DON ANTONIO

sabato 24 settembre 2011

13.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

6. DIO NON È CAUSA, NEPPURE INDIRETTA, DEL PECCATO
Noi possiamo essere causa del peccato degli altri, sia direttamente,
inclinando ad esso la loro volontà, sia indirettamente, non cercando di
allontanarli o di strapparli ad esso (52). Diremo che Dio è indirettamente
causa del nostri peccati, perché non li impedisce, mentre potrebbe farlo?
a) Dove Dio è tenuto ad intervenire e dove non lo è, anche in virtù della
Sua bontà infinita.
Se si tratta di noi, ci è offerta una sola possibilità di soccorrere la libertà
altrui: quella di un invito diretto od indiretto, fatto con tanto amore e
discrezione che, se vi tiene dietro uno smacco, questo non possa essere
imputa bile che al rifiuto della volontà peccatrice. A ciò noi siamo tenuti
sotto pena di peccare noi pure.
Ma se si tratta di Dio, non è soltanto per mezzo di un invito esterno, ma
anche per mezzo di una mozione interiore che Egli può agire sulle libertà
create. E qui due vie Gli sono aperte: una, richiesta dalla nostra condizione
alla quale Egli è tenuto, l'altra, contraria alla nostra propria volontà, ed alla
quale, di conseguenza, saremo noi i primi ad ammettere che Egli non è.
tenuto in alcun modo.
I) Dio è tenuto, sotto pena di derogare non solo dalla Sua bontà infinita,
ma dalla giustizia, a dare a ciascuno, per mezzo o di un invito esterno, o
almeno di mozioni interiori, delle grazie ininterrompibili, sotto l'impulso
delle quali si compirà l'atto salutare, e che, d'altra parte, siano così
convincenti che, se vengono interrotte, si potrà attribuire la colpa soltanto
al rifiuto della volontà peccatrice. Tale è, secondo i teologi, la via della
potenza ordinata ordinaria, dove la grazia è presentata tenendo conto del
trattamento richiesto dalla natura di per sé fallibile (e qui abbiamo visto
che si trova il fondo del mistero) delle creature spirituali: e cioè
rispettando le possibili resistenze del loro libero arbitrio. Non è detto che
la bontà divina, essendo infinita, debba avere degli effetti di una potenza
infinita, il che corrisponderebbe ad una assurdità; non è. detto che essa
debba offrire a tutti degli inviti e delle premure eguali, che non possa dare
due talenti quando essa ne richiederà ancora due, cinque quando ne
richiederà ancora cinque, per offrire finalmente se stessa, in entrambi i
casi, come ricompensa. Questo è certo, che Dio non sarebbe Lui stesso,
non sarebbe la bontà infinita, se fosse un padrone “che prende dove non ha
deposto, che raccoglie dove non ha seminato” (Lc., XIX, 21).

2) Ma Dio non può, mentre concede una grazia, derogare al trattamento
richiesto dalla natura delle Sue creature spirituali, necessariamente
suscettibili di peccato? Non potrebbe, senza tuttavia distruggere la
struttura metafisica della loro libertà, inviare loro di colpo una spinta
ininterrompibile verso l'atto salutare, “forzare le loro volontà anche se
ribelli”, salvare così anche quelle che si ostinano a resistergli? Non
potrebbe, in casi di questo genere, ricorrere alla Sua potenza ordinata
straordinaria e miracolosa? Sì, lo potrebbe, come abbiamo detto, e lo fa:
anzi noi pensiamo che lo faccia assai sovente.
Ma potrebbe farlo sempre? Esigere questo significherebbe attendere da
Lui un altro mondo diverso da quello che ha scelto di fare, in cui lo
straordinario diventerebbe l'ordinario, in cui l'eccezione sarebbe
trasformata in regola. Proprietà della provvidenza divina, come ci ricorda
san Tommaso, è di governare le cose secondo le loro nature, essa non è
“corruttrice, ma salvatrice delle nature” (53).
Ma, per lo meno, le eccezioni potrebbero essere più frequenti? orse. Però
la vera questione non consiste in questo. Si può forse esigere che Dio causi
anche una sola eccezione alla legge della Sua potenza ordinata ordinaria?
Quando essa ha colmato le sue creature di tali aiuti che, se sono respinti, la
colpa ricade tutta su di loro (mentre se essi li accetteranno, ne ricaveranno
gloria), la bontà divina è forse tenuta, sotto pena di cessare di essere
infinita, d'infrangere la resistenza di colui il quale vuole liberamente
rivoltarsi contro di lei? Non è questa la domanda che rimane senza
risposta; bensì un'altra: perché Dio fa qualche volta ciò che non è tenuto in
alcun modo a fare? E perché lo fa per uno piuttosto che per un altro? Qui
riesce opportuno il consiglio di sant'Agostino: “Non giudicare, se non vuoi
sbagliare” (54).

3) E' nella prospettiva della potenza divina ordinaria che bisogna leggere il
seguente passo, in cui Kierkegaard spiega che l'amore di Dio può
benissimo decretare, per salvare ci, la follia dell'Incarnazione, ma non
distruggere in noi la possibilità di scandalizzarcene e perciò di perderci:
“Dio e l'uomo sono due nature separate da una differenza infinita.
Qualunque dottrina che non ne voglia tenere conto, è una follia per l'uomo
ed una bestemmia per Dio. Nel paganesimo è l'uomo che riconduce Dio
all'uomo (dèi antropomorfici); nel cristianesimo è Dio che si fa uomo
(Uomo-Dio). Ma a questa carità infinita della Sua grazia, della Sua
misericordia, Dio mette tuttavia una condizione, una sola, che non può
fare a meno di mettere. Ed è proprio questa la tristezza del Cristo: di
essere obbligato a metterla. Egli si può avvilire fino alle apparenze di un
servo, sopportare il supplizio e la morte, invitarci tutti ad andare a Lui,
sacrificare la Sua vita... Ma dello scandalo, no! non può abolire la
possibilità. Oh atto incomparabile! E quanta tristezza imperscrutabile del
Suo amore in questa impotenza di Dio stesso (ed in un altro senso, in
questo Suo rifiuto di volerlo) in questa impotenza di Dio a fare sì, anche se
lo volesse, che quell'atto d'amore non si risolva per noi esattamente
nell'opposto, cioè nella nostra estrema miseria! Perché la peggiore cosa
per l'uomo, ancor peggiore del peccato, è scandalizzarsi del Cristo, ed
ostinarsi nello scandalo. Ed è proprio questo ciò che il Cristo, che è
l'Amore, non è in grado di impedire. Voi vedete che Egli" ce lo dice:
“Beati coloro che non si scandalizzeranno di me". Egli non può fare di
più” (55).

b) Nella sua potenza ordinaria, Dio fa immensamente di più di quanto è
tenuto a fare: Egli fa persino delle follie.
Nella linea della Sua potenza ordinata ordinaria, per cui, toccando le
anime secondo il trattamento richiesto dalla loro natura, invia loro delle
grazie che esse potranno interrompere se vogliono, ma destinate nel Suo
pensiero a fruttificare in grazie ininterrompibili sotto la mozione delle
quali si compirà l'atto salutare, Dio fa immensamente di più di quanto è
tenuto a fare per allontanarci dal peccato; spinto dall'amore, Egli incalza i
peccatori con le Sue misericordie.
I) Si legge nel Vangelo che Pietro, avvicinandosi a Gesù, gli chiese:
“Signore, quante volte perdonerò a mio fratello quando peccherà contro di
me? Fino a sette volte? Gesù gli rispose: "Non ti dico sette volte, ma
settanta volte sette"” (Mt., XVIII, 21). Ecco il perdono richiesto agli
uomini. E Dio farà di meno verso di loro? “Chi fra voi, se suo figlio gli
chiede del pane, gli darà una pietra? O se gli chiede del pesce, gli darà un
serpente? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare delle cose buone ai
vostri figli, quanto più vostro Padre che è nei cieli darà delle cose buone a
coloro che Gliene chiedono r” (Mt., VII, 9-II). Le misericordie divine
sembrano attratte dal peccato come l'aquila dalla sua preda. Esse
scandalizzano: “" Perché mangi e bevi con i pubblicani e la gente della
malavita? " Gesù, in risposta, dice loro: "Non sono quelli che stanno bene
che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati. Non sono venuto a
chiamare i giusti, ma i peccatori alla penitenza"“(Lc., V, 30-32). Le
parabole non finiscono mai di raccontarci le premure quasi paradossali del
Salvatore: “Quale uomo fra voi, se ha cento pecore e ne perde una, non
lascia le altre novantanove nel deserto per andare alla ricerca di quella
smarrita finché non la trova? In verità vi dico che ci sarà maggior gioia nel
cielo per un solo peccatore che si pente che per novantanove giusti che
non hanno bisogno di penitenza” (Lc., XV, 4-7). E prima, durante il
pranzo in casa di Simone il Fariseo, in cui la peccatrice viene perdonata,
leggiamo: “Colui, al quale si perdona poco, ama poco” (Lc., VII, 47).

c) Le giustificazioni per vie normali e per vie miracolose.
Dio non si stanca di ritornare a bussare alla porta di coloro che Lo hanno
cacciato dalla loro casa, dimodochè, sebbene la giustificazione del
peccatori sia, come la creazione, l'effetto della sola onnipotenza divina,
essa è un'opera così comune che non può, da questo punto di vista, essere
considerata miracolosa; è soltanto nel caso in cui Dio interverrà secondo la
Sua potenza ordinata straordinaria, per esempio, concedendo di colpo una
grazia ininterrompibile e di per sé efficace, che essa sarà considerata come
un miracolo: “Le opere miracolose - dice san Tommaso - si presentano
come prodotte al di fuori del corso regolare e consueto delle cose: per
esempio, quando un ammalato riacquista improvvisamente la piena salute,
al di fuori della guarigione abituale alla natura o all'arte. Sotto questo
aspetto la giustificazione dell'empio talora è miracolosa, talora non lo è.
La giustificazione si realizza secondo il corso normale ed abituale,
quando, sotto l'impulso interiore di Dio, l'uomo si volge verso Dio, in un
primo tempo attraverso ad una conversione imperfetta per elevarsi
successivamente alla conversione perfetta... Ma talvolta Dio commuove
l'anima con una veemenza tale che essa raggiunge immediatamente una
certa perfezione di giustizia, come accadde per la conversione di Paolo”
(56) o del buon ladrone.

d) La potenza della preghiera di intercessione del Cristo e degli amici di
Dio.
Sappiamo che tutte le grazie di bontà con le quali Dio, da per mezzo del
Suoi interventi abituali, sia per mezzo delle Sue iniziative miracolose,
bussa alla porta del nostri cuori per strapparci al peccato, dipendono dalla
mediazione del Cristo stesso che si diede come prezzo del riscatto per tutti
(I Tim., II, 6), elevato dalla terra per attrarre a sé tutti gli uomini (Gv., XII,
32); che esse sono una risposta alla preghiera suprema, per mezzo della
quale egli ha, sulla croce, richiesto a suo Padre il perdono per tutti: “E' Lui
che durante il tempo della sua vita umana (avendo presentato, con un
grande grido e fra le lacrime, delle implorazioni e delle suppliche a Colui
che avrebbe potuto salvarlo dalla morte, ed essendo stato esaudito in
ragione della sua pietà) ha, sebbene fosse Figlio, imparato da ciò che ha
sofferto l'obbedienza, e che, reso in tal modo perfetto, è divenuto per tutti
coloro che gli obbediscono principio di salvezza eterna, avendolo Dio
nominato grande sacerdote secondo l'ordine di Melchisedech” (Hebr., V,
7-10).

La preghiera di Gesù per la salvezza del mondo è infinita in ragione della
divinità di Colui che prega, e nulla certamente potrebbe esserle aggiunto in
intensità; ma essa non è destinata ad annullare la nostra, essa è fatta, al
contrario, per provocarla, suscitarla, elevarla. E' la preghiera del Capo, che
richiede che ad essa si partecipi, che richiede di crescere in estensione, di
propagarsi per tutto il Corpo. Il Salvatore desidera aggregarsi del membri
che, a loro volta, pregheranno per il mondo, e che, trascinati da Lui,
potranno essere secondo il loro posto con Lui, in Lui, per Lui, salvatori
degli altri. Il mistero dell'adesione al Cristo, che è il Capo, crea il mistero
della comunione del santi in vista della corredenzione del mondo. “Ora -
dice l'Apostolo - mi rallegro delle mie sofferenze per voi; e ciò che manca
alle tribolazioni del Cristo, lo compio io nella mia carne, per il suo Corpo
che è la Chiesa” (Col., I, 24).

Tale mistero di corredenzione viene insegnato nel Vangelo. Come pensare
che Dio abbia bisogno di noi per estendere il Suo regno? Eppure sta a noi
supplicarlo di inviare degli operai per il raccolto: “Vedendo le folle, Gesù
ebbe pietà, poiché quella gente era stanca e prostrata come pecore che non
hanno di che pascolare. Allora disse ai suoi discepoli: "La messe è
abbondante, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il Padrone della
messe di mandare gli operai per il raccolto"” (Mt., IX, 36-38). Quando i
discepoli domandano a Gesù di insegnare loro a pregare egli suggerisce
loro il Padre Nostro, e le tre prime richieste paradossali che si dovranno
rivolgere a Dio, saranno che il Suo nome sia glorificato, che venga il Suo
regno, che sia fatta la Sua volontà. Queste cose divine avverranno dunque,
in parte, dipendentemente dalle nostre iniziative umane. Bisogna
concludere che, secondo il fervore della preghiera degli amici di Dio,
verranno decise, in più larga parte, le effusioni delle grazie premurose sia
ordinarie sia miracolose, i progressi della città di Dio, i progressi della
conversione del mondo. Se il curato d'Ars non fosse stato un santo, molte
anime, senza dubbio, non sarebbero state salvate; e tuttavia è cosa certa
che tutte quelle che si sarebbero perdute, sarebbero state perdute per loro
colpa. Si comprende, sotto questo punto di vista, l'ardore travolgente che
consuma il cuore degli amici di Dio, la veemenza e l'insaziabilità del loro
desideri. Santa Caterina da Siena si sente responsabile del disordini del
suoi tempi; Maria dell'Incarnazione, orsolina, supplica il Padre eterno di
rendere giustizia a Suo Figlio, poiché Gli ha promesso in eredità tutte le
nazioni; santa Teresa di Lisieux vorrebbe annunciare il Vangelo
contemporaneamente in tutte le parti del mondo. E' anche facile
indovinare che questi contratti di amore, per i quali le creature pattuiscono
con Dio di pagare per i peccatori, non si concludono che a prezzo di
sofferenze indicibili e ai agonie che devono assomigliare a quella del
Salvatore.

e) La suprema possibilità di salvezza per coloro che sono assolutamente
abbandonati.
“Raccomando dunque, prima di tutto, che si. recitino delle preghiere, delle
suppliche, delle azioni di grazia per tutti gli uomini... Ciò è buono e
gradito a Dio, nostro Salvatore, che vuole che tutti gli uomini siano salvi e
vengano a conoscenza della verità”. (l Tim. II, 1-4). Il Verbo “era la luce,
quella vera, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” (Gv. I,
9). Questa assoluta certezza che possediamo, cioè che Dio previene ogni
adulto con la sovrabbondanza delle Sue grazie, che non va a raccogliere
dove non ha seminato, è provata in moltissimi casi dalla nostra stessa
esperienza di cristiani peccatori. Ma non è, in altre circostanze, smentita
dai fatti, non è un grave impegno sostenerla di fronte alla spaventosa
angustia della vita e della morte di tanti esseri umani? Il cristiano pensa a
quegli abbandonati “la cui sorte suscita nell'anima un'angoscia
intollerabile, a causa della notte assolutamente nera nella quale la morte li
ha colti... Parlo di tanti poveri esseri che non avevano fatto che il loro
umile dovere di ogni giorno e sui quali, in un istante, la morte si è
precipitata come una belva. Immolati dai capricci della guerra e della
ferocia, perseguitati non per la giustizia alla quale non pensavano neppure,
ma per l'atto innocente della loro semplice esistenza in un punto
disgraziato dello spazio e del tempo. E che cosa è il loro supplizio e la loro
morte se non l'immagine ed il duro riassunto nel quale possiamo leggere le
sofferenze di milioni di miseri nel corso del secoli, travolti dalla grande
macchina di orgoglio e di rapina tanto vecchia quanto l'umanità? Vinti,
ridotti in schiavitù, fuori-casta, intoccabili, schiavi d'ogni tempo, negri
venduti all'incanto da mercanti di carne umana, donne e bambini esposti al
sweating-system, proletari dell'epoca industriale, tutti quelli che la miseria
ha destituito dalla condizione di uomo, tutti i maledetti della comunità di
quaggiù... E quanti altri sono morti assolutamente abbandonati! Non
hanno dato la vita, la vita è stata loro presa nelle tenebre dell'orrore. Essi
hanno sofferto senza averlo voluto; non hanno saputo perché morivano.
Coloro che sanno perché muoiono sono del grandi privilegiati” (57).

Ed ecco ora la risposta, l'ultima risposta possibile: “Tutto sembra accadere
come se l'angoscia di Gesù fosse qualcosa di così divinamente immenso
che occorra, perché un'immagine di essa passi alle sue membra e perché
gli uomini partecipino completamente a quel grande tesoro di amore e di
sangue, che essa si divida in essi secondo i suoi aspetti contrastanti. I santi
vi entrano volontariamente, offrendosi con Lui... La beatitudine del
perseguitati illumina la loro esistenza terrestre. Più essi sono abbandonati,
più possono dire con Giovanni della Croce: " Miei sono i cieli e mia è la
terra...". Ma coloro che sono totalmente abbandonati, le vittime della notte,
coloro che muoiono come del reietti dall'esistenza terrestre, quelli che
sono gettati nell'agonia del Cristo senza saperlo ed involontariamente,
costituiscono un altro aspetto di quell'agonia che manifestano, ed è
necessario senza dubbio che tutto sia manifestato... Come un'eredità
lasciata a quest'altra schiera, egli ha detto: " Mio Dio, mio Dio, perché mi
hai abbandonato? ". Come potrebbe non avere cura della grande schiera
del veri miserabili, del morti senza consolazione, di coloro che portano
quel marchio della sua agonia? Come”, se essi non si trovano in stato di
ribellione contro l'Autore della loro vita (58), “il loro stesso abbandono
non sarebbe il segno della loro appartenenza al Salvatore crocifisso ed un
titolo supremo alla Sua misericordia? Sulla soglia della morte, nell'istante
in cui passano da una parte all'altra del velo, mentre l'anima sta per
abbandonare la carne di cui il mondo non ha voluto sapere, non ha forse
Egli il tempo di dire loro ancora: "Tu sarai con me in paradiso"“(59) anche
quando per loro, fino al limite estremo, nulla, nemmeno da parte di Dio,
avrà brillato agli occhi degli uomini?

f) Il gran numero degli eletti.
E' noto il senso delle parole di Matteo (XXII, 14): “Molti sono i chiamati,
ma pochi gli eletti”. Esse riguardano la vocazione del popolo ebreo.
Mentre tutti sono chiamati a ricevere il Messia, solo una piccola parte
saprà riconoscerlo, e la massa si perderà o per errore o per perversità. Ma
nella rivelazione nulla impedisce di credere nel grande numero degli eletti.
E' anzi questo il senso probabile delle parole di Giovanni (XIV, 2): “Vi
sono molte dimore nella casa di mio Padre”. Senza dubbio, se si considera
l'andazzo col quale procede il mondo, è un'altra frase del Salvatore che
torna alla mente: “Entrate dalla porta stretta. Come è larga e spaziosa la
strada che conduce alla perdizione, e come sono numerosi quelli che vi si
incamminano; com'è stretta la porta ed angusta la strada che conduce alla
vita, e come sono pochi coloro che la trovano!” (Mt., VII, 13-14).
Considerando il mondo, come non dire che esso si incammina per le strade
della follia? Ma considerando il prezzo del sangue versato per noi sulla
Croce, come non sperare che là dove abbonda il peccato, sovrabbondi la
grazia? (Rom., V, 20). L'Apocalisse ci rivela, accanto alla pienezza degli
eletti venuti dalle dodici tribù d'Israele, la folla immensa venuta dalla
Gentilità, “che nessuno poteva contare, di tutte le nazioni, e razze, e
popoli, e lingue, in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, vestiti di
bianco e con delle palme in mano “(Apoc., VII, 9-10).

7. L'UOMO È LA CAUSA DEL SUO PECCATO
a) Le suggestioni del mondo, del diavolo, delle passioni, non possono
costringerei al peccato.
Il mondo esteriore ci invita al male quando ci presenta del beni che
suscitano in noi il desiderio, ma che sono illusori, perché ci
distoglierebbero dal nostro fine ultimo e perché non li potremmo
possedere se non trascurando la considerazione della regola della ragione e
della legge divina (60). Tocca allora alla ragione intervenire per sviare il
corso del nostri pensieri e neutralizzare l'effetto della tentazione. Accade, è
pur vero, in alcuni casi nettamente patologici, che la passione possa
spingere l'uomo alla demenza e privarlo totalmente dell'uso della ragione;
ma allora, supponendo che una simile passione non sia stata provocata da
una colpa anteriore, l'atto che ne conseguirà sarà assolutamente
involontario, e quindi senza peccato (61).

Anche il diavolo è impotente a costringerci al peccato. Gli angeli, buoni o
cattivi, possono agire sulla nostra ragione come una proposta esteriore,
come una suggestione; ma sono radicalmente incapaci di toccare il nostro
libero arbitrio. Il diavolo tuttavia non può commuovere la nostra
immaginazione e risvegliare le nostre passioni al punto da legare in tal
modo indirettamente la nostra ragione e da ostacolare totalmente la sua
attività? Questo non pare impossibile, dice san Tommaso, e potrebbe
riscontrarsi in certi casi di persone invasate. Ma allora, qualunque cosa
faccia un uomo in tali condizioni, non può essergli imputata come peccato
(62).
In tutti questi casi, o non c'è libero arbitrio e non c'è peccato; oppure c'è
peccato ed il nostro libero arbitrio è in causa.

h) E' l'uomo che prende l'iniziativa del male.
E' evidente che all'uomo è lasciata l'iniziativa del suoi atti liberi, ma in
modo differente secondo che l'atto libero è buono o cattivo.

I) Se l'atto libero è moralmente buono, apportatore di nuovi valori positivi,
come potrebbe la prima iniziativa non risalire a Dio? Allora è la seconda
iniziativa che è lasciata all'uomo, quella del sì pronunziato sotto la
mozione divina e nel quale egli impegna il proprio destino. Questa
dipendenza, anziché distruggere la nostra libertà, ne è la causa. Il sì che
diciamo liberamente a Dio è l'attività spirituale più pura e più ricca che
possa venire al mondo, la risposta più santa della creatura al suo Creatore;
donde gli potrebbe venire, in ultima analisi, la sua bellezza, se non da Dio?
Egli muove gli esseri dall'interno, secondo la natura che ciascuno di essi
trae da Lui, non facendole violenza, ma attivandola ed innalzandola. Per
natura, l’uomo è ordinato verso il bene considerato in tutta la sua
ampiezza, verso il bene totale che è il solo capace di determinarlo,
dimodochè i beni di quaggiù, che sono particolari, lo trovano in uno stato
di indifferenza dominatrice a loro riguardo: egli può volerli, in quanto
sono del beni, o trascurarli, in quanto non sono il bene totale. Dire che Dio
muove l'uomo secondo la sua natura, significa che gli concede, prima, di
desiderare il bene totale, poi, lasciandolo dominatore di tutti i beni
particolari, di scegliere quelli che lo avvicineranno al suo fine ultimo.

Di conseguenza, bisognerà ammettere che Dio conosce i nostri atti liberi
nel decreto eterno attraverso al quale ci spinge a produrli. Non diciamo
che Egli li conosce in anticipo: un essere che conosce in anticipo è per
definizione un essere immerso nel tempo, che passa esso pure dal passato
al presente, al futuro, che può dunque ricordarsi del passato e talvolta
prevedere l'avvenire. Orbene Dio, ed è questo il Suo proprio mistero, non
è nel tempo, non c'è in Lui né ricordo del passato né previsione
dell'avvenire. Egli abita sulla vetta della Sua eternità senza successione,
donde vede con un solo sguardo, nella loro presenzialità, cioè nell'istante
stesso in cui appaiono all'esistenza, per coesistere con Lui e divenire a Lui
simultanei, tutti gli avvenimenti successivi che compongono la trama del
tempo. Egli non conosce in anticipo, ma ci vede da tutta l'eternità prendere
liberamente, hic et nunc, quelle iniziative che per noi appartengono al
presente o già al passato o ancora all'avvenire. “Ciò che si chiama la
prescienza di Dio - dice sant'Anselmo non è, per parlare con esattezza,
una prescienza. Colui infatti per il quale tutte le cose sono presenti,
conosce le future non per una prescienza, praescientia, ma per una scienza
alla quale tutto è presente, praesentium scientia” (63). E san Tommaso
dice: “Tutte le cose del tempo sono presenti a Dio da sempre, non soltanto,
come alcuni dicono, perché Egli ne porta in Se stesso le idee, ma perché il
Suo sguardo si pone da sempre su di esse, tali e quali Gli sono presenti”
nella loro esistenzialità (64). Gaetano commenta: “Il primo istante di
quest'ora è nell'istante eterno; l'ultimo istante di quest'ora è, non
certamente nel primo, ma esso pure nel medesimo istante eterno” (65).
Così, nell'istante senza successione della sua eternità, in cui non c'è posto
né per il ricordo, né per la prescienza, e che contiene, dominandoli, tutti
gli istanti fuggitivi del nostro tempo, Dio vede tutti i sì che ci concede di
concedergli.



2) Che cosa accade nel caso del peccato? Esso è commesso dall'uomo,
senza Dio e contro Dio.
Esso è commesso senza Dio. E' l'uomo solo che ne prende l'iniziativa, che
è la causa prima del peccato: “La causa prima del venir meno della grazia
- dice san Tommaso - viene da noi” (66). La creatura dunque può essere
causa prima di qualche cosa? No, Dio solo è causa prima di tutto ciò che
esiste e che avviene nel mondo, ma precisamente il peccato non è
qualcosa. E' una mancanza attinente a qualcosa.
Non soltanto senza la volontà di Dio, ma contro la sua volontà, il peccato
è commesso, Non perdiamo mai di vista le iniziative del suo amore. Il
peccato è sempre un rifiuto alle sue premure, una resistenza alle pressioni
interiori e segrete della Sua grazia salvatrice. La creatura libera, infatti, in
quanto viene dal nulla, ha il terribile privilegio di potere annientare in sé
l'influsso delle mozioni divine. Essa è crudele con se stessa, dice santa
Caterina da Siena, “quale maggiore crudeltà può esercitare contro di sé,
che quella per. cui si dà la morte con il peccato mortale?” (67). Allora è
Dio che la prende come testimone: “Che cosa potevo fare per la Mia vigna
che lo non abbia fatto?” (Isaia, V, 4). Egli assume la voce del salmista per
farsi supplichevole: “Oggi, se udite la Sua voce, non indurite i vostri
cuori” (Ebr., III, 8, 15; IV, 7). Parlando dell'atto cattivo, Jacques Maritain
dirà: “Dio non può essere causa del male stesso o della privazione, della
mutilazione che deforma quell'atto; di ciò la causa prima sono io; il male
come tale è la sola cosa che posso fare senza Dio, sottraendomi in tal caso,
come per un'iniziativa emanata dal mio nulla, al flusso della causalità
divina. Nella linea del male la causa prima è la creatura. Sine me nihil
potestis facere (Gv., XV, 5); queste parole sono vere nei due sensi: senza
Dio non possiamo fare nulla, senza di Lui possiamo fare il nulla (68). La
prima iniziativa viene dunque sempre da Dio nel caso del bene, perciò
l'iniziativa della libertà creata deriva essa stessa dall'iniziativa divina. Ma a
causa della possibilità di rifiuto, che fa parte naturalmente di ogni libertà
creata, nel caso del male, la prima iniziativa viene sempre dalla creatura,
dal momento che Dio può, ma. non vuole impedire alla creatura di opporre
un rifiuto, quando vuole” (69).

Dio conosce il rifiuto della creatura (non certamente essendone la causa,
poiché Egli non causa ciò che annienta) nella mozione positiva verso il
bene che la creatura annienta. Non lo conosce prima, anteriormente
all'iniziativa della creatura: per parlare con esattezza, non c'è in Lui, né
prescienza, né ricordo. Egli vede da tutta l'eternità l'istante in cui si
realizza quel rifiuto. Non ne è sconcertato: ciò che Lo sorprenderebbe,
sarebbe che una creatura potesse introdurre, senza di Lui, il minimo atomo
di essere nella trama del mondo. Ma il peccato è pure privazione. Non
turberà tuttavia il piano provvidenziale? No, se questo piano è stabilito da
tutta l'eternità tenendo conto di ciò che Dio vede da tutta l'eternità (70).



c) Dio, che non ha l'idea del male, conosce nel bene il male limitato del
mondo ed il male illimitato inventato dall'uomo.

I) Le idee che sono nell'intelligenza divina sono i modi in cui l'essenza
divina può essere partecipata. Esse sono perciò, da una parte, i principi di
conoscenza, le ragioni esplicative delle cose; e dall'altra, i principi di
produzione, gli esemplari o modelli delle cose (71).
Vi sono in Dio delle idee del male? Sarebbe come domandare se c'è
nell'essenza divina un male che sia percepito dall'intelligenza divina, e per
mezzo del quale, da una parte, si spiegherebbe il male delle cose, e a
rassomiglianza del quale, dall'altra, questo verrebbe prodotto. La risposta è
evidente. In Dio c'è soltanto l'idea delle cose: delle cose buone, oppure
delle cose rovinate dal male; ma allora è nel bene, che queste cose
dovrebbero avere e che non hanno, che Dio conosce il male (72). Ma in
Lui non ci sono idee del male (73).

2) Ricordiamo a questo punto la distinzione fondamentale fra il male della
natura ed il male del peccato.
Il male della natura non è desiderato da Dio. Ciò che è desiderato è il bene
e tutte le sue infinite derivazioni, che sono delle partecipazioni all' essenza
divina, delle realizzazioni delle idee divine. Ma questo bene cui Dio mira
comporta inseparabilmente un lato di nulla e di privazione al quale
bisognerà dunque rassegnarsi e che, in questo senso, è voluto
indirettamente. Le forme del male della natura con le loro derivazioni sono
volute indirettamente da Dio, in quanto accompagnano le forme e le
derivazioni del bene volute direttamente da Lui. Esse sono incluse nelle
idee divine del bene e misurate attraverso ad esse.

Ma le forme del peccato non sono volute da Dio in alcun modo. Non sono
incluse come volute indirettamente nelle idee creatrici né misurate
attraverso ad esse. Esse sono inventate liberamente con tutte le loro
spaventose derivazioni dall'uomo, causa prima del peccato. A questo
concetto s'ispira quella pagina profonda del Court traité (74): “Ho detto
che Dio non ha l'idea del male. Egli ha inventato Béhémoth e Leviathan e
tutte le forme terrificanti che popolano la natura ed il mondo della vita, i
pesci feroci, gli insetti distruttori, ma non ha inventato il male morale ed il
peccato. Non è Lui che ha avuto l'idea di tutte le contaminazioni e le
abominazioni, del disprezzi sputati sul Suo proprio Volto, del tradimenti,
delle lussurie, delle crudeltà, delle viltà, delle malvagità bestiali, delle
licenze raffinate, delle depravazioni dello spirito che le Sue creature
possono contemplare. Quelle cose sono nate soltanto dall'annullamento
della libertà umana: esse sono uscite da questo abisso. Dio le permette
come una creazione della nostra facoltà di creare il nulla.

“Egli le permette perché è abbastanza forte, secondo la espressione di
sant'Agostino, per fare volgere tutto il male che ci piacerà di introdurre nel
mondo ad un bene maggiore, nascosto nel mistero della trascendenza, e di
cui nulla nella natura ci permette d'immaginare in che cosa possa
consistere. L'uomo di fede, poiché ha un'intuizione della sua grandezza e
se ne meraviglia, misura la grandezza del male che un tale bene
compenserà abbondantemente.

“La nostra disgrazia sta precisamente in questo fatto, che non esiste il
copione scritto anticipatamente da Dio (sarebbe una cosa meno funesta); e
che l'elemento nefasto del dramma viene da noi, esseri creati, mentre Dio
gioca sul sicuro. Poiché il male dell'atto libero è una nostra creazione,
lasciando i nostri mostri prolificare fino alla fine e permettendo che le
risorse infinite della nostra facoltà di annientare sviluppino tutte le forme
di degradazione e di corruzione dell'essere, la libertà divina manifesterà la
sublimità della sua onnipotenza, traendo proprio da ciò il bene superiore
che essa si pone, non per lei, ma per noi” (75).

d) Dio è offeso dal nostro peccato.

I) La contemplazione del mistero della redenzione ci insegnerà a
conoscere il vero mistero del male del peccato. Se fu necessario un Dio
per salvarci, non è forse perché il male racchiude in sé qualche malizia
infinita? Ritroviamo a questo punto la domanda posta da sant'Anselmo nel
Cur Deus homo. Tale sarà il pensiero di san Tommaso: “Il peccato
commesso contro Dio trae una certa infinità dalla Maestà infinita: l'offesa
infatti è tanto più grave quanto più alta è la dignità dell'offeso. E' per
questo che se la soddisfazione doveva essere equivalente, condigna,
esigeva un atto la cui efficacia, venendo contemporaneamente da Dio e
dall'uomo, fosse infinita” (76). San Giovanni della Croce scrive in forma
violenta, che i peccati sono “così odiosi a Dio che Lo hanno costretto alla
morte, que Dios tanto aborrece que le obligaron a muerte” (77).

2) Il peccato è un'offesa a Dio, un'ingiuria alla Sua Maestà infinita.
Colpisce Dio privandolo di ciò che Gli è dovuto secondo giustizia: lede il
diritto assoluto del Fine ultimo ad essere amato sopra ogni cosa. Più
concretamente colpisce Dio stesso, senza dubbio non in Se stesso, ma là
dove è vulnerabile, e cioè nell'amore con il quale Si sforza di salvarci.
“Che cosa significa dunque questo concetto di offesa a Dio?… Con una
prima approssimazione si potrebbe dire che il peccato è delcida, nel senso
che, per quanto dipende da lui, giungerebbe a distruggere Dio, se fosse
possibile. Ma ciò è precisamente del tutto impossibile. Mi getto su di un
uomo per ucciderlo, ma il mio coltello è di carta. Questo paragone
chiarisce la natura dell'atto, non il modo col quale tocca Dio, perché il
peccato distrugge qualche cosa dell'ordine creato, ma non distrugge nulla
in Dio. Con una seconda approssimazione, che mi sembra preferibile, si
potrebbe dire che il peccato priva la volontà divina di qualche cosa che
essa ha realmente voluto... Nella sua volontà antecedente, Dio vuole che
tutti gli uomini siano salvati, così come vuole i miei atti siano buoni. Se io
pecco, qualche cosa che Dio ha voluto ed amato non accadrà in eterno: e
questo per mia propria iniziativa (78). Sono così la causa, annientante, di
una privazione riguardo a Dio, privazione quanto al termine o all'effetto
voluto (non certamente quanto al bene di Dio stesso)... Il peccatore non
priva soltanto l'universo di una cosa buona, ma priva Dio stesso di una
cosa che era voluta da Lui, condizionatamente, ma realmente... La colpa
morale colpisce l'increato, non in se stesso, poiché è assolutamente
invulnerabile, ma nelle cose, negli effetti che egli vuole ed ama. In questo
senso si può dire che Dio è il più vulnerabile degli esseri. Non occorrono
frecce avvelenate, né cannoni né mitragliatrici, basta un invisibile
movimento nel cuore di un agente libero, per colpirlo, per privare quaggiù
la Sua volontà antecedente di qualche cosa che Egli ha voluto ed amato da
tutta l'eternità e che non sarà mai” (79).
3) Qualcuno ha scritto che nell'Antico Testamento l'uomo ha paura di Dio,
ma che, nel Nuovo, è Dio che ha paura dell'uomo, paura di me, paura di
voi, del male che posso ancora fargli per mezzo mio, per mezzo di altri. Sì,
Dio ha paura del peccato ha paura per me del male che Gli posso fare; è
per questo che manda il Suo unico Figlio amatissimo a cercarmi sulle
strade del mondo ed a chiamarmi sotto la sua Croce, Quaerens me sedisti
lassus, Redemisti crucem passus, Tantus labor non sit cassus.

NOTE
(1) Enchiridion, cit., cap. 11.
(2) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 2, a. 3, ad. 1.
(3) “Malum culpae, quod privat ordinem ad bonum divinum, Deus nullo modo vult”
(ID., I, q. 19, a. 9).
(4) Dio, dice SAN TOMMASO, può volere due cose: permettere che i mali esistano e
fare rientrare in un ordine superiore i mali che non può volere:. “Ex quo sequitur
quod velit mala facta ordinare, non autem quod velit ea fieri” (l Sent., dist. 46, a. 4).
(5) “Gli angeli stessi non sono, per natura, nell'impossibilità di peccare; il peccato di
molti di essi lo ha dimostrato”; è per la grazia che i buoni angeli sono ora confermati
nel bene (ID., II Sent., dist. 23, q. 1, a. 2, ad. 2).
Riguardo a tutti i beni che sono al livello della sua natura e che costituiscono il suo
universo connaturale, l'angelo è stato creato in uno stato di sovrana libertà
inflessibilmente retta. Ma Dio non è al livello della natura dell'angelo né parte del suo
universo connaturale; egli è infinitamente al di sopra. Che noi siamo nell'ordine della
natura o nell'ordine della grazia, Dio è un bene infinitamente trascendente che la
creatura intelligente, angelo o uomo, deve amare al di sopra di ogni cosa, di un amore
di libera opzione, per appoggiarvi la sua vita morale (IBID., III Contra Gentiles, cap.
109).
(6) IBID., Il Sent., dist. 23, q. 1, a. 1.
(7) IBID. (1, q. 63, a. 1). Consideriamo come l'unica tesi conforme al pensiero di san
Tommaso e come l'unica che permetta di risolvere l'enigma del peccato dell'angelo,
quella secondo la quale, considerato nella sua natura, l'angelo, come ogni creatura
intelligente e libera, è suscettibile di peccato riguardo all'ordine naturale stesso e non
soltanto riguardo ad un ordine soprannaturale possibile. Dal punto di vista metafisico,
l'argomento è stato ripreso nello studio magistrale di J. MARITAIN, Le péché de
l'ange, Essai de réinterprétation des positions thomistes (“Revue Thomiste”, 1956,
pp. 197-239). Dal punto di vista teologico, il R. P. PHILIPPE DE LA TRINITÉ,
prendendo atto delle Tecenti pubblicazioni, ha sottoposto ad un esame, in certo senso
esauriente, questo aspetto del peccato dell'angelo (“Etudes Carmélitaines”, Du péché
de Satan et de la destinée de l'esprit, Paris 1948, pp. 44-85; e in “Ephemerides
Carmeliticae”, Réflexions sur le péché de l'ange, Roma 1957, n. 1, pp: 45-92; La
pensée des Carmes de Salamanque et de Jean de saint Thomas, n. f, pp. 315-75;
Evolution de saint Thomas sur le péché de l'ange dans l'ordre, naturel, 1958, pp.
338-90)..
(8) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 25, a. 3. (V. indietro, p. W2).
(9) ID., Il Sent., dist. 23, q. l, a. 2; De Veritate, q. 14, a. l, ad. 16.
(10) IBID., De malo, q. 16, a. 2.
(11) La distinzione delle due prospettive, l'una dell'agire o del bene, l'altra dell'essere,
è fatta da SAN TOMMASO (op. cit., I, q. 48, a. 2).
(12) ID., l, q. I04, a. 3, ad. 1.
(13) IBID. (II Sent., dist. 23, q. l, a. 2): “Dio doveva permettere la tentazione o il
peccato dell'uomo?” (Cfr. Compendium theologiae, cap. 142), Dio, permettendo i
mali non deroga dalla sua bontà: “L'ufficio della provvidenza non è di perdere la
natura degli esseri che governa, ma di salvarla... Se il male fosse totalmente escluso
dalle cose, esse non sarebbero regolate secondo la loro natura, dalla provvidenza
divina”.
(14) IBID., I, q. 62, a. 3, ad. 2.
(15) IBID., I, q. 63, a. 1.
(16) IBID., De veritate, q. 24, a. 1, ad. 16.
(17) IBID., q. 24, a. 9.
(18) Obras de S. Juan de la Cruz, ed. Silverio, tomo IV, p. 351; (trad. Lucien-Marie
de Saint-Joseph, p. 1370).
(19) SAN TOMMASO, De veritate, q. 24, a. l, ad. 16.
(20) Cfr. De Genesi ad litteram, lib. VIII, cap. 20, n. 39.
(21) Ricordiamo brevemente che ciò che è vero per l'essere, è vero per l'agire, che è
ancora una forma di essere. Orbene, entrando netta dipendenza dell'Essere in sé, gli
esseri emergono dal nulla e prendono possesso dalla loro propria esistenza; e più
entrano in questa dipendenza, più il loro essere è ricco e consistente. Allo stesso
modo, entrando nella dipendenza dell'azione divina, detta libertà divina, gli esseri
agiscono ed agiscono liberamente; e più entrano in questa dipendenza, più la loro
azione, la loro libertà, è ricca e consistente. La libertà creata non è dunque
indipendenza, ma dipendenza intima e profonda, in rapporto atta libertà originaria.
Ma, essendo ordinata alla ragione stessa di bene come al proprio oggetto, essa rimane
in un'indipendenza radicale, in un'indifferenza dominatrice sostanziale, in rapporto a
tutti i beni parziali; essa può accettarli come beni, o rifiutarli come parziali ed
inadeguati alla ragione stessa del bene. Soltanto il bene assoluto, che colmasse
l'immensità del suo desiderio, sarebbe per lei un oggetto determinante. Quando essa
passa, compiendo un atto buono, dalla facoltà di volere all'atto di volere, non può
essere che sotto una mozione divina, che non distrugge, ma che anzi attualizza la sua
indifferenza dominatrice. Solo Dio, che ha fatto questa delicata macchina del nostro
libero arbitrio, è in realtà capace di muoverla senza romperla. Se si tratta di un atto
cattivo, vedremo che nulla di ciò che riguarda la deviazione può dipendere da Dio.
Questa grande metafisica è riassunta con sicurezza da BOSSUET (Traité du libre
arbitre, cap. VIII): “Come l'essere creato non cessa di essere, per il fatto che è di un
altro, cioè per il fatto che è di Dio, e viceversa è ciò che è, per il fatto che è di Dio,
così bisogna intendere che l'agire creato non cessa, se così si può dire, di essere un
agire, per il fatto che è di Dio; anzi è tanto più agire in quanto Dio gli concede
dell'essere. Non è dunque vero che Dio, causando l'azione della creatura, le impedisce
di essere azione, chè anzi gliela concede: poiché bisogna che le dia tutto ciò che essa
ha, e tutto ciò che essa è; e più l'azione di Dio sarà come,immediata, più sarà
concepita come quella che dà immediatamente a ciascuna creatura e ad ogni azione
della creatura, tutte le proprietà che loro convengono. Così, ben lungi dal poter dire
che l'azione di Dio sulla nostra le toglie la sua libertà, si deve invece concludere che
la nostra azione è libera a priori, per il fatto che Dio la fa essere libera. Poiché, se si
attribuisse ad altri, anziché al nostro autore, di fare in noi la nostra azione, si potrebbe
credere che egli colpisca la nostra libertà, e rompa, per così dire, muovendola, una
molla così delicata che non avrebbe per nulla fatto. Ma Dio fa attenzione di non
togliere nulla alla sua opera per mezzo della sua azione, poiché egli vi fa invece tutto
ciò che vi è, fino all'estrema precisione, e fa, di conseguenza, non soltanto la nostra
scelta, ma anche nella nostra scelta, la libertà stessa” V. avanti, p. 203.
SOEREN KIERKEGAARD ha senza dubbio ragione quando scrive: “La cosa più
grande che si possa fare per un essere è di farlo libero. Ci vuole l'onnipotenza per
farlo tale”. Ma ha egli compreso che la libertà dell'uomo non è indipendenza di fronte
a Dio, e che è soltanto nell'ordine morale, non nell'ordine metafisico, che l'uomo può
farsi l'avversario di Dio, dimenticando in sé le nozioni della grazia divina? Se ne
dubiterebbe, leggendo quello che segue: “L'onnipotenza che con la sua forte mano
può pesare sul mondo può anche farsi così leggera che ciò che ha creato possegga
l'indipendenza”. E: “Che Dio abbia potuto creare di fronte a lui degli esseri liberi, è la
croce che la filosofia non può sopportare, ma alla quale essa è rimasta appesa” (Citaz.
tratte da JEAN WAHL, Études Kierkegaardiennes, Vrin, Paris 1949, p. 412).
(22) La volontà, dal momento stesso in cui è mossa da Dio a dire quel sì decisivo,
non vuole, né può attualmente dire di no; ecco il “senso composto”: un uomo seduto
non può essere contemporaneamente in piedi. Ma sotto un altro aspetto, essa può dire
no, nel senso che, mossa da Dio a dire sì, conserva ancora, sotto quella mozione, la
facoltà di dire no: un uomo seduto conserva, in “senso limitato”, la facoltà di alzarsi.
(23) “Defectus gratiae prima causa est ex nobis” (s. TOMMASO, I - II, q: 112, a. 13,
ad. 2. V. avanti, p. 204; e indietro, p. 82).
(24) Alla distinzione fra mozione interrompibile e mozione ininterrompibile, si può
fare corrispondere la distinzione che fanno i teologi fra la volontà divina antecedente
e la volontà divina conseguente, fra la grazia detta sufficiente e la grazia di per sé
efficace.
L'éffetto della grazia di per sé efficace è di spingere all'atto salutare. Qual'è l'effetto
della grazia che possiamo interrompere? Pensiamo, ad esempio, ad un uomo che,
uscendo progressivamente dal peccato, incominci a fare un atto di attrizione, prima di
fare l'atto di carità e quello di contrizione perfetta, che lo introdurranno nell'amicizia
divina.
Bisogna dunque dire che la mozione interrompibile o sufficiente produce l'atto
soprannaturale di attrizione, e che, se esso è detto sufficiente e non efficace, è perché
l'atto di attrizione non è sufficiente a giustificare il peccatore? Ma allora, non si vede
più ciò che il peccatore interrompe, non si parlerà dunque di grazia interrompibile,
ma semplicemente di grazia “sufficiente”. E non si vede neppure perché la grazia
sufficiente dell'attrizione non sia sempre seguita dalla grazia efficace della
giustificazi6ne.
Allora bisogna dire piuttosto riguardo alla mozione interrompibile che essa tende
sempre a concedere e che concede effettivamente, quando non viene interrotta, di
considerare in modo attuale la regola dell'agire, vale a dire che, nel momento in cui
la volontà è trascinata dalla mozione che spinge tutte le creature ad agire, concede il
potere di orientare, ed ulteriormente (ma allora sarà sotto la mozione della grazia
ininterrompibile), di produrre l'atto soprannaturale di attrizione?
Se si vogliono seguire con attenzione le dichiarazioni di san Tommaso sull'origine
della deformità del peccato; che va ricercata nella non-considerazione della regola,
bisogna attenersi, a nostro avviso, al secondo partito, con l'autore di Court traité de
l'existence et de l'existant (v. soprattutto, pp. 156-60, nota). L'effetto della mozione
interrompibile è sempre quello di mettere hic et nunc di fronte al dilemma: ciò è
conforme oppure ciò è contrario alla regola. Interrompere la mozione significa
sopprimere il dilemma attraverso la considerazione unilaterale del bene contrario alla
regola.
(25) SAN TOMMASO, III Contra Gentiles, cap. 161.
(26) “Et ad te nostras etiam rebelles compelle voluntates” (Secreta del sabato dopo la
quarta domenica di Quaresima e della quarta domenica dopo Pentecoste).
(27) Sulla distinzione fra mozione generale e mozione speciale della grazia operante,
v. c. JOURNET, L'aventure des anges (in “Nova et Vetera”, 1958, pp. 132 sgg. Cfr.
s. TOMMASO, op. cit., I - II, q. 9, a. 6, ad. 3. V. avanti, p. 196).
(28) J. MARITAIN, Court traité, cit., p. 161.
(29) ID., Saint Thomas d'Aquin et le problème du mal, cit., p. 243.
(30) SAN TOMMASO, III Contra Gentiles, cap. 159.
(31) ID., cap. 161.
(32) Troviamo la stessa dottrina nella Lectura ad Hebraeos (cap. XII, lett. 3, ed.
Marietti, n. 689): “Se qualcuno pone un ostacolo alla grazia e successivamente il suo
cuore è portato a toglier lo, ciò è effetto di un dono della grazia di Dio che lo attira
per mezzo della sua misericordia. Secondo GAL. (I, 15): Quando è piaciuto a Colui
che mi ha fatto partecipare fin dal seno materno e che mi ha chiamato per mezzo
della sua grazia, ecc...Là, dove l'ostacolo è tolto c'è l'opera della misericordia di Dio;
là dove non lo è, c'è l'opera della sua giustizia”. Per scongiurare ogni pelagianismo ed
insistere sull'opera delle premure divine (che noi possiamo, ahimè! infrangere ed
annientare) san Tommaso aveva scritto, poco prima che “non porre ostaco1o [all'atto
salutare] è già opera della grazia”.
(33) SANT 'AGOSTINO, Sermone XCVIII, n. 2.
(34) Cfr. SAN TOMMASO, I- II, q. 79, a. 1.
(35) “Omne peccatum est per recessum ab ordine qui est in Deum sicut in finem.
Deus autem omnia inclinat et convertit in seipsum sicut in ultimum finem” (IBID. V.
indietro, p. 89).
(36) “Malum culpae, quod privat ordinem ad bonum divinum, Deus nullo modo
vult” (IBID., I, q. 19, a. 9).
(37) Ciò che caratterizza metafisicamente il male della colpa è che esso rifiuta a Dio
la sua prerogativa di fine ultimo: “Malum culpae in hoc differt a ceteris mali s, quod
ipsum, quantum est ex se, est privativum boni divini secundum seipsum, si esset
privabile... Cetera autem mala respiciunt bonitatem divinam in aliquo particulari
effectu” (GAETANO, I, q. 19, a. 9, n. 4).
(38) CALVINO, Institution chrétienne (Ginevra-Parigi 1888, lib. II, cap. 4, n. 3).
Qual è, nel quinto libro dell' Opus imperfectum contra Julianum, la dottrina di
sant'Agostino? A proposito di Rom. (VII, 19): “Non faccio il bene che voglio e faccio
il male che non voglio”, egli afferma che il peccato originale ha lasciato in noi, come
una pena, una “necessità. di peccare” sulla quale non trionfiamo che per mezzo della
graziai più forte di tutte le necessità. (cap. LXI), e che, aggiungiamolo pure, sarà.
offerta a tutti gli adulti. Ma precisamente questa necessità. di peccare non è affatto
riducibile alla potenza divina: “Forse che il male dell'uomo”, di cui parla l'apostolo
quando scrive che fa il male che non vuole, “risale all'Autore stesso dell'uomo?
numquid hoc malum hominis... ipsum hominis pulsqt Auctorem?” (cap. LII). E'
evidente che questa “necessità. di peccare” si deve spiegare come la colpa commessa
dai bambini “non per opera di Dio, ma per il sopraggiungere del peccato, non Del
opere, sed peccati origine” (cap. VII). E' pure evidente, ripetiamolo una volta ancora,
che non si può trattare che di una necessità. di peccare, facendo astrazione della
grazia, che previene ciascuno di noi. Il libro finisce con un avvertimento a Giuliano:
“Ma tu, se non c'è in te della follia, considera se non è follia sostenere che Dio è
autore non soltanto del male della pena, che è una giustizia, ma anche del male che
porta il nome di iniquità?” (cap. LXIV). E' ben chiaro che Agostino è assai lungi dal
ritrattare ciò che aveva detto in precedenza, per esempio nella terza e quarta delle 83
Questioni, e cioè che l'uomo non diventa affatto cattivo per la volontà divina ma per
la perversità. della sua propria volontà, est ergo vitium voluntatis qua est homa
deteriar; quod vitium... longe abest a Del voluntate.
(39) ID., lib. III, cap. 23, n. 8. (V. indietro, p. 95).
(40) IBID. (n. 7). Si tratta del primo peccato che, osserviamolo bene, non poteva
essere voluto “per punire altri peccati”.
(41) SANT 'AGOSTINO, nella quattordicesima delle 17 questioni su san Matteo,
proponeva di leggere al contrario le ultime parole: “e che essi si convertissero e che
io li guarissi”, spiegando che gli ebrei dovevano essere accecati, poi criminali, poi
sconvolti per la coscienza del loro delitti, poi vinti dall'amore, flagrantissima
dilectione conversi.
(42) Per quest'ultimo versetto di Osea che san Tommaso cita secondo la volgata, il
testo del Settanta porta: “Nella tua distruzione, Israele, chi sarà il tuo soccorso?”, ed il
testo ebraico si può leggere così: “Tu sei perduto Israele, ma il tuo soccorso è in me”,
oppure: “Ciò che ti perde, Israele, è il fatto che sei contro di me, tuo soccorso”.
(43) SAN TOMMASO, Lectura super Joannem, XII, lez. 7, n. 1698.
(44) “Deus autem, proprio judicio, lumen gratiae non immittit illis in quibus
obstaculum invenit” (ID., I - II, q. 79, a. 3).
(45) E' la colpa che rovina l'uomo: l'accecamento e l'indurimento non sono altro che il
risultato (IBID., ad. 1).
(46) Gli esegeti avranno senza dubbio altre considerazioni da far valere. A proposito
di Marco (IV, II): “A voi il mistero del regno di Dio è stato concesso, ma a quelli di
fuori tutto arriva per mezzo di parabole, affinché, guardando con i loro occhi, non
vedano...”. M.-J. LAGRANGE scrive nell'Évangile de Jésus-Christ (Lecoffre, Paris
1928, p. 169): “Tutto è abbastanza chiaro, tuttavia, se si consente ad interpretare delle
parole pronunciate in una lingua semitica, secondo le leggi di quello spirito... Dio
vuole la salvezza del suo popolo, poiché suscita un predicatore... L'intenzione di Dio
è evidente, essa deve sgorgare dal linguaggio che egli adopera, chiaro, insistente, tale
da costringere gli ebrei a scegliere. Orbene, la loro scelta è prevista, e tale scelta li
trascina verso l'abisso. Va' dunque, dire il Signore al suo messaggero, con l'amarezza
irritata di un amore anticipatamente deluso, va' a parlar loro affinché si induriscano,
ed affinché non sia loro perdonato! Espressione strana, ma di una bellezza
commovente. Ciò che era accaduto al tempo di Isaia, accadde al tempo di Gesù; gli
evangelisti non possono far altro che constatarlo, e sapevano benissimo che la colpa
non era imputabile a Dio. Sta a noi penetrare nel loro pensiero seguendo il corso che
esso ha preso”.
(47) SANT 'AGOSTINO, Confessioni, lib. IV, cap. 9, n. 14.
(48) SAN TOMMASO, I- II, q. 79, a. 2.
(49) ID., De malo, q. 3, a. 2.
(50) L'atto libero deriva infatti da una duplice mozione divina: 1. la mozione divina
generale che attiva universalmente gli esseri, particolarmente il dinamismo fisico
della volontà; 2. la mozione divina morale, sia interrompibile, sia ininterrompibile,
che sprona verso un certo atto buono determinato. Pensiamo, ad esempio, ai sì
pronunciati davanti ad un tribunale: se la testimonianza è veritiera, dipende dalla
duplice mozione divina da mi deriva il suo essere fisico e la sua retta ordinazione
morale; invece, nel caso di una testimonianza falsa, la mozione divina morale è stata
interrotta; continua soltanto la mozione divina che dà all'atto il suo essere fisico (Cfr.
IBID., ad. 2; e J. MARITAIN, Court traité... cit., p. 156, nota 1, par. 3).
Io posso, al momento di agire, interrompere la mozione divina che mi portava a
considerare la regola “e per ciò stesso domandare - per così dire il permesso di fare il
male”. Di conseguenza, agendo senza considerare la regola, dirigo verso il male il
flusso di essere che mi era concesso per andare verso il bene: ecco il permesso di
effettuare il male, “il decreto [divino] che concede il permesso e che presuppone il
concetto che la mozione generale che attiva tutto l'ordine fisico non è sottratta al
fisico dall'atto cattivo” (Cfr. ID., p. 177).
(51) SAN TOMMASO, I- II, q. 79, a. 1, ad. 3.
(52) ID., I - II, q. 79, a. 1.
(53) IBID., II Sent., dist. 23, q. 1, a. 2. Cfr. Compendium, cap. 142: “Providentiae non
est naturam gubernatorum perdere sed salvare”. Altrove san Tommaso scrive che non
era cosa conveniente che il Verbo si incarnasse in tutti gli uomini, poiché ciò avrebbe
annullato il gran numero di presupposti che sono connaturati con la natura umana. Ne
sarebbe risultato un altro mondo, nel quale la passione del Cristo, che è la più grande
prova d'amore da parte di Dio nei nostri riguardi, non sarebbe stata possibile (III, q. 4,
a. 5, ad. 2).
(54) Cit. da SAN TOMMASO, I, q. 29, a. 5, ad. 3.
(55) S. KIERKEGAARD, Traité du désespoir (Die Krankheit zum Tode), Gallimard,
Paris 1932, pp. 243-44. Il testo continua: “Ciò che egli può, adunque, la cosa in suo
potere, è questa: riuscire, attraverso al suo amore, a fare la disgrazia di un uomo,
come nessuno lo avrebbe potuto fare a se stesso. Oh contraddizione impenetrabile
dell'amore!”. Precisiamo riguardo a queste ultime righe che non è evidentemente
l'amore del Cristo che finisce per fare la disgrazia di un uomo, ma la rivolta di
quell'uomo contro le premure del Cristo; se vi è contraddizione, essa esiste fra la
volontà salvatrice del Cristo e la volontà perversa del peccatore. Questo è il senso di:
“Se non fossi venuto, se non avessi parlato loro, non avrebbero peccato; ma ora non
hanno scusa per il loro peccato...” (Gv., XVI, 22-24).
(56) SAN TOMMASO, I - II, q. 113, a. 10. Cfr. III, q. 86, a. 5, ad. 1.
(57) J. MARITAIN, Bienheureux les persécutés..., in Raison et raisons, cit., p. 347.
(58) “I perseguitati ed i santi, che si sono salvati per mezzo del Cristo, salvano come
cause strumentali, e in virtù del sangue di Cristo, i persecutori ed i malfattori. I poveri
persecutori ed i poveri peccatori, i poveri figlioli prodighi che si dibattono
nell'esperienza del male e negli impuri affari del mondo, saranno così salvati, salvo
coloro (numerosissimi forse o relativamente rari, chi sa il loro numero?) i quali hanno
ucciso in se stessi ogni divina semenza di buona volontà e che preferiscono l'inferno a
Dio. Ad eccezione di quegli uomini che rifiutano di essere riscattati, il mondo stesso
che odia il Cristo.d i 5uoi discepoli sarà alla fine riconciliato col Cristo, ma dopo la
fine della storia” (J. MARITAIN, Pour une philosophie de l'histoire, Seuil, Paris
1959, p. 154).
(59) IBID., Raison et raisons, cit., p. 350.
(60) SAN TOMMASO, I - II, q. 75, a. 2.
(61) ID., I - II, q. 78, a. 7. (V. avanti, pp. 270 e 272).
(62) IBID., I-II, q. 80, a. 3.
(63) SANT ' ANSELMO, Dialogo sulla caduta del diavolo, P.L., t. CL VIII, c. 353.
(64) SAN TOMMASO, I, q. 14, a. 13.
(65) GAETANO,.1, q. 14, a. 13, n. 12.
(66) SAN TOMMASO, I-II, q. 112, a. 3, ad. 2. (V. indietro, pp. 182 e 191).
(67) Le preghiere di santa Caterina da Siena, Ottava preghiera fatta a Roma, martedì 22 febbraio 1379, ed. Art Catholique, Paris 1919, p. 74.
(68) Su Giovanni (I, 3), P. LOMBARDO (I Sent., dist. 46), scrive: “Et sine ipso
factum est nihil, id est peccatum”. Cfr. il commentario di SANT ' AGOSTINO su
questo stesso testo: “Il peccato è nulla e gli uomini divengono nulla quando peccano”
(In Joan Evang., tratto I, n. 13).
(69) J. MARITAIN, Une philosophie de la liberté, in Du régime temporel et de la
liberté, Desclée De Brouwer, Paris 1933, p. 32.
(70) “Si tratta con questo di stabilire una determinazione della scienza divina da parte
della creatura, o per dir meglio, attraverso l'irruzione del nulla, di cui la creatura ha la
prima iniziativa? Ma credete forse che il non-essere sia in grado di determinare? E
credete per di più che gli esseri creati siano per la scienza divina qualcos'altro che un
termine secondario, raggiunto come una materia pura péi nulla formativa o
specificatrice? Dimenticate che soltanto l'essenza divina è per sé oggetto formale e
specificatore, e che né le cose (all'infuori di Lui) che Dio conosce, né i decreti, né le
concessioni della sua volontà hanno la minima parte determinante riguardo alla sua
conoscenza? Se non incominciamo col riconoscere la libertà assoluta della scienza
divina riguardo ai suoi oggetti creati, non incominciamo a parlare di queste cose.
Anche quando essa conosce ciò di cui non è causa (il male come tale) non è mai
formata da ciò che conosce. E anche le sue concessioni rimangono formatrici, in
questo senso che coglie ancora le iniziative del rifiuto della creatura e le assume nei
disegni e nelle forme per cui passa il torrente dell'essere” (J. MARITAIN, La clef des
chants, in Frontières de la poésie et autres essais, Rouart, Paris 1935, p. 188).
Nelle pagine precedenti, la conoscenza divina creatrice è illustrata dall'immagine
della creazione musicale: “E' soltanto quando la sinfonia è fatta e compiuta che nello
spirito del musicista è compiuta la sua idea creatrice, intendo dire quanto alla sua
esprimibilità, quanto ai particolari delle sue determinazioni e del suoi contorni...
Osiamo dire che, in un certo senso, la stessa cosa accade per la conoscenza divina.
Poiché se vogliamo comprendere in qualche modo le proprietà della scienza creatrice,
detta scientia visionis, non è soltanto la considerazione di ciò che si chiama la volontà
antecedente (per la quale egli vuole che tutto sia buono, che tutto sia salvo) che noi
dobbiamo aggiungere alla considerazione dell'essenza divina infinitamente
trasparente di fronte all'intelligenza divina, ma è anche la considerazione della
volontà conseguente di Dio, per mezzo della quale egli permette il male della creatura
libera (e in ragione di quali circostanze se non del rifiuto di questa? E non intendo
parlare soltanto della possibilità generale di rifiuto inclusa nella libertà creata, ma
anche delle iniziative di rifiuto che realmente emanano da essa in questo o in quel
momento). Se è vero che nella linea del male la creatura è causa prima, deficiente,
non efficiente (causa prima della privazione o del nulla che colpisce quel certo
momento della sua libertà), bisogna pur dire che il male non può essere conosciuto se
non nell'istante medesimo in cui colpisce in tal modo l'esistenza, in cui la creatura si
sottrae volontariamente all'influsso di essere e di bontà che discende dall'amore
creatore; e poiché il tempo è tutto quanto presente all'immobile nunc eterno, da tutta
l'eternità la privazione, la non-regolazione volontaria, il non-essere radice dell'atto
deviato compiuto da me in quella certa ora di quell'orologio dell'universo o
dell'atomo è, era e sarà conosciuto da Dio” (ID., pp. 182 e 186-88).
(71) V. indietro, p. 97.
(72) “Il male, come tale, è il nulla, poiché è una privazione, per esempio la cecità. Di
conseguenza, c'è bensì in Dio un'idea della cosa cattiva, rei malae, non certamente in
quanto cattiva, in quantum mala est, ma in quanto cosa, in quantum res est; ed il male
stesso è conosciuto da Dio, attraverso al bene opposto a quel male e che manca alla
cosa cattiva, et ipsum malum per oppositum bonum cognoscitur a Deo, a quo res
privationi subiecta deficit” (SAN TOMMASO, I Sent., dist. 36, q. 2, a. 3, ad. 1.).
(73) “Malum non habet in Dea ideam” (ID., I, q. 15, a. 3, ad. l).
(74) J. MARITAIN, Court traité, cit., pp. 191-93.
(75) “Deus gloriam sua m quaerit non propter se, sed propter nos” (SAN
TOMMASO, II-II, q. 132, a. 1, ad. 1).
(76) ID., III, q. 1, a. 2, ad. 2. Cfr. L'Eglise du Verbe incarné, tomo 11, p. 151.
(77) SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Lettera X, Silverio, tomo IV, p. 267.
(78) Cfr. SAN TOMMASO (Sent. I, dist. 47, q. 1, a. 2, ad. 1): “Coloro che non sono
con Dio, per quanto dipende da loro, sono contro Dio, per il fatto che contrariano la
volontà divina antecedente”.

(79) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
cit., pp. 175-76.


CAPITOLO SETTIMO

LA PENA DEL PECCATO ATTUALE
Il male della pena è una reazione al male del peccato (I). Come si può
urtare contro le cose divine senza fiaccarsi contro di esse? La pena segue
la colpa, come l'ombra segue il corpo.

Da ciò deriva che la differenza del peccati genererà la differenza delle
pene. Parleremo fra poco della pena del peccato originale. Ora bisogna
dire qualcosa della pena eterna del peccato mortale, poi della temporale
del peccato veniale. Così si tocca l'argomento sui misteri dell'inferno, della
pena punitiva ed espiatoria, del purgatorio.
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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