizzazione, ha anche avuto
storicamente il merito di purificare la coscienza del peccato da appesantimenti sacrali,
che, finivano per stravolgerne il significato. Grazie ad esso è, maturata la consapevolezza
che occorre superare una concezione del peccato -per tanto tempo prevalente -che lo
riduceva alla trasgressione della norma o al rifiuto dell’ordine stabilito imposto
autoritativamente dall’alto. Anzi, è venuta facendosi strada la convinzione che si può
peccare anche quando si concorre, con il proprio comportamento positivo o con la propria
neghittosità, a mantenere in vita l’ordine costituito -magari sacralizzandolo -, se esso è di
fatto costruito sull’ingiustizia e sulla sperequazione tra gli uomini. Il che ha contribuito non
poco a far crescere la coscienza della propria responsabilità personale e ad alimentare lo
sviluppo di una autentica considerazione della connaturale valenza religiosa del peccato
stesso.

2. Il secondo fattore, che merita di essere preso in considerazione, è costituito dalla
messa in iscacco della libertà. Le scienze umane, che hanno avuto in questi ultimi decenni
un enorme potenziamento, hanno concorso ad evidenziare, in modo sempre più ampio e
preciso, il complesso mondo dei condizionamenti, che sono alla radice del comportamento
umano. Le scienze biologiche ci hanno svelato i meccanismi dell’istinto; le scienze
psicologiche le dinamiche connesse con la storia della personalità; le scienze sociali le
interazioni esistenti tra formazione della coscienza e strutture ed istituzioni entro le quali si
sviluppa l’esperienza umana.
La mentalità positivista, che ha preso talora il sopravvento -soprattutto nel campo
dell’applicazione dei dati di tali scienze, danno luogo ad un utilizzo dei risultati in chiave
rigidamente ideologica -ha finito per interpretare il mondo interiore dell’uomo come
epifenomeno o riflesso di un complesso intreccio di forze, che esulano totalmente dalla
possibilità del controllo soggettivo. L’uomo viene ridotto -è questa la tesi dello
strutturalismo -ad una sorta di macchina, il cui agire è deterministicamente guidato dalla
presenza di meccanismi che interagiscono tra loro, nella più totale assenza della libertà.

E’ evidente che la messa in crisi radicale della libertà porta con sé la rinuncia alla
possibilità stessa di parlare di peccato. Peccato e libertà sono grandezze direttamente
proporzionali. Il peccato esiste soltanto laddove esiste la libertà e fin dove essa ha il
potere di esplicarsi. Esso comporta, infatti, la responsabilità effettiva dell’uomo nella
conduzione della propria vita, e dunque delle proprie scelte: responsabilità che è del tutto
assente, dove l’agire umano viene considerato come pura espressione di condizionamenti
esteriori.

E’ sintomatico che proprio questa crisi del peccato -dovuta alla messa in iscacco della
libertà -si accompagni, nel nostro tempo, ad una crescita, vieppiù consistente, del
sentimento di colpevolezza, che assume forme nevrotiche e preoccupanti. Non è difficile
scorgere, dietro a ciò, la tendenza di ridurre, di fatto , il peccato al male. L’uomo, che non
riesce più a dare spiegazioni del «negativo» esistente nel mondo, risalendo alla propria
responsabilità, facendosene cioè carico, tende ad esteriorizzarlo, attribuendo
fatalisticamente alla presenza di forze oscure e non dominabili. Ora, mentre il peccato,
chiamando direttamente in causa la libertà umana, apre l’uomo alla speranza del suo
possibile superamento; il male, non essendo in nessun modo, vincibile, perché non legato
alla responsabilità umana, suscita sentimenti di passività e di rassegnazione, di angoscia
e persino di disperazione. Il sentimento di colpevolezza è, di sua natura, paralizzante e, in
definitiva, tragico.

E’, d’altra parte, doveroso riconoscere che lo sviluppo delle scienze umane ha dato un
contributo altamente positivo alla stessa maturazione della coscienza del peccato. Di
enorme importanza è la distinzione che oggi siamo in grado di fare tra coscienza del
peccato e sentimento di colpevolezza. Non tutto ciò che in passato veniva considerato
peccato era in realtà tale. Esistono situazioni nelle quali la colpa, di cui l’uomo si sente
gravato, non deve, in realtà, essere addebitata alla responsabilità soggettiva, ma piuttosto
a meccanismi indotti dall’esterno, dovuti al processo di sviluppo della responsabilità a
forme di tabuizzazione prodotte dall’ambiente. Senza dire che il sentimento di
colpevolezza ha una struttura egocentrica, è cioè la conseguenza di scacco che l’uomo
vive in ordine alla propria autorealizzazione; mentre la coscienza del peccato ha una
struttura teocentrica, è la risultante dell’esperienza della rottura della comunione con Dio.
E, in altri termini, carico di una valenza religiosa.

Tale distinzione è importante non solo a livello della valutazione dell’agire umano; ma
soprattutto sul terreno dell’intervento concreto a favore della persona, consentendoci di
utilizzare terapie diverse a seconda delle situazioni.

3. In stretto rapporto con quanto è stato fin qui illustrato occorre collocare il terzo
fattore dell’attuale crisi del peccato: il fenomeno cioè della politicizzazione. Si intende con
ciò alludere al processo, tuttora in corso, di dilatazione e approfondimento della coscienza
politica. La crescita dell’industrializzazione ha determinato la nascita di strutture sempre
più complesse e tra loro interdipendenti. I diversi settori della convivenza umana appaiono
tra loro sempre più strettamente collegati all’interno di un unico sistema; mentre,
analogamente, crescono i rapporti di interdipendenza tra i popoli, tanto a livello economico
quanto a livello sociale e culturale. La coscienza politica tende pertanto ad universalizzarli
e, nello stesso tempo, emerge con chiarezza la percezione che le strutture della
convivenza, lungi dal dover essere acriticamente accettate come dati fatalistici, sono il
prodotto di scelte precise, dovute ad interessi personali o di gruppi di potere, che devono
essere decisamente controllati. Di qui la necessità di un più consistente impegno
partecipativo per orientare in modo corretto, la vita sociale, mediante un’equa distribuzione
delle risorse e l’individuazione di un ordine economico e politico più giusto.
Il peso sempre più determinante delle strutture sulla conduzione della vita personale e
sullo sviluppo degli stessi rapporti umani può ingenerare l’impressione dell’impotenza
soggettiva. La tentazione è allora quella della collettivazione della colpa, cioè
dell’attribuzione alla struttura sociale delle situazioni di ingiustizia esistenti. Che cosa è
possibile fare, a livello personale, per evitare le sperequazioni esistenti tra popolo e
popolo, tra Nord e Sud del mondo? Come è possibile ovviare agli esiti negativi di un
sistema le cui logiche di potere -dato il complesso intreccio dei meccanismi che lo
sostengono -sfuggono spesso alla conoscenza dei singoli? O come intervenire a
cambiare la realtà, quando si è del tutto al di fuori del campo di gestione del potere
costituito?

C’è il rischio dunque, che il peccato venga ridotto a fatto strutturale, determinando, nei
singoli, stati di acquiescenza e di deresponsabilizzazione.

Ma occorre, anche a questo livello, sottolineare, come il processo di politicizzazione
possa condurre ad una più precisa e più seria consapevolezza del suo significato e delle
sue reali dimensioni. Si pensi al recupero della dimensione sociale -per troppo tempo
ingiustamente ignorata -o all’acquisizione dell’importanza che rivestono i cosiddetti
peccati di omissione. Nonostante le oggettive difficoltà di interrogarsi sulle proprie
responsabilità in ordine a fenomeni che si verificano in paesi lontani e hanno radici
strutturali complesse, non si può negare che sia, in questi anni, cresciuta la
consapevolezza che è possibile peccare non soltanto compiendo azioni positive, che
violano la legge di Dio, ma anche omettendo di fare, per pigrizia o per tornaconto
personale, ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare.

4. Infine è importante richiamare l’attenzione -è questo l’ultimo fattore, anche se può
sembrare anomalo rispetto agli altri ricordati, in quanto più che alla cultura in generale va
riconnesso all’attuale status della ricerca teologica -su un importante dato del nostro
tempo: l’affermarsi cioè di quella che K. Rahner ha definito come la mistica del peccato.
Essa consiste in una sorta di accettazione del peccato, considerato come condizione
quasi necessaria, perché l’uomo scopra la propria povertà e si apra incodizionatamente
alla ricezione della salvezza, che è dono assolutamente gratuito del Signore. Il rifiuto della
morale farisaica, fatta propria dallo spirito borghese, porta a vedere nel peccato una
specie di «felix culpa», che consente all’uomo di abbandonare ogni atteggiamento di
autosufficienza e di autogiustificazione e lo rende, di conseguenza, disponibile a lasciarsi
fare ed amare da Dio.
C’è senz’altro una parte di verità in questa impostazione che risente -come è ovvio dell’influenza
esercitata dal protestantesimo su tutta la cultura dell’Occidente, e perciò
sulla stessa teologia cattolica. E’ senz’altro vero che è più vicino alla salvezza, più capace
di accoglierla, il pubblicano della parabola evangelica, che riconosce umilmente il proprio
peccato e ne domanda perdono invocando su di sé la misericordia di Dio, di quanto,
invece, non lo sia il fariseo, pago si se stesso, che si vanta davanti al Signore e pretende
di aver acquisito la salvezza con i propri meriti, mediante l’osservanza della lettera della
legge. E’ indubbiamente importante sottolineare la gratuità della salvezza e
conseguentemente, il fatto che solo attraverso la fede, come fiducia in Dio e abbandono
totale a Lui, è possibile acquisirla.

Ma non si può dimenticare l’importanza della risposta umana al dono di Dio. Esso fa,
infatti, sempre e necessariamente appello alla risposta dell’uomo, chiama direttamente in
causa la sua responsabilità, esige il suo consenso. D’altronde l’elogio del pubblicano non
è approvazione del suo peccato, come l’elogio spesso fatto da Gesù della disponibilità di
altre categorie di peccatori non è mai sottovalutazione del peccato, ma sollecitazione ad
uscire da quella situazione in forza del dono di Dio. Forse l’aspetto più significativo di
questi episodi è l’invito a guardare più in profondità al peccato, il quale non consiste
primariamente nei singoli peccati, ma nell’indurimento del cuore, nella mancanza di fede,
nella presunzione di poter liberamente disporre della salvezza, legandola alle opere e
rinunciando così a fare spazio all’azione del Signore.

Gli spunti offerti ci consentono di percepire che le componenti sulle quali si è venuta
costruendo la cosiddetta «cultura dell’innocenza»sono molteplici. L’averle, sia pure
rapidamente, delineate ci consente di capire quanto profonda sia oggi la crisi del peccato,
ma si immette nello stesso tempo, sulla strada di un suo possibile recupero. E’ quanto
tenteremo di fare nella seconda parte.

Prospettive per il recupero di un autentico senso del peccato

E’ d’obbligo per il credente, quando intende definire il significato delle fondamentali
categorie religiose, mediante le quali si esprime la propria fede, risalire anzitutto ai dati
della rivelazione biblica. E’ tuttavia necessario ricordare che il carattere storico-salvifico,
che la costituisce, non consente di rintracciare in essa definizioni teoriche e astratte, ma
piuttosto descrizioni esistenziali, segnate come tali dalla cultura del tempo.
Ciò vale, ovviamente, anche per quanto concerne il mistero del peccato. Più che
offrirci una definizione precisa di esso -quale ad esempio è dato di rintracciare nei
catechismi o nei manuali di teologia -la Bibbia ci propone un’ampia serie di situazioni
esistenziali di peccato, che ci consentono di penetrare nel vivo della condizione dell’uomo
peccatore. Attraverso la loro penetrazione e la collocazione nel quadro complessivo della
storia della salvezza, è possibile cogliere alcuni connotati, che qualificano la realtà del
peccato in se stesso. Due sembrano essere, da questo punto di vista, gli aspetti salienti,
che meritano di essere sottolineati.

Il peccato è, anzitutto, presentato come trasgressione della legge di Dio, come rifiuto
da parte dell’uomo alla volontà di Dio, la quale si esprime attraverso i precetti che egli dà
al suo popolo. In secondo luogo, il peccato viene colto -ed è questa la sua dimensione più
profonda -come atto di rottura della relazione con il Signore. Lo sviluppo della rivelazione
di accompagna alla progressiva evidenziazione di questo secondo aspetto, che assume
un rilievo sempre più prioritario e decisivo. L’esperienza del patto sinaitico consente la
messa a fuoco della relatività della legge morale. Essa, lungi dall’essere proposta come
fine o come luogo di autogiustificazione, appare molto più semplicemente come strumento
per la conservazione e l’approfondimento della comunione con Dio, vero fine della vita
morale di Israele. La letteratura profetica approfondirà questa concezione, descrivendo
l’alleanza attraverso l’immagine tipologica del patto nuziale che lega l’uomo alla donna. Il
peccato viene pertanto, in questo contesto, descritto come adulterio, fornicazione,
infedeltà: termini che ne mettono chiaramente a fuoco la dimensione relazionale. Dove poi
questa concezione emerge, in modo definitivo, è nel NT. L’annuncio del regno di Dio da
parte di Gesù esige l’accoglienza dell’uomo nella fede, cioè in una disponibilità totale a
ricevere il «mistero». Il peccato è allora, anzitutto e fondamentalmente mancanza di fede;
è il rifiuto che l’uomo oppone al disegno di Dio così come si è definitivamente rivelato in
Cristo.

Si potrebbe continuare, in questa analisi, mettendo in evidenza altri aspetti del peccato
presenti nella Bibbia: si pensi soltanto alla dimensione sociale e cosmica. Ma non è questo
il compito precipuo che ci siamo proposti. Ci preme maggiormente dare qui conto di
alcune dimensioni del peccato che la riflessione teologica è venuta recuperando, grazie
anche alle provocazioni culturali ricordate, e che esigono di essere riproposte nel quadro
dell’azione pastorale, in particolare della catechesi. Forse l’averle per troppo tempo
sottaciute è una delle ragioni della attuale crisi del peccato, di cui si è parlato.

1. Il primo passo da compiere è quello di restituire al peccato la sua dimensione
religiosa. E’ come dire che il peccato deve essere, anzitutto, considerato una grandezza
religiosa prima ancora e più ancora che una grandezza etica o giuridica. La percezione del
peccato è possibile solo laddove l’uomo è cosciente del suo «stare davanti a Dio», dove
matura, in altri termini, la convinzione nelle coscienze che l’intera esistenza altro non è se
non lo svolgersi di una storia che ha in Dio il suo fondamentale riferimento. Il Dio della
Bibbia non è , infatti, un Dio lontano, separato dalla vita; è il Dio che si è immerso
profondamente nella storia dell’uomo, fino al punto di farsi storia in Gesù Cristo. E’ dunque
un Dio che è dentro la vita e che, proprio per questo, orienta di continuo l’uomo a trovare
nel rapporto con lui il senso delle sue scelte. L’aver eccessivamente accentuato, nella
presentazione del peccato, la dimensione legale a scapito di quella religiosa è tra le cause
forse più decisive (lo rileva il Regnier) della perdita del senso del peccato da parte
dell’uomo contemporaneo. In un tempo come il nostro, nel quale si assiste ad una
consistente relativizzazione della legge come degli ordini costituiti, il mantenere
prevalentemente il peccato entro la sfera legale, significa concorrere a svalutarne la
portata, fino a renderlo del tutto irrilevante.

D’altra parte, la storia della tradizione cristiana documenta ampiamente il primato della
dimensione religiosa. Il peccato di origine, che non è soltanto la causa ma anche il
modello di ogni successivo peccato dell’uomo, non consiste prevalentemente nella
trasgressione del precetto -questo non è che l’aspetto più superficiale; consiste, invece,
più radicalmente, nella decisione dell’uomo di porsi sullo stesso piano di Dio («volevano
essere come Dio»), nella non accettazione della dipendenza creaturale, che trova
espressione nel fatto che l’uomo vuol diventare arbitro del bene e del male («volevano
conoscere il bene e il male», dove il termine «conoscere» in linguaggio semitico sta per
«decidere»). E’, in altri termini, peccato di idolatria, anzi di autoidolatria. L’uomo, creato da
Dio, e perciò da lui dipendente nella stessa vita, è chiamato ad entrare in una profonda
comunione con il suo Creatore: il peccato implica il passaggio dallo stato di amicizia allo
stato di rivalità e di contrapposizione.

Analogamente, il profetismo insiste sulla visione del peccato come idolatria, mettendo
l’accento sul fatto che essa può svilupparsi non soltanto attraverso la forma più banale del
rendimento di culto alle divinità straniere o della costruzione dell’idolo, ma soprattutto
attraverso la materializzazione delle istanze della legge o l’offerta di un culto puramente
formale ed esteriore, dal quale è del tutto assente l’offerta del cuore. La conversione è
pertanto proposta come il «fare ritorno a Dio», il volgere le spalle agli idoli morti per dire il
proprio sì incondizionato al Dio della vita e della storia. E’ dunque conversione religiosa
prima che morale. Il che non esclude la necessità della osservanza della legge, la quale
acquista tuttavia significato in quanto concreta espressione della volontà divina.

Nel Nuovo Testamento sono soprattutto Paolo e Giovanni a dare spazio a questa
dimensione. Per il primo il peccato è l’opposizione alla lotta escatologica, inaugurata dal
Figlio dell’uomo contro le forze del maligno presenti nel mondo; è il rifiuto della grazia della
salvezza che Gesù ha portato agli uomini. Il secondo riconduce, invece, il peccato
all’infedeltà, all’incapacità cioè di andare oltre il «vedere» per «credere», aderendo alla
realtà misteriosa del regno e partecipando delle vita eterna, comunicata all’uomo mediante
la venuta di Cristo.

Il recupero della dimensione religiosa del peccato esige che si riscopra nel nostro
contesto culturale, in modo più preciso, la centralità del problema di Dio. Non si tratta di
riproporre una visione «sacralizzata» della vita, per la quale Dio occupa tutto lo spazio o
l’area dei significati della vita quotidiana; si tratta piuttosto di restituire a Dio il giusto posto
in ordine alla risposta alla domanda fondamentale che ogni uomo non può non porsi:
quella relativa al senso ultimo della propria esistenza. La risuscitazione del senso di Dio
diviene la condizione indispensabile per dare consistenza all’esperienza del peccato e
soprattutto per far sì che l’uomo ne colga l’aspetto più profondo e più vero.

2. Ma il peccato deve anche essere riscoperto ai nostri giorni -è questo il secondo
passo da attuare -nella sua valenza sociale e cosmica. Nel racconto del primo peccato
tale valenza è ampiamente presente. La rottura da parte dell’uomo del proprio rapporto
con Dio porta con sé uno stato di profonda conflittualità negli stessi rapporti coi fratelli e
con la natura. Essa coincide con la perdita della solidarietà originaria -Adamo ed Eva si
accusano reciprocamente -e della spontaneità (erano nudi e sentono il bisogno di
coprirsi). I successivi capitoli del libro della Genesi non sono che la descrizione dello stato
di tensione e di lotta, che attraversa la storia dell’umanità: dell’omicidio perpetrato da

Caino nei confronti del fratello Abele, alla costrizione della torre di Babele, che è il simbolo
dell’incomunicabilità umana, conseguenza della sfida lanciata verso Dio. Anche la natura
sembra essere coinvolta in questo processo di immani proporzioni. La ribellione degli
animali, la fatica del lavoro e la sofferenza che accompagna il parto sono altrettanti
«segni» di una situazione di squilibrio prodotta dal peccato, che ha la sua radice nella
lacerazione interiore dell’io umano.

Il dilagare dell’ingiustizia nel mondo, che porta a calpestare il diritto dei poveri, è
stigmatizzato dai profeti come diretta conseguenza dell’idolatria. L’uomo, che non
riconosce il primato di Dio, alimenta dentro di sé la tendenza egoistica, che lo conduce a
forme di continua prevaricazione sugli altri. Nel mondo vengono così ad instaurassi
situazioni sempre più allargate di oppressione, che si esprimono anche attraverso dati
strutturali. La storia appare segnata dalla presenza del mistero del male, continuamente
alimentato dai peccati dei singoli e dei gruppi sociali.

S. Paolo descriverà, proprio per questo, l’umanità come assoggettata alla pressione di
forze oscure, che trascendono la pura e semplice volontà del singolo. Lo stato di morte intesa
come morte fisica e spirituale in cui il mondo vive -si ripercuote sull’esistenza di
ogni uomo. Un dramma cosmico, di immani proporzioni, segna la condizione umana.
L’uomo è incapace, da solo, di liberarsene: ha bisogno di una liberazione dall’alto,
dell’intervento di Dio, che ne rinnovi radicalmente l’essere e l’esistenza. La redenzione,
portata da Cristo, assume i connotati di un’immensa opera di restaurazione, che coinvolge
la stessa natura, la quale attende, come sotto le doglie del parto, la piena liberazione dei
figli di Dio.
L’attenzione alla dimensione sociale del peccato si è fatta, ai giorni nostri, più intensa.
E’ tuttavia importante precisare i diversi livelli, che la devono caratterizzare. Si deve,
anzitutto, rilevare come essa è una dimensione costituiva del peccato, che, in quanto tale,
attraversa indiscriminatamente tutti i peccati dell’uomo. Anche l’azione apparentemente
più «privata» -compresa quella che si consuma nell’intimo della coscienza (si pensi ai
peccati di intenzione o di desiderio) -contiene un inevitabile risvolto sociale. La solidarietà,
che unisce la famiglia umana e che per il credente si esprime nella verità della comunione
dei santi o nel mistero del corpo mistico, determina l’esistenza di un flusso, positivo o
negativo, di ogni atto umano nei confronti degli altri. L’agire umano non è mai il prodotto di
un individuo isolato, ma di una persona che è, por definizione, soggetto di relazioni. Ciò
significa che la dimensione sociale del peccato va, in primo luogo, identificata con l’aspetto
trascendentale dell’agire umano negativo, e, come tale, va addebitata a tutto l’agire
umano.

Non si può dimenticare che esistono dei peccati che hanno un contenuto più
specificatamente sociale e che meritano, per questo, una riflessione particolare. Si pensi
ai peccati contro la giustizia, così largamente presenti nel mondo contemporaneo.
L’attenzione privilegiata, che veniva in passato riservata ai peccati riguardanti la sfera
della vita privata, deve essere corretta introducendo una maggiore considerazione
relativamente ai problemi concernenti la vita pubblica dell’uomo. Un capitolo che merita, al
riguardo, particolare attenzione è quello dei cosiddetti peccati di «omissione», quali
l’assenza di impegno e di partecipazione alla vita politica, la mancanza di solidarietà e di
assunzione di responsabilità nei confronti delle istituzioni, all’interno delle quali si sviluppa
la convivenza umana.
A queste forme di peccato è possibile riconnettere anche un altro aspetto del peccato
sociale, che viene giustamente definito peccato «strutturale». Si tratta delle oggettive
situazioni di ingiustizia, provocate dal cristallizzarsi di strutture, che generano forti
condizionamenti negativi, soprattutto per i più poveri e i più deboli. E’ evidente, in tal caso,
la difficoltà di risalire immediatamente alle responsabilità individuali, tanto in ordine alla
loro insorgenza quanto in ordine al loro mantenimento. Come d’altronde, evidente la
differenzazione dei livelli di responsabilità: differenziazione dovuta al diverso grado di
potere dei singoli. Rimane, in ogni caso, il peso oggettivamente determinante di tali
situazioni e la necessità di tenere conto tanto nella valutazione dl comportamento di chi ne
subisce le conseguenze quanto nell’analisi del coinvolgimento di responsabilità di ogni
cittadino, chiamato a collaborare, a partire dalle proprie possibilità, alla costruzione di un
ordine giusto.

3. La riflessione sulle responsabilità individuali -sempre esigita perché si possa
parlare di peccato -ci pone infine di fronte ad un altro passo da fare nel recupero del
senso del peccato: l’acquisizione cioè della sua dimensione personale. La ricerca etica ha
notevolmente approfondito, in questi ultimi decenni, la valenza formale-personale
dell’agire umano. Reagendo nei confronti di un’impostazione oggettivo-materiale del fatto
etico, che finiva per cosificare ed atomizzare l’agire dell’uomo -era questo il modello
soggiacente alla cosiddetta «morale degli atti», per la quale contava soprattutto e persino
esclusivamente la conformità dell’atto, singolarmente assunto, alla norma etica -l’etica ha
notevolmente concorso a mettere a fuoco il rapporto dell’agire con la persona e con il suo
mondo interiore, perciò con le intenzioni soggettive e con il progetto complessivo di
esistenza. E’ emerso in tal modo come l’agire umano deve essere considerato come luogo
dell’autorealizzazione personale, che si dispiega nel tempo sulla base di scelte
fondamentali fatte dalla persona. La teoria dell’opzione fondamentale, spesso proposta dai
moralisti, aveva come obiettivo essenziale quello di mettere in luce questo aspetto
profondo dell’agire che radicalmente lo qualifica.
Il peccato appare, d’altronde, nel quadro della proposta biblica, come espressione
della libera decisione umana. E’ per così dire una possibilità data all’uomo nell’atto stesso
in cui viene creato da Dio come essere libero. Il primo peccato è l’esercizio negativo della
libertà. Ma l’insistenza sulla dimensione personale è soprattutto sviluppata dal profetismo
mediante una sempre più accentuata sottolineatura dell’esigenza di interiorizzazione della
vita, che troverà in Cristo il suo acme. L’osservanza materiale della legge può diventare
inconsistente, e persino dannosa, se non si accompagna al dono del cuore, se non è
attenzione allo spirito che la deve animare. Rifiutando la mentalità legalistica dei farisei, il
loro formalismo esteriore, Gesù mette in luce la preminenza dell’intenzione, di ciò che
esce dall’uomo; e riassumendo tutto il contenuto della morale veterotestamentaria
nell’unico grande comandamento dell’amore, egli evidenzia come ciò che conta non è
tanto l’adesione ai singoli valori e l’osservanza delle singole norme, ma è il dono di sé.
Dare se stessi è molto più che dare qualcosa; le due cose sono qualitativamente diverse,
e perciò non comparabili. Certo il dono di sé ha bisogno di estrinsecarsi negli atti della
legge; ma questi ultimi, da soli, non sono in grado di determinare a bontà dell’agire umano.

E’ evidente che un analogo discorso vale anche per l’agire negativo, cioè per il
peccato, la cui ultima e decisiva chiave di interpretazione rimane l’intenzionalità negativa
del soggetto, l’atteggiamento di egoismo che lo connota e il grado più o meno consistente
di tale atteggiamento. Di qui la necessità di un forte recupero della libertà contro le
tentazioni ricorrenti di una sua negazione o, quanto meno, di una sua profonda
attenuazione. ma di qui anche l’esigenza di tener presente che il recupero della libertà
deve avvenire nel contesto di una visione globale dell’uomo come persona, perciò come
essere storico che costruisce progressivamente e in modo sempre incompleto, la propria
esistenza. Il che rende ovvia la necessità di considerare seriamente il condizionamento
che sempre si esercita sull’agire umano. Il giudizio etico deve allora privilegiare il
comportamento complessivo rispetto ai singoli atti, ma soprattutto deve tendere a risalire
all’atteggiamento di fondo per cogliere la consistenza vera del peccato e fornire all’uomo la
possibilità do avviare il processo opposto della conversione.

Abbiamo così tentato di illustrare alcuni aspetti della crisi del peccato nel nostro tempo
e messo in luce alcune dimensioni, che devono essere recuperate, se si vuole uscire dal
tunnel dell’attuale «cultura dell’innocenza». Ci preme, in conclusione sottolineare quanto
già in partenza abbiamo ricordato: l’esperienza del peccato e del suo superamento sono,
in ultima analisi, legate all’esperienza dell’amore di Dio, e dunque alla certezza, che
l’uomo acquisisce nella fede, della sua infinita misericordia e del suo assoluto perdono.


http://www.collevalenza.it/Cesdim/Cesdim.asp?Id=08




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