DON ANTONIO

domenica 18 settembre 2011

Nel dolore è deposto un seme di eternità Gianfranco Ravasi, L'Osservatore Romano, 10.2.10

L'11 febbraio di 25 anni fa Giovanni Paolo II pubblicava la lettera apostolica Salvifici doloris, contenente una vasta e appassionata trattazione di uno dei temi più laceranti dell'esperienza umana, quello della sofferenza. I 31 paragrafi di quel documento erano intessuti di rimandi alla Bibbia, «il libro della storia dell'uomo» e quindi «il grande libro sul dolore», delineato in tutte le sue iridescenze oscure ma anche nei suoi squarci di luce e di speranza. Certo, come affermava Thomas S. Eliot nei suoi Quattro quartetti: «people change, and smile: but the agony abides» («la gente cambia, riesce a sorridere, ma l'agonia-lotta della sofferenza permane»). Essa è simile a una roccia contro la quale è facile anche sfracellarsi. Georg Büchner, uno dei più intensi scrittori dell'Ottocento tedesco, nel suo dramma La morte di Danton (1835) si chiedeva: «Perché soffro?». E concludeva: «Questa è la roccia dell'ateismo».
Uno degli approdi estremi a cui può condurre l'esperienza del dolore, soprattutto del dolore innocente, è appunto quello della ribellione, dell'apostasia, del rifiuto di Dio e dell'uomo. Chi non ricorda quel passo dei Fratelli Karamazov dove Dostoevskij s'interroga: «Se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano i bambini? È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocchi pure a loro comprare l'armonia con la sofferenza». Per millenni l'umanità ha cercato di scalare o spianare quella roccia. Già l'antica sapienza egizia registra la sconfitta della ragione con le emozionanti righe del «papiro di Berlino 3024» (2200 prima dell'era cristiana), significativamente intitolato dagli studiosi Dialogo di un suicida con la sua anima, dialogo che ha come approdo solo la morte vista come liberazione, guarigione, profumo di mirra, brezza dolce della sera, fior di loto che sboccia. L'accanimento della teodicea, cioè del tentativo di difendere Dio dall'attacco dell'«ateismo» che fa leva proprio sul dolore, ha dovuto sempre confrontarsi con le alternative lapidarie del filosofo greco Epicuro, così come ce le ha trasmesse lo scrittore cristiano Lattanzio nella sua opera De ira Dei (c. 13): «Se Dio vuol togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?». È proprio attorno a questi dilemmi e soprattutto quando si entra nella regione tenebrosa della sofferenza personale che si confrontano le religioni e gli agnosticismi. Emblematica è l'affermazione del pensatore ateo francese Jean Cotureau: «Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male». E proprio per difendere Dio da questa accusa infamante, si è fatto di tutto nella storia dell'umanità, ricorrendo appunto a quella «teodicea» a cui sopra si accennava, percorrendo le strade più disparate, talvolta quasi impraticabili. Si è, così, ricorso al dualismo, introducendo - accanto al Dio buono e giusto - un'altra divinità negativa e ostile, un dio del male. Si è appellato alla cosiddetta «teoria della retribuzione», per altro ben attestata anche nella Bibbia: il binomio delitto-castigo ci invita a scoprire in ogni dolore un'espiazione di colpa, se non personale, almeno altrui (e così si cercherebbe di giustificare anche la sofferenza dell'innocente). Si riconoscerebbe, in tal modo, una sorta di funzione catartica al dolore. Per dirla con lo scrittore americano Saul Bellow, nel suo romanzo Il re della pioggia (1959), «la sofferenza è forse l'unico mezzo per rompere il sonno dello spirito». Per altri sarebbe, invece, da imboccare la via pessimistica radicale: la realtà è strutturalmente negativa proprio per il suo limite creaturale (da spiegare sarebbe eventualmente la felicità!). Nel Mito di Sisifo (1942) lo scrittore Albert Camus osservava: «C'è un solo problema importante per la filosofia, il suicidio. Decidere, cioè, se metta conto di vivere o no». Per contrasto, non è mancata anche una lettura ottimistica altrettanto radicale della realtà per cui il male è solo un non-essere, un dato concettuale, un'apparenza da superare scoprendo la serenità profonda dell'essere. In questa luce si pongono le visioni panteistiche. In questa linea si collocano anche certe concezioni evoluzionistiche che considerano il dolore come il residuato di un mondo ancora imperfetto e in costruzione. Anche la Bibbia si trova di fronte a questo mostro proteiforme che in tutte le culture, pur essendo tematizzato in modo astratto, è declinato soprattutto a livello esperienziale, individuale, sociale, cosmico. Sempre in agguato è il rischio della semplificazione teoretica o del dogmatismo ideologico, come è ben attestato dalla polemica di Giobbe nei confronti degli amici «teologi», capaci solo di «raffazzonare menzogne» intonacando i muri delle loro costruzioni ideali (13, 4), pronti a elaborare innocui «decotti di malva» (6, 6) e a rivelarsi come «consolatori fastidiosi» (16, 2). Proprio per questo la Bibbia non offre mai una teoria definitiva, unitaria e sistematica sul tema del male ma cerca di gettare luce su questo groviglio oscuro e soprattutto di individuare qualche itinerario di senso e di redenzione. Proprio in capite alle Scritture c'è subito una considerazione che ribalta la tradizionale impostazione della teodicea. Prima di interpellare Dio per le sue «responsabilità», i capitoli 2-3 della Genesi ci invitano a interrogare l'uomo, la sua libertà e coscienza perché un'ampia porzione del male disseminato nella storia ha una precisa sorgente umana. In quelle due pagine, costruite a dittico, da un lato si delinea il progetto della creazione e della storia secondo il Creatore: armonia dell'umanità con Dio nel dialogo e nel comune «respiro» interiore (nishmat hajjim di 2, 7 è, di per sé, non tanto l'alito vitale ma la coscienza morale), armonia dell'umanità con le altre creature, simboleggiate negli animali, armonia dell'uomo col suo simile, incarnato nella donna, «carne della mia stessa carne» (2, 23). D'altro lato, nel capitolo 3, ecco apparire il progetto alternativo ordito dall'uomo che ha deciso di definire in proprio «la conoscenza del bene e del male»: Dio diventa un estraneo, relegato nel suo Eden trascendente; la terra è devastata e, ridotta a deserto, produce solo «spine e cardi» (3, 18); la donna, cioè il prossimo, è «dominata» dall'uomo che prevarica su di essa (3, 16). Le scelte libere umane, quando si pongono in contrasto con la morale trascendente, generano sofferenza, morte e male. È per questo che i sapienti di Israele ribadiscono con chiarezza la tesi della responsabilità umana: «Non dire: Mi sono ribellato per colpa del Signore, perché ciò che egli detesta non devi farlo (...) Egli da principio creò l'uomo e lo lasciò in balìa del suo volere (...) Egli ti ha posto davanti il fuoco e l'acqua: là dove vuoi stenderai la mano. Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Siracide, 15, 11-17). Similmente il libro della Sapienza non esiterà ad affermare che «Dio non ha creato la morte e non gode della rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c'è veleno di morte, né gli inferi regnano sulla terra» (1, 13-14). Delineato questo primo percorso nell'orizzonte del male, non si può, però, ignorare un fatto che il filosofo francese Philippe Nemo ha definito come «l'eccesso del male»: c'è, infatti, un male che «eccede» la pura e semplice responsabilità umana individuale e sociale. È significativo che questa locuzione sia stata coniata dal filosofo per un suo libro su Giobbe. Questo celebre personaggio biblico, protagonista di una delle opere più alte della stessa letteratura universale, si scontra appunto con un male assurdo, che non può essere riportato alle deviazioni morali dell'uomo né che può essere annullato nella tesi che gli «amici» - incarnazione della teologia tradizionale - gli oppongono come spiegazione risolutiva. Si tratta di quella «teoria della retribuzione» a cui sopra si è accennato e che altro non è che un ricorso al giudizio divino sulla responsabilità peccaminosa dell'uomo e, quindi, un rientro per altra via nel percorso precedentemente descritto. Certo, arduo è definire quale sia il tracciato ideale di Giobbe il cui discorso procede in modo ramificato, poetico e simbolico. Ma è indubbio che egli, in pagine grondanti ribellione, protesta e interrogazione, dichiara che non è sufficiente l'uomo a spiegare un certo tipo di male: egli vuole, infatti, coinvolgere Dio in modo diretto nella soluzione del male enigmatico ed eccedente la ragione. E Dio accetta di deporre in questa sorta di processo al quale la vittima del male ha voluto fosse convocato. C'è un aspetto rilevante del male che non può essere «razionalizzato» e quindi Giobbe ha ragione nel protestare (si veda 42, 7): il male urla con tutto il suo scandalo contro la mente dell'uomo, il suo scandalo è accecante. Ma Dio rivela (è, quindi, frutto di una conoscenza che avviene su un altro «canale» di intuizione) all'uomo che esiste una 'esah (38, 2), cioè un «progetto», una razionalità trascendente, da mistero, superiore e totalizzante. Giobbe, a questo punto, è contemporaneamente teso verso la rivolta e la disperazione a cui lo conduce «logicamente» la sua intelligenza di fronte all'«eccesso del male», ma è spinto anche verso la speranza e l'inno di lode a cui lo conduce «misticamente» la rivelazione divina, cioè la conoscenza di fede. È in questo territorio nuovo che può essere introdotto un altro percorso, quello che è aperto da una figura emblematica, il «Servo del Signore», presente nel libro di Isaia, in particolare nel capitolo 53, e ripreso dal Nuovo Testamento in chiave cristologica. C'è un male-dolore che piomba sul giusto - e qui siamo nell'ambito stesso di Giobbe - ma questa irruzione diventa sorgente di liberazione, vita e salvezza per gli altri: «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (53, 5). È interessante citare al riguardo un passo delle Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via di Franz Kafka perché illustra in modo «laico» questa comunione nel dolore come via per la crescita comune e la trasformazione solidale dell'umanità. «Tutte le sofferenze che sono attorno a noi dobbiamo patirle anche noi. Noi non abbiamo un solo corpo, ma abbiamo una crescita, e questo ci conduce attraverso tutti i dolori, in questa o quella forma. Come il bambino si evolve, attraverso tutte le età della vita, fino alla vecchiaia e alla morte (e ogni singolo stadio appare fondamentalmente irraggiungibile al precedente, sia nel desiderio che nella paura), così ci evolviamo anche noi (legati all'umanità non meno profondamente che a noi stessi) attraverso tutte le pene di questo mondo». La strada di solidarietà delineata dal Servo del Signore ci prepara ad accostarci al Nuovo Testamento, in particolare ai Vangeli, ove il male sembra incombere come una presenza drammatica ma non tragica. Mai come in questo caso dobbiamo segnalare i limiti di questa nostra analisi che vuole solo indicare un tracciato da seguire poi all'interno dei testi e attraverso una ricerca ben più ampia e sistematica. È significativo un fatto: gli esegeti sono convinti che uno dei «protovangeli», cioè dei primi testi codificati - a noi non pervenuti ma ai quali attinsero gli evangelisti al punto tale da intravederne una presenza in filigrana ai loro racconti - dalla tradizione cristiana delle origini fu proprio una narrazione della passione e morte di Cristo. Il male fisico e morale, la morte e lo scandalo della sofferenza furono subito considerati centrali nell'annunzio cristiano, anche se illuminati dal fulgore della Pasqua. Diversamente dalle cosiddette «Vite degli eroi», molto popolari nel mondo greco-romano, il cristianesimo ha dato una prevalenza sorprendente proprio alla sconfitta del suo fondatore sotto l'impeto del male prima ancora di celebrarne i successi. Questo aspetto è capitale all'interno della teologia dell'Incarnazione. L'Incarnazione è, infatti, la scelta di Dio - che per sua natura è oltre la morte, il dolore, il male - di penetrare e assumere in sé la sarx, cioè la «carne», il limite creaturale, così da condividerla e redimerla dall'interno. In Cristo, Dio e uomo, non si ha tanto la giustificazione o la decifrazione dello scandalo del male in un sistema ideologico o etico coerente. Si ha, invece, la condivisione per amore, che non è però una mera adesione eroica che ha come sbocco l'immolazione della croce, ultimo e conclusivo approdo. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, egli assumendo il male, il dolore e la morte lascia in essi un seme di divinità, di eternità, di luce, di salvezza. L'amore divino non ci protegge «da» ogni male ma ci sostiene «in» ogni male facendocelo superare. L'esperienza del male rimane angosciante come un carcere. L'ingresso del Figlio di Dio in quel carcere segna una svolta: esso non è sbarrato per sempre, in un'immanenza che si consuma in se stessa, ma viene aperto per un «oltre». Questo «oltre» è illustrato in modo nitido sia attraverso i miracoli compiuti da Cristo sia attraverso la sua Pasqua. La Pasqua è l'inaugurazione di questo riscatto che dovrà distendersi passo per passo durante tutto l'itinerario della storia così da redimerla e far sì che il duello col male e la morte sia condotto a termine (1 Corinzi, 15, 54-57) e «Dio sia tutto in tutti» (15, 28). Alla meta della storia il cristianesimo pone la Pasqua universale umana e cosmica. Essa è stata inaugurata da Cristo con la sua sofferenza, morte e Pasqua. Allora si compirà quello che l'Apocalisse delinea nel suo affresco della Gerusalemme nuova e perfetta: «Non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate» (21, 4). Mentre cammina nella storia, il cristiano non ignora il male e il dolore ma sa che in esso Dio - attraverso l'incarnazione del Figlio suo - ha deposto un seme di eternità e di salvezza che cresce silenzioso, per diventare «stelo, spiga e chicco pieno di spiga» (Marco, 4, 28). Noi, però, vorremmo ora - molto più modestamente - indicare due conclusioni sulla base delle considerazioni finora sviluppate, pur consapevoli comunque del mistero che la sofferenza coinvolge. Eschilo nei Persiani pone l'eterna domanda che sale dal respiro di dolore dell'umanità: «Io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell'ombra chi mi ascolterà?» (v. 635). La prima considerazione vuole porre l'accento sulla simbolicità del dolore. Come è noto, il termine «simbolo» deriva dal greco syn-ballein, cioè «mettere insieme»: è il tentativo di unire in sé più significati nella stessa realtà. Ebbene, la sofferenza è di sua natura simbolica; è, come dice il titolo di una suggestiva opera autobiografica della scrittrice americana Susan Sonntag, la metafora di un'esperienza più alta (Illness as metaphor, 1978). È indice di un «male oscuro» e radicale, per usare il titolo di un romanzo del nostro Giuseppe Berto (1964). Kafka nei suoi Diari annotava: «Sono arrivato alla convinzione che la tubercolosi non sia una malattia particolare, un male degno di questo nome, ma soltanto una maggiore intensità del germe generale della morte, la mia ferita, della quale la lesione ai polmoni è solo un simbolo». Similmente, anche se con maggior enfasi, Gabriele D'Annunzio nel suo Libro segreto (1935) dichiarava: «So che le cause del mio male sono nell'oscurità del mio spirito che a poco a poco io rischiaro guarendomi. V'è, se io sono infermo, un fallo di armonia non solo nella mia carcassa ma nella mia anima. Ho in mente che qualcuno abbia considerato la malattia come un problema musicale. Ma forse son io quegli». La sofferenza non è mai solo fisica, ma coinvolge «simbolicamente» corporeità e spiritualità, la «carcassa» e l'«anima». Essa può contemporaneamente generare disperazione e speranza, tenebra e luce; può essere distruzione e purificazione; riduce alla bestialità ma può anche trasfigurare, «distillando» come in un crogiuolo le capacità più alte, divenendo luminosità interiore e catarsi. Il grande mistico medievale Meister Eckhart (1260 ca.-1327) affermava che «nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell'aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l'anima più dell'aver sofferto». Proprio per questa dimensione simbolica del soffrire umano, l'approccio nei confronti del malato e del sofferente in genere non può essere parziale. Da un lato, è indubbia la necessità della terapia medica: dopo tutto, quasi metà del Vangelo di Marco è un racconto di guarigioni operate da Cristo al punto tale che un teologo, René Latourelle, ha scritto che «i Vangeli senza miracoli di guarigione sono come l'Amleto di Shakespeare senza il principe». D'altro lato, la pura biologicità e la tecnica asettica sono insufficienti ed esigono un incontro, un dialogo, un supplemento di umanità. Mai come nel dolore ci si accorge di non «avere» un corpo ma di «essere» un corpo che è segno di una realtà interiore più profonda. Sono suggestive dal punto di vista simbolico le citate narrazioni evangeliche delle guarigioni dei lebbrosi: come si diceva, contravvenendo tutti i divieti rituali e sanitari del tempo, Gesù «li tocca» e con questo gesto vuole quasi assumere su di sé il male, condividendone il peso e l'amarezza. Mai come nel dolore l'uomo s'accorge della falsità delle parole di conforto dette in modo estrinseco e senza autentica partecipazione. Anzi, il malato scopre che, alla fine, egli rimane solo col suo male. È lo stesso Giobbe a descrivere in modo pittoresco e persino barocco questo isolamento quando scopre che «a mia moglie ripugna il mio alito, faccio schifo ai figli del mio ventre» (19, 17). Nel tempo del dolore la verità non riesce a patire contraffazioni. È, allora, in questo momento che deve scattare una specie di alleanza tra paziente e medico - infermiere, parente, assistente, cappellano e così via - tra chi soffre e chi lo vuole sostenere. È questa la seconda considerazione che vogliamo proporre. Nel racconto biblico della creazione della donna si dichiara che l'uomo supera la sua solitudine solo quando trova «un aiuto che stia di fronte» (ke-negdô), che sappia quindi avere gli occhi negli occhi dell'altro, che non troneggi sopra la creatura come una divinità ma che non sia neppure inferiore e inetto come un animale. Questa solidarietà è difficile da creare ma è indispensabile. La conoscenza tra chi cura e chi è curato dev'essere meno fredda e distaccata di quanto spesso accade: dev'essere fatta di comunicazione genuina, di dialogo, di ascolto, di verità detta con partecipazione. Il sofferente deve sentirsi rispettato anche nel momento della debolezza, quando il pianto inonda le sue guance ed è noto che esiste sempre un pudore nel mostrare le lacrime. Dev'essere aiutato a liberarsi dei condizionamenti di una cultura della «forza», di un «maschilismo» vanamente eroico e ad accettarsi anche nel tempo della prova, come affermava Baudelaire: «Signore, la migliore testimonianza che noi possiamo dare della nostra dignità è questo ardente singhiozzo che rotola di età in età e viene a morire ai bordi della tua eternità». Anche Cristo di fronte alla notte della passione implora di essere liberato dal calice della sofferenza (Marco, 14, 36) e confessa di avere «l'anima triste fino alla morte» (Marco, 14, 34), scoprendo però con amarezza di non avere accanto la solidarietà affettuosa dei suoi discepoli: «Così non siete stati capaci di vegliare una sola ora con me?» (Matteo, 26, 40). Bisogna, allora, ribadire una parola tanto abusata ed equivocata, la cui vera declinazione nell'esistenza è sempre ardua, cioè l'amore. Solo se circondato d'amore, il malato riesce ad accettarsi e a superare anche il pudore che è la consapevolezza - come affermava il filosofo Max Scheler - di «un certo squilibrio, di una certa disarmonia tra il significato e le esigenze della sua persona spirituale, da una parte, e i suoi bisogni corporei, dall'altra». In questa luce ci sembra suggestiva una parabola che vorremmo porre a suggello di queste riflessioni molto limitate su un orizzonte immenso e incandescente, incapaci di fissare in un profilo sintetico il volto proteiforme del male. Anche per il credente, il dolore rimane una cittadella il cui centro non può essere completamente espugnato. Come diceva il poeta cattolico francese Paul Claudel, «Dio non è venuto a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza». A questo proposito ci affidiamo a una figura «laica» come lo scrittore Ennio Flaiano (1910-1972). A lui era nata nel 1942 una figlia, Luisa, che già a otto anni aveva iniziato a rivelare un'encefalopatia epilettoide e che è vissuta fino al 1992, curata amorosamente dalla madre, Rosetta Flaiano. Ebbene, lo scrittore abruzzese nel 1960 aveva pensato a un romanzo-film di cui è rimasto solo l'abbozzo. In esso si immaginava il ritorno di Gesù sulla terra, infastidito da giornalisti e fotoreporter ma, come un tempo, attento solo agli ultimi e ai malati. Ed ecco, «un uomo condusse a Gesù la figlia malata e gli disse: io non voglio che tu la guarisca ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest'uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli». La scena, come è evidente, si carica di tutta la tenerezza che, con pudore e amore, lo scrittore aveva riversato sulla sua creatura sofferente. In quell'uomo Flaiano vedeva se stesso che s'accostava a Gesù per chiedere non il prodigio ma il dono altissimo della condivisione e della comunione nella sofferenza. E forse, quando in una notte terribile dovette ricoverare la figlia tormentata dagli «orribili assalti del male che la torcevano e la irrigidivano, con una mano tesa verso l'alto», Flaiano padre implorò quel bacio sulla sua figlia, un bacio che certamente non fu negato.


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