DON ANTONIO

domenica 18 settembre 2011

Il conforto del Paradiso in Sören Kierkegaard

I cosiddetti Novissimi della pietà cristiana - morte, giudizio, inferno e paradiso - costituiscono anche il sottofondo e l'atmosfera della produzione di Kierkegaard come «scrittore religioso», quale egli espressamente si qualificò. La stessa centralità che assumono, nella sua rivendicazione della purezza originaria del Cristianesimo, le dottrine del peccato e della Passione di Cristo assieme all'esigenza della rinuncia ascetica e dell'Imitazione di Cristo (Kierkegaard è stato un ardente ammiratore del mirabile opuscolo medievale), mettevano in primo piano il conforto della fede nella vita futura e della speranza della beatitudine in Dio con Cristo, gli Angeli ed i Santi. Anzi, possiamo dirlo subito, il nucleo centrale della sua crescente polemica - che sarà interrotta soltanto dalla morte - contro la Cristianità mondanizzata («specialmente nel Protestantesimo, specialmente in Danimarca!») è che la Cristianità stabilita ha convalidato allegramente - sul conto della Passione e Morte di Cristo - tutti i piaceri terreni ritornando al giudaismo anzi al paganesimo. Perciò, contro Lessing e l'intera deformazione del Cristianesimo fatta dal pensiero moderno. Kierkegaard afferma ch'è nel tempo che l'uomo deve decidere della sua eternità con la sua scelta (cfr. Briciole e Postilla) e che si tratta della scelta decisiva: o con Cristo o contro Cristo (Malattia mortale, Esercizio del Cristianesimo).

Kierkegaard in quest'alternativa vede la realtà della libertà e fonda la serietà della scelta: «...poiché c'è un solo Nome, in cielo e in terra, uno solo (cfr. At. 4,12) e quindi una sola via da scegliere - se un uomo vuole scegliere con serietà e scegliere bene. Infatti ci devono essere molte vie, affinché l'uomo possa scegliere: ma deve anche essercene una soltanto da scegliere, se la serietà dell'eternità deve riposare sulla scelta.. Una scelta di cui è indifferente se si sceglie l'una o l'altra cosa, non ha la serietà eterna della scelta; dev'essere in ballo l'alternativa di guadagnare tutto o di perdere tutto affinché la scelta abbia la serietà dell'eternità, anche se - come si dice - deve esserci una possibilità di poter scegliere qualcos'altro perché la scelta possa essere realmente una scelta» (Vangelo delle sofferenze, tr. it. di C. Fabro, Fossano 1971, p. 96 s.). Di qui anche lo stimolo gioioso per il cristiano a sopportare la sofferenza: «Solo la sofferenza forma per l'eternità; perché l'eternità è nella fede, ma la fede è nell'obbedienza, ma l'obbedienza è nella sofferenza. L'obbedienza non è fuori della sofferenza, la fede fuori dell'obbedienza, l'eternità senza la fede. Nella sofferenza l'obbedienza è obbedienza, nell'obbedienza la fede è fede, nella fede l'eternità è eternità» (Op. cit., p. 146).

I vertici di quest'elevazione di Kierkegaard sul Paradiso s'intensificano negli ultimi anni quando la tensione del suo spirito è tutta presa dall'opera nefasta di distruzione che il pensiero moderno ha esercitato all'interno del Cristianesimo sul doppio fronte del dogma e della morale: anche i frutti di tosco che stanno oggi invadendo la teologia e la vita dei cristiani si chiamano demitizzazione, secolarizzazione, teologia della morte di Dio, teologia atea, epoca post-cristiana... E fra gli obiettivi primari da demitizzare sono soprattutto l'inferno ed il paradiso. La risposta di Kierkegaard oggi sarebbe perciò ancor più veemente: accenniamo a qualche testo che vorremmo fosse un invito ad una lettura diretta soprattutto degli scritti della maturità del grande danese ormai accessibili, quasi integralmente, al lettore italiano assieme al suo capolavoro ch'è il grande Diario.

In quel gioiello di letteratura edificante ch'è il Vangelo delle sofferenze, Kierkegaard commentando il detto paolino: «Poiché la nostra tribolazione breve e lieve produce in noi un peso eterno di gloria che supera ogni misura» (2 Cor. 4,17), ne cava un motivo di gioia come un riverbero del Paradiso: «che anche quando la sofferenza temporale è più pesante, la beatitudine dell'eternità ha tuttavia il sopravvento». Diamo l'avvio della mirabile meditazione:

«Sì, questo è ovvio, ed anche se fosse del tutto evidente che ogni uomo lo fa, bisognerebbe anche che ogni uomo fosse sicuro che la beatitudine dell'eternità ha il sopravvento; poiché basta che questo pensiero sia messo sul serio sulla bilancia, perché esso riesca ad avere il sopravvento. Oh, ma com'è raro forse che un uomo pesi con questa esattezza. E, comunque, nel mondo da un giorno all'altro e da mane a sera non si fa che parlare di soppesare e soppesare; eppure la realtà e che colui il quale non ha l'idea dell'eternità sempre con sé come la seconda grandezza della bilancia, costui non sovrappesa nulla, non può neppure sovrappesare. Poiché soppesare una realtà temporale con un'altra realtà temporale, quando si trascura l'eternità, non è soppesare, è un illudersi, è sprecare il proprio tempo e sprecare la beatitudine lasciandosi illudere dalle sciocchezze della vita. Qui si mostra di nuovo quanto è contenuto nella semplice parola: soppesare. Il significato fondamentale del soppesare umano è di pesare (deliberare) fra il temporale e l'eterno; in ogni altro soppesare umano deve essere presente questo significato fondamentale, altrimenti il soppesare - malgrado ogni affaccendarsi e l'ostentata importanza - manca di fondamento e non dice nulla (...).

Ahimé, così forse vivono i più; essi si chiamano perfino cristiani benché il punto decisivo che sta a fondamento del Cristianesimo sia appunto quel significato fondamentale di soppesare. Molti forse vivono ingannati a questo modo dalla temporalità. Illustriamo questa situazione con una semplice immagine. Quando il ricco, in una notte buia ma piena di stelle, viaggia comodamente nella sua carrozza con le fiaccole accese, egli è sicuro, non teme nessuna difficoltà, egli porta con sé la luce, e tutt'attorno il buio quasi fugge. Ma proprio perché viaggia con le lanterne accese e con tanta luce vicino a sé, egli però non può vedere le stelle; le sue fiaccole oscurano le stelle che il povero contadino, il quale viaggia senza fiaccole, può vedere splendidamente nella notte buia ma piena di stelle. Così essi vivono ingannati dalla temporalità: o, perché occupati nelle necessità della vita, s'affaticano a procurarsi delle visuali; oppure, sprofondati nel benessere e nei giorni felici, essi hanno come lanterne accese e attorno a loro tutto è così sicuro, così chiaro, così comodo - ma manca la visuale, la visuale delle stelle.

Certamente siffatti uomini sono illusi sul proprio conto, ma non hanno l'intenzione d'ingannare gli altri portandoli alla cieca o accecandoli; poiché questa luce accecante della temporalità è altrettanto pericolosa come una guida cieca al buio. Tuttavia vi sono anche uomini i quali sfacciatamente ingannano se stessi e sfacciatamente vogliono trascinare con sé anche gli altri. Essi vogliono estirpare completamente quest'idea dell'eternità e la beatitudine dell'eternità; vogliono, grazie alle astute invenzioni del benessere di ogni genere, rendere loro piacevole il più possibile la temporalità così da non poter più vedere l'eternità» (tr. cit., p. 201 ss.).

Invece per il cristiano deve star saldo che: «La nostra tribolazione, ch'è breve e lieve, produce in noi un peso eterno di gloria che supera ogni misura» (p. 205).

In questo contesto si può collocare la storia o allegoria deliziosa (di evidente suggestione evangelica) della pietra preziosa capitata miracolosamente a due vecchietti: si trova nel fascicolo VIII (§ 3) de Il Momento dell'11 settembre 1855, cioè al culmine della polemica contro la Cristianità degenerata ed a due mesi appena dalla morte. Il mirabile pezzo ha per titolo: «Un'eternità per pentirsi» (En Evighed til a fortryde: S. V. XIV, 318 s.):

«Vivevano, in una regione dell'Oriente, due poveri vecchi: un uomo e una donna. Essi, come si è detto, non avevano che povertà; e la preoccupazione per l'avvenire aumentava, naturalmente, col passare degli anni. Essi non tormentavano certamente il cielo con le loro preghiere, poiché essi troppo temevano Dio; ma essi di continuo si rivolgevano al cielo per aiuto.

Quand'ecco un mattino avvenne che la vecchia, avvicinandosi al focolare, trova sul camino una grossa pietra preziosa; essa corre a mostrarla al marito, il quale esperto in materia, capisce facilmente ch'essi hanno la vita ormai assicurata.

Così si spalanca per questi due vecchietti un lieto avvenire: che gioia! Però, semplici e timorosi di Dio come erano, decisero, poiché avrebbero potuto vivere ancora un giorno, di attendere ancora un giorno per vendere la pietra preziosa. Nella notte seguente la donna sognò che essa era portata in Paradiso. Un angelo le mostrava tutt'attorno la magnificenza che solo una fantasia orientale può immaginare. E l'angelo la condusse in una sala dove vi erano lunghe file di poltrone ornate tutte di pietre preziose e di perle e destinate - come spiegava l'angelo - alle anime pie. E alla fine gliene mostrò anche una destinata a lei. Mentre essa l'osservava più da vicino si accorse che nello schienale mancava una grossa pietra preziosa. Ed essa chiede all'angelo come mai ciò fosse.

Oh - attenzione, che ora comincia la storia! L'angelo dunque risponde: «questa era la pietra che tu trovasti sul camino: tu l'hai avuta in anticipo, né può essere sostituita».

Al mattino la donna racconta il sogno al marito, ed essa era del parere che sarebbe stato meglio rinunciare pei restanti anni della loro vita alla pietra piuttosto che perderla per tutta l'eternità. E il suo pio marito fu dello stesso parere.

Così la sera essi posero di nuovo la pietra sul camino e pregarono Dio di riprenderla. E così fu, al mattino essa era completamente scomparsa e i due vecchietti sapevano dove era andata a finire, ch'essa era tornata al suo posto giusto».

Uno dei lati più ripugnanti della Cristianità protestante era per Kierkegaard la mondanità dei pastori e la corsa del giovane pastore per accaparrarsi subito una bella moglie, come ironizza spesso il Diario: di qui la sua ferma difesa del celibato dei preti, come già abbiamo scritto qui e altrove. Egli considerava il celibato sacerdotale come una prova esistenziale ed una testimonianza della fede nella trascendenza e nell'immortalità dell'anima. Questo pensiero della trasfigurazione spirituale diventa dominante negli ultimi Diari, è il «criterio di distanza» com'egli lo chiama:

«Nella Chiesa antica si diceva con la più grande serietà e col più profondo pathos, che, per la caduta degli angeli, il numero degli eletti era rimasto incompleto. Allora si pensava che lo scopo infinitamente elevato per l'aspirazione del Cristiano l'uomo lo poteva raggiungere col far buon uso di questa vita, prendendo così il posto degli angeli decaduti. Ahimé, il numero di quegli angeli nessuno lo sapeva, forse non era grande; né si era d'accordo se Dio intendesse aumentare quel numero rispetto al suo progetto primitivo. Ma che dunque fosse tuttavia possibile diventar angeli, che il buon uso di questa vita fosse commensurabile con la decisione dell'eternità, ciò costituiva la serietà più profonda del Cristiano, il suo pathos più alto. Perciò egli era disposto a rinunziare a tutto, a soffrire tutto, pronto a esser sacrificato. E quindi ogni minuto di quel tempo prezioso aveva per lui un'importanza infinita; si chiamava sempre responsabile per ogni suo atto, per ogni parola che diceva, per ogni pensiero della sua anima, per ogni movimento del suo volto, onde non aver la colpa di perder ciò che l'occupava infinitamente.

Ora noi (specialmente nel Protestantesimo, specialmente in Danimarca!) viviamo in modo (è vero, com'è vero che io qui sto scrivendo) che non c'è sol uomo a cui venga in mente di fare per davvero la minima cosa, neppur la cosa più piccola, pensando di dover rapportarsi pateticamente alla decisione di diventare un angelo» (Diario 1853-1855, XI2 A 331; tr. it. di C. Fabro, III ed., Brescia 1980-83, nr. 4442, t. XII, p. 33).

Nell'ultimo testo del Diario del 25 settembre 1855, Kierkegaard distingue gli spiriti superiori in due classi, i demoniaci e gli spirituali: i primi si ribellano a Dio, i secondi - fermi nel pensiero che Dio è amore - prendono il volo dello spirito e sospirano il Paradiso. Solo questi sono maturi per l'eternità.

«E costoro Dio anche accoglie nell'eternità. Infatti cosa vuole Dio? Vuole anime che lo possano lodare, adorare, ringraziare...: un'occupazione di Angeli! Perciò Dio è circondato dagli Angeli. Perché quella caterva di esseri che si contano a legioni nella cristianità, i quali per 10 talleri schiamazzano e suonan la tromba a onore e lode di Dio, è una genia che a Lui non piace. No, a Lui piacciono gli Angeli. E ciò che gli piace ancora più della stessa lode degli Angeli, è un uomo che nell'ultimo scorcio della vita (quando Dio fa l'impressione di essere tutta crudeltà e quasi con la crudeltà più sopraffina fa di tutto per togliergli ogni brama di vivere!) tuttavia continua a credere che Dio è l'Amore e ch'è per Amore che Dio lo fa. Un uomo simile diventa un Angelo. Ed in cielo a lui sarà più facile cantare le lodi di Dio: il tempo del tirocinio, il tempo dell'apprendimento, è anche sempre il tempo più duro. Come se un uomo avesse intrapreso il giro del mondo per trovare il cantore o la cantante dal timbro più perfetto: così Iddio nel cielo se ne sta in ascolto. E ogni volta che sente una lode da un uomo ch'Egli ha portato al punto estremo della noia della vita, Iddio dice fra sé e sé: qui c'è il tono giusto. Dice: "è qui", come se fosse una scoperta ch'Egli fa. Ma Dio questo lo sapeva, perché Lui stesso era presente presso quell'uomo e l'aiutava, in quanto Dio può aiutare per quel che solo la libertà tuttavia può fare. Soltanto la libertà, può farlo. E nella sua gioia di poterLo ringraziare egli è allora così felice che non vuol sentire più nulla, non vuol sentire assolutamente se non Dio stesso. Pieno di riconoscenza, egli riferisce tutto a Dio e prega Dio che le cose restino come sono: ch'è Dio che fa tutto. Perché egli non crede a se stesso, ma soltanto a Dio» (XI2 A 439; tr. it. nr. 4500, t. XII, p. 91 ss.).

Nell'ultima malattia Kierkegaard chiedeva a Dio, non di guarire, ma «...anzitutto il perdono dei peccati, che tutto mi sia perdonato. Poi chiedo a Dio che mi scampi dalla disperazione nell'ora della morte. Spesso mi viene in mente il versetto che dice: "Sia bene accetta a Dio la mia morte!"» (Diario, tr. it., Appendice A, p. 95). E mantenne fino alla fine una profonda pace e serenità di spirito. Il pastore Emil Boesen, amico d'infanzia ch'era andato a visitarlo e che ha lasciato nelle sue Memorie il ricordo commosso dell'ultimo commiato col grande amico, ne trasse un'impressione profonda. Ed il nipote di Kierkegaard, H. Lund, poteva scrivere al Boesen il 18 novembre 1855, ad una settimana dalla morte del grande zio: «Finalmente Dio nella Sua infinita grazia e misericordia lo trasse a Sé, nella sua eterna pace e felicità, alla quale egli per tutta la vita aveva aspirato dalle pene e molestie del mondo, di cui la sua vita era stata tutta ricolma. - Ora egli non è più. Voi avete perduto l'amico della vostra giovinezza, ma io ho perduto il mio unico e migliore amico, un consigliere provetto e sempre fedele, una guida sperimentata e sempre sicura. Piangiamo, ma non lo compiangiamo» (Diario, tr. it., Appendice A, t. XII p. 104).

Egli aveva così raggiunto quanto aveva vagheggiato nel Vangelo delle sofferenze: «Come il Nome di Gesù Cristo è l'unico in cielo e in terra, così anche Cristo è l'unico (Maestro) che ha preceduto in quel modo. Fra il cielo e la terra non c'è che un'unica via: seguire Cristo. Fra il tempo e l'eternità non c'è che un'unica scelta, una sola: scegliere questa via. Sulla terra c'è un'unica speranza eterna: seguire Cristo fino al cielo. Nella vita c'è un'unica gioia: seguire Cristo. E nella morte un'ultima beata gioia: seguire Cristo fino alla vita» (tr. it., p. 102).



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Il Modello del passaggio dalla morte alla gloria è per Kierkegaard il martirio di Stefano ch'egli descrive con un trittico di luce:



Stefano



«E dette queste parole, s'addormentò nella morte» (At. 7, 59).

1. S'addormentò nella morte. - Quant'è calmo! Perché, certo, uno può anche dormire un sonno agitato. Ma allora non si può dire che «si addormenta nella morte». Dormire, calmi, quest'è un simbolo della pace. Quant'è calmo! quale pace! Doppiamente, per il contrasto: una folla furibonda che digrigna i denti...; e lui? egli dorme. Il Suo Maestro e Signore dormiva nella barca, mentre la tempesta infuriava (Mc. 4, 35 ss.). E ora il discepolo Lo imita: ...dormire in quel momento!

2. S'addormentò nella morte. - Quanta potenza! E quanto impotente d'altro canto, quanto impotente sei tu, mondo empio, con tutta la tua rabbia e il tuo schiamazzo! Di cosa sei capace? Vedi qui di cosa sei capace: egli dorme! Diventa pur insonne tu per rabbia, metti in sconquasso tutto; ma non lui, non uno che dorme. Quanta potenza per dormire in quel momento! E non solo poter dormire in quel momento, ma poter mettersi a dormire in quel momento! Quanto poco ci vuole di solito per disturbare il sonno di un uomo: ma poter dormire a quel modo! Quasi sei ridicolo, o mondo, con la tua impotenza. Egli dorme. Il sonno lo distacca da tutto. Egli non fa resistenza! No, tutt'altro, dorme. Non ti risponde: dorme! Non bada affatto a te: dorme. Egli è come in un mondo lontano, come assente: dorme.

3. E, dette queste parole, s'addormentò nella morte. - Quali parole? Eccole: «Signore, non imputare loro questo peccato». Allora è con questa formula che uno si addormenta. Come si dice a un bambino che deve dire una preghiera a voce alta e poi addormentarsi, così anche Stefano si addormentò, e così diceva: «Egli pregava per loro!». Per se stesso ha pregato tante e tante volte: tutta la sua vita fino all'ultimo e le sue sofferenze erano una preghiera per se stesso. Ora non rimane che un momento, un minuto ancora egli prega per i suoi nemici. Però bisogna ammettere che più breve è il tempo che rimane, e più facile riesce il decidersi di pregare per i propri nemici: se egli avesse dovuto vivere con loro più a lungo, forse non sarebbe stato facile pregare per loro.

Ma noi impariamo da lui. Pregare per se stessi, pregare per i nostri nemici: allora ci si addormenta in pace.

Dormi allora, dormi in pace...

«Essi videro il suo volto come il volto di un Angelo...» (At. 7, 15): così, nella morte.

Per 1800 anni egli è stato celebrato e lodato, ma questo gl'importa ben poco! - ora dorme!

La Festa di Natale comincia e finisce con gli Angeli: ieri gli Angeli annunziarono ch'era nato il Salvatore - oggi lo testimonia S. Stefano: «Ed essi videro il suo volto come quello di un Angelo».

E se qualcuno dice: «Angeli, angeli? chi li ha mai visti? son cose da bambini!», rispondo: «Smettila con le chiacchiere, stai zitto! Cerca soltanto di divenire come Stefano, fa' che il tuo volto sia come il volto di un Angelo... Allora arriveremo anche noi a vedere gli Angeli!» (Diario 1851-1852, X4 A 434 e X4 A 438; tr. it. n.ri 3570 e 3574, t. XI, p. 77 ss.).

Testi questi, come ognun vede, di un timbro pari - perché da essi attinti - ai testi più commossi della mistica cattolica che Kierkegaard ammirava e leggeva con gaudioso trasporto a conforto e stimolo di suprema speranza nell'isolamento in cui la sua ferma contestazione l'aveva condannato.

Aveva scritto: «Il cielo aperto lo vede soltanto il Cristiano, specialmente il martire; per lui il mondo anche si chiude sempre di più. Le due cose si corrispondono. Una delle due: o a chi si apre il mondo si chiude il cielo, o a chi si chiude il mondo il cielo si apre. Tocca ora a te scegliere» (Diario, 1851-1852, X4 A 436; tr. it. nr. 3572, t. IX, p. 79).

Egli, la sua morte, l'aveva preparata giorno per giorno e l'attese e l'accolse con gioia nella speranza esultante dell'incontro con Cristo in Paradiso: «Ho la sensazione di diventare un angelo, di mettere le ali ed anche (come certamente succederà) di posarmi su una nuvola cantando: Alleluia, alleluia, alleluia!» (Diario, tr. it., Appendice A, t. XII, p. 98).


http://www.corneliofabro.org/documento.asp?titulo=Il+conforto+del+Paradiso+in+S%F6ren+Kierkegaard&seccion=Il+conforto+del+Paradiso+in+S%F6ren+Kierkegaard&ID=738






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