DON ANTONIO

lunedì 26 settembre 2011

17.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

e) La sofferenza luminosa.
La sofferenza è un male nel Cristo come in noi. Ma la carità, che l'ha
divinamente illuminata nel Cristo in Croce, può illuminarla anche in noi,
estendendosi da lui a noi. «Il vostro sacrificio - viene detto a santa Caterina
da Siena - dev'essere insieme del corpo e dello spirito, come la coppa e
l'acqua che si offre al padrone: non gli si può dare l'acqua senza la coppa, e
la coppa senza l'acqua non gli procurerebbe alcun piacere. Così lo vi dico,
dovete offrirmi la coppa delle molteplici prove corporali secondo il modo
col quale lo ve le mando: senza scegliere il luogo, il tempo, la prova,
secondo il vostro desiderio, ma conformandovi al Mio. Ma questa coppa
deve essere piena d'affezione, di amore e di vera pazienza, dimodochè voi
portiate e sopportiate i difetti del vostro prossimo, provando odio e dolore
del vostro peccato. Allora... ricevo questo dono dalle Mie dolci spose, cioè
da ogni anima che Mi serve» (65). San Paolo invitava così i Colossesi «a
condividere la sorte del santi nella luce» (I, 12).

5. CONCLUSIONE
Pensando alla sofferenza luminosa, Léon Bloy poteva scrivere: «Ogni
sofferenza contiene due pene: la pena della dannazione e la pena del senso.
Soltanto la Redenzione di Gesù ci libera dalla prima, che è quella che
toglie la speranza» (66).
Abbiamo trattato soltanto alcuni aspetti del male della penai e tanto basta
per dipingere la vita degli uomini nel suo insieme come una lunga prova.
Come potrebbe essere diversamente? Questo è lo stato di passaggio non di
meta, l'esilio non la patria, il tempo delle domande non delle risposte. Le
sofferenze dell'esodo del deserto non avevano un senso se non nella
speranza della terra promessa; quelle della vita presente non si illuminano
se non nell'attesa della Parusìa.
E' peculiarità del tempo costruire per distruggere e ricostruire. Esso
permette agli affetti più cari di legarsi perché è sicuro di poterli slegare.
Bisogna che ogni nota si abolisca perché si formi il canto di quell'ardente
singhiozzo che passa «di età in età». «C'è un momento per tutti, un tempo
per tutti, e un tempo per fare tutto sotto il cielo; un tempo per generare ed
un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per estirpare, un
tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per distruggere e un
tempo per costruire, un tempo per piangere e un tempo per ridere»
(Eccles., III, 1-4) (67). Nulla è tralasciato, né le cose giuste né le ingiuste,
né le cose pure né le impure, né le cose belle che sono un riflesso del cielo,
né le brutte. Il Figlio dell'uomo è stato percosso ed insanguinato. Nella
grande Deposizione dalla Croce di Michelangelo, fatta a spirale, che si
vede in Santa Maria del Fiore, la prima cosa che ci commuove è la pace
augusta della morte diffusa sul corpo abbandonato del Salvatore; ma se ci
si avvicina per alzare gli occhi, dal basso, sul gruppo, il contrasto delle
linee che si intersecano e si spezzano ci fanno improvvisamente
comprendere che la violenza ha colpito senza riguardo, e che è divenuta
sorda per devastare il più bello del figli degli uomini.

Tuttavia qualcosa nasce da quelle rovine: due città si edificano, la città di
Dio e quella del Diavolo, secondo il sì o il no di esseri che la marea
universale fa comparire e scomparire per sostituirli con altri.
Il passaggio momentaneo dell'umanità su di un pianeta provvisorio,
sarebbe davvero un'avventura vana, assurda, crudele, se non sapessimo
che, visitata un giorno dal Verbo fatto carne morto e risuscitato, quella
stessa umanità è trascinata ora nella sua scia, con tutta la creazione visibile
che le fa da corteo. La dissonanza tra l'uomo e il cosmo avvenuta dopo la
caduta non si risolverà se non al termine di questo doloroso parto: «Io
penso - dice l'Apostolo - che le sofferenze del tempo presente non siano
paragonabili alla gloria che deve essere manifestata in noi. Infatti, la
creazione in attesa aspira alla manifestazione del figli di Dio: se essa è
assoggettata alla vanità (non perché essa lo abbia voluto, ma a causa di
colui che l'ha sottomessa) lo è con la speranza di essere liberata essa pure
dalla servitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria del figli
di Dio. Noi sappiamo, infatti, che tutta la creazione fino a quel giorno
geme nel travaglio del parto» (Rom., VIII, 18-22).

NOTE
(1) Cfr.: De la condition initiale privilégée de l'homme, in «Nova et Vetera», 1954, p.
210.
(2) Cfr.: c. JOURNET, La volonté divine salvifique sur les petits enfants, Desclée De
Brouwer, Paris 1958.
(3) Il lavoro è benedetto; è la condanna al lavoro che è punitiva.
(4) «La morte è naturale, se si considera la nostra condizione corporale; essa è
penale, se si considera la perdita del privilegio divino che ce ne preservava» (SAN
TOMMASO, II-II, q. 164, a. 1, ad. l). Cfr. BOSSUET, Sermon sur la mort: «Non
persuadetevi che noi dobbiamo considerare la corruzione, secondo i ragionamenti
della medicina, come una conseguenza naturale della composizione e della
mescolanza. Bisogna sollevare più in alto i nostri spiriti e credere, secondo i principi
del cristianesimo, che ciò che impegna la carne nella necessità di essere corrotta...».
Però il seguito di questo passo pare che restringa l'ampia prospettiva dell'apostolo.
(5) SAN TOMMASO, q. 69, a. 3, ad. 3.
(6) ID., IV Contra Gentiles (cap. 52). Per un confronto fra le dottrine di Pascal e di
san Tommaso sul peccato originale, v. c. JOURNET, Vérité de Pascal, Saint-Maurice
(Suisse) 1951, pp. 88-155.
(7) Una certa conoscenza spontanea di Dio è inerente all'umanità: «Ciò che si può
conoscere di Dio, è per loro [i Gentili] manifesto. Dio, infatti, lo ha manifestato ad
essi. Ciò che è invisibile in lui, infatti, si scopre con ]a riflessione dopo la creazione
del mondo, attraverso alle sue opere ed anche attraverso alla sua potenza eterna e la
sua divinità, dimodochè essi sono imperdonabili» (Rom., I, 19-2G). Ci vorrà tutto lo
sforzo della propaganda atea con i suoi miti per soffocare questo istinto. Ma una
conoscenza esplicita ed ampia di Dio e ciò che san Tommaso chiama la verità
riguardo a Dio, «quando è cercata dalla [sola] ragione, è ottenuta soltanto da ben
pochi uomini, dopo molto tempo, e con un miscuglio di molti errori» (SAN TOM-
MASO, l, q. 1, a. 1).
(8) ID., IV Contra Gentiles, cap. 52.
(9) «Dio è ciò che vi è di più terribile al mondo... Egli castiga». In queste parole di un
personaggio del suo romanzo Giovinezza senza Dio, ODON DE HORVATH
suggerisce la dialettica infernale nella quale si coinvolge fin da quaggiù la creatura
ribelle contro Colui per il quale essa è creata. Lo stesso personaggio aggiunge: «Non
si deve rinnegare Dio anche quando si ignora perché ci punisce». E ancora: «Dio va
per tutte le strade». Si pensi al Deus excelsus terribilis del Salmi. Ed anche a quel
detto di JEAN WAHL che riesuma Kierkegaard: «Non è il cristianesimo che è
terribile, ma il mondo in cui penetra» (Etudes Kierkegaardiennes, cit., p. 413).
(10) J. MARITAIN, L'existant libre et les libres desseins éternels, in Court traité, cit.
p. 192.
(11) Per HEGEL, v. La phénoménologie de l'esprit, trad. Jean Hyppolite, Paris 1941,
tomo II, pp. 277-80. Per KIERKEGAARD, v. Le concept de l'angoisse, Simple
éclaircissement psychologique préalable au problème du péché originel, Gallimard,
Paris 1935, pp. 61-65. Cfr. De la condition initiale privilégée de l'homme, cit., p. 227.
(12) Cfr. R. DE VAUX, La Genèse, ed. du Cerf, Paris 1951, p. 45.
(13) «Nescientia dicit simplicem scientiae negationem...; ignorantia vero importat
scientiae privationem» (SAN TOMMASO, I-II, q. 76, a. 2).
(14) RAISSA MARITAIN, Histoire d'Abraham ou les premièrs ages de la
conscience morale, Desclée De Brouwer, Paris 1947, p. 57.
(15) SAN TOMMASO, I, q. 63, a. 1, ad. 4.
(16) «Una volta che la giustizia originale si è ritirata dalla volontà, si è prodotta
un'alterazione (defectio) della conoscenza della verità nell'intelligenza, e della
rettitudine nell'irascibile e nel concupiscibile: dimodochè l'ignoranza e la
concupiscenza sono come l'aspetto materiale del peccato originale» (ID., De malo, q.
3, a. 7).
(17) ID., De potentia, q. 3, a. 7.
(18) J. MARITAIN, La métaphysique de Bergson, in op. cit., p. 22.
(19) GEORGES COTTIER, L'athéisme du jeune Marx, ses origines hégéliennes,
Vrin, Paris 1959, p. 345.
(20) O. LACOMBE, La pluralité des philosophies est-elle une richesse?, in «Nova et
Vetera», 1959, p. 25. Redazione più sobria in Chemins de l'Inde et philosophie
chrétienne, Alsatia, Paris 1956, p. 165.
(21) Cfr. L'Eglise du Verbe incarné, Desclée De Brouwer, tomo I, II ed., pp. 56-57.
(22) Cfr. la conclusione del tomo II dell'Eglise du Verbe incarné, riprodotta in
Théologie de l'Eglise.
(23) «Nelle preghiere del venerdì santo, quando la Chiesa chiede a Dio di allontanare
i mali che opprimono il mondo, essa supplica prima di tutto che sia liberato da tutti
gli errori: Oremus Deum Patrem omnipotentem, ut cunctis mundum purget erroribus;
morbos auferat; famem depellat...» J. MARITAIN, Du régime temporel et de la
liberté, Desclée Dc Brouwer, Paris 1933, p. 94.
(24) Si sa che, nell'Apocalisse (XX, 7-9), i mille anni rappresentano tutta la durata del
tempo messianico, che va dal primo avvento di Cristo come Salvatore, al secondo
avvento di Cristo come Giudice. La città prediletta è la Chiesa, raccolta attorno al
Cristo ed assalita con il Cristo. Gog e Magog simboleggiano tutti gli attacchi
successivi della bestia che, senza dubbio, conosceranno il loro parossismo alla fine
del mondo.
(25) Cfr. D. MOLLAT, S.J., L'Evangile de saint Jean (Cerf, Paris 1953, p. 129), che
rimanda a GtJ., XI, 51-52: «[Caifa] profetizzò che Gesù doveva morire per la
nazione, e non soltanto per la nazione, ma anche per raccogliere nell'unità i figli di
Dio dispersi».
(26) GERARD MANLEY HOPKINS, Lettre à Robert Bridges, 22 settembre 1866,
trad. Pierre Leyris, in Reliquiae, Seuil, Paris, p. 126. Sulla questione: Quando la fede
è sufficientemente proposta? v. L'Eglise du Verbe incarné, cit., tomo II, pp. 852-59.
(27) B. PASCAL, Pensées, Br., n. 843.
(28) O. LACOMBE, Chemins de l'Inde et philosophie chrétienne, cit., pp. 154-67.
(29) L. GARDET e M. M. ANAWATI, Introduction à la théologie musulmane, Essai
de théologie comparée, Vrin, Paris 1948, p. 468.
(30) B. PASCAL, Pensées, ed. Cluny, Paris 1942, n. 163.
(31) Conosciamo la tesi di Kierkegaard, per il quale il peccato ha disorganizzato
l'uomo così radicalmente che non è più capace di formulare una verità dottrinale
oggettiva, e che la sua sola salvezza consiste nella sua soggettività e nella sincerità
della sua credenza. Il Cristo, dice volentieri Kierkegaard, non ha insegnato, è vissuto.
Ma prima di tutto, che cosa rimarrebbe del Cristo, della sua incarnazione, della sua
redenzione, del cristianesimo tutto quanto, se si privassero questi fatti del loro
significato oggettivo, del loro contenuto di verità? E poi, come assicurarci della
nostra propria sincerità? «Oggi», scrive GEORGES COTTIER, «una coscienza è
autentica in quanto è spontanea. E' dunque sufficiente, per essere sinceri, vedere le
cose come le si vedono nel momento in cui si vedono. E senza dubbio, in quel
momento, non si possono vedere diversamente! L'errore di una simile ottica consiste
nel fatto che essa suppone che la coscienza sia un assoluto, mentre la nostra coscienza
è una conquista: la coscienza si forma, si educa. Prima di essere responsabili di fronte
alla nostra coscienza, siamo responsabili della nostra coscienza» (Pauvreté et amour
de la vérité, in «Nova et Vetera», 1960, n. 3, p. 169). In fine, bisognerebbe essere
Gesù, perché in noi la soggettività si identificasse con la Verità: «lo sono la Verità»
(Gv., XIV, 6).
(32) Cantico, il testo, ed. Silverio, tomo III, p. 202.
(33) Cfr. SAN TOMMASO, II-II, q. 164, a. 1.
(34) ID., I-II, q. 80, a. 1.
(35) IBID., II-II, q. 165, a. 1. ad. 3.
(36) IBID., II-II, q. 165, a. 1.
(37) IBID., ad. 2.
(38) «Il sentimento dell'imprevedibilità è in se stesso un sentimento altamente
filosofico e che non dobbiamo permettere che si affievolisca in noi... Può sembrare
che certi trattati troppo elementari di teodicea lo compromettano. In realtà il Dio di
san Tommaso salva quanto quello di Bergson l'imprevedibilità del divenire concreto.
Se egli conosce tutto da tutta l'eternità, anche la penna che cadrà domani dall'ala di
quell'uccello, non per questo la storia del mondo non è altro che lo svolgimento di
uno spettacolo preparato in precedenza. Ma tutti i momenti di tutto il tempo sono
presenti all'eternità divina, che vede nel suo proprio istante, e perciò sempre, tutto ciò
che hanno fatto, che fanno e che faranno le creature nell'istante stesso in cui ciò si fa,
e dunque in un'eterna freschezza di vita e di novità», J. MARITAIN, La
métaphysique de Bergson, cit., p. 48.
(39) SANT 'AGOSTI NO, De civitate Del, lib. XV, cap. 22.
(40) «Per lui l'angoscia è la specie più terribile di tentazione. Nel suo Diario, nel
1832, dimostra che tutti i peccati incominciano nella paura ed aggiunge che finiscono
in una specie di disperazione impotente. Nel 1836, parla della sorprendente ansietà
che segue i momenti di ebbrezza. Nel 1837, scrive che è in pericolo di abbandonarsi a
Satana, affinché questi gli permetta di conoscere tutte le forme del peccato in tutto il
loro orrore. Sebbene ci sia in lui l'amore del bene, sente anche in sé quell'inclinazione
verso il mistero del peccato. Come il Faust di Lenau, vuole conoscere la verità che
risiede nel male. Leggiamo nel Diario (1841-42): «Si è passata sotto silenzio la cate-
goria fondamentale; è l'angoscia... L'angoscia è un desiderio rivolto verso ciò che si
teme, un'antipatia simpatica... Ciò che si teme è pure ciò che si desidera; così essa
indebolisce l'individuo, e il primo peccato si fa in quello stato di debolezza». Nel
1843, parlando del suo periodo di vita mondana, e (se si deve credergli) di
dissolutezza: «E' l'angoscia che mi ha sviato», egli scrive (J. WAHL, Études
Kierkegaardiennes, cit., pp. 222-23).
(41) SAN TOMMASO, q. 10, a. 3; q. 77, a. 2.
(42) SANT'AGOSTINO, De natura et gratia, cap. 43, n. 50.
(43) Sessione VI, cap. II; Denz., n. 804.
(44) Manuscripts autobiographiques, Lisieux, 1957, p. 227.
(45) F. DOSTOJEVSKIJ, La confessione di Stavroghin. Ma come Dio non avrebbe
preso tosto quella bambina nel suo paradiso?
(46) Esso è condannato (PLATONE, Fedone, 62 b, c). PLOTINO, a sua volta, lo
condanna (Enneadi, I, 9): «Anche se ci si accorgesse che sta per sopravvenire la
follia». Però lo giustifica (Enneadi, I, 4, nn. 7-8): Se il dolore si prolunga, il saggio
«deciderà ciò che deve fare; il suo libero arbitrio infatti esiste sempre».
(47) P. L. LANSBERG, Essai sur l'expérience de la mort, seguito dal Problème
moral du suicide, Seuil, Paris 1951, pp. 145-46.
(48) J. P. DE CAUSSADE, S.J., L'abandon à la providence divine, ed. Gabalda, Paris
1928, tomo l, pp. 118-19.
(49) «Anche come fenomeno esterno, la morte si rivela tanto più terribile quanto più
è perfetta la struttura del vivente. Così, mentre la morte e la decomposizione di una
pianta diffondono un profumo quasi più soave del suo aroma consueto, la
decomposizione di un animale appesta l'aria. In un senso più profondo, si può dire
che più si colloca in alto l'uomo, più terribile è la morte. L'animale, in fondo, non
muore: ma là ove lo spirito è posto come spirito, la morte mostra il suo volto
terribile... Nel momento della morte, l'uomo si trova nella punta estrema della sua
sintesi; lo spirito... non potendo morire, deve tuttavia aspettare, poiché bisogna pure
che il corpo muoia» (KIERKEGAARD, Le concept de l'angoisse, trad. Ferlov-
Gateau, Gallimard, Paris 1935, p. 134).
(50) Concilio Laterano (cap. 1), De fide catholica, Denz. n. 428.
(51) J. MARITAIN, L'immortalité du Soi, cit., p. 126.
(52) V. indietro, Le forme del male, cap. 3; Il male della natura, cap. 5.
(53) Distinguiamo fra filosofia pura o separata e filosofia cristiana, che tiene conto
del dati della rivelazione riguardo all'uomo esistenziale.
(54) Bisogna aggiungere: e che possiede la totalità della sua natura. L'anima
separata, che non è altro che una parte della natura umana, non è una persona. Non le
manca la «personalità» e la «sussistenza», ma la totalità della sua natura specifica.
«Persona» non indica la personalità, ma il soggetto nella condizione di essere un tutto
(cfr. SAN TOMMASO, I, q. 75, a. 4, ad. 2).
(55) J. MARITAIN, L'immortalité du Soi, cit., p. 133.
(56) J. MARlTAIN, Saint Thomas d'Aquin et le problème du mal, cit., p. 226. (V.
indietro, pp. 62-64).
(57) Cfr. c. JOURNET, Les sept paroles du Christ en croix, Seuil, Paris 1952, pp. 93-
96.
(58) SAN TOMMASO, I, q. 48, a. 2.
(59) J. MARITAIN, Saint Thomas d'Aquin et le problème du mal, cit., pp. 223-26.
(60) IBID.
(61) Trascriviamo qui, con il suo permesso, le annotazioni prese durante 'una
conversazione fatta da Jacques Maritain a Kolbsheim, nell'estate del 1950.
(62) In un discorso del 24 febbraio 1957 sui Problemi religiosi e morali
dell'analgesia, riferito nella «Documentazione Cattolica» del 17 marzo (coll. 325
sgg.), PIO XII si esprime chiaramente su tre argomenti importanti:
1. Sull'obbligo morale generale di sopportare il dolore fisico. «1. I principali
fondamenti dell'anestesiologia, come scienza e come arte, e il fine cui essa tende non
vanno soggetti ad alcuna obiezione. Essa combatte delle forze che, sotto vari aspetti,
producono effetti nocivi e sono di ostacolo ad un bene maggiore. - 2. Il medico che
ne accetta i sistemi non è in contraddizione né con l'ordine morale naturale né con
l'ideale specificamente cristiano. Egli cerca secondo l'ordine del Creatore (Gen., I,
28), di sottomettere il dolore al potere dell'uomo, ed utilizza a tale scopo le conquiste
della scienza e della tecnica, secondo i principi che abbiamo enunciati e che
orienteranno le sue decisioni nei casi particolari. - 3. Il paziente desideroso di evitare
o di calmare il dolore può, senza turbamenti di coscienza, utilizzare i mezzi trovati
dalla scienza e che in sé stessi non sono immorali. Circostanze particolari possono
imporre un'altra linea di condotta, ma il dovere di rinunzia e di purificazione interiore
che incombe ai cristiani non è un ostacolo all'impiego dell'anestesia, perché si può
adempierlo in un altro modo. La stessa regola si applica pure alle esigenze
supererogatorie dell'ideale cristiano».
II. Sulla narcosi e la privazione totale o parziale della coscienza di sé. «Nei limiti
indicati, e se si osservano le condizioni richieste, la narcosi che provoca una
diminuzione o una soppressione della coscienza è permessa dalla morale naturale e
compatibile con lo spirito del Vangelo». .
III. Sull'impiego degli analgesici. «La soppressione del dolore e della coscienza per
mezzo di narcotici (quando è richiesta da un'indicazione medica) è permessa dalla
religione e dalla morale al medico ed al paziente (anche all'avvicinarsi della morte, e
se si prevede che l'uso del narcotici abbrevierà la vita)? Bisogna rispondere: se non
esistono altri mezzi e se, nelle circostanze previste, ciò non impedisce di assolvere
altri doveri religiosi e morali: sì. Come abbiamo già spiegato, l'ideale dell'eroismo
cristiano, non impone, per lo meno in generale, il rifiuto di una narcosi, d'altra parte
giustificata anche all'avvicinarsi della morte; tutto dipende dalle circostanze concrete.
La risoluzione più perfetta e più eroica si può trovare tanto nell'accettazione quanto
nel rifiuto».
In un discorso precedente dell'8 gennaio 1956, riferito nella «Documentazione
Cattolica» del 12 gennaio (col. 87), Pio XII si era pronunciato sulla legittimità del
parto indolore: «Tale metodo è moralmente irreprensibile? La risposta, che deve
considerarne l'oggetto, lo scopo ed il motivo, è assai semplice: preso in sé tale
metodo non comune nulla di criticabile dal punto di vista morale».
(63) Choix de textes per opera di A. BEGUIN, Luf, Paris 1943, p. 36.
(64) ID., p. 283.
(65) Libro della divina dottrina, Bari 1912, cap. 12, p. 29.
(66) Nel Corano non c'è traccia del senso della sofferenza. «Gli ebrei ed i cristiani
hanno detto: siamo i figli di Dio, a lui carissimi. Domanda loro: Perché dunque egli
vi tormenta per i vostri peccati? Noi siete del mortali, delle creature in mezzo ad
altre creature. Egli perdona quando vuole e tormenta chi vuole. A Dio appartiene il
regno del cieli e della terra e di ciò che vi è fra di essi» (V, 21/18).
JACQUES JOMIER, citando questo passo nel suo libro Bible et Coran (Cerf, Paris),
scrive: «La sofferenza è presentata in questo versetto del Corano come un segno della
ripulsa divina. Orbene, tutta la Bibbia è piena dell'idea che la sofferenza può essere
un castigo temporale mandato da Dio nel suo amore per ricondurre il suo popolo sulla
retta via. Il Nuovo Testamento da parte sua, parla sovente delle sofferenze del Cristo e
del cristiani, e indica il posto di quelle sofferenze nel piano di vino di salvezza.
L'Islam, molto attaccato ad un'apologetica della forza e della vittoria, non sembra
condividere questo modo di vedere. Forse è perché questo modo di vedere non è
comprensibile se non dal punto di vista dell'amore, considerando che soffrire per
amore non avvilisce, anzi! Soltanto il peccato avvilisce. L'ideale di grandezza
dell'Islam insiste sulla grandezza della forza, della potenza. Così l'Islam respinge
l'idea della crocifissione di Gesù (ammette tuttavia che molti profeti sono stati uccisi
dagli Ebrei)». Sotto l'influsso di una grazia segreta, che noi pensiamo venisse loro
misteriosamente dalla Croce del Salvatore, i filosofi indiani hanno scoperto il prezzo
dell'amore e della sofferenza redentrice: «Se un atomo di ciò che ho nel cuore fosse
gettato sopra delle montagne esse fonderebbero». «Quando verrà dunque il nostro
capodanno? Quando, messo alla berlina, sarò vicino a Dio». «Si portano le vittime
[agnelli] al sacrificio, ma io porto il sacrificio delle mie vene e del mio sangue». «E'
nella confessione della croce che morirò... Uccidete dunque questa maledetta [la sua
persona]» (Hocein Mansur Hallaj, Diwan, trad. L. MASSIGNON, «Cahiers du Sud»,
pp. 16-21).
(67) «Ci si può chiedere come interpretare un libro così paradossale come
l'Ecclesiaste. Che cosa predica? "Vanità delle vanità ", dice l'Ecclesiaste, "vanità
delle vanità, tutto è vanità ". E' il più notevole libro esistenzialista che sia mai stato
scritto. Non nega nessuno del valori morali, ma questi non ne sono l'oggetto... Con
Aristotele, si ha a che fare con un uomo possibile: la contemplazione, la salute, il
benessere, gli amici costituiscono la felicità conveniente alla natura umana. Ma
questa felicità, nessuno la ottiene. Con l'Ecclesiaste si ha a che fare con l'uomo
esistente... Qual è il senso di questo libro? Se noi avessimo un'esistenza puramente
terrestre, l'Ecclesiaste avrebbe ragione. Questo punto di vista puramente terrestre,
apparentemente naturalistico, in realtà viene da una specie di notte oscura, da una
bruciante intuizione del dono della scienza, e la fede in Dio non soltanto rimane viva,
ma è al centro di quel pensiero desolato. Per questo esso conclude dichiarando: "Temi
Dio ed osserva i suoi comandamenti, perché in ciò consiste il tutto dell'uomo"» (J.
MARITAIN, Neuf leçons sur lu notions premières de la philosophie morale, cit., pp.
86-88).


CAPITOLO NONO

IL MALE NELLA STORIA
Il male compare presso gli angeli, poi presso l'uomo, e qui provoca la
redenzione. La storia avanza nel bene e nel male: è come una cifra.
I. LA CREAZIONE DEVE LAVORARE AL PROPRIO COMPIMENTO
Dio, come abbiamo detto (I), avrebbe potuto porre subito le creature libere,
angeli e uomini, nello stato di termine, nella condizione della patria, nella
visione beatificante della Sua gloria, e creare così un mondo senza male.
Egli li ha posti, angeli e uomini, nello stato di passaggio, per un rispetto
sostanziale verso il loro stato naturale di creature libere, poiché volle
tenere conto, per dare loro la beatitudine, della legge scritta nel loro stesso
cuore, secondo la quale desiderano essere cooperatori di Dio nell'opera di
compimento dell'universo ed in quella del loro proprio compimento.
Soltanto questa prova dello stato di passaggio doveva per mettere alle
creature libere, angeli e uomini, di far sbocciare in loro l'amore di libera
scelta per il loro fine ultimo, l'amore di libera preferenza per Dio al di
sopra di ogni cosa, che sarà la rosa più delicata del Suo paradiso, come
prezzo della quale Egli accetterà il rischio di essere respinto da quelle Sue
creature che lo vorranno fare.

2. LA DIVISIONE DEGLI ANGELI, OSSIA LA PRIMA SCISSIONE
DEL MONDO
La prima scissione del mondo è avvenuta nei cieli con la divisione degli
angeli (2).
a) Il primo istante degli angeli.
Dio, creando gli angeli, infonde loro la grazia soprannaturale e le virtù
teologali di fede, di speranza, di carità. Nello stesso tempo dà loro la
mozione iniziale che li porta ad agire. Per questa prima mozione, di cui
Dio solo è responsabile, l'amore dell'angelo va di fatto verso Dio, autore
nello stesso tempo della natura e della grazia, ma il suo è un amore
spontaneo, che viene mediato, per il quale dunque si giunge a Dio in
quanto causa prima della natura e della grazia; non è ancora l'amore
elettivo della carità, che sarà immediato, l'amore di libera opzione, per cui
si giungerà a Dio direttamente nella trascendenza del mistero.

b) La separazione degli angeli.
Sopraggiunge l'atto di libera opzione degli angeli, l'istante della loro
divisione eterna.
I) O l'angelo, docile all'ispirazione premurosa della grazia, prende atto, per
ratificarlo, dell'amore spontaneo e mediatizzato che lo portava ad amare
Dio, conosciuto come Sorgente suprema di tutti i beni creati, più che se
stesso, e confermando questo amore lo estende e lo supera tosto con un
atto di libera donazione a Dio preferito a se stesso, cioè con un atto di pura
carità sgorgato dalla virtù di carità posta in lui dalla grazia nel primo
istante della creazione. Che cosa significa ciò? Abbandonandosi alla
sollecitazione della grazia, l'angelo accetta di strapparsi ai suoi propri
limiti per sprofondarsi nella notte sacra di Dio, rassicurato dalla fede che il
Dio dalla grazia è anche il Dio della natura, che perdendo per Lui il
proprio essere lo si salva, che il Suo fuoco saprà far ardere la creatura
senza consumarla. Con questa scelta, l'angelo è salvo, entra di colpo e per
sempre nella beatitudine infinita: «Dopo un unico atto ispirato dalla carità,
l'angelo è entrato nella beatitudine» (3).

2) Oppure l'angelo distoglie la sua attenzione dall'invito divino e la
concentra sulla propria natura, che è una cosa buona. Egli si lascia
abbagliare dalla sua bellezza naturale, sceglie di amarsi non secondo la
misura, cioè in dipendenza di Dio sovranamente preferito con un atto di
carità, ma in un modo fuori misura, cioè rifiutando ogni libero
riconoscimento della sua dipendenza, facendo di se stesso il suo bene
ultimo, il suo supremo rifugio. Distrugge di colpo con tale ribellione le
virtù di fede, di speranza, di carità poste in lui al momento della sua
creazione; infrange persino l'amore spontaneo e mediatizzato, elevato dalla
grazia, che inizialmente gli faceva amare Dio conosciuto come Sorgente di
tutti i beni creati. In lui non rimane che l'amore spontaneo puramente
naturale per il quale ogni creatura, trascinata irresistibilmente verso la sua
felicità, tende per ciò stesso, che lo voglia o no, verso Dio. «La
contraddizione e la scissione fra questo amore di natura per Dio e l'odio
verso Dio liberamente scelto, l'implacabile necessità naturale di amare
sempre con lo slancio stesso dell'essere, in ciascun atto particolare come
nella tendenza radicale della sua volontà, quel medesimo Dio che invidia e
detesta con tutto il cuore, è uno del tormenti del demonio» (4).

c) In che cosa il demonio ha voluto essere «come Dio»? Come intendere che il demonio ha desiderato di essere «come Dio»? (5). Il
suo amore disordinato può essere caratterizzato sia in rapporto al termine
di quell'amore, e cioè allo splendore immediato della natura angelica in
quanto preferita alla beatitudine futura da Dio, sia in rapporto al modo di
quell'amore, cioè all'indipendenza. «Questi due punti di vista dice san
Tommaso - si riducono ad uno solo: in entrambi i casi, l'angelo desidera
avere la beatitudine finale per mezzo della sua sola virtù, la qual cosa è
propria di Dio» (6).
Seguendo il primo punto di vista, diremo che il peccato dell'angelo è stato
«di desiderare come fine ultimo di beatitudine ciò che poteva raggiungere
per mezzo delle risorse della sua natura, allontanando il suo desiderio
dalla beatitudine soprannaturale che dipende dalla grazia di Dio» (7). Sta a
Dio determinare il fine ultimo delle Sue creature; volendo egli stesso
decidere del suo fine ultimo, l'angelo usurpa una prerogativa divina, vuole
essere regola a se stesso, ma l'essere regola a se stesso è cosa propria di
Dio.

Seguendo il secondo punto di vista, diremo, sempre con san Tommaso,
che l'angelo non ha rifiutato il contenuto della beatitudine soprannaturale,
ma che ha rifiutato di riceverla ex misericordia. Egli voleva soltanto una
beatitudine dovuta alla sua totale indipendenza; orbene l'unica possibilità
che ha di agire come causa prima è di annientare in sé la mozione divina
della grazia, cioè di peccare.

d) La caduta degli angeli di quale bene è l'opposto?
L'economia, secondo la quale Dio, nella Sua potenza ordinata, ha disposto
l'universo presente, e secondo la quale la grazia è concessa normalmente
tenendo conto del trattamento richiesto dalla natura degli esseri liberi e
soggetti a peccare, è un'economia giusta e buona.
Altre economie, altri universi erano possibili: di essi alcuni sarebbero stati
migliori del nostro, altri peggiori. Ma nessuno di essi avrebbe
rappresentato il bene preciso che rappresenta il nostro. Il male ha la sua
parte nel nostro universo, ma vi appare come il rovescio di un bene. E' la
grande risposta di sant'Agostino, ripresa da san Tommaso (8).
Ma la rovina degli angeli di quale bene è il rovescio? E' proprio a questo
punto che la questione diventa acuta: infatti, gli angeli, pur essendo
trasparenti a se stessi e possedendosi totalmente, tuttavia, con la loro prima
decisione riguardo al loro fine ultimo, s'impegnano irremissibilmente, e se
quella decisione è perversa, nessuna redenzione può essere per loro
possibile, né da loro desiderata. Che cosa si deve rispondere?
Una cosa sola: il male della rovina e della dannazione eterna degli angeli è
il rovescio di quel bene che rappresenta l'economia di un universo disposto
secondo la potenza ordinata di Dio, cioè di un universo in cui Dio concede
normalmente la Sua grazia agli esseri liberi,. tenendo conto del trattamento
richiesto dalla loro natura fallibile e soggetta a peccare, di un universo (di
conseguenza) in cui Dio desidera essere amato di un amore di libera scelta,
e lo desidera così intensamente che tollera di essere liberamente respinto
da alcuni (poiché ciò che può venire meno, talvolta viene meno) (9) per
potere essere liberamente preferito dagli altri. Esso è il rovescio (non
fatale, ma nato esclusivamente dalla rivolta libera, folle, ostinata, di certi
angeli) di un bene immenso, l'unico cui mira, e l'unico che sceglie la
trascendenza divina.

e) L'attività perversa del demonio.
Egli è in stato di perpetua ribellione sia contro il Dio trascendente sia
contro l'ordine creato e immanente dell'universo. Come non cercherebbe di
rendere partecipi del suo risentimento e del suoi disegni di vendetta quelli
fra gli esseri liberi che spera di poter persuadere?
Lo si vedrà nel paradiso terrestre proporre ai nostri progenitori la prova
inebriante della loro autonomia, suggerendo loro di essere «come degli
del» (Gen., III, 5) per decidere a loro modo su ciò che è bene e ciò che è
male. Si avvicinerà a Gesù nel deserto, senza ancora comprendere in che
senso è Figlio di Dio, per tentare di sviare la missione che suppone egli
debba assolvere (Mt., IV, II). Susciterà alla fine del tempi del falsi cristi e
del falsi profeti «per sedurre, se fosse possibile, persino gli eletti» (Mt.,
XXIV, 24).
Ma perché Dio gli lascia una simile libertà d'azione se non perché è
abbastanza buono e potente per trarne l'occasione di qualche grande bene?
L 'osservazione di san Gregario Magno è profonda. Sulle parole di Satana
a Dio: «Stendi la mano e tocca i suoi beni: ti giuro che ti maledirà sulla
faccia!» (Giob., I, II), egli scrive: «Bisogna sapere che la volontà di Satana
è sempre iniqua, ma che il suo potere non è mai ingiusto; egli esercita la
sua volontà da se stesso, ma deriva dal Signore il suo potere. Dio permette
con piena giustizia le iniquità che egli cerca di commettere. Perciò è ben
giusto ciò che sta scritto nel libro del Re (I Sam., XVIII, 10): "Un cattivo
spirito del Signore assalì Saul". Ecco dunque che un solo e medesimo
spirito è qualificato nello stesso tempo come spirito del Signore e come
spirito cattivo: esso. è lo spirito del Signore, perché ha il permesso di
esercitare un potere che detiene giustamente, ed è uno spirito cattivo, per il
desiderio della sua volontà ingiusta. Non temiamo dunque colui che non
può nulla senza aver ricevuto il permesso» (10). Nessuno, dopo Dio, avrà
contribuito di più alla santità di Giobbe che il diavolo, e nessuno lo avrà
voluto meno.

3. PERCHÈ LA CADUTA DEL PRIMO UOMO È STATA PERMESSA?
I) La sola ragione che possiamo dare della caduta degli angeli è che Dio,
«la cui prerogativa è di condurre ciascun essere secondo la sua natura»
(11), ha voluto lasciare le Sue creature spirituali libere di scegliere per Lui
o contro di Lui, e correre così il rischio di essere da esse respinto, piuttosto
di rinunziare ad attendere da loro quell'amore di preferenza al quale tiene
soprattutto. La stessa ragione vale per l'uomo. Essa ci rivela il perché
primo ed immediato del permesso della catastrofe del paradiso terrestre.

Ma esiste un'altra ragione del permesso. di quella rovina. A differenza
dell'angelo, semplice ed intuitivo, fatto per impegnarsi irreversibilmente
fin dal suo primo atto libero, l'uomo, multiplo e discorsivo, può, finché
vive nel tempo, ritornare sulla sua scelta; di qui deriva il detto: «Il libero
arbitrio dell'uomo può spiegarsi in sensi opposti prima e dopo la scelta; il
libero arbitrio dell'angelo può piegarsi in sensi opposti prima della scelta,
non dopo» (12). Per l'angelo lutto è finito dopo la sua colpa. Non così per
l'uomo che rimane suscettibile di perdono. Dio, che nella Sua potenza
ordinata conduce gli esseri secondo il trattamento richiesto dalla loro
natura, potrà prendere occasione anche dalla sua colpa per concedergli
qualche grande misericordia. Dimodochè, a coloro che domandano perché
Dio che conosceva da tutta l'eternità la caduta di Adamo non l'ha
miracolosamente impedita, si deve rispondere che così accadde per una
seconda ragione che non esisteva nel caso. degli angeli, e cioè che Dio non
avrebbe mai sopportato la rovina del mondo dell'innocenza, fatale non solo
per Adamo, ma per tutta la sua discendenza, se non avesse pensato
d'introdurci, per mezzo di essa, nel mondo, totalmente migliore, della
redenzione.

2) Per essere esatti, il Cristo non viene soltanto per ristabilire l'uomo nello
stato dal quale era caduto, ma per volgerlo verso un destino più alto.
Hanno ragione gli antichi che enumerano, fra i benefici della redenzione,
la riabilitazione dell'umanità nella sua primitiva condizione: essi pensano
alla grazia santificante concessa da Dio, perduta da Adamo, ricuperata per
mezzo del Cristo. Ma essi sanno, nel medesimo tempo, che la grazia del
Cristo non ci riconduce al nostro punto di partenza, senza implicare ci in
un'avventura inaudita: «Il primo tempo della vita umana - scrive Cirillo di
Alessandria - è stato santo nel padre della nostra stirpe, Adamo, che non
aveva ancora violato i comandamenti né trasgrediti i precetti divini; ma è
ben più santo ancora nell'ultimo tempo, quello del secondo Adamo, del
Cristo, che ha rigenerato la nostra stirpe decaduta, con un rinnovamento di
vita nello Spirito» (13). Troviamo lo stesso pensiero in san Leone Magno:
«La grazia ineffabile del Cristo ci ha concesso del beni migliori di quelli
che l'invidia del demonio ci aveva tolti» (14).

Dio, come ci insegnano i Carmi di Salamanca, non poteva permettere la
caduta se non per elevare l'umanità ad uno stato superiore. Miracolo per
miracolo, «sarebbe un disordine ed una specie di crudeltà permettere il
male con la sola intenzione di ripararlo in seguito e di ricondurci alla
nostra primitiva condizione. Ma non si tratta più di questo quando il
permesso di un male è ordinato a qualche grandissimo bene che supera di
gran lunga quel male e lo cancella... Questo è il caso nostro. Se Dio ha
permesso la rovina umana, non è per limitarsi a porvi rimedio, ma è in
previsione della gloria del Cristo redentore la cui dignità supera di molto la
malizia della caduta permessa..., è, in fine, per un maggior bene
dell'umanità stessa, la quale riceve, attraverso al sangue del Cristo, una
grazia più abbondante ed una suprema nobiltà» (15).

Questo punto di vista è caro soprattutto a san Francesco di Sales. Egli ci
dice che «l'indulgenza divina non è stata sopraffatta dal peccato di Adamo,
che anzi ha fatto sovrabbondare la grazia dov'era abbondata l'iniquità, che
la nostra perdita è stata per noi un guadagno, perché in realtà la natura
umana ha ricevuto più grazie dalla redenzione del suo Salvatore di quante
ne avrebbe. ricevute. dall'innocenza di Adamo se avesse perseverato in
essa»; che, «come l'arcobaleno, toccando la spina candida, la rende più
profumata del gigli, così la redenzione di nostro Signore, toccando le
nostre miserie, le rende più utili e più amabili di quanto avrebbe potuto
essere mai l'innocenza originale»; che «lo stato di redenzione è cento volte
migliore di quello dell'innocenza»; che «nel bagno del sangue di nostro
Signore, fatto attraverso all'issopo della croce, siamo stati restituiti ad un
candore incomparabilmente più splendido di quello della neve
dell'innocenza..., affinché la divina Maestà, come ci ha comandato di fare,
non fosse vinta dal male, ma vincesse il male con il bene; affinché la Sua
misericordia, come un olio sacro, rimanesse al di sopra del giudizio; e le
Sue misericordie superassero tutte le Sue opere» (16).
Questa è la spiegazione e lo sviluppo di un punto di vista tradizionale:
«Nulla impedisce - scrive san Tommaso - che la natura umana sia stata
elevata ad uno stato migliore dopo il peccato. Dio, infatti, permette che i
mali accadano per trarne un maggior bene. Di qui le parole di san Paolo ai
Romani, (V, 20): "Dove il delitto è abbondato, la grazia è
sovrabbondata". E il canto dell'Exsultet: "O beata colpa che ha meritato
un tale e così grande Redentore"«(17).
3) Così due ragioni spiegano il permesso del primo peccato: una, comune
all'angelo ed all'uomo; l'altra, propria dell'uomo e che riguarda la
condizione carnale di un libero arbitrio esistente nel tempo. A chi domanda
perché la potenza divina non ha prevenuto con qualche miracolo il peccato
del primo uomo, si può rispondere che essa si preparava a
sovraccompensarlo con un miracolo più inaudito.

4. IL MONDO DELLA REDENZIONE
La grazia cristica, per quanto santa, può essere sopraffatta dal peccato; di
qui deriva, la formazione di due città antagoniste: una della luce, l'altra
delle tenebre.

a) Esso, tutto considerato, è migliore del mondo della creazione.
Il mondo della creazione nello stato d'innocenza era buono. Il mondo della
natura caduta e riscattata è buono, esso pure; seguendo la strada aperta
dall'Exsultet, abbiamo fatto un passo avanti, affermando che, tutto
considerato, esso è migliore del mondo della creazione.
Ma è mai possibile questo? Il mondo che abbiamo sotto gli occhi,
abbattuto inizialmente dal peccato, visitato continuamente dal dolore, dalla
miseria, dalle epidemie, dalle catastrofi, pieno di scandali; di tradimenti, di
delitti, abitato dalla menzogna, dall'impostura, dalla violenza,
dall'ingiustizia, dall'odio, dalla crudeltà, che dispone, dopo centinaia di
migliaia di anni, di spaventosi mezzi di distruzione, il mondo che ha
inventato le guerre mondiali, lo sterminio di sei o sette milioni di Ebrei, i
campi della fame e della morte, le camere a gas, i forni crematori, le grandi
propagande atee, è possibile che questo mondo sia, tutto sommato,
migliore di quanto sarebbe stato il mondo dell'innocenza? Sappiamo tutti
che un mondo toccato dal male: può essere migliore, tutto sommato, di un
mondo inferiore, esente dal male. Ma esiste qualche bene, assente nel
paradiso terrestre, che il nostro mondo possa contenere per
sovraccompensare il peso, in certo modo infinito, delle sue miserie?
Sì, questo bene esiste. Noi crediamo infatti che il secondo Adamo, venuto
a prendere il posto del primo, non è un puro uomo, ma il Figlio eterno di
Dio, che la sua dignità è infinita: questa è la nostra risposta suprema. Noi
crediamo pure che la santità della Vergine, vera Madre di Dio, supera da
sola tutta quella del primo paradiso; che la grazia cristica, succedendo alla
grazia adamitica, senza eliminare la sofferenza, può illuminarla
meravigliosamente e creare per mezzo dell'ingiustizia, del martiri, per
mezzo del peccati, del pentimenti ignorati nella prima età, i quali, come
quello della peccatrice ai piedi di Gesù o del ladrone in croce, saranno
degli splendori dell'eternità. Noi crediamo che misericordie inimmaginabili
sgorgano dalla Croce del Salvatore del mondo, e che egli desidera
ardentemente aggregarsi del discepoli che siano, con Lui, in Lui, per Lui,
del membri salvatori, perché la moltitudine di coloro che saranno così
salvati da loro sia immensa.

b) La formazione delle due città mistiche.
l) Bisogna considerare come puramente teorica, ma in realtà irrealizzabile,
l'ipotesi di una massa perditionis, di una umanità abbandonata alla sua
rovina a causa soltanto del peccato originale. La caduta non sarebbe stata
permessa, sofferta, se la redenzione non fosse stata prevista nel medesimo
eterno istante divino (18). Subito dopo la caduta, il solo pensiero che Dio
può avere è di andare, con una bontà inconcepibile, in soccorso
dell'umanità, di prepararla a ricevere un giorno la visita del Suo unico
Figlio, che, nato dalla razza umana, verrà a sovraccompensare con il
sanguinante sacrificio del Calvario, l'offesa del primo peccato, ad attirare
tutti gli uomini a Lui (Gv., XII, 32), a riconciliare ed a «pacificare ogni
cosa nel sangue della sua Croce sia sulla terra che nei cieli» (Col., I, 20); a
ricominciare ed a «ricapitolare» un nuovo universo (Ephes., I, IO). Ed
immediatamente e senza indugio, in ragione della redenzione futura, è
mandato al primo uomo, spogliato irrimediabilmente della grazia
adamitica, il soccorso di una grazia più misteriosa ancora, già cristica in
anticipo.

2) Tale grazia cristica, i cui raggi vengono a bussare alla porta di ogni
cuore, a seconda che è accettata o respinta, dividerà gli uomini in due città
antagoniste, tutte e due spirituali, mistiche, trascendenti, cioè specificate
dalla loro ordinazione immediata, non verso i fini infravalenti della vita
temporale, ma verso i fini sovravalenti della vita eterna; se questi saranno
desiderati, avremo la città di Dio, se questi saranno disprezzati, avremo la
città del Diavolo. Queste due città percorrono tutta la durata del tempo:
sono presenti nella preistoria, prima di esserlo nella storia.

5. IL DUPLICE MOVIMENTO DELLA STORIA
Le due città mistiche in perpetuo conflitto camminano verso la loro meta,
imprimendo alla storia un duplice impulso contrario, uno verso l'alto,
l'altro verso il basso.

a) La rivelazione di san Paolo.
1) Il primo periodo del mondo è quello del Gentili: i teologi lo chiamano il
tempo della legge di natura. Miliardi di uomini sono vissuti sotto quel
regime. Esso viene abolito, in senso assoluto, dopo la morte del Cristo;
tuttavia sopravvive, sotto certi aspetti, nei centri nei quali il Vangelo non è
penetrato.
Esso ci viene rappresentato come un ricominciare da capo a partire dal
punto più basso della catastrofe. Tuttavia non si tratta di tornare verso ciò
che è perduto, ma d'incamminarsi, attraverso una notte dolorosa, verso
qualche misteriosa redenzione.

Tale periodo è percorso da una mozione di ascesa verso la luce nel corso
della quale si costruisce la città di Dio nel suo primo stato. Dio infatti non
abbandonai Gentili: «Se ha fatto discendere da uno solo tutto il genere
umano che popola tutta la faccia della terra..., lo ha fatto affinché gli
uomini cerchino Dio quasi a tastoni e Lo trovino; e così Egli non è lontano
da ciascuno di noi, poiché è in Lui che abbiamo la vita, il movimento,
l'essere» (Atti, XVII, 26-27). «Se il Dio vivente che ha fatto il cielo, la
terra, il mare e tutto ciò che vi si trova insegna san Paolo ai Licaoniani -
ha lasciato, nelle generazioni passate, che tutte le nazioni seguissero la loro
via, non ha però mancato di testimoniare Se stesso con i Suoi benefici,
dispensandovi dal cielo le piogge e le stagioni fertili, colmando i vostri
cuori di alimento e di gioia» (XIV, 16-17).Se Egli vuole «che tutti gli
uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità» (I Tim., II, 4),
come non renderebbe loro possibile la salvezza? «Realmente, quando i
Gentili, privi della legge, compiono naturalmente le prescrizioni della
legge, pongono se stessi al posto della legge, senza possedere legge,
dimostrano la realtà di quella legge scritta nel loro cuore: ne è prova la
testimonianza della loro coscienza», e questo apparirà «nel giorno in cui
Dio giudicherà le azioni segrete degli uomini, secondo il mio Vangelo,
attraverso al Cristo Gesù» (Rom., II, 14-16).

Ma una mozione contraria, un movimento di rivolta, di discesa nella notte
percorre esso pure il tempo del Gentili. In opposizione al mondo di luce,
docile alla legge di natura che forma il primo stato della città di Dio, si
leva un mondo di tenebre, ribelle agli inviti della legge di natura, che si
può chiamare il paganesimo e che forma il primo stato della città del male.
Che cosa risulta dal conflitto di questi due mondi spirituali, di queste due
città trascendenti in cui sono impegnati, da una parte, le premure delle
grazie divine, e dall'altra, «i Principati, le Potenze, i Reggitori del mondo
delle tenebre, gli Spiriti del male che abitano gli spazi celesti» (Efes., VI,
12)?

Vi è un risultato invisibile, a noi sconosciuto: quello delle anime salvate o
perdute nella mischia e, senza dubbio, molte dì quelle che si sarebbero
credute perdute, potranno essere salvate all'ultimo istante per qualche
miracolo delle misericordie divine.
E vi è un altro risultato visibile, per il quale è indubbiamente il male che la
vince; poiché, nel suo insieme, il tempo del Gentili, con le sue strutture
spirituali, sociali, culturali (talvolta splendide) finisce, nel suo rapporto con
le cose divine, con la catastrofe: «Avendo conosciuto Dio, non Gli hanno
reso né gloria né azione di grazia come ad un Dio, ma hanno perduto il
senso della ragione ed il loro cuore inintelligente si è ottenebrato...
Hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna, hanno adorato e
servito la creatura piuttosto che il Creatore che è benedetto eternamente!
Amen» (Rom., I, 23 e 25).

2) Che cosa farà Dio? Di fronte al fallimento esteriore del regime della
legge di natura, allontanerà il Suo sguardo dall'umanità? No. Egli non ritira
mai a Sé i raggi di grazia che le destina, ma, se li vede rifiutati, li trasporta
altrove sopra altre anime o altri popoli: «Le tue prime opere, falle di nuovo
dice Gesù all'Angelo della Chiesa che è a Efeso:- altrimenti verrò da te e
sposterò la tua fiaccola dal suo posto» (Apoc., II, 5). Misconosciuto
apertamente dalla totalità del Gentili, Egli decide di far sorgere un piccolo
popolo che farà nascere da Abramo, che sarà Suo, che Egli esaudirà, al
quale apparterranno «l'adozione filiale, la gloria, le alleanze, la
legislazione, il culto, le promesse, ed anche i patriarchi, e dal quale [sarà]
nato secondo la carne il Cristo, che è al di sopra di tutto, Dio benedetto
eternamente! Amen» (Rom., IX, 4-5). Ecco il regime della legge mosaica,
parallelo al regime della legge di natura che continua ad essere valido per i
Gentili. E' un regime benedetto, privilegiato. Ma nel tempo di Israele si
riformerà l'opposizione fra le due città. Per quelli fra gli Ebrei, infatti, il
cui cuore, secondo l'esempio di Abramo (IV, 3), si apre attraverso alla fede
alle anticipazioni segrete della grazia cristica, la legge può essere santa,
giusta, benefica (VII, 12): essi sono, nella posterità di Abramo, i figli della
promessa (IX, 8). Ma per coloro che chiudono il loro cuore alle premure
della grazia, e si affidano alla loro propria giustizia, la legge diventa
accusatrice e causa di morte (VII, 13):. essi, nella posterità di Abramo, non
sono altro che i figli della carne (IX, 8). Alla fine, quale di questi due
gruppi trionferà sulla scena visibile del mondo? Solo «un resto» di Israele
è fedele (XI, 5), ma la massa si lascia sviare, fino al tempo in cui, a sua
volta, otterrà misericordia (XI, 31).

3) Il fallimento del regime della legge mosaica va ad unirsi con il
fallimento del regime della legge di natura. Nell'uno come nell'altro, lo
stesso impulso di discesa dell'umanità nelle tenebre porta il suo frutto
visibile: «Ebrei e Greci, tutti sono sottoposti al peccato, come sta scritto
(Ps., XIV, 1-3): «Non vi è un giusto, non uno solo: non c'è un uomo
assennato, non uno che cerchi Dio..."» (III, 10-11).
Ma lo smarrimento del Gentili è stato nel passato l'occasione della scelta
degli Ebrei; ed il recente passo falso degli Ebrei, sarà l'occasione di una
scelta del Gentili. Per non ritirare in Sé il raggio della Sua misericordia,
Dio, che lo aveva trasferito dai Gentili agli Ebrei, lo fa ritornare dagli
Ebrei ai Gentili; affinché sia manifestata nel seno stesso della storia la
suprema legge della salvezza dell'umanità, secondo la quale Egli non
tollera mai la rivolta se non per fare apparire ovunque il Suo perdono: «E
realmente, come nel passato, voi [Gentili] avete disobbedito a Dio ed ora
avete ottenuto misericordia, data la loro disobbedienza [cioè quella degli
Ebrei], così essi hanno disobbedito a Dio, data la misericordia. Poiché Dio
ha chiusi tutti gli uomini nella disobbedienza onde usare a tutti
misericordia» (XI, 30-32).
Di fronte a questi spostamenti della fiaccola, a queste alternative di
peccato e di grazia, a queste scambievoli vittorie della malizia umana e
della bontà divina, della città del male e della città di Dio, che cosa fare se
non tacere ed adorare? «Oh abisso della ricchezza, della saggezza e della
scienza di Dio! Come sono impenetrabili i suoi decreti ed incomprensibili
le sue vie! Poiché chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato
il Suo consigliere? O chi lo ha prevenuto con i suoi doni tanto da dover
essere ripagato? E' da Lui ed attraverso a Lui e per Lui infatti che tutte le
cose esistono. A Lui la gloria in tutti i secoli! Amen» (XI, 33-36).

4) In un testo un po' anteriore, l'Apostolo aveva contrapposto le due follie:
quella degli uomini che non sanno riconoscere il loro Dio, né nella
creazione al tempo della legge di natura, né nei profeti al tempo della legge
mosaica; quella di Dio che persiste nel volerli salvare a dimostrazione del
Suo amore: «Poiché il mondo, per mezzo della sapienza, non ha
riconosciuto Dio nella sapienza di Dio, a Dio piacque di salvare i credenti
con la follia del messaggio» (I Cor., I, 21). E' questo che san Tommaso
commenta con la sua consueta profondità: Dio aveva fatto il mondo nella
sapienza in modo che le creature fossero come le parole e come una prima
rivelazione della sapienza di Dio, ma, nella vanità del suo cuore, l'uomo
diventa sordo a quelle voci e devia dalla verità. Di conseguenza, Dio cerca
di attrarre a Sé i fedeli introducendo nel mondo delle rivelazioni più
pressanti: ma poiché non sono della stoffa del mondo, esse saranno a loro
volta disprezzate e trovate folli da coloro che non vogliono conoscere se
non ciò che è del mondo: tali sono le. testimonianze della fede. Così,
continua san Tommaso, un maestro che non è capito si sforza di ricorrere
ad altre parole per esprimere ciò che ha nel cuore (19).

Il Cristo è venuto per raccogliere nel suo nome i Gentili e gli Ebrei e fare
in modo che non ci fossero più nella fede né Ebrei né Gentili (I Cor., XII,
13; Gal., III, 28). L'Apostolo scrive agli Efesini, poc'anzi Gentili: «Ecco
che ora, nel Cristo Gesù, voi che poco fa eravate lontani, siete divenuti
vicini grazie al sangue di Cristo. Poiché è Lui che è la nostra pace, Lui che
di due popoli ne ha fatto uno solo, abbattendo la barriera che li separava...
per trasformare nella sua persona quei due in un Uomo Nuovo, per fare la
pace e riconciliarli con Dio, tutti e due in un solo corpo per mezzo della
Croce. Allora è venuto a proclamare la pace, pace per voi che eravate
lontani e pace per coloro che erano vicini: per mezzo suo infatti tutti e due
in un solo spirito, abbiamo accesso presso il Padre» (Efes., II, 13-18).
La tragedia del duplice progresso in sensi contrari, delle tenebre e della
luce è d'ora innanzi finita? Ahimè, essa prenderà altre forme più terribili.

5) Considerando, come ci invita a farlo l'Epistola ai Romani, la mozione
di discesa verso il male, si concluderà che il Cristo è apparso nel momento
più cupo della storia, dopo il crollo del regimi di salvezza fondati
successivamente con l'appoggio, prima, della legge di natura, poi, della
legge mosaica.
E, senza dubbio, l'umanità conoscerà ulteriormente delle situazioni, sotto
altri aspetti, molto più spaventose, ma da quando è stata toccata dal
mistero dell'Incarnazione, e nella misura nella quale essa lo sa, non può
dimenticare che essa è salva in speranza e che porta in sé la pienezza della
grazia cristica con le sue virtualità trasfiguratrici. Nella prospettiva del
progresso del male dunque, e in quella dell'Epistola ai Romani, si dirà che
«la pienezza del tempo» (l'espressione si trova nell'Epistola ai Galati, IV,
4) scelta da Dio per mandarvi Suo Figlio, è la pienezza della miseria del
mondo.

Ma si può considerare la mozione simultanea di ascesa verso una
liberazione. Ad Antiochia di Pisidia, Paolo spiega che se Dio ha eletto
Israele e l'ha protetto nelle sue peregrinazioni, era per far sorgere in mezzo
a lui il Salvatore Gesù annunziato in ultimo luogo da Giovanni il
Precursore (Atti, XIII, 17-41). L'Epistola agli Ebrei ci indica nel culto
della legge antica la figura e l'abbozzo del culto della legge nuova: essa
inizia ricordando che Dio, a molte riprese e sotto molte forme, ha parlato
per mezzo del profeti, prima di parlare in quegli ultimi giorni per mezzo di
Suo Figlio (Ebr., I, 1-2). Luca, discepolo di Paolo, racconta come il
Salvatore stesso sveli ai pellegrini di Emmaus il senso della Scrittura
«cominciando da Mosè e passando in rassegna tutti i profeti» (Lc., XXIV,
27). Dopo ciò si potrà leggere, seguendo quella direzione, il passo in cui
l'Apostolo insegna che, essendo bambini, abbiamo dovuto passare prima
sotto il regime del tutori, ma che «quando giunse la pienezza del tempo,
Dio mandò Suo Figlio, nato da una donna, nato soggetto alla legge, per
riscattare i soggetti alla legge e concederci l'adozione filiale» (Gal., IV, 4-
5). Così la «pienezza del tempo» diventa quella della grazia profetica che
annunzia il Messia (20). E' infatti nel momento in cui l'umanità è sprofondata negli abissi del suo peccato ed in cui simultaneamente la promessa messianica finisce di illuminarla che il Salvatore compare. Una altra era incomincia per lei,
quella degli ultimi tempi, degli ultimi giorni.

b) Il pensiero degli antichi.
E' stato osservato (21) che le due interpretazioni possibili dell'espressione
di san Paolo sulla «pienezza del tempo», una «pessimistica», l'altra
«ottimistica», furono già note agli antichi, che erano entrambe tradizionali
e che non devono essere considerate come incompatibili.
San Tommaso si sforza di conciliarle. Dopo aver posta la questione del
tempo dell'Incarnazione, risponde prima di tutto che l'umanità doveva,
prima, sotto la legge della natura, poi, sotto la legge mosaica, fare
l'esperienza della sua miseria per chiamare in aiuto il suo Salvatore, ut
clamaret ad medicum: e che, poi, era pure richiesta una serie di profeti per
preparare una simile visita (22).
Più avanti (23), ricorrendo ancora alla duplice mozione simultanea della
storia verso l'alto e verso il basso, egli spiegherà le varie fasi dell'economia
sacramentale. Da una parte, egli dice
«man mano che il tempo passava, il peccato incominciò a dominare
sempre di più gli uomini; i precetti della legge di natura ben presto non
furono più sufficienti ad indicare la retta via alla ragione offuscata; si fece
sentire la necessità di una legge scritta e di una determinazione (da parte di
Dio) di certi sacramenti della fede». Così, più l'uomo discende, più la
misericordia divina si abbassa per risollevarlo. D'altra parte «man mano
che il tempo passava, la conoscenza della fede doveva diventare più
esplicita; Gregorio Magno (24) ha detto che con il progredire del tempo si
operava un progresso della conoscenza divina» e nello stesso tempo un
progresso dell'economia sacramentale; sotto questo secondo aspetto, le
condiscendenze divine non sono più provocate in qualche modo dalle
debolezze dell'uomo, ma dal desiderio divino di farlo crescere nella luce.

Agli occhi degli antichi, l'umanità di prima del Cristo appare dunque,
come all'Apostolo, trascinata ineluttabilmente da una doppia corrente in
sensi contrari; una verso la vita della grazia, l'altra verso la morte del
peccato.
Che cosa è accaduto dopo la venuta del Salvatore?

c) Era della nuova legge.
La duplice corrente dell'umanità verso il cielo o verso l'inferno, ben lungi
dall'attenuarsi, aumenta anzi di violenza nell'ultima era del mondo. La
tragedia non fa che aggravarsi man mano che si fa più cosciente. «Se io
non fossi venuto, se non avessi loro parlato, non sarebbero in peccato; ma
ora non hanno scusante per il loro peccato» (Gv., XV, 22).
l) L'opposizione irriducibile del due amori, quello del mondo e quello di
Dio, riempie il Nuovo Testamento: «Non amate né il mondo né nulla di ciò
che è nel mondo; se qualcuno ama il mondo, l'amore del Padre non è in
lui» (I Gv., Il, 15). «Noi sappiamo che siamo di Dio e che il mondo intero
giace nel Maligno» (I Gv., V, 19). «Se il mondo vi odia, sappiate che ha
odiato Me prima di voi; se voi foste del mondo, il mondo amerebbe il suo
bene; ma poiché voi non siete del mondo ed ho scelto di togliervi dal
mondo, il mondo vi odia» (Gv., XV, 18-19). «Guai al mondo a Causa degli
scandali» (Mt., XVIII, 7).

«Ormai il mistero dell'empietà è all'opera, in attesa che sia tolto di mezzo
chi gli pone ostacolo. Allora si manifesterà l'empio, ed il Signore Gesù lo
distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con lo splendore
della sua Parusìa» (II Thess., Il, 7-8). «Non è contro avversari di carne e di
sangue che dobbiamo lottare, ma contro i Principati, contro le Potenze,
contro i Reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli Spiriti del male
che abitano gli spazi celesti» (Efes., VI, 12). «Tutto ciò che è nato da Dio
trionfa sul mondo; e la vittoria che trionfa sul mondo, è la nostra fede» (I
Gv., V, 4).

2) Il conflitto si estenderà per tutto il tempo, per cessare soltanto al
momento della Parusìa: «Signore, non è forse buon seme quello che hai
seminato nel tuo campo? Da che cosa dipende dunque che vi si trova del
loglio? Egli rispose loro: "E' qualche nemico che ha fatto ciò". E i servitori
gli dissero: " Vuoi che andiamo ad estirparlo? ". "No - egli disse - per
timore che strappando il loglio strappiate nello stesso tempo il grano.
Lasciate crescere insieme l'uno e l'altro fino alla mietitura, e al tempo della
mietitura dirò ai mietitori: " Raccogliete prima il loglio, legatelo in fasci
per bruciarlo, poi ammucchiate il grano nel mio granaio"» (Mt., XIII,.27-
30)

«Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti gli angeli
siederà sul trono della sua gloria. Tutte le nazioni saranno raccolte davanti
a lui. Ed egli separerà gli uni dagli altri come il pastore separa le pecore
dai capri...» (Mt., XXV, 31-32).

3) Che cosa ci presenta l'Apocalisse, se non lo svolgimento della terribile
battaglia che (durante tutto il tempo messianico che va dalla prima Parusìa,
quando il Cristo viene a salvare il mondo, alla seconda, quando verrà a
giudicarlo) mette di fronte fra loro due potenze alternativamente vittoriose,
due mondi spirituali, uno di luce, ove regna Dio, il Cristo, la città santa,
l'altro di tenebre, ove regna Satana, le due bestie ed i loro adoratori? Alla
fine c'è il giudizio: «Allora la Morte e l'Ade furono gettati nello stagno di
fuoco [la seconda morte] e colui che non si trovò iscritto nel libro della
vita fu gettato nello stagno di fuoco. Poi vidi un cielo nuovo, una terra
nuova; poiché il primo cielo e la prima terra sono scomparsi ed il mare non
c'è più. E vidi la città santa, la nuova Gerusalemme che discendeva dal
cielo, da vicino a Dio quale una fidanzata che si è preparata per il suo
sposo...» (Apoc., XX, 14; XXI, 2).

4) Perché la storia continua dopo la venuta del Cristo? Quando il suo
ritorno, annunziato e sperato, verrà a consumarla? Si sa, scrive Henri
Marrou in uno studio su sant'Agostino, con quale acutezza patetica questa
domanda si è presentata alla prima generazione cristiana. Egli risponde che
i secoli dopo il Cristo costituiscono propriamente il tempo della Chiesa nel
suo atto compiuto: «Il ritardo della Parusìa è misurato con molta esattezza
secondo lo spazio di tempo necessario al reclutamento della Chiesa: la
storia si fermerà, giunta al suo termine, quando il numero del santi sarà al
completo» (25). Egli cita sant'Agostino: «Se il Giudice ritarda la nostra
salvezza è per amore, non per indifferenza, per un piano prestabilito, non
per impotenza: Egli potrebbe, se volesse, sopraggiungere in questo stesso
istante, ma aspetta che il numero di tutti i nostri possa essere completato
fino all'ultimo» (26). Bisogna che come «un solo uomo diffuso
nell'universo intero e che cresca a poco a poco col corso del tempo» (27),
la Chiesa diventi, secondo l'espressione dell'Apostolo, come «un uomo
perfetto, sino a raggiungere la misura della piena statura di Cristo» (Efes.,
IV, 13).
Pensiamo dunque che non sono le iniziative della città del male, ma la
pienezza ed il compimento della città di Dio che daranno il segno
dell'ultima ora del mondo (28).

6. LA VISIONE DEL DRAMMA DELLA STORIA IN JACQUES
MARITAIN
Possiamo oggi trovare un'espressione chiara della visione tragica del
conflitto del bene e del male che costituisce la trama della storia
dell'umanità, negli scritti di Jacques Maritain, del quale ci permettiamo di
raccogliere qui alcuni passi.
a) Ambivalenza del progresso della storia.
Una delle prime questioni che si presentava era quella del progresso della
storia. Se il mondo ha avuto inizio, se è destinato a raggiungere qualche
fine trascendente, respinto, questo è vero, dal peccato delle creature libere,
perché Dio lo fa durare, e come concepire il progresso? A questa domanda
veniva data una risposta molto ampia, che abbracciava nello stesso tempo
il duplice piano dello spirituale e del temporale nel Dottore angelico:
«Penso che due movimenti immanenti si incrocino ad ogni punto della
storia del mondo e che influiscano su ciascuno del suoi complessi
momentanei: uno di questi movimenti spinge verso l'alto tutto ciò che nel
mondo partecipa alla vita divina della Chiesa, la quale è nel mondo e non è
del mondo, e segue l'attrazione del Cristo, capo del genere umano. L'altro
movimento appartiene al Principe del mondo, capo di tutti i malvagi. La
storia avanza nel tempo sottoposta a questi due movimenti interiori. Così
le cose umane sono soggette ad una tensione sempre maggiore finché, alla
fine, la stoffa si spezza. Così il loglio cresce con il frumento; il capitale del
peccato aumenta per tutta la durata del tempo; ed anche il capitale delle
grazie aumenta e sovrabbonda. Man mano che la storia si avvicina
all'Anticristo e subisce in tutta la sua struttura visibile delle trasformazioni
che preparano l'avvento di questo, essa si avvicina a Colui che l'Anticristo
precede e che nasconde, sotto quella medesima catena di avvenimenti del
mondo, l'opera santa che compie fra i suoi» (29).

b) Le due fonti della storia.
Come risolvere il problema fondamentale delle relazioni fra le due fonti
della storia, fra la libertà defettibile dell'uomo e la libertà eterna di Dio?
«Ecco la concezione vera: il piano divino è immutabile una volta che è
stato fissato da tutta l'eternità. Ma non è fissato da tutta l’eternità se non
tenendo conto della libera debolezza dell'uomo che Dio vede nel Suo
eterno presente. L'uomo entra così nel piano eterno, ma non per
modificarlo! Sarebbe una cosa assurda. Egli entra nella sua composizione
stessa e nella sua fissità eterna per la sua facoltà di dire no. Nella linea del
male, la creatura è la causa prima. Dimodochè si può interpretare in due
modi la frase del Vangelo: " Sine Me nihil potestis facere". Si può
interpretarla come se si riferisse alla linea del bene, ed allora significa:
senza Dio non possiamo fare nulla, senza Dio non possiamo fare il minimo
atto nel quale compaia l'essere o il bene. Oppure la si può interpretare
come se si riferisse alla linea del male, ed allora significa: senza Dio
possiamo fare il nulla, senza Dio possiamo fare quella cosa che è di per sé
nulla, possiamo introdurre nell'azione e nell'essere l'annientamento che li
colpisce e che costituisce il male.

«La prima iniziativa viene sempre da Dio nel caso del bene; allora,
l'iniziativa della libertà creata dipende essa stessa dall'iniziativa divina.
«Ma a causa della facoltà di rifiuto, che fa parte naturalmente di ogni
libertà creata, la prima iniziativa, in caso di male, viene sempre dalla
creatura.
«Possiamo così farei un'idea del dramma della. storia, o piuttosto del
dramma delle regioni superiori e sacre della storia. La storia, per quanto
grande sia l'importanza di tutto il materiale visibile che la condiziona nel
mondo della natura, è fatta prima di tutto dell'incrocio e della mescolanza,
della ricerca e del conflitto fra la libertà in creata e la libertà creata. Essa è,
per così dire, inventata in ogni istante del tempo dalle iniziative concordi o
discordi di quelle due libertà, una nel tempo, l'altra fuori del tempo, e che,
dall'alto dell'eternità, alla quale sono inseparabilmente presenti tutti i
momenti del tempo, conosce tutte le successioni con un solo sguardo. Ed è
gloria della libertà divina fare un'opera tanto più bella in quanto lascia che
l'altra libertà la disfaccia ulteriormente, perché solo l'abbondanza delle
distruzioni può attrarre la sovrabbondanza di essere. Ma noi che ci
troviamo in questa trama, non siamo in grado di vedere altro che l'oscuro
accavallarsi del fili che si legano sul nostro cuore» (30).

c) Pessimismo od ottimismo?
Il cristianesimo «è pessimista nel senso che sa che la creatura è tratta dal
nulla, e che tutto ciò che viene dal nulla tende di per sé al nulla. Ma il suo
ottimismo è incomparabilmente più profondo del suo pessimismo perché
sa che la creazione viene da Dio e che tutto ciò che viene da Dio, tende
verso Dio» 81). Esso lo sa attraverso alla ragione, ma ciò non sarebbe
sufficiente per chi ha degli occhi per vedere il male nel mondo ed il
terribile fair play divino che lascia che il male fruttifichi il male. «Per
fortuna c'è pure l'ordine della grazia e la virtù del sangue del Cristo, e le
sofferenze e le preghiere del santi e le operazioni nascoste della
misericordia che, senza contravvenire alle leggi del fair play divino,
introducono, nella parte più segreta dell'insieme, del contributi che lo
trasfigurano... e portano, nonostante tutto, la storia al suo compimento.
Una grandezza più che umana si nasconde nei nostri bassi destini. Viene
dato un senso alla nostra condizione miserabile, e questa è, senza dubbio,
la cosa più importante. Essa rimane una condizione miserabile e l'esistente
che vi vegeta è fatto per divenire Dio in anticipo» (32).
Una pagina commovente, tratta da un altro testo, lascia vedere come siano
qui superate le prospettive dell'evoluzionismo e delle sue extrapolazioni:
«In realtà, la ragione chiede che noi abbiamo fede nell'uomo.
Distogliamoci dall'attuale mondo dell'uomo e guardiamo il mondo della
natura (intendo dire con uno sguardo non adulterato). Vediamo che, a
dispetto della legge di lotta e di conflitto che regna ovunque, la natura
nelle sue profondità è penetrata da una pace abissale, sopra-individuale,
che non si può eludere, che è costituita dalla bontà radicale e dalla forza
universale dell'essere. E l'uomo, come parte della natura, ha un'essenza che
è buona in se stessa. Vediamo che l'evoluzione del cosmo è un movimento
perseverante, sebbene continuamente contrastato, verso forme più alte di
vita e di coscienza, che raggiunge una vittoria finale nella specie umana, e
che, nei limiti di quest'ultima, è sottoposta al dominio dalla libertà umana;
il lento e penoso progresso della specie umana dall'epoca delle caverne
rivela nell'uomo delle energie che rendono puerile e presuntuoso ogni
disprezzo della razza umana. Considerate con un po' di amore un individuo
qualunque nella massa comune ed anonima della povera umanità: più lo
conoscete, più scoprite in lui delle risorse nascoste di bontà che il male è
stato incapace di distruggere. La condizione difficile dell'uomo deriva dal
fatto che egli non è una creatura soltanto di natura, ma anche di ragione e
di libertà (elementi che sono deboli in lui, ma che tuttavia rappresentano la
sua forza indistruttibile ed i pegni della sua inalterabile dignità). Né
debolezza né macchie possono cancellare la sua grandezza originaria.

«Sì, noi vediamo che dobbiamo avere fede nell'uomo, ma non possiamo:
la nostra esperienza vince la ragione. Il mondo attuale dell'uomo è stato
per noi una rivelazione del male: ha infranto la nostra fiducia. Abbiamo
visti troppi delitti che nessuna giusta sanzione può compensare, troppi
morti nella disperazione, un avvilimento troppo sordido della natura
umana. La nostra concezione dell'uomo è stata offuscata dalla visione
indimenticabile degli spettri cruenti del campi di sterminio. La volontà di
potere totalitario, tanto nazista quanto comunista, alimentata dalla nostra
debolezza morale, ha sguinzagliato ovunque del demoni. Sembra che ciò
che amavamo sia stato avvelenato; sembra che tutto ciò in cui avevamo
fiducia sia fallito. Il nostro essere stesso è minacciato di disperazione
mentale e morale. Il nostro stesso linguaggio è stato pervertito,: le parole
sono diventate ambigue e non sembrano più in grado di fare altro che
ingannare. Viviamo nel mondo di Kafka. Dov'è la nostra fede, quella per la
quale si vive?
«Forse abbiamo scelto la strada cattiva. Forse avremmo fatto meglio ad
attaccarci ad una fede per la quale si vive o si muore... Se il nostro
umanesimo ha preso una cattiva piega, è forse perché aveva il suo centro
soltanto nell'uomo, e perché era utilitaristico e non eroico; perché ha
cercato di relegare nell'oblio la morte ed il male invece di guardarli in
faccia e di superarli con un'ascesa dell'anima alla vita eterna; perché ci si è
affidati ai tecnici anziché affidarsi all'amore, intendo dire all'amore
evangelico... La fede nell'uomo rinasce, quando è radicata nel sovrumano.
La fede nell'uomo è salvata dalla fede in Dio» (33).

d) La macchina del mondo.
Jacques Maritain si applica a studiare, come filosofo, il contraccolpo sul
mondo della cultura dell'eterno conflitto fra il bene ed il male. Anche su
questo piano la storia è ambivalente: nei periodi più felici della storia, il
male è all'opera oscuramente nella fioritura del nostri precari giardini; nei
periodi più cupi, il bene sta preparando invisibilmente delle conquiste che
non si possono prevedere. «Non bisogna stupirsi del fatto che le civiltà
cristiane periscano come le altre, ed a causa dello stesso abbandono alle
fatalità della materia. Altre ne nasceranno. E' anche una legge statistica che
le scoperte difficili, delle quali ha più bisogno lo sviluppo della storia,
avvengano raramente senza il soccorso delle energie di errore e di
calamità. Le purificazioni che avrebbero salvato tutto si verificano allora
dopo che tutto è stato rovinato e incomincia a rifiorire. Così va la
macchina del mondo... I mondi che sono sorti nell'eroismo tramontano
nella fatica affinché vengano a loro volta del nuovi eroismi e delle nuove
sofferenze che faranno sorgere altri mondi. La storia umana cresce così,
poiché non si tratta di un processo di ripetizione ma di espansione e di
progresso; essa cresce come una sfera in espansione, avvicinandosi
contemporaneamente alla sua duplice consumazione nell'assoluto del
basso, in cui l'uomo è dio senza Dio, e nell'assoluto dell'alto, ove è Dio in
Dio» (4).

7. CONCLUSIONE: LA STORIA È UNA CIFRA
I) «Bisogna riconoscere un valore, una fecondità, un senso a questo
pellegrinaggio ora trionfale ora doloroso dell'umanità attraverso alla durata
della storia?». Questa domanda, dice H. Marrou (35), una volta fatta non
può essere elusa.
La terra ha tre miliardi di anni e sono circa cinque o seicento mila anni che
gli uomini vi sono comparsi. Due punti sono evidenti a prima vista. Da una
parte, ci sono troppe cose valide che ricominciano a scaturire ad ogni
generazione, troppa ricerca appassionata del vero, troppa nostalgia della
bellezza, soprattutto troppa santità manifestata pienamente al tempo del
Vangelo perché noi possiamo mai disperare dell'avventura umana nel suo
insieme. D'altra parte vi è troppa cattiveria, troppe cose mostruose, troppe
vittorie insolenti dell'orgoglio e della tirannide perché il pensiero di una
giustizia immanente al tempo non sia una risposta insufficiente, sovente
persino irrisoria, all'ansiosa domanda del nostri spiriti.

2) Dio, si disse, ha scritto due libri: uno con delle lettere, ed è la Bibbia,
l'altro con del fatti, ed è la storia del mondo. In essi, in cui sono mescolati
il bene ed il male, la parte del male è tale che rischia di diventare per noi
uno scandalo.
«Per comprendere un autore, bisogna cercare di conciliare tutti i suoi scritti
che sono in contraddizione», dice Pascal (36) ed aggiunge: «Quanto
devono essere stimati coloro che ci scoprono il segreto e ci insegnano a
conoscere il senso nascosto» (37).
Per scoprire il segreto della storia santa e della storia del mondo, per
togliere il sigillo, per accordare gli opposti, non esiste che un dato. E' il
mistero di un Dio che «non permetterebbe mai ad un male qualunque di
esistere nelle Sue opere se la Sua onnipotenza e la Sua bontà non fossero
tali che Egli potesse far uscire il bene dallo stesso male)) (8). Allora
l'assurdità scompare: il bene ed il male, la santità ed il peccato, l'essere ed
il nulla non sono più messi sullo stesso piano.
La storia, che sarebbe uno scandalo a causa del mali in certo modo infiniti
che mette sotto i nostri occhi, cessa di esserlo soltanto di fronte al mistero,
infinito in modo assoluto questa volta, della santità di Dio. Noi dobbiamo
leggerla da queste altezze. Soltanto le tenebre divine possono illuminarla,
vincere le antinomie, far comprendere che il, conflitto fra le due città
trascendenti ha un senso. Non certamente in quanto l'inferno, ove permane
l'odio verso Dio, sia un elemento strutturale dell'universo (Teilhard de
Chardin), né in quanto Dio per fare Se stesso attraverso alla storia abbia
bisogno del male da vincere e da riconciliare (Hegel), ma in quanto
l'onnipotenza e la bontà divina sanno prendere occasione dalle rovine del
male per sovraccompensarle con del beni del quali non possiamo quaggiù
avere l'idea.

3) Già il Padre de Caussade parlava della Bibbia e del mondo come di due
libri che si illuminano soltanto al contatto delle tenebre divine: «La parola
di Dio scritta è piena di misteri; la Sua parola attuata negli avvenimenti del
mondo non lo è meno. Questi due libri sono veramente sigillati, la lettera
di entrambi uccide. Dio è il centro della fede; è un abisso di tenebre che,
per così dire, da quella profondità si diffondono su tutte le cose che ne
vengono fuori.
«Tutte quelle parole, tutte quelle opere non sono altro, per così dire, che
del raggi oscuri di quel sole più oscuro ancora.
«La Sacra Scrittura è il linguaggio misterioso di un Dio ancora più
misterioso; gli avvenimenti del secolo sono parole oscure di quel
medesimo Dio così nascosto e sconosciuto. Sono delle gocce del mare, ma
di un mare di tenebre)) (39).
Prendendo occasione da Ebr. (XIII, 8): «Gesù Cristo è lo stesso ieri ed
oggi, e lo sarà sempre», lo stesso autore raffronta con la vita propria del
Salvatore, raccontata nel Vangelo, la Sua vita mistica, continuata nei santi,
che è, egli dice, come un vangelo dello Spirito Santo: «Oh! Che bella
storia! Che bel libro lo Spirito Santo scrive presentemente! Esso è sotto i
torchi, anime sante; non passa giorno senza che se ne dispongano le lettere,
senza che vi si faccia scorrere l'inchiostro, senza che se ne stampino i fogli.
Ma noi siamo nella notte della fede; la carta è più nera dell'inchiostro; fra i
caratteri c'è soltanto confusione; è una lingua dell'altro mondo, non vi si
capisce nulla. Potrete leggere questo vangelo soltanto in cielo.

«I misteri non si vedono e non si sentono; sono oggetto di fede. La fede
non giudica della loro verità e della loro bontà se non attraverso alloro
principio; in se stessi, infatti, sono così oscuri che tutte le loro apparenze
non servono che a nasconderli e ad accecare coloro che giudicano con la
sola ragione» (40).
Alla città di Dio si oppone il mistero dell'iniquità. Esso «non è altro che
l'inversione dell'ordine di Dio; è l'ordine o piuttosto il disordine del
Diavolo. Questo disordine è un mistero poiché nasconde sotto belle
apparenze mali irrimediabili ed infiniti... La storia antica, santa e profana,
non è che la storia di tale guerra». Infine «ciò che si oppone all'ordine di
Dio non serve che a renderlo più adorabile. Tutti i servitori dell'iniquità
sono gli schiavi della giustizia, e l'azione divina fonda la Gerusalemme
celeste con le rovine di Babilonia» (41).

4) Ma questa fiducia assoluta in Dio, al di sopra di tutti gli avvenimenti
contrari della storia, questo abbandono totale di sé, della propria vita e
della propria morte nelle mani della Sua onnipotenza e della Sua carità, è
una grazia che si può trovare ovunque fra gli uomini? In risposta a coloro
che hanno saputo vedere nei primitivi soltanto una «preghiera interessata ),
un etnologo contemporaneo, il Padre Goetz, cita una preghiera di puro
abbandono composta presso i Galla, l'indomani di una guerra per loro
disastrosa: «O Dio della terra, mio Signore, tu sei al disopra di me, io sono
sotto di te...
«Io, quando vedo uno o due uomini, vedendoli con gli occhi, li conosco.
Tu, sebbene non veda con gli occhi, vedi in te stesso.
«Un uomo cattivo ha cacciato tutti gli uomini dalle loro case, ha dispersi i
bambini e la madre come delle galline. Il nemico cattivo ha strappato i figli
dalla mano della madre e li ha uccisi. Tu hai permesso tutto ciò. Perché lo
hai fatto? Tu lo sai.
«Hai fatto crescere i cereali, li hai mostrati ai nostri occhi; l'affamato
vedendoli era consolato.
«Quando il grano era in fiore hai mandato le cavallette e gli insetti, le
cavallette ed i colombi. Tutto ciò è venuto dalla tua mano, sei tu che l'hai
fatto. Perché lo hai fatto? Tu lo sai.
«Mio Signore, risparmia gli uomini che ti pregano. Come il proprietario
del grano lega colui che ruba il grano, così legaci, o Signore. Se hai legato
colui che ami, tu sleghi colui che ami. Così tu mi ami, slegami, poiché ti
supplico di cuore.
«Se non grido verso di te di cuore, tu non mi ascolti. Se grido di cuore, tu
lo sai, tu mi ascolti» (42).

5) Per coloro che ne conoscono il segreto, in che modo lo spettacolo di ciò
che impropriamente si chiama la storia della Chiesa (mentre in realtà non è
che la storia del mondo cristiano, del quale le luci soltanto sono del Cristo
e le vergogne del Diavolo) in che modo lo spettacolo della storia tutta
quanta sarebbe altro che lo spettacolo della pazienza infinita della bontà
divina (43)?

NOTA
(1) V. indietro, p. 176.
(2) V. C. JOURNET, L'aventure des anges, in «Nova et Vetera», 1958, pp. 127 sgg.
E soprattutto lo studio chiarificatore di J. MARITAIN, Le pèché de l'ange, in «Revue
Thomiste», 1956, pp. 197-239.
(3) SAN TOMMASO, I, q. 62, a. 5.
(4) J. MARITAIN, Le péché de l'ange, cit., p. 234.
(5) Dell'Anticristo, dell'uomo del peccato, l'Apostolo dice che «pretenderà essere egli
stesso Dio» (II Tess, 3-4).
(6) SAN TOMMASO, I, q. 63, a. 3.
(7) IBID.
(8) ID., I, q. 2, a. 3, ad. l.
(9) ID., I, q. 48, a. 2, ad. 3.
(10) Moralium, lib. II, in cap. I, Job; P.L., tomo LXXV, col. 564.
(11) SAN TOMMASO, II Sent., dist. 23, q. I, a. 2.
(12) ID., I, q. 64, a. 2.
(13) De adoratione in spiritu et veritate, lib. XII; P.G., tomo LXVIII, col. 1076.
(14) Sermo LXXIII, n. 4; P.L., tomo LIV, col. 396.
(15) SAN LEONE MAGNO, De incarnatione, disp. 2, dub. 1, n. 36; ed. Palmé, tomo
XIII, p. 298.
(16) SAN FRANCESCO DI SALES, Traité de l'amour de Dieu, libro II, cap. 5.
(17) SAN TOMMASO, III, q. l, a. 3, ad. 3.
(18) «In un identico decreto», dicono i Carmi di Salamanca. SAN LEONE MAGNO,
De incarnatione, disp. 2, club. l, n. 36, cit., p. 298. Cfr. l'Eglise du Verbe incarné,
cit., tomo n, p. 101.
(19) SAN TOMMASO, 1 Cor. (lect. 3, ed. Marietti, n. 55). Cfr. M. E. BOISMARD,
O.P., Le prologue de saint Jean, Cerf, Paris 1953, p. 114: «Gli uomini non hanno
voluto riconoscere Dio fin dalla creazione, non hanno saputo comprendere la paro]a
di Dio scritta nel libro della Creazione, e san Giovanni (I, 10) esprime lo stesso
pensiero: «La Parola era nel mondo, e il mondo esistette attraverso ad essa, e il
mondo non la conobbe».
(20) Riguardo al disegno divino di riunire tutte le cose nel Cristo, quando sarà giunta
«la pienezza del tempi» (Efes., I, 10), P. BENOIT scrive: «La pienezza del tempi
rappresenta l'arrivo del tempi messianici o escatologici, che portano a compimento la
lunga attesa del secoli, venendo a colmare una misura finalmente piena» (Epistola
agli Efesini, Cerf, Paris 1949, p. 83).
(21) H. MARROV, A Diognète, Cerf, Paris 1951, pp. 204-7. E' la seconda
interpretazione adottata nell'Epistola a Diogneto (IX, 2): «Quando la perversità fu al
colmo, e divenne pienamente manifesto che la ricompensa che se ne poteva aspettare
era il supplizio e la morte, allora giunse il tempo che Dio aveva segnato per
manifestarvi ormai la sua bontà e la sua potenza: quale sovrabbondanza della
filantropia e della carità di Dio!».
(22) SAN TOMMASO, III, q. 1, a. 5, 6.
(23) ID., III, q. 61, a. 3, ad. 2.
(24) SAN GREGORIO MAGNO, Homil. in Ezech., lib. Il, Homil. IV, n. 12; P.L.,
tomo LXXVI, col. 980.
(25) H. MARROU, L'ambivalence du temps de l'histoire chez saint Augustin, Vrin,
Paris 1950, pp. 21-22.
(26) Enarr. in Ps. XXXIV, 11, 9.
(27) Enarr. in Ps. CXVII, XVI, 6.
(28) «Il punto di vista religioso della storia del mondo nel Corano differisce
totalmente da quello del giudaismo ortodosso e del cristianesimo... Per l'Islam non c'è
progresso nella rivelazione del mistero di Dio. La religione... è ricordata
periodicamente agli uomini dai profeti. Delle comunità sono state successivamente
visitate, le une dopo le altre, senz'altro legame fra loro che una sovrapposizione nel
tempo. La grande legge coranica della storia è che i popoli ribelli verso coloro che
Dio inviava loro sono stati annientati. Sono stati successivamente sostituiti da altri
che hanno preso il loro posto». J. JOMIER, Bible et Coran (Cerf, Paris 1959, pp. 140-
43). Fra l'origine e la fine del mondo «il cupo deserto della storia (gli uomini
nascono, soffrono, e muoiono) è interrotto soltanto dalle oasi della profezia: di Noè,
di Abramo, di Mosè, di Gesù. Da un profeta all'altro, c'è discontinuità, serie di parole
a intervalli che scuotono il tempo senza trasformarlo. Maometto stesso, suggello del
profeti, non è trascendente per loro» (J. MONCHANIN, Islam et Christianisme, in
«Bulletin des Missions», tomo XVII, 1938, p. 21. V. anche J. M. ABD-EL-JALlL,
Aspects intérieurs de l'Islam, Seuil, Paris 1949, pp. 37 sgg.).
(29) J. MARITAIN, Le Docteur angélique, Hartmann, Paris 1929, p. 111; Desclée de
Brouwer, Paris 1930, p. 81. Quest'idea di un duplice progresso in sensi contrari è
valida anche sul piano culturale: «Tale è l'idea del progresso, che deve, a mio avviso,
sostituirsi contemporaneamente al concetto illusorio del progresso necessario,
concepito secondo il punto di vista di Condorcet, e a quella negazione o avversione al
progresso che prevale oggi presso coloro che disperano dell'uomo e della libertà, e
che è in se stessa un principio di suicidio storico» (Les droits de l'homme et la loi
naturelle, La Maison Française, 1942, p. 46).
(30) ID., Pour une philisophie de l'histoire, Seuil, Paris 1959, p. 132. Cfr. ID., Du
régime tcmporel et de la liberté, Desclée De Brouwer, Paris 1933, p. 32.
(31) ID., Pour une philosophie de l'histoire, cit., p. 64.
(32) ID., Court traité de l'existence et de l'existant, cit., pp. 193-95.
(33) ID., Une foi par quoi l'on vit? in Le philosophe dans la cité, Alsatia, Paris 1960,
pp. 171-73.
(34) ID., Humanisme intégral (Aubier, Paris 1936, pp. 309c 10). E' inutile ricordare
che un umanesimo è integrale soltanto se si apre contemporaneamente ai valori della
ragione e a quelli della fede. E' sorprendente che si sia potuto vedere nel marxismo un
umanesimo «integrale».
(35) H. MARROU, De la connaissance historique, Seuil, Paris 1954, p. 16.
(36) B. PASCAL, Pensées, Brunschwick, n. 684.
(37) IBID., n. 678.
(38) Enchiridion, III, 11.
(39) P. DE CAUSSADE, L'abandon a la Providence divine, Gabalda, Paris 1928,
tomo I, p. 31.
(40) IBID., pp. 33-36.
(41) IBID., pp. 143-44.
(42) J. GOETZ, S.J., Les religions des primitifs, coll. «le sais, je CrolS», Fayard,
Paris 1958, p. 108.
(43) Posso citare qui una preghiera che il Padre Cormier scrisse su di un'immagine di
san Domenico per regalarla al Padre Madonnet? «San Domenico, siate la fiaccola
perché io veda meglio l'azione di Dio nella storia, l'unità della sua sapienza nella
varietà e nell'apparente incoerenza delle cose, i tesori della sua bontà nei tempi
peggiori e nelle tribolazioni più dolorose».


CAPITOLO DECIMO

COME GUARDARE IL MALE?
“O Deltà, Deltà, eterna Deltà!... Oceano di pace”, esclama santa Caterina da
Siena (I). Pace che non è fatta di ciò che noi chiamiamo con le nostre parole
umane impassibilità, indifferenza; pace che è amore, amore ardente: quando
il Verbo incarnato parlerà, sarà per dire che è venuto a gettare il fuoco sulla
terra e che è suo desiderio che sia già acceso (Lc., XII, 49); pace che è pietà e
tenerezza: “O Trinità eterna ed incomparabile! O ineffabile Amore, se mi
chiamate Vostra figlia, posso ben dire che siete mio Padre...” (2); Deltà che
tuttavia non può essere turbata in Se stessa dalla eterna caduta degli angeli,
né dalla rovina del paradiso terrestre, e neppure dalla sofferenza di Gesù e
dal grido straziante che innalza dalla Croce:
“Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mt., XV, 34) (3).
Nella pienezza di quella pace inalterabile ed infinita che è amore, Dio vede
da tutta l'eternità l'opera della creazione e della redenzione del mondo. Sarà
dal seno stesso di quella pace divina che gli eletti, prendendo a prestito gli
occhi di Dio, vedranno a loro volta l'intero svolgimento della storia del
mondo. Allora cesseranno per loro tutte le domande; il velo sarà sollevato;
ciò che non ci poteva apparire quaggiù, data la nostra condizione di
pellegrini, ciò che ci era oggetto o di scandalo o di adorazione si illuminerà
improvvisamente e per sempre; il problema del senso della creazione, del
perché del permesso di tanti mali da parte di un Dio onnipotente ed
infinitamente buono si risolverà nella luce: “Ed udii una gran voce, venuta
dal trono, che diceva: " Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini, e metterà
la Sua tenda con loro, e saranno i Suoi popoli, ed Egli stesso sarà Dio-con-
loro. Ed asciugherà tutte le lacrime del loro occhi e la morte non esisterà più,
e non vi sarà più né lutto né grido di dolore, perché le prime cose se ne
saranno andate".

“E Colui che era seduto sul trono disse: " Ecco che rendo nuove tutte le
cose"“(Apoc., XXI, 3-5).
La pace, secondo il grande detto di sant'Agostino, è “la tranquillità
dell'ordine”, che si può definire come la vittoria dell'amore che raccoglie le
attività disperse per farle convergere verso il loro fine supremo.
La pace regna nel punto in cui si compie questa convergenza, ed essa
discenderà nel cuore di coloro che potranno guardare, da quelle altezze,
l'universo e la sua storia.
Ma non c'è forse un mondo, quello della libertà e della moralità, nel quale
Dio può essere vinto, nel quale in realtà Egli soffre la resistenza eterna delle
Sue creature libere ribelli? E dove si prova resistenza, ci può essere pace?
La risposta è questa: l'ordine della libertà e della moralità è un ordine
particolare, fatto per rientrare, per una strada o per un'altra, nell'ordine
universale. In coloro che respingono l'influsso dell'Amore creatore, la
privazione che essi scelgono per fame la loro parte, è, a suo modo, una
perpetua confessione che la pienezza è in Dio, una prova della
sovrabbondanza intima propria dell'Amore. Chi vede ciò, vede pure come il
male del peccato e dell'inferno rientri nell'ordine universale, non certamente
come parte componente e strutturale, ma negativamente, come attestazione
fatta in profondità, in un modo senza dubbio inadeguato e finito, dell'infinita
pienezza di Dio. Noi sappiamo che questo sarà il privilegio degli eletti; ma a
noi, che siamo al di qua del velo, queste cose non sono note che nella notte
della fede.

E' il dono della scienza che concede alla fede di essere illuminata, anche in
seno alla sua notte, riguardo alla profondità del male, e che le fa versare sulla
tragedia del mondo quelle lacrime che sono una delle beatitudini del
Vangelo. Ed è il dono della sapienza che concede alla fede di essere
illuminata, sempre in seno alla sua notte, anche sul fatto che il male non è
permesso se non per essere l'occasione di beni molto puri e molto nascosti, e
che le comunica quella pace del figli di Dio, che oltrepassa ogni concezione
e che è una delle beatitudini del Vangelo.
In san Tommaso d'Aquino, che ha analizzato tutte le forme del peccato e
della malizia umana, vi è una profonda conoscenza del male; eppure vi è una
pace incrollabile, che, alla fine, lo ha ridotto a quel silenzio nel quale tutte le
parole non sono più altro che paglia.

Abbiamo citato il passo di Angela di Foligno in cui la bontà di Dio, com'ella
dice, le fu manifestata tanto intensamente nei dannati che la respingono
quanto nei buoni che la accolgono.
San Giovanni della Croce, in un pensiero la cui verità sembra dover
ingigantire con il tempo, assicura che quanto più il male si intensifica nel
mondo, con tanto, maggior splendore si rivela la bontà divina: “Il Signore ha
sempre svelato ai mortali i tesori della Sua sapienza e del Suo spirito; ma ora
che la malizia va scoprendo incessantemente il suo volto, Egli li svela ancora
di più” (4).
Le oscurità non scompaiono per i servitori di Dio, tutt'altro. Ma una certezza
invisibile allarga il loro cuore. La predicazione del Vangelo ai selvaggi del
Canada, ostacolata da un'epidemia, ispira diffidenza verso i missionari come
se fossero i più grandi stregoni della terra: “In questo - scrive il Padre
Lallemant - bisogna confessare che quella povera gente è assolutamente
scusa bile; è accaduto infatti assai sovente, e lo abbiamo osservato più di
cento volte, che là dov'eravamo più conosciuti, dove battezzavamo di più,
proprio là, si moriva di più e, al contrario, nelle capanne nelle quali ci era
vietato entrare, sebbene talvolta gli ammalati fossero agli estremi, si
vedevano dopo qualche giorno tutti quanti felicemente guariti. Vedremo nel
cielo i giudizi segreti, ma sempre adorabili di Dio a questo proposito” (5). A
ciò Maria dell'Incarnazione aggiunge con il suo slancio ammira bile:
“Dovunque essi andavano, Dio permetteva che la mortalità li
accompagnasse, per rendere più pura la fede di coloro che si convertivano”
(6). Basta rileggere alcune pagine di questa serva di Dio, la quale pensava
che i missionari devono “amare di più che tutti i serafini” per comprendere
come, quando il fervore raggiunge una certa veemenza nelle anime, la
certezza dell'amore di Dio per gli uomini diventa per loro così assoluta che i
problemi, le stesse esitazioni sembrerebbero loro una bestemmia, e che le
disgrazie che le colpiscono in ciò che hanno di più caro non possono fare
altro che piombarle nell'adorazione.

Lo sguardo di una fede illuminata dal dono della sapienza è la sola luce che
permetta allo spirito di discendere nella profondità del male senza annegare.
Il dono della sapienza, con il dono della scienza, è nella Vergine quando,
avendo ascoltato l'angelo dell'Annunciazione, comprende che il tempo del
Messia è giunto, e che deve dire sì al Verbo che domanda di incarnarsi in lei.
Ma dovrà più tardi apprendere, con quanti strazi successivi, a quale prezzo
ed attraverso quale dramma, il male del mondo sarà sconfitto.
Ella è presa alla sprovvista a Betlemme “dove non c'è posto per loro in
albergo”; deve dare alla luce nello squallore Colui che sa essere il Figlio di
Dio. Con quale stupore scruta il mistero della liberalità del Signore che,
come dirà più tardi san Paolo ai Corinzi, da ricco com'era si fece povero per
noi, onde arricchirci con la sua povertà (II Cor., II, 9). Ma è possibile che
Dio, se veramente quel Bambino è Suo Figlio, più prezioso di tutto
l'universo, Lo abbandoni al rischio di un simile parto, e Lo affidi ad appoggi
così deboli?
Poi, c'è la fuga sulla strada dell'esilio. Bisogna partire all'improvviso, di
notte, per strappare il Bambino alla morte, incamminandosi miseramente,
senza risorse, senza difesa, verso un paese lontano, sconosciuto, dove si parla
un'altra lingua. Il cuore della Vergine deve sussultare ad ogni pericolo di quel
lungo viaggio. Se veramente quel Bambino sta a cuore a Lui, Dio, non vi
sono mezzi meno precari e più sicuri per salvarlo? Ma Dio rimane silenzioso;
anche quando Suo Figlio è preso, lascia che la trama inesorabile degli
avvenimenti si svolga.

Gli artisti del Quattrocento hanno rappresentato la Vergine che sviene sia ai
piedi della Croce, sia, più tardi, nel momento della sepoltura. Ma lo
svenimento ci coglie soltanto quando il dolore è troppo intenso per essere
sopportato. Non è vero che la Vergine sia svenuta; è rimasta unita a suo
Figlio nella contemplazione della Passione sanguinosa; ha conosciuto la più
grande agonia che una creatura possa conoscere (subito al di sotto di quella
del Cristo, che, Egli pure, non è svenuto); ha portato fino in fondo tutto il
peso terribile della corredenzione del mondo. “Presso la croce di Gesù, c'era
sua Madre...”, dice il Vangelo (Gv., XIX, 25); e la Chiesa canta: Stabat
Mater dolorosa.
In cielo, nello splendore della visione della patria, si dissiperanno tutte le
tenebre; ma quaggiù, finché procediamo nell'esilio, il mistero del male
incomincia ad illuminarsi per noi soltanto nella notte della fede: il velo non è
stato sollevato per nessuno, né per i santi né per la Vergine. Per l'umanità di
Gesù le cose stanno diversamente. Fino dal primo istante della sua vita, la
sua intelligenza è illuminata dalla visione immediata della divinità: egli non
crede, ma vede per quali grandi beni un Dio onnipotente ed infinitamente
buono può permettere al male di introdursi nella Sua opera. Per questo c'è in
lui la pace del paradiso; ma finché dura la sua vita mortale, essa è come
concentrata nella sommità della sua anima, e le regioni inferiori del suo
essere, il suo cuore, la sua sensibilità, il suo corpo possono essere invasi dal
dolore, dal turbamento, dall'agonia. Egli è contemporaneamente nella patria,
con una parte di se stesso, e nell'esilio, con un'altra parte; già alla meta ed
ancora per la strada, comprehensor et viator. Di qui ha origine
l'impenetrabile mistero degli incontri di Gesù con il male. Provi ciascuno a
penetrarvi secondo il suo cuore: noi non possiamo dire che poche povere
parole.
Gesù ha visto l'uomo abbattuto dal male della sofferenza: fisica. La
sofferenza non è eterna; nel piano divino è destinata ad essere superata ed
annullata. Allora, per indicare la precarietà del suo regno, per indicare che il
male fisico non è primordiale e che è in certo modo indebito, Gesù, in certi
momenti con una sola parola, lo ha allontanato: “Ecco che un lebbroso venne
a prosternarsi davanti a lui e gli disse: " Signore, se tu lo vuoi, puoi guarirmi
". Egli distese la mano e lo toccò dicendo: "Io lo voglio, sii guarito"“(Mt.,
VIII, 2-3). Gesù sa che un primo peccato è all'origine delle sofferenze umane
e che esse, in questo senso rivelano una momentanea vittoria del demonio:
“C'era là una donna posseduta da uno spirito che la rendeva inferma da
diciotto anni; era curva e non poteva assolutamente sollevarsi. Gesù
vedendola, la chiamò: "Donna, sei libera dalla tua infermità". Poi posò le
mani sopra di lei, e, nello stesso istante ella si sollevò e glorificava Dio” (Lc.,
XIII, 11-13). E a coloro che gli rimproveravano di avere guarito nel giorno di
sabato, rispose: “Ipocriti, ciascuno di voi, il sabato, non slega forse dalla
stalla il suo bue o il suo asino per portarlo a bere? E non si sarebbe dovuto
liberare questa figlia di Abramo, che Satana ha legata da diciotto anni, nel
giorno di sabato?” (XIII, 15-16).

Tuttavia Gesù non è venuto a togliere immediatamente la sofferenza, ma a
prenderla su di sé e ad illuminarla dall'interno.
Gesù ha incontrato la morte. Neppure questa è primordiale né definitiva: è la
ricompensa del peccato (Rom., VI, 23), l'ultimo nemico che sarà vinto (1
Cor., XV, 26). Gesù trionfa per tre volte su di essa anche prima della gloriosa
risurrezione per dimostrare il suo carattere in certo modo usurpatore e
temporaneo; si direbbe che Gesù si commuova dell'umiliazione inflitta dalla
morte della povera natura umana che essa colpisce. A Nain, vedendo la
madre dell'unico figlio portato a seppellire, “ha pietà di lei e le dice: "Non
piangere"” (Lc., VII, 13). Più tardi prende la mano della figlia dodicenne di
Giairo e, rialzatala, la fa mangiare (Mc., V, 42-43). Gesù piange sulla tomba
di Lazzaro. E' l'ora del suo incontro solenne con la morte: le lascia compiere
tutte le sue rovine fino alla decomposizione del corpo. Gli fanno dire subito:
“Signore, colui che tu ami è ammalato” (Gv., XI, 3). Egli si accontenta di
rispondere: “Questa malattia non conduce alla morte; è per la gloria di Dio,
affinché il Figlio di Dio sia in essa glorificato” (XI, 4). Eppure essa conduce
alla morte poiché Lazzaro morirà; ma la morte non avrà l'ultima parola, anzi
non l'avrà mai. Gesù è più forte della morte e lo dimostrerà subito con la
risurrezione di Lazzaro alla vita mortale di quaggiù, prima di dimostrarlo, un
po' più tardi, con la sua risurrezione gloriosa alla vita eterna del cielo, nella
scia della quale tutti gli eletti saranno alla fine trascinati. Ma vedendo la
tomba Gesù “si commosse egli pure” e “pianse” (XI, 33-35). Egli piange su
Lazzaro, su ciò che è diventata la vita umana a causa delle opere stesse
dell'uomo, sull'indicibile disastro della colpa originale. Gesù, che si turba e
piange di fronte alla morte, e che, con una parola, comanda alla morte!
Quanta serenità in lui, quanta potenza, quanta grandezza, ma anche quanta
tenerezza! Chi mai comprenderà la morte come Gesù?

Gesù è venuto soprattutto per togliere il peccato: esso è il vero male. Egli
può toglierlo come un chirurgo toglie un cancro e le sue aderenze. Gli viene
condotto un paralitico; tutti stanno attenti a ciò che farà. Ma Gesù vede ciò
che nessuno vede: non la sua infermità, ma il dramma del peccato e della
disperazione che si svolge nel suo cuore. “Abbi fiducia, figliolo, ti sono
rimessi i tuoi peccati” (Mt., IX, 2). Egli guarisce il paralitico, come risuscita
Lazzaro: ma quelli sono mali secondari.
Appena un cuore incomincia ad aprirsi al pentimento, Gesù è pronto a
perdonare: non insiste più sul peccato, usa un'infinita delicatezza. E' vero che
immerge di colpo il pugnale nel cuore della Samaritana, parlandole del suoi
mariti. La donna non si scusa, sa che egli ha ragione, cerca soltanto di
deviare la conversazione. Egli la segue, risponde alle sue nuove domande.
In casa di Simone il Fariseo, per quella donna conosciuta in città come
peccatrice ma ora sconvolta dal pentimento, Gesù non ha una parola di
biasimo ma dice quelle parole che ciascuno di noi vorrebbe udire da lui al
momento della morte:
“Il gran numero del suoi peccati è rimesso perché ha molto amato” (Lc., VII,
47). E' un preludio delle famose parole: “Oggi, sarai con me in paradiso”
(Lc., XIII, 43).
Per la donna sorpresa in adulterio e che aspetta atterrita il momento della
lapidazione, ma che, alla fine, rimane sola davanti a lui, non ha che poche
parole: “Donna, dove sono andati? Nessuno ti ha condannato? "Nessuno,
Signore ", ella rispose. Neppure io - dice Gesù - ti condanno. Va', e d'ora
innanzi non peccare più” (Gv., VIII, 10-11).
Il peccato, che condurrà Gesù all'agonia, è il continuo tormento della sua
vita. Fin dall'inizio della predicazione, deve affrontare l'orrore dell'inferno,
nel deserto, al momento delle tre tentazioni. Il Vangelo è pieno di fatti
rivelatori. “Durante il soggiorno che fece a Gerusalemme per Pasqua, molti
credettero nel suo nome vedendo i segni che faceva. Ma Gesù non si fidava
di loro, perché li conosceva tutti, e non aveva bisogno di essere informato su
nessuno: sapeva ciò che c'è nell'uomo” (Gv., II, 23-25). Nulla gli è nascosto
di ciò che vi è di guasto e d'incostante nei nostri cuori. Gesù piange su
Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e che lapidi
coloro che ti vengono mandati, quante volte ho voluto riunire i tuoi figli
come una gallina riunisce i suoi pulcini sotto le sue ali, e non avete voluto!”
(Mt. XXIII, 37). Piangeva sulla sua patria, come alcuni hanno creduto? Era
qualcosa di più profondo. Piangeva sul disconoscimento, da parte della
maggiore parte del popolo eletto, della grande profezia dell'Antico
Testamento; tutte le premure di Dio, discese da quasi duemila anni come una
rugiada su quel popolo amato, finivano con un tradimento; Gesù piange sul
peccato di Gerusalemme che è l'immagine di ciascuna delle nostre anime.

Dov'è che la terribile libertà lasciata da Dio al male appare tanto
tragicamente quanto nei racconti evangelici dell'Agonia, della Passione, della
Morte del Salvatore? Come può Dio abbandonare questo Figlio unico, nel
quale si è compiaciuto, alle selvagge invenzioni della malizia degli uomini,
che sembrano appena comprendere di quali invisibili potenze sono gli
strumenti? Come può tollerare che si schermisca, che si percuota, che
s'incoroni di spine Colui ch'Egli manda nel mondo per rendere testimonianza
alla verità? Come può restare muto quando s'innalzano verso di Lui una
supplica come quella dell'agonia: “Abba! Padre! Tutto Ti è possibile:
allontana da me questo calice... Ma non la mia volontà sia fatta, bensì la Tua”
(Mc., XIV, 36), o un pianto come quello della Crocifissione: “Mio Dio, mio
Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc., XV, 34).

E nello stesso tempo dov'è attestata con altrettanta forza quanto è quella di
questi racconti evangelici l'infinita pazienza della bontà divina verso
l'umanità peccatrice, e i disegni imprevedibili della sua onnipotenza, la quale,
fra mali così empi e con una catastrofe così fatale, effettua la liberazione e la
redenzione del mondo?
L'anima santa di Gesù si trova nel punto in cui si incontrano, da una parte,
gli assalti scatenati dell'inferno, e dall'altra, gli inauditi permessi di azione
concessi dal cielo al male, ed abbraccia con uno sguardo i due abissi. Le sette
divine parole discese dalla croce potrebbero aprire la strada per penetrare il
mistero.

Quando Dio pone a ciascuno di noi, in un modo sempre più straziante, il
problema del male, non per scuotere la nostra fede e la nostra fiducia, ma per
renderle più vere, più intense, ci è stato preparato in anticipo dalla Sua bontà
un aiuto per rispondergli nelle parole del Padre Nostro.
PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI. Padre, vuol dire, per chi è il figlio,
l'unione meravigliosa della potenza e della tenerezza. Noi non siamo orfani.
Esiste per noi un Padre la cui potenza e la cui tenerezza sono infinite, che fa
discendere il Suo sguardo su tutti i momenti, anche i più desolati, della nostra
vita. Egli ci attende nella regione dove non c'è il male, ma al di là del male,
nella Patria. Se le parole di Platino: “Fuggiamo verso la cara patria... Noi
abbiamo infatti una patria donde veniamo e un padre che in essa ci attende”
(7), hanno talmente affascinato sant'Agostino, è perché un cristiano non può,
d'ora in poi, leggerle se non pensando alle rivelazioni del Vangelo.
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME. Che il Tuo nome di Padre sia
riconosciuto, che esso sia confessato anche nella notte delle prove più grandi.
Giobbe è innocente; non è vero che le sventure che lo opprimono siano delle
punizioni. Eppure davanti a sé non ha altro che la morte e la discesa
miserabile nella tomba. E' impossibile, nell'epoca in cui vive, avere un'idea di
ciò che noi chiamiamo la vita eterna. Dunque perché la sua sofferenza? Egli
non vede una risposta. Eppure è allora che fa il suo sublime e gratuito atto di
fede: “lo so che il mio Difensore è vivente, che Egli, per ultimo, si alzerà
sulla terra. Dopo il mio risveglio, mi solleverà vicino a Lui, e, con la mia
carne, vedrò Dio. Colui che vedrò sarà per me, Colui che i miei occhi
guarderanno, non sarà un estraneo” (Giob., XIX, 25-26). Allo stesso modo,
sperando contro ogni speranza, Abramo incomincia a credere alla promessa
di una discendenza (Rom., IV, 18); e quando Isacco, l'unico figlio della
promessa è cresciuto, ecco che Dio chiede che venga immolato. Credere con
una fiducia illimitata, anche contro ogni apparenza, che Dio è Padre: ecco ciò
che Dio attende dai migliori di noi, ecco l'amore che, fin da quaggiù, risolve
il problema del male.
VENGA IL TUO REGNO. Venga il Tuo regno inizialmente, quando il Tuo
amore discende incessantemente nel seno stesso del mondo per formarvi la
Tua Chiesa; e venga il Tuo regno pienamente, quando il Tuo amore
capovolgerà le opere del male per trasfigurare l'universo. Mi ricordo una
visita a ciò che resta oggi del campo della morte di Majdanek, presso
Lublino, dove perirono due milioni di esseri umani. In sinistre baracche,
circondate da cavalli di frisia e da fili spinati elettrici, sono ammucchiati del
poveri resti umani, delle misere pantofole, delle scarpe da donna, delle
scarpette da bambini, vi si trovano del pezzi di bambole. Si vede un primo
modello di forno, una mostruosa marmitta portata da Berlino. Poi la
costruzione centrale in calcestruzzo, con le stanze da bagno che precedevano
le camere a gas, i grandi forni paralleli ciascuno del quali si caricava con
infornate di sei cadaveri, i canaletti per raccogliere i grassi ed i sali potassici.
Tecnicamente tutto è preveduto, persino la lastra di cemento sulla quale si
toglieva l'oro dai denti del cadaveri. Fuori è sera, il sole che tramonta si è
velato di una nuvola rosa. Un gran silenzio regna sulla pianura polacca. A
qualche passo davanti a me il pesante camino quadrato, in mattoni, costruito
dai prigionieri stessi, domina l'edificio: sale nel cielo come una specie di
campanile. Tanti poveri occhi spaventati, sconvolti, l'hanno guardato, hanno
veduto la fiamma rossa venire fuori, poi spegnersi in un'infinita nuvola nera.
E' possibile che quegli esseri estenuati, attendendo la loro fine orribile in quel
campo di morte, non si siano volti verso Dio onnipotente ed infinitamente
buono per prenderlo come testimonio, per supplicarlo di soccorrerli con
qualche miracolo nella atroce sventura? E non venne nessuna risposta. Provo
a mia volta a recitare il Padre Nostro, a gridare per loro verso il Padre che è
nei cieli, che ha visto tutto ciò e che è rimasto muto. Quale mistero! Fino a
quale profondità Dio ci chiede di avere fiducia in Lui, di credere nel Suo
amore! Sì, Signore, venga il Tuo regno. Che esso si affretti a venire, Signore,
per far saltare, un giorno, tutto questo meccanismo infernale e liberare la
terra da invenzioni così spaventose.
SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ. La Tua volontà di scegliere fra l'infinità
del mondi possibili un mondo nel quale il male doveva avere una parte, una
parte così spaventosa. La Tua volontà di permettere al loglio di crescere
assieme al frumento fino alla fine della storia. La Tua volontà di permettere
che il peccato trionfi mentre Tu ci dai l'incarico di combatterlo; di permettere
che la Tua città sia costantemente contrastata dalle iniziative degli spiriti
delle tenebre. Questa è la Tua volontà sovrana. Vi è infatti una volontà di Dio
che ci è proposta o indicata dai Suoi comandamenti, dai Suoi consigli, dalle
Sue aspirazioni, e alla quale ci viene richiesto di aderire liberamente con
amore, un amore di conformità alla “volontà divina indicata”. E c'è una
volontà di Dio che ci viene imposta, che nessuno può impedire, che ci è nota
soltanto attraverso i suoi effetti, i quali, una volta verificati si, ci rivelano che
Dio, o li ha voluti perché sono buoni, oppure li ha permessi, se sono un male.
Essa può realizzarsi contro i nostri desideri più legittimi, può strapparci per
mezzo della morte agli esseri che ci sono più cari e che avevamo la missione
di difendere, opprimerei con il dolore o con la calunnia. Possiamo ben
chiedere che essa ci risparmi: Gesù lo ha fatto: “Abba! Padre! Tutto Ti è
possibile, allontana da me questo calice” (Mc., XIV, 36).
Ma, alla fin fine, essa attende la nostra sottomissione, non soltanto
rassegnata, ma amorosa. Ecco la “volontà divina sovrana”.
DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO. Dacci la Tua grazia,
quel pane senza il quale l'anima non può vivere; dacci la forza interiore di
fare proprio ciò che desideri da noi. Dacci ogni giorno abbastanza fede,
abbastanza amore per poter acconsentire a questo mondo ove il male, fin
nell'intimo del nostro cuore, è talmente in conflitto con il bene. Ho bisogno
di questo pane dell'anima, lo vado mendicando non soltanto per me, ma per
tutte le creature libere che sono sulla terra. Nella tua bontà, mio Dio, concedi
loro di dire in ogni circostanza: “Sia fatta la tua volontà!” Concedi a noi tutti
di sopportare la nostra parte di prova senza esserne affranti.
RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI. Il perdono, lo sappiamo, è il pane di
cui abbiamo bisogno innanzi tutto. Senza il Tuo perdono come vivere, o
Signore? Come guardare l'avvenire e la morte, come alzare gli occhi verso di
Te? Il peggiore del mali, il peccato, è entrato in noi. Esso agita tacitamente il
nostro inconscio. I sette peccati capitali sono avvolti a spire dentro di noi
come del serpenti addormentati. Ma la potenza del perdono divino è infinita:
una sola goccia del sangue del Cristo è sufficiente per lavare le macchie del
mondo, una sua sola parola è sufficiente ad aprire il paradiso ad un ladrone.
Egli stesso ha pregato per noi tutti: “Padre, perdona loro, perché non sanno
quello che fanno”. Essi ignorano l'offesa che fanno all'Amore; e la profondità
di quell'amore; essi ignorano persino il male che fanno a se stessi, e non
sanno che il rifiuto dell'Amore costituisce, fin da questo. mondo, l'Inferno
che essi inaugurano liberamente in loro stessi. Rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo... meglio di come noi li rimettiamo.
Metti Tu stesso un po' della Tua magnanimità nei nostri perdoni; essi
rimarranno finiti, ma a Te chiediamo supplicando un perdono infinito.
NON CI INDURRE IN TENTAZIONE. Queste parole hanno due sensi: Tu
potresti, o Signore (e sarebbe giusto) lasciare che si svolgesse la dialettica di
quelle imprudenze che commetto dieci volte al giorno. Una prima infedeltà
ne trascinerebbe una seconda e così fino alla rovina. Non lo fare: intervieni;
interrompi questa logica fatale. Sono l'insensato che ha costruito nella sabbia
(Mt., VIII, 26). Non mandare, Signore, il. vento, la pioggia ed i terremoti!
Nell'altro senso: Signore, non sottometterci alla prova di forza. Non
permettere che la tentazione che mi si presenterà oggi (domani rinnoverò la
stessa preghiera) sia al di sopra della mia resistenza. Oppure accresci il mio
amore. Che per ciascuno di noi sia vero quanto ha detto.1'Apostolo: “Dio è
fedele, non permetterà che voi siate tentati al di sopra delle vostre forze; ma
nel momento della tentazione farà in modo che possiate sopportarla e
superarla” (1 Cor., X, 13).
MA LIBERACI DAL MALE. Liberaci dal Maligno e dalle sue insidie; da
tutte le forme del male, nella misura nella quale ci sarebbero funeste; liberaci
soprattutto dal male del peccato. L'ultima domanda è un ritorno, ma in senso
negativo, di tutto quanto precede. Il Padre Nostro si conclude con un appello
alla liberazione. Che tutto quel male, che avrà tanto oppresso l'umanità sia un
giorno annientato; venga il Regno sperato e il tempo della Patria.
E' impossibile sfuggire al problema del male. Dio lo pone a tutti gli uomini
quando entrano nel mondo. Non perché perdano la fede e l'amore, ma perché
incontrando il male, per quanto terribile esso sia, possano crescere in noi,
fino alla fine, la fede e l'amore. Una tale risposta dev'essere data nel silenzio
del nostri cuori. Essa sarà formulata forse nel cuore di una notte che durerà
fino alla morte; può così sopraggiungere per una specie d'improvvisa
irruzione della sapienza eterna che trasfigura il dolore, annientando i dubbi e
le obiezioni. Tocca a ciascuna anima camminare per la strada che Dio le ha
preparato.
Se il grano ed il loglio, il bene ed il male crescono insieme nella storia, noi
crediamo che, a conti fatti, fin d'ora, il bene sia più forte del male, il Cristo
più forte di Belial. Quando il male prende delle proporzioni spaventose,
come abbiamo veduto durante la prima e la seconda guerra mondiale, come
altri ancora forse potranno vedere, è segno che Dio suscita nel segreto del
nostri cuori degli amori meravigliosi che riscattano (Efes., V, 16) e
sovraccompensano la malizia del tempi, e ravvivano quella misteriosa
bellezza della. Chiesa nella quale ci è stato detto che gli angeli desiderano
immergere i loro sguardi (1 Petr., I, 12). Noi sappiamo che il male è più visi.
bile del bene; ma il bene è più duraturo del male: esso mina le costruzioni del
male che crollano l'una sull'altra. Noi crediamo che se il male, a un certo
momento della storia, dovesse vincere il bene, Dio farebbe saltare la
macchina del mondo.
NOTE
(1) Les oraisons de sainte Catherine de Sienne, ed. Art. Catholique, Paris 1919, p. 21.
(2) ID., p. 41.
(3) Sul lamento di Gesù: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mt., XXVI, 38),
KIERKEGAARD scrive: “Mi sembra ancora più terribile per Dio avere udite quelle
parole che per Gesù averle pronunziate. Essere inalterabile fino a questo punto non è
terribile? Soprattutto essere inalterabile fino a questo punto e tuttavia essere amore,
sollecitudine infinita, profonda, inesauribile!” (Cit. da J. WAHL, Études
kierkegaardiennes, cit., p. 372).
(4) SAN GIOVANNI DELLA CROCE, Avisos y Sentencias, ed. Silverio, tomo IV, p.
232.
(5) Cit. da MARIE DE L'INCARNATION, Écrits spirituels et historiques, Desdee De
Brouwer, Paris 1935, tomo III, p. 204. .
(6) ID.
(7) PLOTINO, Enneadi, I, 6-8.
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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