DON ANTONIO

mercoledì 21 settembre 2011

LINGUAGGI DELLA SOFFERENZA di Luciano Manicardi

Guarire con la solidarietà
La parabola evangelica del buon samaritano consente di riflettere sul rapporto tra solidarietà e guarigione. Si tratta di un testo molto noto e che proprio per questo necessita di una lettura rinnovata, forse inedita, per manifestare tutte le sue potenzialità (1) .
La parabola del buon samaritano contiene l'insegnamento che la sofferenza dell' altro è appello alla compassione, e che la con-sofferenza è essenziale alla solidarietà. È importante cogliere la parabola vera e propria (cf. Lc 10,30-35) in continuità con il breve dialogo tra il dottore della legge e Gesù che la precede (cf. vv. 25-29): si vedrà così che la parabola è la narrazione con cui Gesù insegna la vera solidarietà al dottore della legge che gli pone la domanda simbolo della non responsabilità e della non solidarietà: "Chi è il mio prossimo?". In particolare Gesù invita il dottore della legge a passare dal sapere al fare: egli risponde bene, rettamente, in modo ortodosso (orth6s: v. 28) alla domanda postagli da Gesù (cf. Lc 10,26-27), ma sembra non arrivare a fare il legame tra sapere e fare, tra conoscenza delle Scritture e sofferenza dell'uomo, tra corpo delle Scritture e corpo dell'uomo ferito, tra spirito e mano. Non arriva ad amare realmente e dunque a compiere la Scrittura. Capiamo così l'ammonimento ripetuto due volte: "Fa questo e vivrai!". (Lc 10,28); "Va' e anche tu fa' lo stesso" (Lc 10,37). Gesù insegna che la solidarietà è un reale farsi prossimo all'altro nella sua sofferenza: la solidarietà, dunque, come arte della vicinanza, della presenza all'altro nel suo bisogno.
Ora, il sacerdote e il levita vedono l'uomo ferito, quasi morto, ma passano dall' altra parte della strada: perché? Perché questo rifiuto della solidarietà? Forse per non contrarre impurità con un quasi-cadavere, ma certamente vi è qualcosa di più radicale e che anche noi sperimentiamo: l'uomo malato, ferito o morente può farci paura. E allora noi capiamo che per entrare nella vera compassione che sfocia poi nella solidarietà non basta vedere l'uomo ferito, ma occorre vedere anche le proprie resistenze alla compassione, vedere la propria vulnerabilità, riconoscere che compassione e solidarietà suscitano in noi anche rifiuto e ripugnanza. Non è da escludere che la presenza dell'uomo ferito sia sentita come una vera e propria scocciatura che riempie di collera sacerdote e levita: perché costui è là a interrompere il mio cammino, i miei ritmi già prefissati e pacifici? N asce in me la volontà di escluderlo dal mio orizzonte perché mi infastidisce: allora passo dall'altra parte della strada.
Io credo che per leggere onestamente questa parabola dovremmo non tanto identificarci nel protagonista buono, il samaritano, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita, e che i tre personaggi sono tre momenti dell'unico movimento faticoso verso un atteggiamento di vera compassione e solidarietà. Anche noi, per arrivare alla vera solidarietà, siamo chiamati a riconoscere le opposizioni alla solidarietà e alla compassione che ci abitano. Anche noi, per incontrare il sofferente dobbiamo incontrare la nostra sofferenza, la sofferenza che è in noi, il sofferente che noi siamo, e averne compassione.
E forse dovremmo cercare di guardare la scena della nostra parabola mettendoci nei panni dell'uomo ferito. Si entrerebbe in un' altra visione del mondo e si potrebbe entrare nella storia di quest'uomo che conosce quattro tappe:
1. È un uomo normale, come me, come tutti, che sta facendo la sua strada (v. 30a).
2. L'inatteso rende quest'uomo sventurato, quasi morto, a causa della violenza. Costui diviene uomo picchiato, ferito, rapinato, maltrattato, condotto a un passo dalla morte (v. 30b).
3. Davanti al sacerdote e al levita quest'uomo diviene l'uomo di cui non ci si prende cura, che patisce l'indifferenza omicida: sperimenta di essere un nulla, uno da evitare (vv. 31-32).
4. Davanti al samaritano diviene l'uomo aiutato, soccorso, che conosce chi si prende gratuitamente cura di lui, diviene colui che sperimenta la compassione dell'altro (vv. 33-35).
Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po' in noi. La compassione è la radice della solidarietà perché essa dice: "Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia". Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un'unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura che impedisce di cogliere quella di chi è impotente, in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all'altro sofferente è la paura dell'isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all' altro e diventare presenza nella sua solitudine. Scrive Emmanuel Lévinas:
Il dolore isola assolutamente ed è da questo isolamento assoluto che nasce l'appello all' altro, l'invocazione all'altro. Non è la molteplicità umana che crea la socialità, ma è questa relazione strana che inizia nel dolore, nel mio dolore in cui faccio appello all' altro, e nel suo dolore che mi turba, nel dolore dell' altro che non mi è indifferente. È la compassione. Soffrire non ha senso, ma la sofferenza per ridurre la sofferenza dell' altro è la sola giustificazione della sofferenza, è la mia più grande dignità (2).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere la compassione è attitudine essenziale. È l'attitudine del samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione (esplanchnisthe)" (Lc 10,33) e fece divenire responsabilità e solidarietà la compassione. La solidarietà deve ricordarsi di tutto questo se vuole avere una radice nel cuore dell'uomo, nel suo intimo, ed evitare di ridursi ad attivismo per cui si fanno tante cose per gli altri, ma si fallisce l'incontro con la persona che il bisognoso è, e non si cambia nulla in se stessi. Il samaritano, a differenza del sacerdote e del levita, fa divenire ascolto la visione del ferito. Non solo lo vede, ma lo ascolta, lo accoglie, lo fa avvenire in sé, patisce in sé qualcosa di ciò che sta patendo lui: allora ecco la solidarietà che si manifesta, e la solidarietà testimonia che ogni uomo è un fratello e che io ne ho una responsabilità. Il samaritano manifesta la sua responsabilità facendo tanto per quell'uomo; due serie di sette verbi (nel testo greco) dicono la totalità dell'impegno del samaritano: ha fatto tutto quello che poteva. E la doppia ricorrenza del verbo epimélomai (vv. 34-35) dice a cosa tende la compassione che rende l'uomo solidale con l'altro uomo: prendersi cura dell' altro uomo.
Un'ultima suggestione: il dialogo tra Gesù e il dottore della legge verteva sull' amare il prossimo. La parabola mostra che il samaritano è colui che si è fatto prossimo all'uomo ferito: lui è il prossimo. Colui che ama il prossimo allora è forse il ferito che, nella sua assoluta impotenza, concede all' altro l'occasione di divenire se stesso, di farsi umano a immagine di Dio, di divenire compassionevole come Dio è compassionevole. Non abbiamo qui la rivelazione velata dell'amore universale che dal crocifisso morente e impotente scende su ogni uomo? Non abbiamo qui l'esperienza che spesso facciamo quando diciamo che stando accanto a un malato o a un morente scopriamo che è più ciò che lui ha dato a noi che non il contrario?
Non abbiamo qui forse il sacramento della potenza della debolezza? Non abbiamo qui forse lo svelamento del fatto che colui che ha vissuto la solidarietà in modo radicale è il Signore Gesù Cristo nel suo farsi uomo, fino alla condizione dello schiavo, fino alla morte di croce, fino a condividere l'impotenza e gli inferi dell'uomo?
La compassione
Scenario: un campo allestito da Médecins sans frontières al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l'arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Il compito più urgente è di valutare il più in fretta possibile chi è curabile e chi no. In modo tecnico, professionale, senza troppi coinvolgimenti emotivi: e questo proprio per il bene di chi ha ancora qualche possibilità di sopravvivere. Di fronte a una giovane donna sventrata la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c'è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. E di morire così due volte. "Accompagnando la solitudine dell' essere vivente fino all' estremo limite in cui è possibile tenergli compagnia, Daniel ha abolito la solitudine di questa donna morente e, nello stesso tempo, ora lo so con certezza, la solitudine umana universale, per un istante". Questa la testimonianza di Xavier Emmanuelli nel suo libro Prélude à la symphonie du nouveau monde (3). E questa a me sembra la più plastica e drammatica espressione della compassione. Non a caso simile a quelle rappresentazioni, diffuse in occidente tra il XIII e il XVII secolo, tendenti a raffigurare la compassione del Padre e chiamate "trono di grazia" (il Padre, assiso, sostiene la croce cui è appeso il Figlio) o "la pietà del Padre" (il Padre sostiene il corpo morto del Figlio) (4).
Ora, nella relazione con il malato e con il sofferente in genere, la compassione è attitudine essenziale. Dal punto di vista teologico la Bibbia attribuisce la compassione anzitutto a Dio e ne fa l'elemento in base al quale Dio "vede" la sofferenza del popolo e si appresta a intervenire in suo favore (cf. Es 2,23-25; 3,7-8); Cristo poi, appare nei vangeli come narrazione e personificazione della compassione di Dio, ben espressa nell' atteggiamento del buon samaritano che, passando accanto all'uomo ferito, "lo vide e ne ebbe compassione" (Lc 10,33). Da questo sconvolgimento interiore, da questo soffrire la sofferenza dell' altro, il samaritano è condotto a un comportamento etico in base al quale fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare la situazione del bisognoso. La compassione non è solamente un sentimento che si impone al cuore dell'uomo, ma diviene scelta, responsabilità. Essa è risposta al muto grido di aiuto che si leva dal viso dell'uomo sofferente, dagli occhi atterriti e più che mai nudi e inermi della persona soverchiata dal dolore, vicina alla morte; è il no radicale all'indifferenza di fronte al male del prossimo: in essa io partecipo e comunico, per quanto mi è possibile, alla sofferenza dell'altro uomo. La compassione, facendo della sofferenza una sofferenza per l'altro, spezza l'isolamento in cui l'eccesso di sofferenza rischia di rinchiudere l'uomo. L'impotenza del malato, del morente, ha la paradossale forza di risvegliare l'umanità dell'uomo che riconosce l'altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo senso la sofferenza per la sofferenza altrui è uno dei più alti segni della dignità umana. La compassione è una forma fondamentale dell'incontro con l'altro, un linguaggio umanissimo, perché linguaggio di tutto il corpo, che coinvolge i sensi, la gestualità, la parola, la presenza personale. Il gesto di compassione del medico ricordato sopra è costituito da una vicinanza fisica fatta di tenerezza e delicatezza (che trasmette calore al corpo sofferente), da parole pronunciate (che esprimono una comunicazione, danno senso e instaurano una vicinanza comunionale), da una presenza che rimane accanto (e non abbandona chi se ne va). Certo, la compassione nasce in chi accetta di lasciarsi ferire e colpire dalla sofferenza dell' altro, sicché solo chi riconosce la propria vulnerabilità sa aprirsi alla sofferenza altrui. Scrive Emmanuel Lévinas: "Solo un io vulnerabile può amare il prossimo" (5). E di fronte al malato per cui non c'è più nulla da fare dal punto di vista medico, che altro resta se non con-soffrire restandogli accanto, parlandogli, esprimendogli, nei modi che lui può ancora capire, che noi lo amiamo? Scrive Agostino: "lo non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l'alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli altri" (6). Sì, nella compassione vi è la rivelazione di qualcosa che è profondamente umano e autenticamente divino.
Perdonare per guarire
Perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subito. Fare anche del male ricevuto l'occasione di un dono. Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di chi ha commesso il male: il perdono perdona ciò che non è scusabile, ciò che è ingiustificabile - il male commesso - e che tale resta (7). Il perdono non toglie l'irreversibilità del male subito, ma lo assume come passato e, facendo prevalere un rapporto di grazia su un rapporto di giustizia, crea le premesse di un rinnovamento della relazione tra offensore e offeso. Il perdono pertanto si oppone alla dimenticanza (si può perdonare solo ciò che non è stato dimenticato) e suppone un lavoro della memoria. Il ricordo del male subito apre la via al perdono nella misura in cui elabora il senso del male subito: noi uomini non siamo infatti responsabili dell' esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente (e magari nell'infanzia o comunque in situazioni di assoluta nostra impotenza a difenderci e magari da persone da cui avremmo dovuto aspettarci solo bene e amore), ma siamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito (8). Il lavoro del ricordo che sfocia nel perdono può così liberare l'offeso dalla coazione a ripetere che lo potrebbe portare a riprodurre e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito (9). Dietro all'atto con cui una persona perdona vi è già la guarigione della memoria: non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell' ombra lunga del male subito, ostaggi del proprio passato. Al tempo stesso il perdono implica un "lasciar andare", uno spezzare non certo il ricordo, ma il debito contratto da chi ha commesso il male. In questo si coglie l'essenza del per-dono come dono sovrabbondante (10). L'atto del perdono si mostra così capace di guarire non solo l'offensore, ma anche l'offeso: il perdono "è la sola reazione che non si limita a re-agire, ma agisce in maniera nuova e inaspettata" (11), agisce in maniera gratuita, non condizionata dall'atto che l'ha provocato, e quindi libera dalle conseguenze del male sia colui che l'ha commesso, sia colui che l'ha subito. Il perdono, mentre libera l'offensore dal debito contratto facendo il male, libera anche l'offeso dal rischio di vivere i suoi giorni in ostaggio del male subito un tempo.
Certo, il cammino del perdono è lungo e faticoso (12).
Per non darla vinta al male che abbiamo subito e che potrebbe continuare a legarci a sé impedendoci di proiettarci nel futuro, occorre anzitutto, come primo passo, rinunciare alla volontà di vendicarsi, di compiere ritorsioni. Cedere a questa tentazione equivarrebbe a entrare nella spirale del male da cui si vuole uscire!
Quindi occorre riconoscere che si soffre per il male subito, riconoscere la propria ferita e la propria povertà. Ovvero si tratta di riconoscere che il male subito ci ha tolto quell'integrità che avremmo potuto avere e ci ha resi diversi, più vulnerabili perché vulnerati, più poveri perché abbiamo perso irrimediabilmente qualcosa. Il male subito ha realmente ucciso una parte di noi, una possibilità di vita che avremmo avuto se... non fosse successo quello che è successo.
Essenziale nel cammino di guarigione dal male subito è allora il poter condividere con qualcuno la propria sofferenza. Raccontare la propria sofferenza a chi sa ascoltare con amore e partecipazione significa essere liberati da quella penosa sensazione di assoluta solitudine che chi ha subito il male nutre in sé: egli infatti vede che il peso della propria sofferenza è condiviso da un altro. Può iniziare così un processo di riconciliazione con l'immagine dell'altro che non è sequestrata unilateralmente dalla dimensione odiosa e negativa dell'offensore. A questo punto l'altro rappresenta anche un volto amico, accogliente e affidabile.
Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male subito: solo così si può farne il lutto e assumerne la perdita. Vi sono infatti dei mali subiti che noi rimuoviamo impedendoci di guardarli in faccia e di accettarli. Ma così ne restiamo succubi. È anche importante, in questo itinerario verso il perdono, dare alla collera il permesso di esistere in noi, accettare il fatto che noi vorremmo ripagare l'altro con la stessa moneta. Ed è importante poterla esprimere, tale collera. Del resto, perdonare non è naturale, ma a noi è molto più facile la ritorsione, la ripicca.
Ulteriore tappa è quella del necessario perdono a se stessi. Spesso il male subito, soprattutto se da persone amate e vicine, produce in noi sensi di colpa che rischiano di paralizzarci e di schiavizzarci: non ci si perdona di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di essersi messi in situazioni che si sono rivelate a cielo chiuso, di avere pazientato troppo a lungo in situazioni difficili fino a subirle supinamente... Un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilia con sé, sarà difficile farlo con l'altro.
Allora si potrà anche comprendere il proprio offensore, comprendere non nel senso di scusare, ma di guardarlo come un essere umano e un figlio di Dio: allora si aprirà la strada al perdono come atto in cui ritrovo colui che è già mio fratello, ma che il male ha allontanato da me.
Tappa ulteriore sarà di trovare un senso al male ricevuto: se i fatti passati sono incancellabili, il senso di quanto è avvenuto (si tratti di male subito o inferto) non è già dato o fissato una volta per tutte. Nei racconti della Genesi, Giuseppe trova un senso salvifico al male che ha subito tempo addietro da parte dei suoi fratelli (cf. Gen 45,4-8; 50,20). Per il cristiano questa è una tappa che innesta il perdono nella dinamica pasquale. Nel perdono il male non ha l'ultima parola, la morte non vince sulla vita, l'amore ha la meglio sul male e la riconciliazione può subentrare alla fine della relazione.
Ma poi, in questo cammino, è fondamentale riscoprire perdonati noi stessi, perdonati da Dio in Cristo, e questo farà sì che l'atto di perdono che si compirà non sarà tanto (o soltanto) un atto di volontà, ma l'apertura al dono di grazia del Signore.
Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato. Ma una volta accordato (con quella forza performativa che ha l'espressione "io ti perdono") non sappiamo come esso agirà nel cuore e nella mente dell'offensore che oramai è perdonato.
E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato ("può", non "deve": a grandezza e perdono consiste nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla mi assicura che esso cambierà il cuore di colui che ha fatto il male né che costui cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dell' evento pasquale, dello scandalo e del paradosso della croce. Anche sulla croce la potenza di Dio si manifesta nella debolezza estrema del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l'unilateralità di un amore asimmetrico che è l'unica via per aprire a tutti la strada della salvezza. Riflesso dell' evento pasquale, il perdono cristiano non si colloca sul piano etico, ma su quello escatologico: là dove c'è perdono c'è lo Spirito di Dio, c'è Dio che regna e Cristo si rende presente.
Il linguaggio delle lacrime
Spesso il pianto è compagno della sofferenza. Ma la polivalenza semantica del pianto lo rende un linguaggio estremamente misterioso e articolato, che merita un approfondimento.
"Il paese delle lacrime è così misterioso", fa dire Antoine de Saint-Exupéry al suo piccolo principe (13). Ma il pianto è anche quanto di più noto e sperimentato vi possa essere tra gli uomini: è una caratteristica umana tipica e universale, un' espressione specifica dell'umanità (14). Noi nasciamo con la capacità di piangere, dotati di questa abilità, eppure sappiamo ben poco sul pianto: perché piangiamo? Perché esprimiamo con questo medesimo linguaggio emozionale sia gioia che dolore? Associamo il pianto a situazioni di sofferenza, ma siamo disposti ad affermare che piangendo ci sentiamo meglio, che le lacrime producono un benefico sfogo di emozioni represse e che hanno un valore catartico: "Le lacrime danno sollievo all'anima" (15). Spesso espressione di angoscia, esse producono anche un piacere fisico. Forse, più ancora che a uno sfogo, le lacrime sono tese a un ri-orientamento delle emozioni. Esse fanno spostare la nostra attenzione dalla mente al corpo e così sciolgono il dolore psicologico.
Dal punto di vista fisiologico si distinguono tre tipi di lacrime: basali, riflesse e psicologiche o emotive. Le lacrime basali costituiscono il velo permanente che lubrifica gli occhi; le lacrime riflesse sono quelle che sgorgano, ad esempio, quando si tagliano le cipolle; le lacrime psicologiche esprimono uno stato d'animo e da esso traggono origine. Queste lacrime sono diverse per funzione e per composizione: contengono infatti concentrazioni diverse di sostanze chimiche, ormoni e proteine; le lacrime emotive presentano una più elevata concentrazione di proteine rispetto a quelle riflesse. Descritte da fisiologi e oftalmologi come una sorta di sandwich fluido, con uno strato interno di mucina a contatto con la superficie dell'occhio, uno strato acquoso intermedio e uno esterno composto da oli che impediscono alle lacrime di evaporare troppo rapidamente, esse sono "composite", miste, plurivalenti, anche a livello espressivo: angoscia e gioia, compassione e autocommiserazione, sincerità e falsità, amore e paura... "Le lacrime non sono mai solo e semplicemente un segno di piacere, sofferenza, sincerità, doppiezza, paura o eroismo. Non esistono lacrime pure" (16).
Se spesso il pianto è individuale e nascosto, abbiamo poi gli usi culturali e rituali, religiosi e sacrali, sociali e pubblici del pianto. Insomma, il pianto è un linguaggio, le lacrime sono parole non verbali, sono una forma di comunicazione. Interessante, da questo punto di vista, la tesi di chi ritiene che la vocalizzazione evolutivamente più antica sia il pianto di separazione: poiché i primi mammiferi erano nottambuli abitatori delle foreste, questo pianto serviva ai genitori per ritrovare la prole dispersa e, più in generale, alla comunicazione interna al gruppo. Il pianto davanti a un' altra persona mira a suscitare una sua reazione, esprime una richiesta di attenzione. Con il pianto cerchiamo di trasformare in sostegno la negatività degli altri: chi assiste al pianto altrui si sente colpito da tale esternazione di vulnerabilità e normalmente tende a farsi vicino, a consolare, a confortare. Le fragili e quasi evanescenti lacrime hanno un grande potere! Il pianto è un mezzo usato dagli umani per restare in contatto tra di loro. Lo stesso pianto infantile non esprime solo il bisogno che chiede di essere soddisfatto, ma tende anche a creare un legame tra il piccolo e i genitori.
Il pianto poi non sempre è di facile o univoca interpretazione: di fronte a chi piange spesso siamo in imbarazzo (e cerchiamo parole e, soprattutto, gesti, che siano adeguati alla pregnanza del linguaggio di pianto dell' altro) e tentiamo di interpretare le sue lacrime. Le lacrime svelano un aspetto dell'anima, e quasi la mettono a nudo. Esse sono l'eloquenza discreta dell'anima, il linguaggio del cuore. Sono la parte visibile, per quanto tremula e trasparente, del nostro desiderio. Esse uniscono mirabilmente interiorità ed esteriorità, corpo e anima. "Le lacrime consumano la loro vita fuori dal corpo, testimoniando al suo esterno la sua più autentica interiorità" (17). Sono la visibilità dell'invisibile. Questa loro tipicità le rende un linguaggio spesso sentito come più autentico e profondo delle parole stesse: "Che sono mai le parole? Una lacrima le supera tutte in eloquenza" (18); "Grazie alle lacrime io posso vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore empatico che riceve il messaggio 'più vero': quello del mio corpo e non già quello della mia lingua" (19). Le lacrime ci dicono qualcosa sulla sapienza del corpo esprimendo una dimensione della verità insita nel corpo che le parole e il discorso concettuale non sanno manifestare. Del resto, il pianto si verifica spesso quando meno siamo capaci di verbalizzare adeguatamente emozioni complesse e travolgenti: esso sa dare voce a una miscela di stati d'animo contrastanti.
Come linguaggio comunicativo esso esprime desiderio, aspettativa, preghiera. Nei salmi la preghiera dell'orante è spesso accompagnata dalle lacrime, tanto nella malattia ("Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore ... Il Signore ascolta la voce del mio pianto": Sal 6, 7-9; "Di cenere mi nutro come di pane, alla mia bevanda mescolo le lacrime": Sal 102, 10), quanto in altre situazioni difficili (cf. Sal 39,13; 42,4; 80,6). Il pianto, sempre effuso dal salmista "davanti al volto del Signore" (Sal 142,3), è così una preghiera che il Signore gradisce e ascolta: "Hai contato i passi del mio vagare, hai raccolto le mie lacrime in un vaso" (Sal 56,9). Nella tradizione ebraica le lacrime sono sentite come linguaggio di preghiera più potente ed efficace della preghiera silenziosa e del grido. Le lacrime cadono a terra, ma la loro efficacia sale al cielo: in un certo senso esse cadono verso l'alto; le lacrime sono la terra che irrora il cielo (20).
Si comprende che le lacrime abbiano potuto acquisire un'importanza straordinaria nella tradizione spirituale cristiana sia d'oriente che d' occidente (21). Esse manifestano la sincerità del pentimento e della compunzione di colui che sa riconoscere i propri peccati davanti al Signore: chi prega con lacrime viene sentito essere simile a chi si getta ai piedi del Signore e gli chiede pietà, come quella prostituta che in poco tempo lavò con le sue lacrime tutti i suoi peccati (cf. Lc 7,36-50). Il testo evangelico suggerisce che le lacrime in questo caso sono linguaggio che esprime amore. Le lacrime per i propri peccati divengono invocazione di purificazione e non a caso esse sono viste addirittura come rinnovamento (non sostituzione!) del lavacro battesimale. Gregorio di Nazianzo parla delle lacrime come di un quinto battesimo, dopo quello allegorico di Mosè, avvenuto nell'acqua del mar Rosso (cf. 1Cor 10,2), quello solamente penitenziale di Giovanni Battista, quello di Cristo avvenuto nello Spirito santo e quello dei martiri che avviene nel sangue (e che anche Cristo ha conosciuto). Un detto di un anziano afferma: "Ogni opera buona che l'uomo può fare è fuori del corpo, mentre colui che piange purifica anima e corpo; le lacrime infatti lavano il corpo e lo santificano". Le lacrime sono state sentite presto come un dono (tò chdrisma ton dakryon; gratia lacrimarum) e invocate esse stesse, nella convinzione che esse "conducano alle soglie della regione misteriosa" (lsacco di Ninive). In effetti il pianto che accompagna la preghiera non è semplicemente dovuto al ricordo dei propri peccati commessi e al pentimento, ma anche alla compassione di chi vede le sofferenze da cui altri sono schiacciati, al dolore provocato dalla visione della durezza di cuore e indifferenza di altre persone, al desiderio della comunione con il Signore, alla percezione nella fede della visita del Verbo durante la pratica dell' ascolto della parola di Dio nella lectio divina (e si tratta allora di lacrime gioiose e dolci), al timore del giudizio... La preghiera accompagnata da lacrime opera quella purificazione del cuore che consente al credente di "vedere Dio" (Mt 5,8), di esperirne, nella fede, la presenza: "Bisogna sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime" (22). Preghiera esse stesse, le lacrime appaiono anche come condizione di veridicità della preghiera e sono implorate. La preghiera è "la madre e anche la figlia delle lacrime" (Giovanni Climaco). Un oremus della liturgia cattolica romana precedente la riforma liturgica chiedeva cosi il dono delle lacrime: "Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fontana d'acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione, affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, il perdono".
Linguaggio silenzioso ed eloquente, materia dell'anima e trasparenza del corpo, le lacrime esprimono la gioia e la dolcezza della presenza del Signore cosi come l'angoscia per la distanza dell'uomo da Dio. E in tal modo dicono qualcosa circa il mistero dell'uomo e della sua relazione con Dio.
Paradossalmente, le lacrime invocano anche la propria fine. Come noi sperimentiamo la fine dei nostri pianti, cosi la rivelazione biblica profetizza la fine del pianto con l'immagine del Dio che, nella Gerusalemme celeste, asciugherà le lacrime da ogni volto. L'Apocalisse spera la fine del pianto e la morte della morte: "Non ci sarà più morte, né lutto, né affanno ... Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 2 I ,4). La nostra personale storia e la storia dell'umanità intera sono spesso storie scritte dalle lacrime, da pianti sommessi o disperati, irrefrenabili o contenuti, pianti che sono una pressante richiesta a Dio perché consoli, faccia giustizia, risani le ferite, mostri il suo volto, instauri per sempre e per tutti il suo Regno di pace e giustizia. Le lacrime versate davanti a Dio invocano: "Venga il tuo Regno!".
La collera
Spesso, nella malattia o di fronte a eventi che mettono in crisi e fanno soffrire, l'uomo vede crescere in sé la collera e sente il bisogno di manifestarla. Essa è una maniera importante e vitale di espressione dell'uomo nella sofferenza. Ma spesso essa viene repressa, trattenuta perché sentita come peccaminosa e degna di biasimo. Anche chi è vicino al sofferente cerca di zittire la sua collera, sicché il potenziale vitale insito in essa rischia di andare perduto.
Ora, la collera è un'emozione (23). Come tale essa non è né buona né cattiva. Eppure nella nostra tradizione culturale e religiosa l'ira gode di cattiva fama. Perché? Perché viene spesso equiparata tout court alla violenza, perché viene sentita come incompatibile con l'amore, perché è ritenuta sconveniente da una tradizione culturale che fin dalla più antica trattatistica filosofico-morale l'ha considerata una passione, attribuendola alla parte irrazionale dell' anima, perché è elencata tra i vizi capitali nella tradizione cristiana (24).
Eppure per la tradizione biblica la collera è ambivalente. Può certamente essere peccaminosa, ma anche santa. Gesù è modello di mitezza e dolcezza (cf. Mt 11,29), ma è anche colui che, "fatta una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi" (Gv 2,15), è colui che guarda "con ira" (Mc 3,5) coloro che stavano a vedere se avesse guarito un uomo malato in giorno di sabato per poterlo poi accusare, è colui che si adira con i discepoli che impediscono ai bambini di avvicinarsi a lui (cf. Mc 10,14) e rivolge loro parole di fuoco (cf. Mc 8,17-21), così come rivolge espressioni traversate dall'ira profetica nei confronti di ipocriti e menzogneri (cf. Mt 23,13-36).
Il problema non è dunque l'andare in collera in quanto tale, ma che uso fare della collera, come esprimerla, e che cosa essa rivela di colui che si è adirato. Scrive Agostino: "Nella nostra dottrina si chiede all'anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l'oggetto della sua paura" (25). La collera, infatti, è rivelatrice di nostre vulnerabilità: essa ci consente di conoscerci. Perché una determinata situazione o un certo gesto o atteggiamento o parola di un altro hanno suscitato collera in me? Che cosa dice, su di me, la mia collera? Queste domande ci mostreranno che la collera traduce ed esprime essenzialmente il senso di invasione del nostro territorio (simbolico) da parte di un altro, oppure la nostra paura di non essere riconosciuti, rispettati, compresi, oppure il nostro stato di fatica e di stress.
Ovviamente è poi fondamentale il modo di espressione della collera: se la collera non è addomesticata, se il soggetto non assume la responsabilità delle proprie emozioni e dunque della collera, essa può esplodere con quella violenza che si manifesta sia a parole che con gesti, e può uccidere. Di certo, è importante che essa trovi vie di espressione. La collera repressa può essere ancor più mortifera di quella espressa. Scrive Gregorio Magno:
In certi casi l'ira impone all' animo agitato di non parlare e quanto meno si esprime fuori, tanto più brucia dentro e non rivolge la parola al prossimo, e così, con il non parlargli, gli dice quanto non lo possa vedere ... Può darsi che con l'andar del tempo l'animo irato perda completamente l'amore del prossimo... Spesso l'ira chiusa nell'animo con il silenzio ribolle con più veemenza e, pur senza parlare, forma voci violente ... Così avviene che l'animo turbato sente più grande strepito nel suo silenzio e la fiamma dell'ira chiusa in cuore lo consuma ancor di più (26).
Il primo omicidio, secondo la Bibbia, nasce proprio da una collera repressa, taciuta, rimossa. "Caino fu molto irritato" (letteralmente "a Caino bruciò molto": Gen 4,5), ma egli non dà parola alla sua collera e non risponde a Dio che lo invita al dialogo (cf. Gen 4,6-8). Così la collera, coltivata e nutrita interiormente, diviene rancore, odio, e l'odio è capace di fare a freddo ciò che la collera potrebbe fare solo a caldo. E Caino uccide Abele. Il testo biblico esprime molto bene sia il fatto che la collera è molto visibile e si manifesta a livello somatico ("Il volto di Caino fu abbattuto": Gen 4,5), sia il fatto che la collera ha a che fare con la relazione con l'altro, con la capacità o meno di reggere il faccia a faccia. O perché ha il volto abbattuto, rivolto a terra, o perché innalza il proprio volto al di sopra di suo fratello, Caino sempre sfugge all'incontro faccia a faccia con Abele e il non-incontro diviene omicidio: "Caino si innalzò contro Abele, suo fratello, e lo uccise" (Gen 4,8) (27). Di certo, vi è una collera incontrollata che disumanizza l'uomo rendendolo simile a una bestia: la collera sfigura l'uomo e il parossismo dell'ira rende l'uomo tanto spaventoso quanto ridicolo. La descrizione dell'iracondo fatta da Giovanni Crisostomo porta al suo acme il topos per cui chi va in collera si fa simile alle bestie:
Non può certo chiamare Dio Padre buono chi ha un animo selvaggio e disumano, chi non conserva i segni e le caratteristiche di quella bontà che è del Padre celeste, ma, allontanandosi dalla divina nobiltà, trasforma il suo aspetto in quello di una bestia. Se uno salta come un toro, scalcia come un asino, conserva nella memoria il male ricevuto come un cammello. È goloso come un orso, è arrabbiato come un lupo, ferisce come uno scorpione, è subdolo come una volpe e nitrisce come un cavallo pazzo d'amore alla vista delle femmine, come può far salire al cielo una voce degna della sua natura di figlio e chiamare Dio Padre? Come si può definire un essere simile? Una bestia? Ma le bestie sono preda di uno solo di questi vizi, lui invece li concentra tutti in se stesso ed è più stolto della loro stoltezza (28).
Soprattutto, un momento di collera può rovinare il bene costruito in tanto tempo e con infinita pazienza.
Tuttavia la Scrittura e la tradizione parlano anche di una santa collera, di una collera-virtù, di "una collera che nasce dallo zelo e che è una virtù" (29). Come definire una santa collera? Che cosa rende santa la collera (30)?
È santa la collera che tiene in contatto con Dio o con l'altro uomo. La collera di Giobbe esprime la sua volontà di non fare a meno di Dio, di non staccarsi da lui; essa lo mette in un rapporto di opposizione talmente personale con Dio che non può certo accontentarsi di spiegazioni di seconda mano. Rischio della collera è quello di condurmi a troncare la relazione con la persona con cui sono adirato: non esprimo la collera, ma faccio come se l'altro non esistesse più, ne faccio un lutto anticipato.
È santa la collera che non si arroga il diritto di fare vendetta dando così il via a una spirale di violenze e ritorsioni senza fine.
È santa la collera che non ha in se stessa il proprio fine, ma tende a ritrovare la pienezza della relazione con l'altro.
È santa la collera che si accende di fronte all'ingiustizia, all' oppressione, alla violenza perpetrata dai prepotenti. Ed è santa la collera che mi separa da situazioni di violenza subita che rischierebbero di trascinarmi nella confusione e nell'informe e che mi separa da persone che mi manipolano e mi usano.
È santa la collera che si dà un limite: "Adiratevi, ma non peccate. Non tramonti il sole sopra la vostra ira" (Ef 4,26).
È santa la collera che si scaglia contro immagini colpevolizzanti o distorte di Dio e che rompe con sistemi ideologici o religiosi che contraddicono l'umano, come fa Giobbe che rifiuta il principio della retribuzione.
È santa la collera che tende alla purificazione del cuore: si tratta, secondo la tradizione ascetica cristiana, di rivolgere la collera contro ciò che Satana ha seminato nel cuore umano. Così la collera diventa fattore importante di purifica zio ne del cuore in quanto mobilita tutte le energie della persona nella lotta contro il Tentatore.
Quest'ultima espressione ci porta a considerare le modalità di terapia, o meglio, di buon uso della collera. Si tratta cioè di recuperare l'energia vitale nascosta nella collera.
Indirizzare la collera contro i cattivi pensieri: "Durante la tentazione non metterti a pregare prima di aver pronunciato, con collera, alcune parole contro il tuo tentatore ... Se rivolgerai ai demoni qualche espressione irosa, renderai vani i progetti dei tuoi avversari" (31). La collera rientra così nella lotta spirituale.
Cercare la riconciliazione prima di coricarsi, come sta scritto nella Lettera agli Efesini 4,26: "Il sole non tramonti sulla vostra ira".
Imporsi il silenzio, non reagire a caldo, ma prendere una distanza fra la causa scatenante la collera e la reaZlOne.
Mettersi al posto dell' altro. Scrive Seneca:
Non c'è nessuno che sappia dire a se stesso: "Questa cosa che mi fa adirare o l'ho fatta anch'io o l'avrei potuta fare"; nessuno valuta l'intento di chi agisce, ma il fatto puro e semplice; eppure bisogna considerare la persona, se ha agito volontariamente o accidentalmente, se per costrizione o per inganno, se è stata spinta dall'odio o dalla mira di un vantaggio, se ha accondisceso a se stessa o s'è messa a disposizione di altri. Mettiamoci al posto di chi ci fa adirare e vedremo che è una falsa valutazione di noi stessi a renderci iracondi, cioè il non voler subire cose che vorremmo fare (32).
Esprimere in modo non violento la collera. Se io dico all'altro '~tu sei pazzo", "tu sei stupido" (cf. Mt 5,22), lo uccido. Sono molto diversi i due seguenti modi di espressione della collera dovuta, ad esempio, al ritardo a un appuntamento tra due amici: "Quando ti aspetto mezz' ora rispetto all' ora convenuta, vado in collera perché nelle relazioni io ho bisogno di fiducia. Mi piacerebbe ora che tu mi dicessi come ti senti ascoltando queste mie parole"; "Quando tu mi fai aspettare mezz'ora rispetto all'ora convenuta mi fai arrabbiare e io esigo che tu sia puntuale la prossima volta, altrimenti non sei più mio amico" (33).
Esercitarsi alla dolcezza e all'umiltà. De-idealizzare gli altri: le visioni idealizzate degli altri nutrono aspettative che possono poi, una volta deluse, suscitare collera.
Non abusare di eccitanti (caffè, alcol) e fuggire anche il rumore, che può eccitare l'aggressività.
Pregare, praticare la preghiera di Gesù (ripetizione dell'espressione: "Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore"), e in particolare la salmodia ("Quando sei turbato dalla collera, la tua lingua si muova per la salmodia" (34).
Aiutarsi con esercizi corporali di respirazione (con particolare attenzione al movimento di espirazione) e distendendo il corpo, facendolo rilassare.
Immettersi in un cammino di perdono.
[1] Più dettagliatamente sulla parabola del buon samaritano: L. Manicardi, Il volto del sofferente, Qiqajon, Bose 2004 (Testi di meditazione 119), pp. 14-20; cf. anche J. Delorme, Au risque de la parole. Lire les évangiles, Seuil, Paris 1991, pp. 93-124.
[2] E. Lévinas, "Une étique de la souffrance", in Souffrances. Corps et lime, épreuves partagées, a cura di J.-M. von Kaenel, Autrement, Paris 1994, pp. 133-135.
[3] X. Emmanuelli, J. P. Dautun, Prélude à la symphonie du nouveau monde, Odile Jakob, Paris 1998, pp. 99-123.
[4] Cf. F. Boespflug, "La compassion de Dieu le Père dans l'art occidental (XIII-XVII siècles)", in Le Supplément 172 (1990), pp. 123-159.
[5] E. Lévinas, Di Dio che viene all'idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 115.
[6] Agostino di Ippona, Lettere 99,2.
[7] Cf. J. Derrida, Perdonare, Cortina, Milano 2004.
[8] Cf. L. Basset, Le pardon originel. De l'abime du mal au pouvoir de pardonner, Labor et Fides, Genève 1994; Ead., Le pouvoir de pardonner, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999; Ead., Guérir du malheur, Albin Michel-Labor et Fides, Paris 1999.
[9] Cf. P. Ricoeur, "Il perdono può guarire?", in Hermeneutica (1998), pp. 158-159.
[10] Cf. Le pardon. Briser la dette et l'oubli, a cura di O. Abel, Autrement, Paris 1992.
[11] H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 200310, pp.177-178.
[12] Cf. J. Monbourquette, Comment pardonner. Pardonner pour guérir, guérir pour pardonner, Novalis-Bayard, Montréal-Paris 2001.
[13] A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Bompiani, Milano 1949, p. 38.
[14] Cf. T. Lutz, Storia delle lacrime. Aspetti naturali e culturali del pianto, Feltrinelli, Milano 2002.
[15] Seneca, citato ibid., p. 95.
[16] Ibid., p. 52.
[17] J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, Medusa, Milano 2001, p. 56.
[18] August Willielm von Schlegel, citato in T. Lutz, Storia delle lacrime, p. 39. 19 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, pp. 160-161.
[20] Cf. J.-L. Charvet, L'eloquenza delle lacrime, pp. 47-52.
[21] Cf. I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la compontion dans l'orient chrétien, Pont. Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1944, da cui sono tratte le citazioni patristiche che seguono.
[22] Regola di Benedetto 20,3.
[23] Cf. Ch. Derouesné, "La nature d'une émotion", in La colère. Instrument des puissants, arme des faibles, a cura di P. Pachet, Autrement, Paris 1997, pp. 75-90.
[24] Cf. P. Pachet, "Un sursaut de l'ètre", ibid., pp. II-65; C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 2000.
[25] Agostino di Ippona, La città di Dio 9,5.
[26] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,79.
[27] Cf. L. Manicardi, "L'omicidio è un fratricidio (Gen 4,1-16)", in Parola, Spirito e Vita 32 (r995), pp. 11-26.
[28] Giovanni Crisostomo, Sull'ira e il furore, PG 63,692.
[29] Gregorio Magno, Trattato morale su Giobbe 5,82.
[30] Cf. L. Basset, Sainte colère. Jacob, Job, Jésus, Labor et Fides, Genève 2002.
[31] Evagrio Pontico, Trattato pratico 42.
[32] Seneca, Sull'ira III,12,2-3.
[33] Cf. S. e C. Vidal-Graf, La colère, cette émotion mal-aimée. Exprimer sa colère sans violence, Jouvence, Genève 2002.
[34] Giovanni Damasceno, citato in A. e R. Goettmann, Ces passions qui nous tuent. Diagnostic & remèdes, Presses de la renaissance, Paris 1998, p. 154.
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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