DON ANTONIO

venerdì 30 settembre 2011

La Nuova Apologetica e le ragioni della speranza di P. Pedro Barrajón, L.C.

Normalmente l’apologetica tradizionale ha cercato di trovare il suo fondamento biblico nella prima lettera di San Pietro là dove l’Apostolo incoraggia la comunità cristiana primitiva con queste parole: “E chi potrà farvi del male se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore nei vostri cuori, pronti sempre a a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 13-15). Siamo in un contesto in cui la primitiva comunità di credenti in Cristo deve soffrire a causa della fede. I credenti cercano di fare del bene agli altri uomini ma non sempre questo bene è corrisposto e ricevono in cambio non poche persecuzioni e sofferenze. San Pietro li incoraggia a soffrire a causa della giustizia, che è una delle beatitudini del Signore (Cf. Mt 5, 6) e li invita all’adorazione, alla preghiera, a ciò che è essenziale. Poi viene la frase che ha interessato agli apologeti di tutti i tempi: “pronti sempre a dare a chiunque ragione della speranza che è in voi”. Si parla di un atteggiamento dello spirito del cristiano che deve essere sempre pronto a dare una risposta (avpologi,a) a chi glielo chieda (to autounti umas) della ragione della speranza che è in voi (lo,gon peri. th/j evn u`mi/n evlpi,doj). La frase non è semplice ma ha tutti gli elementi necessari per capire bene di che cosa vuole parlare San Pietro. Egli parla di un apologia, una risposta, una difesa, una giustificazione (satisfatio è la parola della versione latina). Si parla anche di “logos”, di ragione della speranza che abita nei cuori dei cristiani.
È interessante notare che S. Pietro non parla di dare “ragione per il credere” ma di “ragione della speranza”. Certo la speranza implica in modo implicito la fede ed è giusto che l’apologetica tradizionale abbia centrato la sua attenzione sul dare ragioni della fede. Ma parlando di una “nuova apologetica”, quella che deve essere incarnata nel cuore della cultura contemporanea, è utile non dimenticare l’espressione petrina e tornare ad includere la speranza al centro dell’attenzione. Per questo vorrei condividere con voi alcune riflessioni sulla nuova apologetica in quanto portatrice di ragioni di speranza e come questa nuova apologetica, incentrata sulla speranza, abbia una precisa connotazione sapienziale e sia aperta alla inter-disciplinarietà.

1. L’offuscamento dalla speranza
2. La ricerca disperata dalla speranza
3. Speranza e salvezza (spe salvi)
4. La speranza cristiana e le sue ragioni
5. Le ragioni di sperare in un contesto interdisciplinare: l’apologetica sapienziale
6. L’offuscamento della speranza
Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Post-Sinodale Ecclesia in Europa parla della tentazione di vivere senza speranza che hanno le persone che abitano il vecchio continente europeo. “Il tempo che stiamo vivendo infatti con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini e donne sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questo stato d’animo”1. Viviamo in un mondo di grandi promesse ad ogni livello. Le persone sono invitate spesso a vivire una vita illusioria e falsa. Si promettono beni che poi non si danno e viene una grande frustrazione, una grande delusione. La descrizione dell’offuscamento della speranza che Giovanni Paolo II, seguendo le analisi fatte dai Padri sinodali, applica all’Europa non solo è valida per questo continente che ha sostenuto per secoli il peso della storia occidentale. Questi segnali inquietanti dilagano anche per altri continenti. Il logoramento della speranza umana è spesso accompagnato e preceduto dal logoramento della speranza cristiana, della perdita della memoria e dell’identità che si dà in un clima filosofico e culturale dove regnano l’indifferenza e l’agnosticismo pratico, per cui “molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale e come degli eredi che hanno dilapidato il patrimonio loro consegnato dalla storia”2.
La mancanza della speranza favorisce la crescita delle paure, nuove ed antiche, di fronte al futuro e si manifesta spesso in una mancanza di fiducia nel valore della vita umana, propria ed altrui, in una forma di vivere egoista e nella perdita del significato e senso della vita. A questo si aggiunge una frammentazione dell’esistenza, divisa tra tanti richiami di ogni tipo che lasciano la persona nella perplessità, sola di fronte a grandi decisioni, smarrita quando si tratta di accedere non tanto all’informazione che si accumula in modo smisurato ma nella costruzione di una sana gerarchia di valori che dia una struttura fondante al vivere quotidiano.
Questa mancanza di fiducia con la corrispondente paura del futuro si mostra spesso nelle nueve forme di violenza che appaino nei conflitti culturali, religiosi, di gruppo, nella violenza a volte gratuita nel seno stesso della famiglia e della scuola e che ha dato come risultato quello che Benedetto XVI ha chiamato “emergenza educativa”. Possiamo infatti trasmettere ai bambini e ai ragazzi molteplici conoscenze di tipo empirico, ma la trasmissione dei valori e più ancora in concreto dei valori religiosi solo si può fare in un contesto di armonia e di serenità che viene dato dall’assunzione di atteggiamenti fondamentali di fiducia nel futuro.
La descrizione fatta dalla citata Esortazione potrebbe apparire troppo forte, addirittura forzata, ma le sfide sociali, culturali che deve affrontare la società, la famiglia, la scuola e la chiesa nel loro ruolo educativo sono talvolta drammatici.
Ogni generazione si deve auto-educare alla speranza. Questo atteggiamento non si dà per scontato, e ogni generazione deve dare alle generazioni future la possibilità di assumere la vita con questa nota fondamentale che è il poter sperare per se e per gli altri un mondo migliore. Si era detto a ragione che il secolo XXI apparterrebbe a coloro che sarebbero stati capaci di offrire al mondo una maggiore speranza.
I cristiani, l’apologetica cristiana è capace di dare al mondo questa speranza? Quale è la speranza cristiana e quali sono le nostre ragioni di sperare? Ecco alcune delle domande che si pone il cristiano che si confronta quotidianamente ad una cultura atea, agnostica, secolarizzata, relativista, che vive del attimo fuggente, dei piaceri momentanei, degli impegni provvisori, della mancanza di assoluti. La nuova apologetica cercherà di mostrare in modo ancora più convincente, teorico e vissuto, le ragioni della speranza che è propria del cristianesimo in mondo in cui spesso prevale un’antropologia senza Dio e senza Cristo, dove l’uomo è il centro assoluto e il metro di tutto e che spesso vede Dio come il grande antagonista della propria felicità, e che proprio per questo, perché non vuole accettare un’ulteriore e verticale dipendenza, cade in una visione nichilista del reale e in relativismo pragmatico che si alimenta da un etica edonista3.
2. La ricerca disperata di speranza
Non vorrei sottolineare di più le note negative dell’offuscamento della speranza nella società contemporanea, invece credo adesso sia utile dire qualche parola su come l’uomo in realtà è un imperterrito cercatore di speranza che è come una molla della quale non può farne a meno per vivere come uomo e dare senza alla sua vita.
L’analisi della speranza umana è legata all’analisi dell’azione umana e come questa azione è necessariamente finalizzata alla propria felicità. Non possiamo non volere essere felici. La beatitudo così come la chiamava la teologia medioevale è l’orizzonte in cui si pongono in modo necessario le azioni umane. L’uomo non può non farne a meno anche quando compie su di sé azioni punitive o distruttive l’uomo sta cercando questa felicità alla quale egli aspira come dinamismo fondamentale della sua natura e del suo essere personale.
A. Léonard mette un esempio banale di un’azione che milioni di essere umani fanno al giorno: prendere una tazza di caffé. Egli dice: “Voi prendete una tazza di caffè. È nella speranza (espoir), conscia o inconscia di sentirvi meglio. Se aggiungete un cucchiaio di zucchero è per contribuire di questo modo, un poco almeno, al vostro benessere (bonheur). Oh, la dolce sensazione dello zucchero! Ma se voi proibite di zuccherare il caffè, è perché voi sperate così di non accumulare calorie inutili, dannose per la vostra linea o la vostra salute”4. Nelle nostre azioni, piccole o grandi, si trova questo desiderio fondamentale, unito alla speranza di voler raggiungere il nostro benessere, la nostra felicità.
Ma poiché questa metà della felicità (o almeno del benessere) è un processo che ha un inizio, uno sviluppo e una fine, e che arrivare al fine desiderato non è qualche cosa di automatico, ma ci dobbiamo impegnare a mantenere la direzione che vogliamo dare a nostra vita per ottenere i risultati voluti: la felicità non si presenta in un modo facile né automatico. Bisogna sforzarsi per arrivarci. Alla meta non si arriva subito; dobbiamo essere sostenuti da continui atti del nostro volere. Però la tendenza naturale, l’appetitus è là, insito nel nostro essere, che cammina verso il suo perfezionamento. Questo appetitus opera dentro di noi perché spontaneo e non cercato consciamente. Mentre gli animali hanno un appetito che si sazia con una certa facilità, una volta che ottenuto il cibo, il partner sessuale, il riposo, ecc., nell’uomo questa tendenza rimane come sempre insoddisfatta, almeno con esseri finiti. Qui emerge quella profonda verità delle parola di Sant’Agostino, scritte proprio all’inizio del suo libro Le Confessioni e che sono come il riassunto del proprio itinerario spirituale: “Fecisti nos, Domine ad te et cor nostrum irrequietum est donec requiescat in te”5. L’uomo non è solo un animale istintivo, sebbene gli istinti siano anche presenti nella sua natura. Egli è un “animale metafisico, vale a dire, inserito sull’essere come tale, sulla pienezza dell’essere”6. Il suo appetito non è limitato a oggetti sensibili né é soddisfatto da esseri contingenti e limitati. La mera soddisfazione degli istinti non esaurisce in lui la tendenza naturale verso la pienezza del suo essere spirituale. L’uomo ha un desiderio di conoscere realtà che stanno al di là del suo habitat naturale e che sembrerebbero inutili, come le matematiche, l’astronomia, il mondo dell’atomo, dell’infinitamente grande, ecc. L’animale solo si interessa di ciò che gli appare nel suo spazio vitale immediato; mentre l’interesse dell’uomo va molto al di là di ciò che in quel momento appaga il suo desiderio sensibile. L’animale non è un essere che produce utopie. L’uomo le fabbrica in modo spontaneo. Questo perché l’uomo si orienta per sua natura verso il raggiungimento della verità tutt’intera e non lo soddisfa una verità parziale o una mezzo verità. Egli vuole afferrare il reale nella sua integrità e in profondità.
Lo stesso sappiamo che succede con la volontà umana che rimane insoddisfatta dai beni parziali e sempre vuole più beni, non solo in quantità ma in densità di valore. “La volontà è l’appetito propriamente umano che, come la ragione, è coestensivo all’essere e che niente di limitato la può soddisfare”7. La volontà cerca la pienezza del bene, non un solo bene limitato, ma vuole raggiungere la pienezza e l’universalità. L’animale tende verso i beni limitati che sono l’oggetto del suo desiderio senza ulteriore ritegno, l’uomo invece è capace di dominare, modellare e sublimare il suo istinto appetitivo per cercare beni di natura superiore. Questo è possibile perché l’uomo è un essere spirituale aperto all’infinito. Un animale non può digiunare se ha l’alimento di fronte a sé o non può fare una scelta di castità perché l’animale è inchiodato al suo istinto. L’uomo invece è aperto al bene come tale e alla verità come tale e può sacrificare beni importanti per raggiungere altri più alti8.
Il dinamismo spirituale dell’essere umano che si manifesta in un dinamismo parallelo delle sue due facoltà superiori, l’intelligenza e la volontà, e per tanto nella sua capacità di amare e di esercitare la sua libertà, ci dice che egli è un essere in cammino, come hanno detto alcuni filosofi dell’esistenza, tra cui Gabriel Marcel, è un “homo viator”. Non può non camminare anche se apparentemente sta fermo. Questo suo dover camminare, dover sempre essere in moto può creare nel suo cuore una sensazione di “irrequietezza”, come diceva Sant’Agostino e implica anche il suo necessario inserimento nella storia, la quale anche cammina verso un compimento e una fine che sostiene la speranza dell’umanità e del singolo uomo.
Nel suo cammino verso il compimento personale o sociale l’uomo non può vivere senza speranza. La speranza, -adesso non parlo necessariamente della speranza teologale, benché neanche la escludo-, si trova al centro della nostra ricerca della felicità. Noi speriamo che il dinamismo del nostro essere, che il dinamismo della storia arrivi ad un compimento e che soddisfi pienamente il nostro cuore e le nostre aspirazioni, perché queste non sono completamente soddisfatti mentre camminiamo. È meraviglioso come l’uomo si afferra alla speranza anche nelle situazioni dove sembra barrata la strada verso il raggiungimento di essa. Storie di speranza nei campi di concentramento nazista, dove la probabilità della sopravvivenza era veramente limitate o in situazioni simili, dove l’uomo “spera contro ogni speranza” come nel caso di Abramo ci dicono che esiste nell’essere umano qualche cosa che lo invita ad sperare, a guardare oltre, a camminare in mezzo alle più disperate situazioni. Léonard cita Péguy che parlava di una “piccola figlia speranza” (petite fille espérance), “la cui ostinazione, in mezzo a tante sofferenza, sorprende allo stesso Dio”9. La speranza umana si mantiene in mezzo alle disgrazie della vita e anche ai momenti di felicità si caratterizzano spesso per la sensazione di fugacità con cui l’uomo li vive. In queste esperienze l’uomo si sente come elevato verso una speranza di una felicità che non tramonti e che non abbia abbinata i mali che spesso la insidiano in questa vita. In realtà la speranza che cova dentro al cuore dell’uomo sembra essere molto più grande dell’uomo stesso. L’uomo la anelita egli stesso ma non gliela può dare. È insita nel suo cuore, ma il cuore dell’uomo sembra più grande di tutti i beni terrestri. Molti filosofi hanno notato questo carattere paradossale dell’essere umano che in realtà solo si sciogle con l’apertura al mistero del soprannaturale.
Ed è qui che si apre la possibilità verso un infinito che colmi le nostre aspirazioni, non un Oggetto, ma un Soggetto, una Persona, un altro io che come Amore che si lascia amare e chi dà a amare dia al nostro cuore quella pace che cerca e che gli altri beni effimeri non gliela danno. “Una persona della quale l’uomo non può disporre in nessun modo: riferimento alla Grazia assoluta, alla Libertà assoluta, non condizionata né dalla natura né dall’uomo, né dalla storia né da nessuna necessità intrinseca: il Trascendentale si rivela nella Libertà assoluta del Dono di sé all’uomo come pura Grazia e quindi imprevedibile, mistero”10. E qui si inserisce il discorso sulla speranza cristiana che è una virtù teologale che presenta come raggiungibile un oggetto che riempie il cuore dell’uomo di vera felicità.
3. La speranza che non delude (Rom 5, 5)
Il cristiano assume tutte le caratteristiche della speranza umana e le dà una dimensione infinita perché la fa penetrare nel mistero stesso di Dio dando alla speranza una dimensione teologale. Il cristianesimo è stata un avvenimento che ha portato al mondo un soffio di speranza. Ma quale speranza? San Paolo ha capito bene il nucleo di questo messaggio e l’ha spiegato così ai Romani, quando parla loro del fondamento della speranza cristiana e del logos intimo alla logica della fede. In un contesto di sofferenza e di persecuzioni, S. Paolo indica la gloria come meta finale del cristiano e paragonando le sofferenze con la gloria che dovrà manifestarsi, vede che non c’è punto di comparazione. Da una parte considera questo mondo fisico con la sua attesa insita nella sua natura di una redenzione, la creazione che sta soffrendo le doglie del parto di questa nascita nuova di tutto che si è operata con il grande evento cosmico-salvifico che è il mistero pasquale di Cristo. Contempla le sofferenze, l’attesa spasmodica della creazione di potersi liberare da quel giogo che gli ha inflitto nel suo essere profondo il peccato, lasciando dentro di esse il seme della corruzione. Ma dall’altra parte Paolo vede il dono della Spirito che è, sì solo primizia, ma realtà già operante nel mondo e trasformandolo dal di dentro. Paolo guarda il grande evento della redenzione come sorgente di questo mondo nuovo e in essa vede già operata la redenzione oggettiva e noi siamo inclusi, in speranza, in questa redenzione: spe salvi (Rom 8, 24).

Il cristianesimo si presenta come un’offerta di salvezza e di redenzione da Dio all’uomo che gli dà la possibilità di raggiungere in Cristo i desideri più profondi della sua natura. Ciò che l’uomo anelita nel suo intimo, egli stesso non lo può trovare. Gli deve essere dato per grazia. S. Paolo dice: “è per grazia che siete salvati” (Ef 2, 4). Il cristianesimo presenta la promessa della vita eterna in Cristo. La vita cristiana è una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita11 . Il cristianesimo ha un carattere performativo, capace non solo di informare ma di trasformare la vita stessa perché ci apre ad una dimensione nuova, quella appunto della vita eterna che in un certo senso già ha iniziato qui, nella quale già viviamo, ma che deve impregnare la nostra vita giorno dopo giorno.

Forse una delle difficoltà per aprire il gusto e il desiderio della vita eterna agli uomini del nostro tempo è quella difficoltà di cui parla Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi: “Forse oggi, dice il Papa, molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno –senza fine- appare più una condanna che un dono”12. Il cristianesimo è stato accusato di essere dalla filosofia marxista di essere l’oppio del popolo, di addormentare nell’uomo la sete di felicità terrena, indicando solo agli uomini il cielo come meta delle loro aspirazioni e consolazione oltremondana delle loro sofferenze. Sarebbe allora la speranza nella vita eterna una speranza vana, deludente, assurda, che ci distoglie dai veri impegni terrestri, dalle gioie di questa vita? Questa è una delle grandi domande dell’uomo e del mondo secolarizzato alla fede e alla speranza. Si può sperare veramente, fondatamente? Naturalmente a queste domande non si possono dare risposte di tipo scientifico. Si può indicare la strada, si possono dare delle ragioni per la nostra speranza.

Il fatto di essere paradossale proprio dell’uomo si applica anche nel caso della vita eterna, perché è vero che da una parte noi non vogliamo morire, ma anche sembra che la vita, tale quale la sperimentiamo, ci dispiace: “Non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva”13. Questo paradosso era già stato illustrato da J. Swift nel suo famoso libro i viaggi di Gulliver, il quale arriva all’isola di Luggnagg dove trova gli strani esseri chiamati struldbrugs che, in apparenza sono essere umani normali, non sono di fatto immortali, ma invecchiano. In questo famoso romanzo, J. Swift descrive glo orrori dell’immortalità se non va insieme con l’eterna gioventù.

La questione della vita eterna, oggetto della speranza ultima, fa sorgere una questione ancora più fondamentale all’uomo: in realtà, che cosa è la vita? Come darne un significato e un senso soddisfacenti? Sant’Agostino affermava che la vita beata è la vita che è semplicemente vita e semplicemente felicità14. Lo stesso Santo dottore continua segnalando che spesso non sappiamo bene che cosa vogliamo e che cosa desideriamo profondamente e non conosciamo neanche questa realtà della “vita beata” alla quale sembra che tendiamo con tutte le nostre forze: “Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa ‘vera vita’ e tuttavia sappiamo che deve esistere qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti”15. Questa è una specie di docta ignorantia perché da un parte noi la conosciamo e non la conosciamo questa vita beata, oggetto del nostro desiderio. Ma è appunto questo oggetto ignoto e noto allo stesso tempo che ci spinge e che è la causa delle nostre gioe come delle nostre disperazioni, dei nostri slanci e dei nostri scoraggiamenti.

La ricerca dell’oggetto supremo della nostra speranza è drammatica. La nostra speranza è drammatica perché non una marcia trionfale verso l’oggetto desiderato, intuito e voluto. È una marcia dove ci sono momenti di grande luce e altri di grandi oscurità, dove ci sono spazi di silenzi e deserti, dove si mescola anche la continua presenza insidiosa del male. Come dice Don Giussani, “la nostra natura umana è esigenza di verità e di compimento, vale a dire di felicità. Tutto il moto dell’uomo, qualunque cosa faccia, è dettato da questa urgenza che lo costituisce. Ma essa, arrivata ai bordi della propria esperienza di vita, non trova ancora ciò che ha cercato, all’estremo confine del suo territorio vissuto questa nostra urgenza non ha trovato ancora”16. Ancora al limite della ricerca, al limite della forze si potrebbe anche dire, viene in modo improvviso, inaspettato, gratuito, la liberazione e la risposta. Egli racconto una sua esperienza di ragazzo, che perso in mezzo al bosco per più di due ore, calando già il sole, disperato, ha cominciato a gridare con tutte le sue forze e da un luogo lontano e ancora con determinato è arrivata una tenue voce di risposta che poi e diventata sempre più forte: “è subentrato un senso di liberazione incredibile”17.

Comprendiamo che solamente un dono di grazia è capace si venire in nostro aiuto, che noi soli non possiamo con la nostra tecnica, con il nostro sapere scientifico e tecnico, con i nostri poteri sul mondo della materia o anche nel campo della vita. A questo dono che viene dall’alto fa riferimento il cristianesimo quando parla dell’evento di grazia che si è diramato sulla storia e sul mondo con l’incarnazione del Figlio di Dio e con il suo atto redentivo operato nel mistero pasquale. A questo evento di grazia faceva anche riferimento la lettera di San Paolo ai Romani quando, di fronte alle tribolazioni del tempo presente, segnalava: “La speranza non delude, perché lo Spirito Santo ci è stato dato” (Rom 5, 5). E lo stesso Spirito che viene in aiuto della nostra debolezza, il quale si esprime con gemiti inesprimibili, il quale garantisce che siamo predestinati ad diventare conformi all’immagine del Figlio (Cf. Rom 8, 28-30) e che l’amore che si manifesta in questo atto dalla parte di Dio nei confronti del singolo uomo e dell’umanità è capace di dare la garanzia finale alla speranza: non c’è niente che ormai ci possa separare dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Cf. Rom 8, 38).

I cristiani credono che questo evento di grazia che ha inondato il mondo si è già dato storicamente nella persona di Gesù Cristo, nel suo mistero, nella sua vita, morte, passione e risurrezione, nel suo effondere sui suoi discepoli lo Spirito Santo e che la Chiesa, nella storia continua a diffondere fino al momento della parusia.


4. Le ragioni della nostra speranza

Il cristiano è chiamato ad fare esperienza di questo amore che non delude, l’amore del Padre, ricco in misericordia, “per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe ci ha fatto rivivere in Cristo: per grazia siete salvati” (Ef 2, 4). Ma qualcuno potrebbe giustamente dire che si tratta di un’esperienza personale e le esperienze non sono affatto comunicabili allo stesso modo al meno come lo sono i concetti universali propri della scienza. Possiamo capire Newman quando diceva della sua propria conversione: “Se mi si chiede di usare l’argomento di Paley per la mia propria conversione, dico chiaramente che non voglio essere convertito da un sillogismo costringente (smart). Se mi si chiede di convertire altri con quel sillogismo, dico semplicemente che non cercherò di vincere la loro ragione senza toccare i loro cuori. Io voglio fare a che vedere non con persone polemiche (controversials) ma con persone che cercano (inquirers)”18.
Neanche per la nostra speranza possiamo dare ragioni (lógoi) di tipo scientifico o empirico, ma possiamo darne ragioni di un altro tipo, in cui come lo stesso Newman diceva valeva non tanti argomentazioni solo sillogistiche o empiriche ma dove si utilizza quel “senso illativo” (illative sense) al quale ricorre nel suo noto libro Grammar of Assent, ragioni che sono di un altro tipo di quelle che si usano nelle scienze ma che sono valide se applicate alla ricerca esistenziale della verità e del bene.
Adesso non vorrei dare tutte le ragioni per sperare che dà il cristianesimo come risposta storica e concreta alle aspirazioni profonde dell’uomo. Mi soffermo soltanto sulle tre caratteristiche che riguardano il Dio cristiano e che creano tre corrispettivi atteggiamenti nell’uomo: la credibilità, l’affidabilità e l’amabilità.
1. La credibilità:
La prima riguarda il tema classico dell’apologetica che è la credibilità. Il nostro messaggio è credibile? Il Dio cristiano è credibile? Possiamo veramente credere nel Dio cristiano? Sappiamo bene che il problema della credibilità è che il credere non è un atto a cui siamo costretti dall’evidenza delle prove. “Solo possiamo credere se si vuole”, dice Josef Pieper19. Possiamo ricevere argomentazioni da un'altra persona che ci inclinano a credere come vero ciò che dice, ma in realtà solo se noi vogliamo darle credito, accetteremo ciò che dice. Come Sant’Agostino affermava a questo riguardo: “Nemo credit nisi volens”20. Dio è in se stesso sommamente credibile, degno di essere creduto in ciò che a noi ci rivela, ma la volontà umana può credere o non credere a ciò che egli ci dice. Questo aspetto lo dobbiamo tenere presente nell’apologetica. Noi non possiamo a nessuno a costringere se non vuole. Possiamo dare delle ragioni oggettivamente convincenti, ma la persona è chiusa a dare credito. È inutile intentare altre strade. Neanche Dio potrebbe né vuole forzare la libertà umana nell’atto di credere.
Qui invece parliamo di la credibilità che dà alla ragione umana la rivelazione che in definitiva è la credibilità divina, del suo messaggio e salvezza. La risposta di Dio a questa rivelazione sappiamo che è la fede, e la fede presuppone come possibile, addirittura come giusto è sperabile la realtà della rivelazione. La credibilità di Dio suppone che egli si può comunicare e che l’uomo può capire il suo linguaggio o che almeno lo può imparare. È vero che oggi sempre meno evidente captare la presenza di Dio nel mondo. In questo senso affermava Kark Rahner: “Non possiamo sentire la presenza di Dio nel nostro mondo con tanta ingenuità come lo fecero epoche anteriori”21.
L’apologetica dà delle risposte razionali a domande come queste: è credibile il Dio rivelato da Gesù Cristo? È credibile l’incarnazione del Figlio di Dio? È credibile la Chiesa? Sono credibili i suoi dogmi? Le riposte che dà l’apologetica sono affermative ma solo l’atto libero di ogni uomo, mosso a sua volta dalla luce dello Spirito Santo, darà l’assenso totale a questa rivelazione. Questo vuol dire che Dio è credibile, ma che l’atto di credibilità, dalla parte dell’uomo rimane racchiuso nel mistero della libertà personale. In questo senso, è bene sapere che il ruolo dell’apologetica, come dice l’apologeta tedesco del secolo XVIII, Eusebius Amort (1692-1775) , deve essere modesta quando scrisse un noto manuale di teologia, Teologia eclectica, moralis et scholastica, nel 1752 e un trattato di apologetica, Demonstratio critica religionis christianae nova, modesta, facilis (1744). Per l’apologetica non deve essere troppo pretenziosa e cercava di mettere in evidenza solamente che i dogmi della Chiesa cattolica sono più credibili di quelli di altri chiese e che non si può dimostrare niente di falso nella religione cattolica. Perciò presentava il metodo apologetica della più grande probabilità. Questo è interessante perché forse una certa apologetica aveva nel passato voluto dare delle argomentazioni troppo contundenti, troppe sicure di sé stesse, dimenticando il ruolo della interiore illuminazione di Dio all’uomo che lo apre, con la sua grazia all’atto di credere.
La credibilità del messaggio rivelato si appoggia sulla Verità di Dio. Dio è vero. Egli stesso è la Verità. Egli non può né ingannarsi né indagarci. Il fatto che Dio sia la Verità è il fondamento della possibilità della mente umana di conoscere con assolutezza e di poter raggiungere verità assolute; in altre parole la veridicità di Dio fonda il rigetto del relativismo. La verità divina è il fondamento di ogni atto di autentica libertà: “la verità di renderà liberi” (Gv 8, *). Senza la verità divina si ricade nella dittatura del relativismo. La verità di Dio fonda anche il senso della ricerca e della vita. Se questa verità ultima e definitiva non ci fosse, non sarebbe possibile trovare un senso all’esistenza umana né al divenire storico.
B) L’Affidabilità:
La seconda caratterista della nuova apologetica che fonda la ragioni del nostro sperare è che Dio è affidabile e che è il fondamento della nostra speranza. Ma perché Dio è affidabile? L’analisi dell’uso di questa parola nel linguaggio ci potrebbe aiutare a capire meglio questo concetto. Si dice che una persona è affidabile quando noi possiamo rimettere in lei la nostra fiducia, quando sappiamo che è qualcuno che è fedele alla sua parola e fedele alla sue promesse. In questo senso una persona affidabile è una persona autentica nella quale si trova una coerenza tra le sue parole e le sue azioni, il suo pensiero e il suo dire. Questo primo aspetto dell’affidabilità non esaurisce però il senso teologico che vorrei dare a questa parola, perché ritengo che l’affidabilità implichi anche, oltre alla credibilità già accennata, anche l’aspetto della fiducia. Io mi posso fidare, posso avere fiducia in una persona affidabile. Applicato a Dio, possiamo dire che Egli è qualcuno in cui io posso rimettere la mia fiducia, posso confidare in Lui. Possiamo dire che il concetto che io vorrei mettere qui in rilievo è simile a quello che si presenta nell’espressione latina Credere Deo. Io non solo so che Dio è Vero e che mi dice è vero (Credere Deum) ma anche credo a lui per ciò che Egli è non solo in sé stesso ma nei miei confronti. In questo senso Dio non è solo il Dio della Verità fredda e razionale, il Giudizio supremo dell’universo e della storia, ma il Dio cristiano è anche il Dio della Misericordia che sa combinare nei suoi giudizi nei miei confronti una componente di benevolenza no meritata. Mi posso fidare di Lui perché non mi ingannerà ma anche mi posso fidare in modo speciale di lui perché so che mi guarda con misericordia, perché so che è disposto a perdonare e a accogliermi anche se io non sempre gli sono fedele. In questo senso l’affidabilità di Dio è il fondamento della nostra speranza teologale che ci apri lo spazio alla possibilità di poter raggiungere la felicità stessa di Dio non già in quanto Egli è la Verità solamente ma in quanto Egli è fedele alla promessa che Egli stesso ci fa di poter arrivare ad una felicità tale che sarà una condivisione della felicità stessa di Dio. Ma questo è un atto di condiscenda del Dio misericordioso e delle sue promesse noi ci possiamo fidare.

3. Amabilità:

Così si arriva al terzo aspetto che è intrinsecamente legato con i due precedenti ma che comunque emerge con sua propria caratteristica formale ed è l’amabilità di Dio. Questo Dio Verità del cui ci possiamo fidare perché ci promette una partecipazione alla sua natura e alla sua felicità è un Dio Amore. È vero che la Verità è già un primo compimento del senso che ricerca l’uomo e che spera ottenere, ma se questa verità non fosse tutta intrisa e permeata d’amore, se non fosse l’Amore verità e la verità Amore, noi non potremmo fondare una speranza salda perché ovvero la Verità si imporrebbe col peso della sua forza e ci scaccerebbe oppure la bontà infinita che non fosse vera sarebbe fondata una volontà che ama ma in modo velleitario e dunque non affidabile. “Solo l’amore è degno di fede”, come diceva von Balthasar22**. Solo l’amore è degno di speranza, si può aggiungere.
La vocazione dell’essere umano solo trova pienezza nell’amore, ma non in qualsiasi amore ma in un amore che sia credibile e affidabile, in un amore che sia totale donazione e che sia onnipotente e infinito. In un amore che sia Misericordia. Tale è il Dio che Cristo ci rivela nel suo Vangelo e tale è il Dio che ci presenta la Chiesa.
Ci sono per tanto valide ragioni per sperare e noi possiamo, come cristiano, seguire il consiglio di San Pietro di essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in noi. L’apologetica cerca di fare questo in modo sistematico. La nuova apologetica non può perdere le ragioni che nel passato si sono date, con validità, per mostrare egli uomini la ragioni del nostro sperare, ma dovrebbe, nella forma soprattutto fare un approccio più esistenziale senza perdere tutta la forza di logicità che hanno le argomentazioni razionali, la quali però da sole non saranno sufficienti se vogliamo fare non solo apologetica teorica ma praticare l’arte apologetica o l’apologetica pastorale.


5. Le ragioni di sperare in un contesto interdisciplinare: l’apologetica sapienziale

Una combinazione felice di questi elementi possono dare, con modestia e allo stesso tempo con fiducia, ragioni convincenti per sperare. Per aiutare a rafforzare queste ragioni e vedere come la fede non ha paura della scienza, sarebbe molto conveniente avvalersi del metodo interdisciplinare nel quale si intersecano ragioni di tipo teologico, filosofico e scientifico, in modo diverso. Questo tipo di approccio è aperto a ciò che possiamo chiamare non solo un’apologetica esistenziale ma anche sapienziale che integra i saperi in un’unità armonica.
Giovanni Paolo II aveva già affermato nel numero 92 dell’enciclica Fides et Ratio che la teologia (e l’apologetica ne è parte integrante), “nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare in esse in una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede”23. L’apologetica, in quanto scienza teologica, che vuole dare ragioni della propria fede in una cultura che spesso è in contraddizione con in valori del Vangelo, dovrà presentare questa concettualizzazione coerente della fede che sia comprensibile e accettabile da un punto di vista logico alla cultura contemporanea. Oggi più che mai le scienze hanno sviluppato diverse specializzazioni che rendono difficile l’unità del sapere e la loro conciliazione unitaria. Uno dei grandi contributi della nuova apologetica può essere appunto raggiungere questa visione d’insieme che unisca i diversi saperi attraverso la fede.
La Fides et Ratio continuava affermando che spetta alla teologia nell’epoca contemporanea un duplice compito: “rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace all’evangelizzazione”, ma d’altra parte essa deve “puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi”24 L’apologeta teologo dovrà da una parte cercare le nuove metodologie teologiche applicabili all’apologetica, ma non potrà mai rinunciare alla fedeltà della purezza della fede stessa. Il dare ragioni della propria fede non vuol dire per niente perdere il sale che caratterizza il Vangelo che comporta esigenze spesso contrarie a modi di pensare della filosofie di moda nel mondo contemporaneo.
“La mole dei problemi che oggi si impongono richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa”25. Questo lavoro comune deve essere anche compito di coloro che si dedicano all’apologetica, la quale si deve confrontare a numerosi problemi che richiedono competenze svariate. È vero che l’apologeta teologo può dare delle indicazioni in linea di principio ma non può assumere da solo tutti i problemi non solo teologici, ma anche filosofici, scientifici, storici, culturali, sociale che sono presenti nelle argomentazioni apologetiche. Il suo lavoro richiede una doverosa inter-disciplinarietà la quale non è una mera giustapposizione dei saperi ma il loro organico inserimento in un sapere comune guidato certo dalla sapienza che viene dalla fede.
Certo che la inter-disciplinarietà di cui parliamo non è un compromesso eclettico tra i diversi saperi né una rinuncia alla verità rivelata con le conseguenti concessioni al relativismo di moda. L’apologetica rinnovata crede nella possibilità della ragione di poter raggiungere una verità universalmente valida e questo non dovrebbe essere sinonimo di intolleranza. L’accettazione della verità oggettiva non è un atto di schiavitù ma di libertà: “La verità vi renderà liberi” (Gv 8, 32). L’apertura di tutti alla verità, venga questa da dove venga, è una condizione necessaria affinché il dialogo tra gli uomini e le scienze si possa realizzare perché se non ci fosse nessun terreno comune su cui dialogare e i diversi saperi fossero semplicemente una collezione di informazioni giustapposte senza nessuna interconnessione logica, allora ci troveremo di fronte al caos più grande caos epistemologico. Di fatti, il relativismo conoscitivo in fondo non è sostenibile in quanto supporrebbe una specie di dipartimenti assolutamente separati tra le conoscenze degli uomini senza la minima possibilità di integrazione.
L’inter-disciplinarietà che viene richiesta dalla nuova apologetica, oggi più che mai, deve essere costruita su basi epistemologiche sane e realiste, aperte alla filosofia dell’essere che, come fondamento ontologico della conoscenza umana, permetta un sano confronto tra i diversi saperi. Naturalmente è difficile questo confronto tra saperi così eterogenei che usano metodologie tanto diverse e ciò richiede un’apertura mentale e di spirito sia agli altri saperi che all’altro come persona, apertura che non vorrà dire per niente una rinuncia alle proprie convinzioni di fede, ma piuttosto un atteggiamento dello spirito che cerca in ogni persona e in ogni affermazione gli elementi interni di verità che si possono trovare e allo stesso tempo una capacità critica di discernimento per poter valutare con serenità gli errori che anche le conoscenze umane possono contenere.
Vorrei adesso indicare come un modello concreto di inter-disciplinarietà quello che si fa nel campo della bioetica. Come sappiamo questa scienza è relativamente recente. Non ha più di quarant’anni. Si tratta di una scienza a carattere morale che usa anch’essa una metodologia interdisciplinare che ha per oggetto l’esame sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute in quanto questa condotta è esaminata alla luce di valori e principi morali”26. Nella bioetica serve una visione di fede sulla vita che comporta un’antropologia teologica adeguata così come una concezione filosofica della dignità della persona umana con tutto il valore della sua corporeità e spiritualità. La bioetica resterebbe una conoscenza vuota se poi non passa ad offrire giudizi oggettivi su temi concreti e talvolta scientificamente complicatissimi che si danno nella ricerca degli embrioni umani, nelle questioni che riguardano la riproduzione o la morte. Sappiamo che quando si tratta di principi più generici la riflessione teoretica potrebbe trovare con una relativa facilità certi accordi di massima, ma quando si tratta di applicazioni concrete ai casi singoli, con tutta la casistica che esso implica, allora le questioni diventano complicate e sottili. Questo non vuol dire che non si possano raggiungere traguardi importanti in campo bioetico ma questo richiede una competenza specifica che va dal campo teologico-filosofico a quello giuridico, medico, etico, scientifico, pastorale.
L’esempio della bioetica ci dice che l’inter-disciplinarietà, non solo quella inter-disciplinarietà che raccoglie scienze affini di un ambito comune di ricerca, ma quella in cui si mettono insieme metodologie e saperi di scienze umanistiche e di scienze naturali, è possibile, anzi è l’unico modo di poter arrivare a delle conclusioni che hanno una legittimità in quanto verificate da diversi saperi a diverse istanze. Adesso tralascio altri temi di tipo epistemologico che sono comunque di grande interesse e che riguarderebbero il modo di armonizzare le grandi sfere del sapere. Rimando alla grande opera di Jacques Maritain, “I gradi del sapere”, dove il noto filosofo francese ha mostrato la profonda unità dei saperi umani articolati nella loro diversità”27.
La mera inter-disciplinerità resterebbe una procedura metodologica se non fosse animata da una ricerca e spirito a carattere sapienziali che all’apologetica le vengono date appunto dal suo specifico statuto teologico. Sappiamo infatti che la teologia, essendo anche lei una scienza, lo è in modo diverse della filosofia o delle scienze empiriche. Già la stessa filosofia possiede una forte componente sapienziale se vuole essere vero amore della sapienza secondo la terminologia della parola. L’enciclica Fides et Ratio chiede alla filosofia di trovare la dimensione sapienziale che le è propria per la quale ricerca il senso ultimo della vita28. Se la filosofia conserva la sua propria dimensione sapienziale, lei stessa è fedele alla sua essenza in quanto non solo indicherà alle “varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi”29. Questa dimensione sapienziale è anche valida per l’apologetica che non può essere un dare solamente “prove” astratte dell’esistenza di Dio ma deve cercare di mostrare come l’agire dell’uomo è vuoto se non ha un senso e se è privo di significato profondo e assoluto.
La dimensione sapienziale deve anche essere riscoperta dalla teologia che, secondo S. Tommaso non è solo una scientia ma una propria e vera sapientia30 *. La teologia apologetica non può perdere la sua profonda identità teologica e la teologia, se vuole essere tale, deve necessariamente ricuperare una dimensione sapienziale che dà all’uomo orientamento verso Dio come realtà ultima del suo destino.
Ma non sono solo la filosofia e la teologia che devono riscoprire la loro dimensione sapienziale come strumenti necessari per una nuova apologetica. Sono anche le scienze naturali e anche umane. Le scienze hanno compiuto passi da giganti negli ultimi secoli e hanno cambiato la nostra vita, raggiungendo traguardi che continuano a stupirci. Ma se la scienza non si apre anche lei alla dimensione sapienziale e si erge come ultimo orizzonte della razionalità umana, chiudendosi in una prospettiva positivista e empirista, allora potrebbe diventare un grande mostro che distrugge l’uomo che l’ha creata. Le acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana” 31. “La ricerca della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero”32.

Conclusione

Avviandoci verso la conclusione, potremmo riassumere il nostro percorso ricordando che abbiamo partito dalla constatazione che viviamo in epoca in cui esiste ciò che Giovanni Paolo II ha chiamato nell’esortazione apostolica post-sinodale l’offuscamento della speranza nel mondo contemporaneo, una perdita della speranza della speranza accompagnata da una ricerca, talvolta folle, di una speranza che sia assoluta. Partendo alla rivelazione cristiana, abbiamo ricordato come la speranza che offre Cristo all’uomo non delude perché solidamente fondata in un Dio che è vero, misericordioso e amore che le danno credibilità, affidabilità e amabilità, facendo ritrovare all’uomo la sua autentica vocazione all’amore.
L’uomo aspetta ragioni per cui vivere, per il suo credere, il suo sperare, il suo amare. Perché credere? Perché sperare? Perché amare? L’apologetica, la nuova apologetica, dovrebbe offrire queste ragioni in modo esistenziale, sapienziale a interdisciplinare. Noi sappiamo che tutte queste ragioni per sperare sono unificate in una persona, Gesù Cristo. È il Lui il motivo della nostra speranza: “Surrexit Christus, spes mea!” ci aiuta a cantare la liturgia nella sequenza pasquale. Noi possiamo sperare perché Gesù è il vero Figlio di Dio inviato dal Padre a salvarci perciò lo Spirito e la Sposa gridano: Vieni (Ap 22, 17). E egli: “Sì, vengo presto!”. “Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 20).


Roma, Convegno Internazionale sulla “Nuova Apologetica”
30 aprile 2010

http://www.srmedia.org/News2010/NewsAprile2010/LaNuovaApologeticanellaTeologia/tabid/793/Default.aspx

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