DON ANTONIO

domenica 25 settembre 2011

14.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

I. IL MISTERO DELL'INFERNO.
Si tratta qui del mistero del doppio disordine del peccato, che continua ad
essere liberamente voluto, nonostante la duplice sanzione che trascina con
sé.
I. DIO È RESPONSABILE DELL'INFERNO?
I) E' evidente che tutto quanto vi è nell'inferno di ricchezze e di splendori
ontologici, le nature incorruttibili degli angeli, le anime spirituali degli
uomini, e, più tardi, i loro corpi risuscitati; tutto ciò che vi è inoltre di
positività antologica nel desiderio naturale del reprobi verso la felicità, e
persino nella loro incessante attività intelligente e libera, ha un'origine
suprema in Dio: tutto ciò è il risultato del dono iniziale e non suscettibile
di pentimento della Sua misericordia che Lo spinge a creare tutte le cose,
il mondo materiale, gli angeli, l'uomo, non per annientarli, ma per
sostenerli con la Sua provvidenza, nel loro essere e nel loro agire (2).
E' evidente d'altra parte che tutto. ciò che vi è nell'inferno di male del
peccato, di rivolta, d'orgoglio, di bestemmia non può essere “un elemento
strumentale dell'universo”, non può risalire in alcun modo a Dio, né
direttamente né indirettamente.

2) Ma che cosa pensare del male della pena del reprobi, del male della
sofferenza, inseparabile dalla loro rivolta? Dio ne è forse la causa? Egli ne
è causa in quanto vu6le e non può non volere ciò contro cui i reprobi
urtano per la loro colpa volontaria e permanente. Perché cessasse
l'insolubile conflitto in cui li mantiene la loro ribellione, e perché fosse
lasciato loro campo libero, bisognerebbe che scomparisse il duplice
ostacolo contro il quale si infrangono, cioè Dio e l'ordine della creazione;
bisognerebbe che Dio, da una parte, Si rinnegasse distruggendo Se stesso,
e, da un'altra, rinnegasse il decreto per mezzo del quale ha impresso un
ordine all'universo. Quando si parla della santa giustizia di Dio che si
oppone al male, non si può indicare altro Ce bisognerebbe pur
ricordarsene) che il duplice amore, uno necessario, per il quale esso non
può non volere se stesso, l'altro libero, per il quale, avendo decretato il
mondo nella sua saggezza, non gli è possibile disdirsi. "Non punire il
dannato significherebbe per Dio accettare quell'affermazione di sé contro
di Lui, che è il peccato stesso” (3).

3) Dio è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Gv.,
I, 9); nelle tenebre ci sono soltanto coloro che Gli chiudono l'accesso nel
loro cuore: così come l'uomo che chiude le imposte si mette nell'oscurità.
Tuttavia, come san Tommaso ci ha fatto osservare (4), c'è una differenza:
quando l'uomo chiude le imposte, si produce l'oscurità senza che il sole
abbia reagito, ma quando egli chiude il suo cuore a Dio, Dio ritrae da lui
liberamente il raggio della Sua grazia.
Accade della pena come del peccato: io mi fiacco contro il muro, senza
che il muro abbia potuto reagire liberamente; ma quando il peccatore si
erge contro Dio, Dio, che è un agente libero, reagisce liberamente contro il
peccatore, abbandona il peccatore, lo esilia dal Suo amore. Come spiegare
questa misteriosa azione di contraccambio? Bisogna capire che “rifiutare
di amare significa rifiutare di essere amato; e rifiutare di essere amato,
significa escludere se stesso dall'amore che era stato proposto”. Allora il
raggio d'amore che veniva liberamente incontro a noi viene ritirato dal suo
Autore. L'amore di amicizia “è reciproco... Non si può respingere l'amore
senza essere respinto da lui... La: dannazione è prima di tutto questa
esclusione dall'amore di Dio, il cui principio è il rifiuto di essere amato da
Dio. Ciò non significa... che da parte di Dio essa sia una pura
constatazione del rifiuto opposto dal peccatore. Dio respinge colui che Lo
respinge ed in questo modo lo condanna” (5).

4) Si vede così in che senso totalmente indiretto il male della pena può
essere voluto da Dio (6), permesso da Lui. Non è il primo Amore, come ha
detto il Poeta, ma è prima di tutto la rivolta contro il primo Amore e la Sua
opera che ha fatto l'inferno (7). Il primo Amore, respinto, Si ritira.
Si vede pure che cosa si può rispondere alla domanda: se il male è
permesso e sopportato per qualche grande bene, per quale grande bene è
permesso il male della pena, da quale grande bene è giustificato? Dovremo
rispondere: è la rivolta contro quel bene che è la santità infinita di Dio, che
trascina la pena detta della dannazione; è la rivolta contro quel bene che è
la santità finita della creazione, che trascina la pena detta del senso (8).

2. CARICATURE DELL'INFERNO
E' assurdo, è basso, è odioso pensare che Dio possa compiacersi della
sofferenza dell'inferno, che possa cercare e trovare nella vendetta un modo
per soddisfare la Sua giustizia; eppure c'è forse, a proposito dell'inferno,
una bestemmia più diffusa?

a) La punizione-vendetta.
Anche da un punto di vista puramente filosofico, la giustificazione delle
sanzioni per mezzo della teoria della punizione-vendetta, è inaccettabile;
essa non offre che una pseudo-spiegazione antropomorfica ed irrazionale.
Secondo tale teoria, scrive Jacques Maritain, “la pena è essenzialmente
una reazione, ed una reazione arbitraria o puramente volontaria, intendo
dire determinata unicamente dal libero decreto di colui che l'infligge (caso
della punizione umana, della punizione della legge positiva; pene
discrezionali, che sono alla discrezione del legislatore). E soprattutto,
secondo quella teoria, la pena tende prima di tutto al male da produrre in
colui che è punito. E' come se la sofferenza e la miseria del colpevole
desse soddisfazione alla natura o agli dèi. Una forza superiore godrebbe
del piacere della vendetta dopo l'offesa. Una teoria simile non è soltanto
antropomorfica. L'esempio umano sul quale essa si fonda, cioè la vendetta,
è precisamente qualche cosa di illecito e di cattivo. San Tommaso (II-II, q.
108, a. 1), spiega che la vendetta, in quanto mira specialmente al male da
infliggere all'offensore e si acquieta in questo male, è assolutamente
illecita ed inescusabile, è un peccato che risponde ad un altro peccato. La
vindicatio non può essere lecita (aliis debitis circumstantiis servatis) se
non quando l'intenzione dell'agente mira principalmente al bene di cui la
pena inflitta al colpevole è il mezzo, per esempio il suo emendamento o la
protezione degli altri o il mantenimento della giustizia. Justitiae
conservationem: dunque la giustizia della punizione è di per sé altra cosa
che la vendetta, come è di per sé altra cosa che un rimedio. La teoria, o
piuttosto l'idea confusa, il fantasma della punizione-vendetta, non fa altro
che porre del problemi ed aggravare la problematica della sanzione. Se la
morte dell'assassino dovesse restituire la vita alla sua vittima, si
comprenderebbe che essa compensi in qualche modo la morte di questa.
Ma no, si aggiunge soltanto la morte alla morte, la sofferenza alla
sofferenza. Che gioia c'è nella sofferenza degli uomini, nel male aggiunto
al male? E qual è il soggetto che potrebbe godere di questa addizione del
male al male, qual è la forza alla quale si dovrebbe questo raddoppiamento
del male? La natura? Essa se ne ride. Dio? Egli non si compiace del male.
L'ordine delle cose? Esso non prova né piacere né dispiacere. La
punizione-vendetta é una caricatura. Ci deve essere un'altra teoria più
profonda, più ontologica..” (9).

b) Berdiaev.
In Berdiaev troviamo del tocchi straordinariamente lucidi e penetranti
quando vede nell'idea religiosa dell'inferno “una profonda affermazione
dell'essere personale” (10), e quando ricollega quest'idea al mistero della
libertà umana: “L'uomo è libero di scegliere i tormenti fuori di Dio invece
della beatitudine in Dio; egli ha, in un certo senso, diritto all'inferno.
Orbene l'inferno è l'impossibilità di amare Dio, a causa di un certo
orientamento della libertà umana, in seguito ad un allontanamento da Dio
e ad una separazione da Lui, ad un isolamento in sé” (11). “Se si afferma
sistematicamente la personalità e la libertà, da ciò si arriva alla possibilità
dell'inferno. E' facile superare l'idea dell'inferno, ma allora la personalità e
la libertà ci sarebbero tolte” (12).
Ma egli neutralizza tosto e distrugge la portata di quelle osservazioni:
“D'altra parte - egli dice - la nostra personalità e la nostra libertà non
possono conciliarsi con i supplizi eterni... E' ancora possibile ammetterli
dal punto di vista dell'uomo, ma è impossibile ammetterli dal punto di
vista di Dio” (13). In conclusione l'inferno per lui non è altro che un mito,
nato dalla semplice esperienza che facciamo quaggiù della sofferenza: “Il
concetto delle pene eterne nacque dall'esperienza, in virtù della quale ogni
sofferenza già provata durante la vita ci pare che si eternizzi. Del tormenti
che non fossero eterni non sarebbero le pene dell'inferno. L'inferno è
precisamente quell'infinito, quell'ignoranza della fine, quell'eternità di una
sofferenza contenuta in un solo istante, e non nella sua perpetuazione”
(14). Egli scherza, quando si serve dell'Inferno di Dante per accusare il
cristianesimo di “riportare la vita spirituale a sfere naturalistiche” (15).
Egli si acceca e se la: prende con il Vangelo, quando dichiara che “la
dottrina delle sanzioni postume non è altro che il prodotto dell'epoca
barbara e crudele che vedeva una giustizia sulla terra nell'affermazione del
supplizi, delle torture e del castighi” (16). Tutta la dottrina cristiana
dell'escatologia, d'altra parte, è travolta dalla marea del suo gnosticismo
(17).

c) Le difficoltà di Ivan Karamazov (18).
I) “Alioscia, non bestemmio. Capisco come trasalirà l'universo, quando il
cielo e la terra si uniranno nello stesso grido di allegrezza, quando tutto ciò
che vive o ha vissuto esclamerà: " Hai ragione, Signore, poiché le Tue vie
ci vengono rivelate!"”. Eppure Ivan di questa armonia eterna non ne vuole
sapere.
Anche se è invitato, rifiuterà per amore dell'umanità: “L'entrata è troppo
cara per noi. Preferisco restituire il mio biglietto d'ingresso... Non mi
rifiuto di ammettere Dio, ma molto rispettosamente Gli restituisco il mio
biglietto”. “Ma questa è ribellione - disse dolcemente Alioscia, con gli
occhi bassi”. Alioscia ha ragione. Sta forse a noi, tratti dal nulla dalla
bontà divina, fissare le condizioni di questo viaggio, la cui meta è “ciò che
l'occhio non ha visto, ciò che l'orecchio non ha udito, ciò che non è salito
al cuore dell'uomo?”. Tenendo conto di tale meta, l'Apostolo poteva dire:
“Penso che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla
gloria che deve rivelarsi in noi” (Rom., VIII, 18).
Ivan non accetta di essere considerato un ribelle: “Si può forse vivere
ribelli? Ebbene, io voglio vivere”. Egli vuole avere ragione contro Dio:
“Immagina - dice ad Alioscia - che i destini dell'umanità siano nelle nostre
mani e che per rendere definitivamente felici gli uomini, per procurare
loro finalmente la pace ed il riposo, sia indispensabile mettere alla tortura
anche soltanto un piccolo essere, il bambino che si colpiva il petto con il
suo piccolo pugno, e di fondare la futura felicità sulle sue lacrime.
Accetteresti in tali condizioni di creare una simile felicità? Rispondi
sinceramente”. “No, non accetterei”, disse Alioscia. Ed anche qui, egli ha
ragione. I. Dio ci ha creati in una condizione di armonia in cui non
esistevano né la sofferenza, né la morte. Il. Se ci avesse creati lasciandoci
allo stato di natura, la sofferenza e la morte non ci avrebbero risparmiati,
ma anche in tal caso la felicità finale del giusti si sarebbe fondata sulla
fedeltà del loro cuori, non sulla sofferenza o l'ingiustizia. Come pensare,
senza bestemmiare, che, poiché esiste quella felicità, sia indispensabile
che venga messo alla tortura un solo essere, ch'essa debba e possa fondarsi
sulle lacrime di un bambino?
Ma “che cosa vale un'armonia che comporta un inferno?” Questa
domanda di Ivan è diretta in pieno contro quelli soltanto che tentano di
giustificare la sofferenza umana dicendo che è richiesta perché l'ordine
universale del cosmo proceda regolarmente (19), oppure che vedono
nell'inferno “un elemento strutturale dell'universo” (20).
Ivan capisce benissimo “la solidarietà del peccato e del castigo”. Egli
pensa anzi che vi siano del peccati che nessuno ha il diritto di perdonare.
All'uccisore di suo figlio, la madre può perdonare “le sue sofferenze di
madre, ma non ciò che ha sofferto suo figlio, sbranato dai cani.
Quand'anche suo figlio perdonasse, ella non ne avrebbe il diritto”. Ma se
la madre non può perdonare, come ritroverà la pace? Ella è nel
risentimento, è infelice, non vi è cielo per lei, ella è, a sua volta, in inferno.
“Se non esiste il diritto di perdonare che cosa diventa l'armonia?”. Il
sofisma è evidente. In questo mondo come nell'altro, sarebbe forse
richiesto alla madre di vedere nella tortura di suo figlio, altro che un
abominevole peccato? No: agli occhi degli uomini, degli angeli e di Dio, il
peccato è eternamente meritevole di odio. Ma può ella desiderare che
l'uccisore veda improvvisamente il proprio delitto, supplicare che il suo
cuore sia cambiato, perché il suo peccato gli diventi odioso, come a Dio?
Perdonare consiste in questo, consiste nell'accordarsi a Dio fino a questo
punto. Con la grazia divina ogni uomo può così, deve così perdonare. Dio,
Sorgente del perdono, può concedere ci di perdonare (ma il peccatore
potrà rifiutare il perdono). E' la risposta di Alioscia: “Hai chiesto se esiste
nel mondo intero un essere che abbia il diritto di perdonare. Sì, questo
essere esiste. Egli può perdonare tutti e tutto, poiché è Lui che ha versato il
Suo sangue innocente per tutti e per tutto” (21). Dio solo infatti, ha il
diritto supremo di perdonare, poiché è prima di tutto contro di Lui che si
erge il peccato, è prima di tutto Lui che è offeso. Tibi soli peccavi et
malum coram Te feci.
Come gli eletti, ricordandosi del loro peccati, potranno non detestarli? Ed
allora come potrebbero essere felici? La risposta è questa: le condizioni di
vita saranno cambiate: “L'orrore del peccato è accompagnato dal dolore in
coloro che sono suscettibili di dolore, come l'uomo quaggiù. Ma nell'altra
vita, i santi non sono più accessibili al dolore: i loro peccati passati
dispiacciono loro, essi li disapprovano, senza che vi sia in essi ombra di
tristezza, secondo quanto è detto da Isaia (LXV, 16): Sono dimenticate le
angosce passate” (22). Essi guarderanno il male, l'inferno stesso, con gli
occhi di Dio, la loro volontà non sarà diversa dalla volontà di Dio. Ma
queste concezioni sono superiori a noi.

2) Più tardi Alioscia noterà i pensieri del capo-villaggio Zosimo
sull'inferno: .
“Miei Padri, mi chiedo: Che cos'è l'inferno? Io lo definisco così: La
sofferenza di non potere più amare” (23).
La vita terrestre, limitata nel tempo, è offerta ad un essere spirituale,
perché possa far dono del suo amore. Orbene questo essere “ha respinto
questo dono inestimabile, non lo ha apprezzato né amato, lo ha
considerato ironicamente, vi è rimasto insensibile...”.
“Si parla del fuoco dell'inferno in senso letterale; io ho paura di sondare
questo mistero, ma penso che se anche vi fossero delle vere fiamme, i
dannati godrebbero, perché dimenticherebbero, fra i tormenti fisici, non
fosse che per un solo istante, la più orribile tortura morale.
E' impossibile liberarli da quel tormento, poiché è dentro di loro, non
all'esterno...”.
“...Essi si nutrono del loro orgoglio irritato come un affamato nel deserto
si metterebbe a succhiare il proprio sangue. Ma sono insaziabili nei secoli
del secoli e respingono il perdono; maledicono Dio... e vorrebbero che Dio
si annientasse, Lui e tutta la Sua creazione... Hanno sete della morte e del
nulla, ma la morte li fuggirà” (24).

3. COLPA PASSEGGERA, PENA ETERNA?
Dio, nella Sua bontà infinita, poteva creare o non creare, creare qualunque
mondo peggiore o migliore. Poteva creare le creature libere nello stato
finale o nello stato di passaggio. Egli ha scelto (abbiamo tentato di dire
perché) il secondo partito. In noi come negli angeli, lo stato di passaggio
termina con lo stato finale, tanto per i buoni quanto per i cattivi.

a) Passaggio dal tempo all'eternità.
I) Considerata soltanto dal punto di vista della riflessione filosofica, per
chi ha colto profondamente che cos'è l'uomo nella sua unità indivisibile di
spirito e di corpo, di ragione e di senso, la morte appare come uno
scandalo tale, e costituisce uno spostamento della nostra sostanza a tal
punto, che è verosimile che mettendo un punto finale al primo
regolamento della nostra attività, essa ci introduca in qualche condizione
nuova, definitiva, vicina a quella che la teologia chiama lo stato finale. Chi
negherà che alla morte i giochi sembrino essere fatti?
Nello stesso tempo pare che s'interponga un'altra certezza che riguarda la
condizione dell'anima. I valori spirituali accumulati in essa durante il suo
pellegrinaggio (siano essi luminosi, collegati con le beatitudini del
Sermone della Montagna, quali la povertà in ispirito, la dolcezza nelle
tribolazioni, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di
cuore, la pace del cielo; oppure siano essi, al contrario, tenebrosi, collegati
all'orgoglio, alla rivolta, all'odio) non possono essere raggiunti in se stessi
dal tocco della morte; ne consegue dunque che l'anima li porta con sé
come un'eterna eredità di felicità o di miseria.

2) La Scrittura è piena di avvertimenti sul risultato irrevocabile di questo
viaggio che non facciamo che una volta sola. Essa non tralascia di
insistere sulla brevità della nostra vita e sulla fatalità della posta: “Non
temete nulla da coloro che uccidono il corpo ma che non possono uccidere
l'anima; temete piuttosto Colui che può perdere nella Geenna nello stesso
tempo l'anima ed il corpo” (Mt., X, 28); “Se la tua mano o il tuo piede
sono per te occasione di peccato, tagliali e gettali lontano da te: è meglio
per te entrare nella vita monco o storpio piuttosto che essere gettato con
ambedue le mani e i tuoi piedi nel fuoco eterno” (Mt., XVIII, 8). Gli stessi
richiami troviamo nell'Apostolo: “lo penso che le sofferenze del tempo
non sono paragonabili alla gloria che si deve rivelare in noi” (Rom., VIII,
18); “La lieve tribolazione di un momento ci prepara, al di là di ogni
misura, un peso eterno di gloria; perciò non guardiamo verso le cose
visibili, ma verso le invisibili; poiché le cose visibili sono passeggere, le
invisibili sono eterne” (II Cor., IV, 17-18); “Non ingannatevi, non ci si fa
gioco di Dio. Ciò che un uomo avrà seminato, lo raccoglierà; chi semina
nella carne, raccoglie nella carne la corruzione; chi semina nello spirito,
raccoglierà nello spirito la vita eterna” (Gal., VI, 7-8); “Pensateci bene:
chi semina con parsimonia, raccoglierà con parsimonia; chi semina
abbondantemente, raccoglierà abbondantemente” (Il Cor., IX, 6); “E' una
cosa terribile cadere nelle mani del Dia vivente” (Ebr., X, 31).

b) L'eternità incomincia quaggiù.
Il primo dato della Scrittura è questo: c'è un passaggio dal provvisorio al
definitivo, dal tempo all'eternità. E, senza dubbio, infinita è la
sproporzione tra la durata dello stato di passaggio e quella dello stato
finale, cosicché se si dovesse ricercare la giustizia in un'uguaglianza di
durata, non ci sarebbe giustizia possibile, né per i buoni né per i cattivi, nel
loro passaggio dallo stato presente allo stato futuro. Ma, e questo è l'altro
insegnamento della Scrittura, vi è nel tempo una seminagione ed una
germinazione di ciò che fruttifica nell'eternità. Di conseguenza, fra i due
stati, non può esserci eterogeneità. Si tratta invece della continuità d'una
medesima vita, in un primo tempo inaugurata sotto il velo delle cose
sensibili, e, più tardi, rivelata nel suo epilogo. La sostanza stessa della vita
eterna è gettata, infatti, come semente nella durata del tempo. Di
conseguenza, la grazia, - per mezzo della quale diventiamo “partecipi della
natura divina” (Il Petr., I, 4), e che è offerta a tutti (poiché Dio, nostro
Salvatore, vuole “che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla
conoscenza della verità”) (I Tim., II, 3-4) è ineluttabilmente o accolta o
disprezzata da parte nostra fin da quaggiù; fin da quaggiù si prendono le
supreme decisioni o con la luce o contro la luce delle premure divine; fin
da quaggiù dunque, nelle profondità di ciascuna anima, s'insediano le
realtà ultime del cielo o dell'inferno: “In verità vi dico, colui che crede ha
la vita eterna” (Gv., VI, 47); “Miei carissimi, fin d'ora siamo figli di Dio, e
ciò che noi saremo non è ancora stato rivelato; sappiamo che quando
questa rivelazione sarà fatta, noi saremo simili a Lui, perché Lo vedremo
quale Egli è” (I Gv., III, 2); “Chi crede (nel Figlio di Dio), non è
condannato; chi non crede è già condannato... E il giudizio, eccolo: la luce
è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce,
perché le loro opere erano cattive” (Gv., III, 18-19). Il Vangelo ci rivela
(come nessuna profezia lo aveva fatto prima) la dignità spaventosa di
questa povera vita, che passa come l'erba del campi (Isaia, XL, 6), la sua
terribile ambivalenza, la sua inconcepibile potenza nel bene o nel male,
che stupirà ciascuno nell'ora del giudizio: “Gli eletti - diceva Pascal
commentando il Vangelo - ignoreranno le loro virtù, ed i reprobi la
grandezza delle loro colpe: Signore, quando Ti abbiamo veduto avere
fame, sete, ecc.?” (Mt., XXV, 37 e 44) (25). Giuliano Green gli fa eco: “I
vostri peccati non sono nulla in se stessi, ma diventano grandi allorquando
vi strappano il cielo, e siete voi che date ad essi quel potere per il fatto
medesimo che siete grandi voi pure. Se non foste così grandi, non vi
potreste dannare” (26).

c) La vertigine dell'al di là e la trasmigrazione.
Benché l'idea indiana della trasmigrazione urti con dati filosofici
fondamentali negando l'unità sostanziale dell'uomo, che non può essere
ridotto né ad angelo né a bestia, e negando il fatto che l'anima e la
personalità sono inseparabili (tale anima, tale personalità; tale personalità,
tale anima), come può accadere tuttavia che una simile)dea “rimanga una
tentazione permanente per la coscienza religiosa dell'umanità? Perché
quella tentazione di metempsicosi?”. “Secondo me - risponde Jacques
Maritain - essa risulta dal contrasto che esiste fra l'idea di retribuzione
degli atti umani e l'idea della brevità e della miseria, dell'inconsistenza e
della follia della vita umana. Com'è possibile che una disgraziata vita di
uomo, con tutta la sua poca importanza, i suoi accecamenti, le sue miserie,
sfoci di colpo nell'eternità? Com'è. possibile che una retribuzione eterna,
un fine eterno ed immutabile sia stabilito per noi in virtù del buoni o
cattivi movimenti di un libero arbitrio così debole e bizzarro, così
addormentato come il nostro? E' troppo grande la sproporzione fra il fine
ed i mezzi. Immagino che il pensiero dell'India sia stato colto da
scoraggiamento e da terrore di fronte ad una simile prospettiva, e che si sia
ripiegato, per così dire, sull’infinità del tempo, come se una serie di nuove
vite offerte alla medesima anima avesse la possibilità di attenuare la
sproporzione di cui ho parlato fra la precarietà del viaggio e l'importanza
della meta” (27). “Sì, senza dubbio continua l'autore - allora non c'è più
né fine né meta. Lo spirito si trova davanti all’orrore delle reincarnazioni
senza fine. La stessa legge della trasmigrazione diventa una legge terribile,
intollerabile, di nuove sofferenze, di nuove prove e di nuove pene
incessantemente affrontate in mezzo ad un sorgere perpetuo di apparenze
evanescenti e torturanti...” (28).

Dove cercare la soluzione? Non nella “ricerca dell'immortalità attraverso
ad un movimento orizzontale lungo tutto il tempo, senza fine”; ma nel
“compimento verticale dell'immortalità attraverso al godimento di un fine
ultimo ed infinito”. Qui compare la concezione giudaico-cristiana. Ciò che
la rende possibile, “non è soltanto un vero apprezzamento della relazione
fra il tempo e l'eternità: allungate il tempo finché vorrete, aggiungete gli
anni agli anni, sovrapponete le vite alle vite, il tempo resterà sempre senza
una misura comune con l'eternità... Ma ciò che rende possibile la soluzione
giudaicocristiana, è anche e soprattutto il fatto che la filosofia del fine
ultimo vi è contenuta in tutto l'insieme delle verità e del misteri della


rivelazione divina. Cerchiamo di comprendere che Dio è personale, che
Egli è la Vita e la Verità e l'Amore in persona; di comprendere che esiste
un ordine soprannaturale, e che il più piccolo grado di grazia, cioè di
partecipazione alla vita intima di Dio, vale più di tutto lo splendore di
quest'universo stellato; di comprendere che Dio Si è incarnato nel seno di
una vergine di Israele per morire per l'umanità e per infondere in noi la
vita del Suo stesso sangue; di comprendere che le libere iniziative, le
risorse, la pazienza e l'ingegnosità della misericordia di Dio sono
infinitamente maggiori della debolezza o della cattiveria del nostro libero
arbitrio umano. Allora comprenderemo che la sproporzione fra la
precarietà del viaggio e l'importanza della meta, sulla quale insistevo poco
fa, è in realtà compensata, e compensata con eccesso e sovrabbondanza,
dalla generosità e dall'umanità (XXX), come dice san Paolo, del nostro
Dio Salvatore. L'uomo infatti non si salva da sé, né per suo proprio potere.
E' Dio ed il Cristo che salvano l'uomo con il potere della croce e della
grazia divina, e con la fede e la carità, che fruttificano in opere buone))
(29).

d) La decisione dell'uomo è presa “nella sua eternità”.
Riflettendo sulla precarietà delle nostre decisioni e sull'eternità delle loro
sanzioni, non sentiamo, è vero, sorgere obiezioni quando si tratta d'un
risultato felice e della beatitudine degli eletti. Ma se incominciamo a
pensare all'eternità dell'inferno, tosto ci coglie una vertigine. Eppure le
condizioni, da una parte e dall'altra, non sono diverse. Alla vita eterna che
gli è proposta quaggiù, l'uomo, non v'è dubbio, risponde in ultima istanza
ed in modo supremo con un sì o con un no che rivelano ciò che c'è di più
segreto e di più nascosto in fondo a lui, fino al suo incosciente; essi
dipendono meno da ciò che egli esprime di sé, sia agli altri sia a se stesso,
meno da ciò che egli pensa di sé e crede di essere ai suoi propri occhi che
da ciò che egli è veramente davanti a Dio, la cui “parola, efficace e più
incisiva di qualunque spada a due tagli, penetra fino al punto di divisione
fra l'anima e lo spirito e le articolazioni e le midolla, per giudicare i
sentimenti ed i pensieri del cuore; nessuna creatura, infatti, è nascosta a
quella parola, tutte le cose sono nude e scoperte agli occhi di Colui al
quale dobbiamo rendere del conti” (Ebr., IV, 12-13).
San Tommaso, riguardo ad un'osservazione di san Gregorio Magno,
secondo il quale il peccatore impenitente vorrebbe eternare la sua colpa
(30), ha una chiosa assai profonda: “Colui - egli dice - che nella sua
propria eternità (in suo aeterno) pecca contro Dio, sarà punito nell'eternità
di Dio (in aeterno Del). E l'uomo pecca nella sua propria eternità non
soltanto con la continuazione di un medesimo atto durante tutta la sua vita;
ma, per il fatto solo che stabilisce il suo fine nel peccato, la sua volontà è
di peccare eternamente” (31).

e) La pazienza di Dio.
Soprattutto non immaginiamo che Dio spii le nostre debolezze, che possa
provare una gioia nel coglierei, se così si osasse dire, come un traditore,
aspettando al varco il momento preciso del nostri rinnegamenti. Sotto le
leggi della contingenza, che agiscono indistintamente per tutti, sotto il sole
che sorge indifferentemente sui buoni e sui cattivi e sotto la pioggia che
cade sui giusti e sugli ingiusti (Mt., V, 45), la Sua sollecitudine segue
silenziosamente ed amorosamente i figli degli uomini, ciascuno del quali
vale più di una moltitudine di passeri (Mt., X, 31). Egli bussa con
insistenza alla porta di ciascuna anima (Apoc., III, 20); non è un Padrone
che viene a raccogliere dove non ha seminato (Mt., XXV, 26); chiede
cinque dove ha dato cinque, due dove ha dato due, un talento dove non ne
ha imprestato che uno, per introdurre allo stesso modo quegli umili
servitori, incaricati di ben piccole cose, nella stessa indicibile gioia del
loro Signore.
Come non tremare? Ma come non sperare? Teme con confianza, dice san
Giovanni della Croce (32).
Non dimentichiamo, infine, che, nell'ultimo giorno, ben lungi dal
rimproverare a Dio di non essere stati abbastanza aiutati, i reprobi stessi si
glorieranno della resistenza che avranno opposto agli inviti di Dio.

f) La parabola di Lazzaro e del ricco cattivo.
A questo proposito è opportuno dissipare l'errore per il quale ei
s'immagina che i dannati potrebbero pentirsi. La parabola del ricco cattivo
e del povero Lazzaro (Lc., XVI, 19-31) non deve sviarci a questo riguardo.
Gli esegeti insegnano a cercare, nei racconti drammatici che le parabole
evangeliche ci offrono, ciò che essi chiamano la “punta” del racconto, cioè
il suo disegno, il suo scopo, il suo orientamento. La parabola del ricco
cattivo e del povero Lazzaro ci viene narrata per avvertirei che c'è un
tempo nel quale è possibile ascoltare Mosè ed i profeti, ed un tempo in cui,
ahimè, è troppo tardi per pensarvi. Essa non ha lo scopo di descriverei le
disposizioni interiori del reprobi, né la natura del tormenti dell'inferno, ma
soltanto la loro irremissibilità (33). Se uno solo fra i dannati potesse
provare compassione per i peccatori che quaggiù si perdono, desiderare la
loro conversione, intervenire per allontanate da loro le pene che li
minacciano, egli sarebbe subito trasformato da quell'atto stesso di amore,
ed immediatamente uscirebbe dall'inferno (34).

Non si dica adunque che la colpa è solamente passeggera e la sanzione
eterna: la colpa continua trascinando con sé la sua sanzione.

Se non verrà in mente a nessun reprobo di muovere rimprovero a Dio
della sua rivolta e della sua condanna, nessuno fra gli eletti, da parte sua,
penserà di ringraziarlo come il Fariseo che si gloriava della sua giustizia
(Lc., XVIII, 11-12). Il solo pensiero che potrà salire al loro cuore
nell'ultimo istante sarà quello del pubblicano: “O mio Dio, abbi pietà di
me, che sono peccatore” (Lc., XVIII, 13). E' stata formulata da un giusto,
da un filosofo indiano la preghiera che formulano a loro volta
spontaneamente tutti i giusti: “O mio Dio, Tu sai che non posso sopportare
l'inferno. E io so che non sono degno del paradiso. A quale stratagemma
ricorrere, se non al Tuo perdono?” (35).

4- IL MISTERO DELL'INFERNO ANTICIPATO NEL PECCATO
MORTALE
Non c'è discontinuità sostanziale fra la nostra vita nel tempo e la nostra
vita nell'eternità. Il passaggio dal di qua all'al di là è un passaggio a livello.
Le ricchezze del cielo sono anticipate in quelle della grazia; le privazioni
dell'inferno sono anticipate in quelle del peccato mortale. Chi comprende
il mistero del peccato mortale comprenderà anche il mistero dell'inferno
che lo eternizza.

a) Duplice disordine e duplice pena: l'una infinita, l'altra finita.
I) Peccare significa volere un bene che allontana da Dio: significa
sacrificare l'infinito per il finito, il Creatore per la creatura. Vi è nel
peccato un duplice aspetto: una rottura con Dio, bene in creato ed infinito;
un'impostazione sregolata della volontà su di un bene creato e finito (36).
Il peccatore rompe i rapporti con Dio. Egli interrompe le mozioni della
grazia premurosa che invita in segreto ogni uomo a volgersi verso un Dio
che Si rivela come fine ultimo, al di sopra di tutto ciò che la ragione può
concepire: “Ciò che l'occhio non ha veduto, ciò che l'orecchio non ha
udito, ciò che non è salito al cuore dell'uomo, ecco ciò che Dio ha
preparato per coloro che Lo amano” (l Cor., II, 9). Tale è l'elemento
formale e l'anima del peccato mortale, il suo aspetto più spirituale e più
nascosto, la sua suprema perversità (37).
L'uomo si allontana da Dio per attaccarsi disordinatamente a qualche bene
creato, spirituale o sensibile; ecco l'elemento immediato o “materiale” del
peccato. Un tale attaccamento, infatti, in quanto è sregolato, introduce la
perturbazione in seno all'universo di cui l'uomo è parte componente con
gli angeli e il cosmo. Esso disturba le leggi per mezzo delle quali
l'universo della creazione deve procedere verso i fini che gli sono stati
assegnati da Dio. Ciò che è qui direttamente in causa è il rapporto del
peccatore, non già con il Bene trascendente ed infinito, ma con l'ordine
interno della creazione.

2) Urtando bilateralmente contro un ordine che gli è superiore, il
peccatore si danneggia doppiamente (38).
Alla rivolta contro il Bene trascendente ed infinito (verso la visione beata
del quale lo istradavano gli inviti della grazia) corrisponde la privazione
della visione di quello stesso Bene trascendente ed infinito, cioè una pena
altrettanto infinita in valore: ecco la “pena del danno”. .
Alla rivolta contro l'ordine immanente e finito dell'universo, che è buono
in quanto voluto da Dio, corrisponde una pena finita in valore, che si
chiama, con una figura retorica, con una sineddoche, “pena del senso”
perché giunge fino a riparare l'ordine stesso della natura sensibile, in
proporzione a quanto esso è turbato (39).

b) La ragione dell'eternizzazione della pena.
Colui che si toglie la vista, come Edipo, resta cieco per tutta la vita. Colui
che si toglie la vita scompare per sempre dalla scena del mondo. Non vi è
rimedio possibile, se non per un miracolo della potenza divina. .
Si può dire la stessa cosa nell'ordine della vita soprannaturale. Colui che
distrugge in sé il principio di vita, cioè la grazia e la carità divina, si
precipita in una sventura, di per sé irrimediabile. Ogni ordine, spiega san
Tommaso a questo proposito, deriva dal suo principio; non si partecipa ad
un ordine se non partecipando al suo principio. Orbene, il peccato,
allontanandoci da Dio, distrugge il principio stesso dell'ordine, attraverso
al quale la volontà dell'uomo può tendere al suo fine ultimo, cioè la grazia,
la carità, l'amor di Dio. Di conseguenza, se, prima della morte del
peccatore, Dio non è intervenuto con qualche miracolo della Sua
misericordia, se lascia alla fine il peccatore volere ciò che vuole, se lo
abbandona alle sue proprie vie, mai costui potrà, anzi mai (insistiamo su
questo punto) vorrà riprendersi. Il disastro è di per sé irreparabile. La
duplice pena del peccato mortale, la pena infinita in valore del danno e la
pena finita in valore del senso, sono entrambe, di per sé, senza fine, eterne
nella durata (40).
L'eternità della pena risulta non dalla gravità, ma dalla irremissibilità della
colpa (41).

c) Vuole il dannato essere ciò che è?
I) Abbiamo detto poco fa che il reprobo continua a volere la rivolta che fa
la sua disgrazia. E' possibile che si voglia la disgrazia? No; è sempre un
bene quello che la creatura libera cerca; ma questo bene può essere legato
a qualche grande disordine che farà la sua disgrazia.
San Tommaso cita l'esempio di un uomo imprigionato che, per saziare il
suo desiderio di vendetta, non pensi che ad uccidere il suo nemico e si sazi
dell'odio stesso che lo consuma e lo porta alla disperazione (42).
Kierkegaard oppone alla forma comune e banale della disperazione (cioè
quella dell'uomo che non vuole essere lui stesso e si rifugia in un sogno
compensatore) una forma suprema di disperazione che chiama demoniaca,
per cui l'uomo, invece, si erge contro tutto ciò che non è lui, per cui vuole
essere egli stesso contro tutto l'universo e persino contro Dio, cercando di
infiggersi come una scheggia nel cuore di Dio; oppure, con un altro
paragone, l'uomo si sforza di essere nell'opera divina come quel fatale
refuso cento volte corretto dall'autore, ma che si ripete ostinatamente per
distruggere tutto il senso di un bel poema (43).
Potremmo trarre altre immagini da Nietzsche. “La forza che lo spingeva a
ferirsi - dice Lou Andreas Salomé - era una forma dell'istinto di
conservazione. Non sfuggiva alla sofferenza che tuffandosi tutto intero in
una nuova sofferenza” (44). Nietzsche è quel “Don Giovanni della
conoscenza”, descritto nell'Aurora, che gode delle ricerche e degli intrighi
della conoscenza “finché non gli rimane più nulla da ricercare se non ciò
che c'è di assolutamente doloroso nella sua conoscenza, come l'ubriaco
che finisce per bere dell'assenzio o dell'acquavite. E' per questo che giunge
a desiderare l'inferno (è l'ultima conoscenza che lo seduca ancora”) (45).

2) Il reprobo che vuole un bene collegato con la sua disgrazia,
desidererebbe di non esistere. Sarebbe meglio per lui, egli lo sa, non essere
piuttosto che essere. Il non-essere infatti, in quanto sopprime la)
sofferenza, può prendere l'aspetto di un bene (46). Di qui nasce il lamento
di Giobbe: “Perché non sono morto in seno a mia madre?” (I, II); e la
parola terribile del Salvatore: “Sarebbe stato meglio per quell'uomo non
nascere” (Mt., XXVI, 24).

3) Ma la dignità della creatura sta proprio nel non poter cessare di
esistere. “Socrate - dice ancora Kierkegaard - provava l'immortalità
dell'anima con l'impotenza della malattia dell'anima (il peccato) a
distruggerla come fa la malattia per il corpo. Allo stesso modo si può
dimostrare l'eternità dell'uomo con l'impotenza della disperazione a
distruggere 1'“io”, con questa atroce contraddizione della disperazione.
Senza eternità in noi stessi non potremmo disperare; ma se essa potesse
distruggere l'io, non ci sarebbe neppure più, in tal caso, la disperazione”
(47).
Poiché deve vivere, il reprobo preferisce essere ciò che è, volere ciò che
vuole. Riguardo alla condizione dell'angelo caduto, J. Maritain scrive:
“Egli ha posto la sua beatitudine in se stesso ed a ciò si atterrà a costo di
tutti i dolori dell'inferno che ha accettato in anticipo: egli preferisce infatti
quella beatitudine (la solitudine nella sua propria natura e l'essere
sufficiente a se stesso nel male e nella negazione, e l'orgoglio di poter
imporre una privazione alla volontà antecedente di Dio) alla vera
beatitudine che egli rifiuta e che, dal momento che non ama Dio, non può
più essere beatitudine per lui. Egli ha ciò che ha voluto” (48).


http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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