DON ANTONIO

martedì 13 settembre 2011

CROCE RIVELAZIONE DELL’AMORE. Dio e la sofferenza dell’uomo.

Riflessione sul significato della sofferenza alla luce della croce di Cristo. È un testo assai impegnativo tratto, in forma un po’ abbreviata, da una relazione tenuta dal card. Kasper a un recente convegno sulla teologia della croce.

“Dio è amore”: questa affermazione, tratta dalla prima lettera di Giovanni (3, 8.16), è stata scelta da papa Benedetto XVI come tema della sua prima enciclica. Il documento affida così alla teologia il compito di ripensare e riproporre in modo nuovo il discorso dottrinale su Dio, inserendolo in un’ottica biblica di centrale importanza. La constatazione “Dio è amore” pone una vera e propria sfida. E non solo perché a essa era categoricamente contrario Aristotele, ritenendo che Dio, amato da tutti, non amasse, ma fosse il motore immobile.
L’espressione “Dio è amore” è una sfida anche perché, almeno a partire da Leibniz, Kant, Hegel e Nietzsche, essa deve fare i conti con un’altra questione: se e come Dio sia responsabile della sofferenza nel mondo. Lo stesso papa Benedetto XVI, di fronte all’indicibile sofferenza e all’inaudita ingiustizia collegate al nome di Auschwitz, si è posto la domanda: “Dove era Dio in quei giorni? Perché ha taciuto? Come ha potuto tollerare quest’eccesso di distruzione, questo trionfo della malvagità?”. “Perché hai taciuto? Come hai potuto sopportare tutto questo?”.1
Il problema della teodicea, ovvero la questione di come sia possibile conciliare la sofferenza dell’innocente con l’esistenza di un Dio buono e al tempo stesso onnipotente, costituisce il punto più spinoso della dottrina su Dio, molto più spinoso di tutte le altre questioni teoriche e le obiezioni che vengono sollevate sull’esistenza e la natura di Dio. La sofferenza è la roccia dell’ateismo, ha detto Büchner, e Stendhal ha osservato cinicamente che l’unica scusa di Dio è quella di non esistere. Dostojevski, Camus e molti altri hanno tematizzato la questione in modo pregnante. È stato obiettato infatti: o Dio è buono ma non onnipotente, non potendo far niente contro l’ingiustizia, e non è allora Dio; o Dio è onnipotente ma non buono, non volendo far niente contro l’ingiustizia, e allora è un demone malvagio. Dopo Auschwitz, la teologia ha acutizzato ulteriormente tale questione: alcuni hanno sostenuto che non sia più possibile parlare di un Dio onnipotente e buono allo stesso tempo.
Vediamo dunque che il tema di cui ci occupiamo non _è assolutamente un problema astratto, ma è una questione profondamente esistenziale, che penetra fino al nucleo vitale della fede cristiana e che pone la fede in Dio di fronte alla sua negazione, nella forma umanamente più pesante. Dopo le esperienze atroci che hanno segnato il XX secolo e quelle che si sono verificate già all’inizio del XXI, non è più possibile schivare la questione dell’esistenza/presenza di Dio e del senso della sofferenza innocente. Ma entrambe possono essere esaminate e discusse solo congiuntamente.
La sacra Scrittura, a differenza di quanto afferma Aristotele, ci indica tale stretta relazione già nelle più antiche parti dell’Antico Testamento. Essa ci dice che Dio è un Dio misericordioso, che prova compassione di fronte alla miseria umana (Es 34,6 s.). In modo significativo leggiamo in Osea: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). La teologia ebraica parla per questo della partecipazione “passionale”, addirittura del pathos di Dio nei confronti delle sue creature e del suo popolo. Dio non troneggia impassibile al di sopra delle atrocità del mondo. Dio è commosso dalla sofferenza e dalla gioia dell’uomo e ad esse reagisce con gioia o dolore, con approvazione o indignazione, con amore o con collera. Anche Gesù prova collera e tristezza di fronte alla durezza del cuore degli uomini (cf. Mc 3,5); egli è mosso a compassione (cf. Mt 9,36); è colto dalla paura e dall’angoscia; è triste fino alla morte (Mc 14,33ss.); alla fine, lancia dalla croce il suo grido di sofferenza per l’abbandono di Dio (Mc 15,34).


DIO NON È APATICO NÉ INDIFFERENTE

Il Dio del Nuovo e dell’Antico Testamento non è un Dio apatico come quello di Aristotele, non è un Dio indifferente al dolore umano, ma è un Dio “simpatico”, nel senso etimologico della parola, un Dio che soffre con noi. È l’Emanuele, il Dio con noi (Is 7,14; Mt 1,23). Tuttavia, nel tentativo di trovare una risposta al perché della sofferenza dell’innocente, l’Antico Testamento ha dovuto percorrere un lungo cammino. Il libro di Giobbe alla fine riprende tutte le risposte e, conducendole ad absurdum, arriva alla conclusione che Dio è imprevedibile e che l’unica risposta possibile davanti al mistero insondabile di Dio sia il silenzio. Nemmeno il Nuovo Testamento ci fornisce una risposta teorica precisa, ma ricorre all’immagine veterotestamentaria del servo sofferente (Is 53) proiettandola sulla passione e sulla morte di Gesù, il più innocente tra tutti gli uomini. In modo quasi trionfale sostiene: se Dio per noi non ha risparmiato neppure il suo figlio, allora niente potrà separarci dall’amore di Dio, né la vita, né la morte (Rom 8,31-39). È alquanto significativo dunque che l’affermazione “Dio è amore” si situi nel contesto della croce (cf. 1 Gv 4,8ss).
La costituzione pastorale Gaudium et spes del Vaticano II ha intuito quanto rivoluzionaria fosse questa affermazione per la nostra concezione di Dio e ha affermato: «Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime» (22). Il riferimento alla croce di Gesù fornisce a colui che crede una risposta esistenziale. Ma non per questo la sfida teologica risulta risolta, al contrario: ecco emergere di colpo altri interrogativi, in modo del tutto nuovo. Di fatti, secondo la logica umana, la croce è stoltezza e scandalo (1 Cor 1,21.23; 2,14). Ci chiediamo allora: come è possibile comprendere la croce come rivelazione dell’amore di Dio? La croce non è piuttosto il segno di un Dio crudele, collerico, violento, che ha bisogno di un capro espiatorio e che sacrifica il suo stesso figlio come prezzo da pagare per la riconciliazione?
Con il mistero della croce, la teologia si trova confrontata a una realtà che va ben oltre ciò che la teologia negativa aveva sostenuto. All’interno di tale tradizione teologica, Anselmo da Canterbury aveva affermato che Dio era ciò di cui non si poteva pensare niente di più grande (Proslogion, cap. 2), e si era spinto ancora oltre, dicendo che Dio era più grande di tutto ciò che si poteva pensare. Ma davanti alla croce, la teologia non s’imbatte soltanto nel limite del proprio pensiero. Davanti all’azione imprevedibile e incomprensibile di Dio sulla croce, essa tocca il limite di ciò che ritiene essere la realtà stessa di Dio.
La croce crocifigge il concetto che abbiamo di Dio. Un Dio sulla croce, che soffre e che muore, è il contrario dell’immagine di Dio che di solito ci facciamo. La croce mette in discussione uno degli assiomi fondamentali della metafisica tradizionale, la quale, a priori, considera come caratteristiche quasi imprescindibili di Dio immutabilità e apatia. Non solo Aristotele, ma anche i grandi pensatori della teologia scolastica escludevano che Dio potesse partecipare alla sofferenza di Gesù e alla sofferenza degli uomini, poiché, così argomentavano, relazioni reali esistono soltanto a partire dalla creatura verso Dio, ma non viceversa, essendo Dio perfetto. Pertanto, la sofferenza della creatura non può commuovere Dio, il quale non può soffrire.2 Ci chiediamo allora: quando la Bibbia parla della compassione di Dio, tema centrale in tutta la Scrittura, dobbiamo interpretarla metaforicamente?
Alcuni Padri della Chiesa e teologi hanno osato combinare il concetto di Dio e quello della sofferenza, parlando addirittura di un Dio che muore. Ma ecco che affiora un’altra domanda altrettanto impellente: se prendiamo sul serio la croce e parliamo di un Dio che muore, allora, per essere coerenti, non dobbiamo parlare anche della morte di Dio? Hegel lo ha fatto con un vecchio canto religioso: “Dio stesso è morto”. E con particolare veemenza Nietzsche è entrato in campo proclamando, contro il cristianesimo, che Dio è morto. La teologia del “Dio è morto”, negli anni sessanta e all’inizio degli anni settanta, voleva demolire tali affermazioni, credendo di poter interpretare il Dio cristiano in modo ateo. Nel frattempo, destinata a durare ben poco, anch’essa è morta (e ha avuto la sorte che ben meritava). Ma il problema rimane. Non pochi contemporanei ritengono infatti che le indicibili sofferenze e ingiustizie nel mondo provino l’assenza, l’impotenza, o se non altro il silenzio di Dio. Nessuna vita pare scaturire ormai da Dio; Dio, o almeno il messaggio di Dio, è morto.
La croce come risposta alla domanda sull’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza dell’innocente nel mondo è dunque tutt’altro che una risposta semplice e compiacente. Piuttosto, è una risposta scomoda, difficile, che ci induce a intraprendere una riflessione teologica ancora più approfondita. La croce è al contempo fondamento e critica della teologia. Essa ci spinge a ridefinire ciò che intendiamo con Dio.


CONTESTO STORICO ED ECUMENICO

Guardando agli sviluppi storici più antichi e a quelli più recenti, incontriamo vari tipi di teologia della croce.

La Teologia dei Pastori

I Padri della Chiesa del II e III secolo interpretarono la croce, sulla base del Nuovo Testamento, come uno scandalo. Tertulliano definisce il cristianesimo come religione della croce (Apol., 16,6). I primi Padri ribadiscono il paradosso del Dio che, incapace di soffrire, ha sofferto. Alcuni tra loro, come Atanasio e Ilario di Poitiers, parlano senza esitazione del Dio sofferente e crocifisso; Tertulliano dice addirittura “Deus mortuus” (Adv. Marcionem II, 16,3). Ancora i monaci theopaschiti, durante questa controversia del VI secolo, affermavano che una delle tre persone divine aveva sofferto. E il V concilio ecumenico confermava tale posizione. Tuttavia, con la svolta costantiniana e il famoso presagio “In questo segno vincerai”, la croce non è più vista come scandalo. Comincia a predominare il motivo della croce vittoriosa, vessillo di trionfo. Già in Gregorio di Nazianzo troviamo l’espressione: “il segno invincibile della croce” (Oratio 45,21). Ancora a questa connotazione vittoriosa s’ispira l’arte romanica, nel modo ad esempio in cui rappresenta la croce e la posiziona all’interno della chiesa sull’arco trionfale, all’entrata del presbiterio.

La Teologia medievale

Nel Medioevo, a partire da Bernardo di Chiaravalle, si sviluppa una particolare forma di pietà, che accentua la dimensione della compassione, ponendo al centro dell’attenzione la debolezza umana e la sofferenza di Cristo. L’identificazione con la sofferenza di Gesù è esemplificata in modo pregnante dalle stigmate di s. Francesco di Assisi. Nel tardo Medioevo, la devotio moderna, attraverso la continua contemplazione della passione, doveva condurre all’imitazione di Cristo, incoraggiando il fedele a partecipare alla passione del Signore e a seguire il suo cammino di croce. Ricordiamo, a tal proposito, due opere molto significative: De imitatione Christi e De passione Christi di Tommaso da Kempen. Questa nuova forma di pietà ispirò anche una nuova immagine della croce: il crocifisso gotico, incoronato di spine, con il volto segnato marcatamente dal dolore. In un tempo in cui l’Europa era sconvolta dal flagello della peste, rivolgere lo sguardo al crocifisso, all’uomo del dolore, significava cercare consolazione nel mezzo della miseria umana.
La pietà medioevale, che in tempi più vicini ai nostri si è sviluppata nella pietà del Sacro Cuore di Gesù, esprime in modo suggestivo il significato soteriologico, esemplare e spirituale della croce. Tuttavia, manca la dimensione teologica: si parla cioè del significato della croce all’interno della riflessione condotta sull’uomo, ma non di quella condotta su Dio. Il quadro classico della metafisica greca, tranne poche eccezioni, rimane il punto di riferimento pressoché inalterato.

La Teologia di Lutero

A segnare una nuova svolta è la teologia della croce di Lutero,3 che parla di una theologia paradoxa. Secondo Lutero, il vero teologo non è colui che arriva alla conoscenza dell’essenza invisibile di Dio attraverso la realtà creata, ma è colui che comprende attraverso la passione e la croce ciò che è visibile di Dio e ciò che di lui è stato manifestato nel mondo. La croce, da sola, è contenuto della teologia e della predicazione: Crux sola est nostra theologia (WA 5, 176,32 s). Lutero oppone questa theologia crucis alla theologia gloriae della scolastica. Secondo lui, Dio può essere realmente conosciuto soltanto sul cammino della croce. Mentre il peccatore ha corrotto ogni cosa, Dio ha raddrizzato tutto e ha fatto della croce un cammino di salvezza. Sulla croce egli è sub contrario absconditus (WA 56, 392). “Dio contro Dio a favore degli uomini”, “Il Dio misericordioso contro il Dio collerico, per il nostro bene”, così è stata descritta e riassunta la teologia della croce di Lutero.
Il pensiero di Lutero ha fatto storia non solo nella teologia, ma anche nella filosofia. Esso, ad esempio, è stato ripreso e sviluppato in modo significativo dalla filosofia dialettica di Hegel. Secondo Hegel, Dio realizza se stesso come soggetto assoluto attraverso il suo porsi al di fuori di sé e il suo auto-differenziarsi; non vi è pertanto una chiara distinzione tra la storia di Dio e la storia del mondo. Dal punto di vista teologico, questo comporta una profonda ambiguità. L’interesse per la teologia consiste tuttavia nel fatto che Hegel abbia collegato il significato della croce alla riflessione su Dio, fornendo un importante spunto per lo sviluppo moderno della teologia protestante. In riferimento e in opposizione ad Hegel, il più recente pensiero protestante di Barth, Moltmann e Jüngel è giunto a una teologia della croce che, nel differenziarsi dalla teologia naturale di stampo metafisico, rimane fedele all’istanza di Lutero. Per questi teologi la croce, e in fondo soltanto la croce, è il punto di partenza per conoscere Dio, è il luogo in cui Dio definisce sé stesso.
Alla base di tale teologia vi è il concetto di una relazione tra Dio e uomo, e tra fede e ragione, che non lascia spazio alla cooperazione umana. Questo vale sia per la natura e l’azione umana di Gesù Cristo, che per la partecipazione degli uomini al processo di salvezza, partecipazione resa possibile dalla grazia divina. L’aut-aut nella teologia della croce di Lutero lo porta a non riconoscere agli uomini la capacità di cooperare alla propria giustificazione. Ecco perché questa teologia è di cruciale importanza per il dialogo ecumenico sulla dottrina della giustificazione. Anche se in tale ambito siamo pervenuti nel frattempo a un accordo su questioni fondamentali, molti punti rimangono aperti e dovranno essere ulteriormente discussi proprio alla luce della teologia della croce.

La teologia orientale

Un’altra via, con caratteristiche proprie, ci viene indicata dalla teologia russo-ortodossa sviluppatasi nella prima metà del XX secolo. Il suo ambiente vitale è la liturgia ortodossa, che attribuisce alla croce un’importanza ancora più centrale di quella riconosciutale in occidente. Questa teologia è segnata dall’esperienza del dolore, in particolare dalla capacità del popolo russo di sopportare la sofferenza e dall’interpretazione kenotica dell’esistenza umana, tipica anche dei romanzi di Dostojevski. Diversi nomi possono essere citati: Solovjev, Tarejev e, il più importante di tutti per la teologia, Bulgakov. Per quest’ultimo, tutta l’economia della salvezza è caratterizzata dalla synkatabasis (condiscendenza; abbassamento) di Dio. Essa inizia già con la creazione e arriva al suo culmine con l’incarnazione e la crocifissione. Sia nella creazione che nella redenzione l’infinito Dio lascia nondimeno spazio a una realtà “non divina”, ovvero opta per una “auto-limitazione”. Fondamentale è la struttura kenotica dell’economia della salvezza, resa possibile dal rapporto tra le persone della Trinità, le quali, comunicando nell’amore, si lasciano spazio l’una all’altra. Bulgakov parla addirittura di un sacrificio di sé intertrinitario, che si concretizza nella storia sulla croce.
Alla luce di ciò che è stato appena detto, si capisce quanto, nel dialogo ecumenico, si possa imparare dalla ricchezza della spiritualità e della teologia ortodosse. Ma se è vero che la grandezza di tale visione è innegabile, è anche vero che in essa è insito un rischio da non sottovalutare. Questa grandiosa visione unitaria potrebbe cioè far perdere di vista il carattere misterioso e da non deviare che la croce riveste nella storia, facendo inavvertitamente slittare la teologia nella sofiologia. La Sofia diventerebbe allora una realtà sovracristologica e la croce storica sul Golgota non sarebbe altro che la trasposizione visibile di un Golgota metafisico.
Mentre la posizione luterana tende verso un “aut-aut” di kenosi e Logos, contrapponendo l’uno all’altra, i teologi ortodossi russi tendono, come Hegel, a interpretare in modo speculativo il Logos come kenosi, svuotando del suo significato costitutivo il mistero della kenosi che ha avuto luogo storicamente sulla croce. Ciò spiega perché esistano forti riserve nei confronti di tale teologia all’interno dell’attuale Chiesa ortodossa russa.

La teologia cattolica

Sulla base di una rilettura della Scrittura e della tradizione patristica stimolata dalla teologia ortodossa e da alcuni concetti fondamentali del pensiero di Lutero, anche l’odierna teologia cattolica ha sviluppato una teologia della croce. Tra i nomi da ricordare, il più importante è sicuramente quello di H. U. von Balthasar, a cui ritorneremo in seguito. Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è: dove si situa la teologia cattolica all’interno di questa discussione? La teologia della croce luterana è di stampo paolino; quella ortodossa viene solitamente descritta come giovannea. Quale è la caratteristica della teologia cattolica della croce?
La tesi qui sostenuta, che verrà argomentata più sotto nel dettaglio, è che la teologia della croce cattolica sia primariamente sinottica e possa essere definita petrina, come si spiegherà tra breve. Questa argomentazione parte dalla croce storica e dalla sua interpretazione biblica; nella croce storica tenta di comprendere il Logos. In questo senso si tratta di una teologia “dal basso”, che non contrappone la kenosi al Logos, né comprende speculativamente il Logos come kenosi, ma lo ricerca nell’evento storico della kenosi e legge nella croce la rivelazione dell’amore divino.


LA SOSTITUZIONE VICARIA

La tesi appena formulata ci porta, come secondo passo, a ricercare i fondamenti biblici. L’esegeta Martin Hengel, di Tubinga, nel suo scritto “Pietro sottovalutato”, ha menzionato validi motivi che dimostrano sorprendentemente come la tradizione sinottica, attraverso Marco, discepolo di Pietro, risalga fino a quest’ultimo. Hengel sostiene addirittura che la teologia di Pietro possa essere equiparata a quella di Paolo. Hengel ritiene anche che si possa ricondurre a Pietro l’interpretazione sinottica della croce, sulla base del concetto di sostituzione vicaria. Il concetto di sostituzione vicaria, già presente nella teologia veterotestamentaria del servo sofferente (Is 52,13-53,12), è fondamentale per la venuta di Gesù in mezzo agli uomini, a iniziare dal battesimo nel Giordano, fino ai racconti della passione (Mc 10,45) e a quelli dell’ultima cena, che interpretano l’evento della croce come morte vicaria “per gli altri”. Dalla tradizione sinottica, di stampo fortemente petrino, il concetto di morte vicaria passa poi alla tradizione paolina (2 Cor 5,21) e a quella giovannea (Gv 3,16).
Quello della sostituzione è dunque un concetto chiave in tutti i Vangeli e nell’intero Nuovo Testamento. Esso sembra risolvere il nostro problema, poiché può essere considerato il giusto punto di partenza biblico per una teologia della croce. Questo concetto è espresso nel Nuovo Testamento con la formula “per voi”, “per noi”, “per molti”, avente un triplice significato. Essa ci dice che Gesù ha dato la sua vita “al posto di” noi peccatori; noi come peccatori siamo assoggettati alla morte e non possiamo aiutarci da soli. In questa situazione, Dio è venuto in nostro soccorso ed ha assunto su di sé in modo vicario la maledizione del peccato, della morte, dell’abbandono di Dio. Il primo significato è dunque quello dell’intervento personale di Dio. Il secondo si riferisce al fatto che Gesù ha dato la sua vita “per noi” e “per molti”; è quello del sacrificio di Cristo per il nostro bene, in nostro favore. Infine la formula ci indica che Gesù ha compiuto tutto ciò “a causa” nostra, spinto da compassione verso di noi.

La Kenosi per amore

Agire in modo vicario significa quindi che Dio interviene al posto del peccatore, operando uno scambio, per la sua generosa misericordia e il suo infinito amore. Egli fa questo per noi e per il nostro bene, interviene per noi, muore al nostro posto affinché noi viviamo. Gesù prende il posto degli ultimi per farci posto presso Dio. La kenosi è la forma esistenziale dell’amore nella condizione del peccato. Non si svuota nel niente; essa mira piuttosto a riportare il bene, a ripristinare l’ordine voluto da Dio.
L’idea della sostituzione vicaria è stata accolta anche all’interno del credo apostolico. In modo conciso, si può dire che Dio è diventato uomo, è entrato pienamente nella condicio humana, affinché noi siamo divinizzati. Il concetto di sostituzione vicaria è dunque un concetto teologico chiave, che esprime la legge di una struttura in processo di divenire. È la legge del chicco di grano che deve morire per produrre frutto (Gv 12,24). È la legge del lasciare tutto per raccogliere un guadagno centuplicato (Mc 10,28). È soprattutto la legge dell’amore. Soltanto nel darsi all’altro e nell’esserci pienamente per l’altro, l’amore realizza se stesso. L’abbandonare per guadagnare è la legge fondamentale dell’amore e dell’amicizia (Gv 15,13). Essa è la legge di Cristo: portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2).
È precisamente in questo ampio contesto che va compreso il grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Questo grido è espressione del profondo svuotamento di se stesso che compie Gesù e della sua totale solidarietà con noi. Egli assume davvero su di sé il peso dell’abbandono di Dio, dell’eclissi di Dio dal mondo. Tuttavia, questa citazione dell’inizio del Salmo 22 è, in linea con la tradizione ebraica, un riferimento all’intero salmo, il quale comincia, è vero, con il lamento per l’abbandono di Dio, ma si conclude con la riconfortante certezza che Dio rimane fedele al suo popolo. Per questo, il grido di abbandono lanciato da Gesù non può assolutamente essere letto in chiave atea. Esso non ci dice che Gesù ha per così dire rinunciato al suo essere Dio, ma esprime piuttosto il fatto che Dio ci soccorre e ci salva perfino nella notte d’eclissi più buia in cui l’uomo possa trovarsi, in cui noi, soprattutto al presente, ci troviamo. Anche in una simile situazione, egli è il Dio presente, egli è il Dio con noi. Luca ha interpretato giustamente le dure parole dell’abbandono riportate in Marco, dicendo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). E in Giovanni troviamo l’affermazione che corona il mistero della croce: “Tutto è compiuto!” (Gv 19,30).
Anche le parole della kenosi nell’inno della Lettera ai Filippesi (2,7; cf. 2 Cor 8,9; Eb 2,9) vanno capite in questo senso. Kenosi significa svuotamento, cessione, rinuncia, alienazione. Attraverso la propria auto-alienazione, Gesù, che era Dio nella forma, ha scelto di prendere il posto di noi peccatori, di noi che siamo assoggettati alla morte e quindi suoi servi. Ecco perché Gesù assume la forma di servo. Ma lasciandosi crocifiggere non per necessità del destino ma per sua propria volontà e per obbedienza al Padre, egli sottrae alla morte il suo pungiglione e ci libera dalla schiavitù, dandoci una nuova vita. L’auto-alienazione non si esaurisce dunque nel vuoto, nel nulla; al contrario, essa è la via verso l’innalzamento, tramite cui Gesù diventa Kyrios, ovvero Signore del mondo. La morte di Gesù è la morte della morte e la liberazione a nuova vita. Agostino ci fornisce una giusta interpretazione di tutto questo quando scrive in modo conciso e pregnante: “Solo perché Dio, abbassandosi, si è reso presente e attivo, è possibile dire: ‘Ucciso dalla morte, egli uccide la morte’ “ (In Jo XII, 10 s.).
Si capisce dunque perché per Paolo la croce costituisca il mistero della sapienza di Dio (1 Cor 1,7-25; 2,6-10; 2 Cor 13,4) e la parola della croce sia l’essenza del messaggio salvifico. Negli scritti più tardi del Nuovo Testamento la croce assume addirittura una dimensione cosmica; attraverso la croce, tutto viene riconciliato a Dio (Col 1,20). L’Apocalisse giovannea ci presenta l’agnello immolato come luce del cosmo (Ap 21,23). Nel Nuovo Testamento la kenosi non è quindi contrapposta al Logos; sul Logos essa getta una nuova luce. A sua volta, il Logos non può essere interpretato in maniera speculativa e dialettica come kenosi. Piuttosto, è la kenosi della croce a svelare pienamente il senso del Logos, che è l’amore. E l’amore è il senso dell’essere. Detto questo, ecco che abbiamo compiuto il primo passo verso una trattazione sistematica della teologia della croce.


LA CRISTOLOGIA DELLA KENOSI

Il Nuovo Testamento ci dice che Dio stesso è all’opera sia nella kenosi di Gesù che nel suo innalzamento. Dio si rivela nel suo Figlio. Nel Gesù terreno, nel Gesù crocifisso si manifesta la gloria di Dio e il suo amore. Sulla croce ci viene dunque svelato Dio stesso come amore. Nell’economia della salvezza, Dio non rivela “qualcosa” ma rivela se stesso (DV 2). Se la rivelazione è intesa come auto-rivelazione, allora la realtà di Dio non è “qualcosa” che si nasconde “dietro” la sua rivelazione: là, Dio stesso è presente. L’amore di Dio rivelatosi sulla croce rende visibile Dio stesso come amore. Sulla croce egli si rivela come colui la cui essenza è amore. Detto in maniera più astratta: nella Trinità economica rivelata dalla croce e dalla risurrezione, si rivela la Trinità immanente.

La Trinità

Per comprendere più profondamente la natura trinitaria di Dio, possiamo partire dalla natura dell’amore. Precisamente da qui era partito anche Agostino,4 senza però sviluppare oltre il suo pensiero. Per lui, come per la tradizione teologica classica, fondamentale è l’analisi dell’atto conoscitivo. Nella teologia odierna possiamo costatare lo stesso interesse. Stimolato dalle analisi di Fichte, di Schelling, di Hegel e soprattutto dal personalismo dialogico di origine ebraica, come in Martin Buber e, in modo sostanzialmente più radicale, in Emmanuel Lévinas, lo studio del fenomeno dell’amore occupa adesso un posto di primaria importanza.
Oggi, il punto di partenza della riflessione teologica sulla Trinità è principalmente l’auto-comunicazione di Dio. Ma l’amore, che comunica se stesso per essere una cosa sola con l’altro, non significa fusione. Il vero amore non assorbe l’altro, né lo usa per la propria auto-conoscenza o auto-realizzazione. L’amore non ha una struttura dialettica, ma una struttura dialogica. Amore significa essere una cosa sola con l’altro, preservando l’identità di ognuno, e permettendo allo stesso tempo la realizzazione ed il compimento di ciascuno. Chi darà la propria vita, la riceverà. L’unità nell’amore comporta dunque il riconoscimento della differenza. L’amore sa distinguere e sa ritrarsi. L’amore fa un passo indietro; esso rende l’altro libero e ne riconosce l’alterità. La logica dell’amore è dunque quella del lasciarsi spazio reciprocamente: è quella, anche, della rinuncia. Amore e dolore, amore e morte, ecco due realtà strettamente legate, come ci dicono da sempre i grandi poeti.
Possiamo allora interpretare l’affermazione che Dio è amore così: Dio è se stesso nell’essere totalmente per l’altro. Il Dio-amore può essere concepito soltanto come un’auto-differenziazione al suo interno. Pertanto, la dottrina trinitaria non contraddice il monoteismo, come più volte si sente dire. Essa esprime piuttosto il fatto che un Dio-amore può essere pensato soltanto in maniera trinitaria. La Trinità è il monoteismo concreto.
Di fronte alla realtà della sofferenza, la Trinità è l’unica forma di monoteismo che possa essere concepita e che possa esistere. Dalla croce in poi, pensare a Dio in modo trinitario significa pensare a un Dio che al suo interno lascia spazio all’altro se stesso. Diversamente dal Dio onnipotente che molti si immaginano, Dio è assolutamente non violento. Dio, nella sua essenza, è colui che si apre totalmente e che si offre. Dio non opprime; egli si lascia addirittura cacciare dal mondo, e ci si mostra debole, impotente. Dio è in se stesso kenotico. Balthasar parla della kenosi originaria e di una “divisione” all’interno di Dio. Ma in questo suo essere kenotico, Dio non rinuncia a se stesso, non si trasforma in qualcosa di diverso, non abbandona la propria divinità. In questa sua esistenza kenotica, Dio è Dio.

Rivoluzione metafisica

Come la croce è la rivelazione dell’amore intratrinitario di Dio, così l’amore intratrinitario di Dio è la condizione interna che rende possibile la compassione di Dio fino alla morte in croce. La croce è dunque la forma più esterna dell’amore divino che si dà, è la forma più esterna dell’amore costitutivo di Dio. Questa tesi comporta una vera e propria rivoluzione metafisica. La relazione non è più concepita come una semplice realtà accidentale. Così come la vera realtà non corrisponde più semplicemente né alla sostanza, che sussiste in sé e per sé, né al soggetto che esiste in sé e per sé secondo il pensiero moderno. Adesso è nella relazione stessa che si fonda la sussistenza delle persone della Trinità. Dio è relazione, e nella relazione egli viene a noi. Nell’essere il Dio per noi e con noi, egli rivela la sua natura più profonda.
Il tema della sofferenza di Dio, che è stato sempre così spinoso per la tradizione teologica, acquista allora una nuova dimensione. La sofferenza, e in questo dobbiamo riconoscere che la teologia classica ha assolutamente ragione, non può essere sperimentata da Dio in modo passivo. Quando Dio soffre, lo fa in modo divino. La sofferenza divina non è espressione di una mancanza, ma di una libera volontà. Dio non è investito passivamente dal dolore della creatura, ma si lascia coinvolgere intenzionalmente. Per questo, l’onnipotenza di Dio non è in contraddizione con il suo amore; la sua onnipotenza si manifesta nell’amore, poiché è precisamente l’onnipotenza che rende possibile il ritirarsi senza rinunciare a se stessi. L’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza del suo amore, che rivela ciò che è ed è ciò che è proprio nel lasciare spazio all’altro.
Il Dio compassionevole, che si manifesta sulla croce, è la risposta alla questione della teodicea: Dio è il Dio che soffre e che muore, e si fa vicino a coloro che sono oppressi, torturati, martirizzati. Dio è al loro fianco e soffre con loro. Questo non significa però che dobbiamo glorificare o divinizzare la sofferenza. Dio non divinizza la sofferenza, ma la redime, mutandola al suo interno. Non l’elimina, ma la trasforma in speranza. La croce è infatti la via verso la risurrezione e la trasfigurazione. Il dolore e la morte non hanno l’ultima parola. La cristologia della kenosi ci conduce oltre se stessa, verso la cristologia pasquale dell’innalzamento e della trasfigurazione. Come dice la Scrittura, “nella speranza noi siamo stati salvati” (Rom 8,20.24; 1 Pt 1,3).


SPIRITUALITÀ CRISTIANA ODIERNA

Lo abbiamo appena detto: la teologia della kenosi non è una speculazione astratta. Essa costituisce la tela di fondo della riflessione sulla teodicea e sul significato esistenziale della sofferenza e della morte. Essa è inoltre di grande importanza per il dialogo ecumenico. Una considerazione a parte meriterebbe il suo ruolo all’interno del dialogo interculturale e interreligioso, soprattutto per l’incontro con la spiritualità buddista e il suo concetto di nirvana.
In questo contesto, desidero fare solo alcune osservazioni conclusive sul significato che la teologia della kenosi riveste per una spiritualità cristiana odierna. Vi sono molte figure di grande rilievo che hanno mostrato l’importanza della sostituzione vicaria e che, testimoniandola con la propria vita, costituiscono un esempio luminoso per la spiritualità odierna e per un rinnovamento missionario della Chiesa: Teresa di Lisieux, C. de Foucauld, E. Stein, M. Kolbe, D. Bonhoeffer, O. Romero e molti altri. Ognuno a modo proprio, essi si sono immersi nel grido di dolore e di abbandono di Gesù e hanno portato sulle proprie spalle, con solidarietà, il peso dell’eclissi di Dio dal mondo. Per loro, l’esperienza della notte, del deserto, dell’ultimo posto non ha significato un cammino verso un niente privo di senso, ma si è trasformata in qualcosa di attivo, in una vita spesa per gli altri, affinché la luce di Dio risplendesse anche nel buio più opprimente.
Anche per il cristiano di oggi non esiste un altro cammino. Nel mondo occidentale, egli normalmente non è esposto a una brutale violenza anti-cristiana, ma è costretto a vivere in una società che non conosce Dio, o lo conosce così poco da non essere neppure in grado di sostenere un ateismo cosciente. A Dio si è ormai indifferenti. Il mondo è diventato un deserto, una notte in cui non si distingue più nulla, in cui non c’è più né un sotto né un sopra, in cui si è perso l’orientamento. In questa situazione, la Chiesa non può più atteggiarsi a potente istituzione, portando davanti a sé la croce come segno temporale di vittoria. Il cristiano, piuttosto, dovrà sperimentare l’impotenza della croce, dovrà condividere la sofferenza di altri. Ed è proprio ora, in questa notte d’eclissi, che egli dovrà preservare e testimoniare per gli altri la luce della fede, della speranza e dell’amore. Ecco la sfida del cristiano di oggi e di domani: una presenza attiva a favore degli altri.
Maria è esempio e tipo di questa esistenza kenotica, lei, l’umile serva che ha dato spazio a Dio, dapprima nel suo cuore e poi nella sua carne. Maria ha portato avanti la speranza fino ai piedi della croce. E lo ha fatto per noi. Ha pronunciato il suo “fiat” al posto di tutta l’umanità. Maria è fulgido esempio di un’esistenza attiva “per” l’altro; ella è l’aurora di un nuovo mondo.


1 Discorso nel Campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau del 28 maggio 2006.
2 Tommaso d’Aquino, Summa theol. I q. 25, a.1; III q. 16 a. 4; q. 46 a.12 ecc.
3 La teologia della croce di Lutero si trova già nella disputa di Heidelberg del 1518.
4 Agostino, «Ecce tria sunt, amans et quod amatur et amor». De Trinitate VIII,10.

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