DON ANTONIO

domenica 25 settembre 2011

15.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

5. PRECISAZIONI SULLA PENA DEL SENSO
Il reprobo urta contro Dio, il Bene infinito, nel quale sarebbe la sua
beatitudine: ecco la pena del danno. Egli urta inoltre contro l'universo
della creazione: ecco, secondo i teologi, la pena del senso (49).

a) La legge del ristabilimento dell'equilibrio dell'essere.
Alla spiegazione più penetrante dell'origine della pena del senso si è giunti
attraverso lo sforzo di precisare il difficile concetto filosofico di sanzione
(50).
La teoria indiana del karma può metterci sulla strada. Essa erra senza
dubbio su diversi punti, specialmente nel credere che l'atto morale produca
fisicamente la sua ricompensa, come il seme produce il frutto; ma vede
giusto quando dice che all'interno dell'universo, il bene ed il male morale
hanno per contraccolpo la felicità o la sventura, ed è questa la verità che è
opportuno mettere in risalto. Il binomio colpa-castigo riguarda senza
dubbio, prima di tutto e soprattutto, i rapporti dell'uomo con Dio; ma
inoltre, sotto uno del suoi aspetti, è immanente al mondo.
In questa prospettiva “il male ontologico, cioè la sofferenza, è un frutto
naturale del male morale. E' la teoria della penafruttificazione, opposta a
quella della pena-rivalsa” (51), alla teoria della pena dettata dalla vendetta,
con l'intenzione di far soffrire chi ha fatto soffrire. Il male antologico può,
effettivamente, risultare dal male morale “e ricadere sull'autore stesso
dell'azione cattiva. In questo caso abbiamo la punizione. Non soltanto nel
senso che commettere il male significa darsi a lui, subire in se stessi un
deterioramento, una deviazione, ma in un senso più profondo che
dobbiamo cercare di spiegare” (52). Ricordiamo che l'ordine universale
della creazione, retto dalla potenza e dalla bontà infinita del Dio
trascendente, comprende sotto di sé due mondi, il mondo della natura ed il
mondo della libertà (53). L'uomo può dare uno smacco a Dio, anche
eternamente, nel mondo morale della libertà. Ma l'ordine universale è
sempre completato in virtù di ciò che si può chiamare “la legge del
ristabilimento dell'equilibrio dell'essere”. Occorre qui ricordare una
citazione importante: “C'è una legge ontologica di uguale pressione fra il
tutto universale e il tutto particolare che è un centro di attività libera: una
specie di principio di Archimede metafisico.
“Ciò significa che l'agente morale non deve essere considerato solo, ma in
relazione con il tutto.
“Di per sé, il peccato significa la morte, un trionfo del nulla. Il non-essere
è stato iniettato nel tutto, per il fatto stesso che quella certa parte ha
liberamente peccato. Così l'equilibrio è stato rotto. Esso sarà restaurato dal
fatto che il non-essere ricadrà sul soggetto, come una privazione sofferta
da lui.
“E io dico che tale privazione è meritata, è dovuta. Dovuta a chi? Al tutto?
Sì, senza dubbio, poiché esso è stato privato, poiché l'equilibrio è per esso
un bene dovuto (nel senso lato della parola). Ma quel ritorno di nulla è
esso pure dovuto: è dovuto prima di tutto al soggetto stesso. In quanto esso
è semplicemente esistente, è una cosa dovuta all'essere umano di essere al
livello del tutto, di essere all'unisono col tutto (in proporzione della sua
capacità come parte), di essere al suo vero posto nel tutto. Ciò è dovuto al
suo essere stesso. E' un'esigenza radicale della coscienza interna
dell'essere. Diversamente, il soggetto sarebbe come il centro di un circolo
che non fosse nel mezzo di esso, o come un angolo retto in un triangolo
che non fosse uguale alla somma degli altri due angoli.
“La prima cosa che mi è dovuta, non dico in quanto sono una persona, ma
in quanto (e solamente in quanto) esisto, è di essere situato nel tutto. E'
questa un'esigenza basilare dell'esistenza, che è dovuta sia nell'ordine del
bene (ricompensa), sia nell'ordine del male (punizione). L'ultimo bene
dovuto al diavolo, come essere esistente, è di essere castigato, di essere
messo in linea col tutto, soffrendo come essere intellettuale” (54).
Attraverso al mio atto morale alzo nell'universo il livello del bene o del
male morale, rompo il mio equilibrio primitivo in rapporto all'universo; e
l'universo prenderà la rivincita, mi rimetterà nel nuovo posto che da allora
mi spetta, facendo rifluire su di me (ma sotto forma di bene o di male
ontologico, di felicità o di sventura) il bene o il male morale di cui sono
l'origine (55). Dio, così, può essere vinto, anche eternamente, dalla
creatura perversa, ma non nell'ordine universale della creazione (56).

b) La pena del senso designa tutto l'insieme della pena finita del peccato.
L'espressione “pena del senso”, usata dai teologi per designare la pena
finita del peccato, la rivincita dell'ordine universale sul disordine prodotto
nel mondo particolare della libertà, può indurre in errore, e far credere che
la pena del senso non possa riguardare i demoni, che sono senza corpo, e
che non sia provata dai dannati se non dopo la risurrezione del corpi. Ma,
come abbiamo detto, la pena risultante dalla pressione esercitata
dall'universo, anche visibile e sensibile, sulle violazioni dell'ordine morale,
è chiamata pena del senso con una figura retorica, prendendo la parte per il
tutto.
Gli angeli, buoni o cattivi, sono presenti nel nostro mondo visibile;
intrattengono con lui del rapporti felici o sventurati; perciò vi trovano un
luogo (57). E' evidente che l'inferno è prima di tutto, per i demoni ed i
dannati, una condizione di vita, uno stato spirituale; tuttavia esso è pure
per essi un luogo. Ma non andiamo a collocarlo affrettatamente insieme
con gli antichi al centro della terra. E' nell'esatta misura colla quale gli
spiriti ribelli entrano in conflitto con tutta la parte sensibile e visibile
dell'universo, con tutto il mondo della natura che, immediatamente,
l'inferno si localizza per loro, che diviene per essi un luogo di sofferenza.
Questo luogo è niente meno che il cosmo visibile tutt'intero, col suo
splendore, precisamente in quanto, con la loro colpa, essi se lo sono reso
ostile, inabitabile.

6. LA CONDIZIONE DEL DANNATI

a) La tragedia dell'inferno.
La tragedia dell'inferno è riassunta dall'autore di Neuf leçons sur les
premières notions de la philosophie morale, in una pagina di pura
teologia: “In ultima analisi, essere puniti significa semplicemente avere
ciò che si è voluto: avere il frutto che è racchiuso nell'atto. E' vero che (a
differenza di ciò che è accaduto per il peccato dell'angelo) noi non
sapevamo che un simile frutto vi era racchiuso (e ciò era dovuto alla
debolezza del nostro intelletto e della nostra volontà: noi volevamo
esplicitamente l'atto, non il frutto) e che possiamo perciò cambiare la
nostra volontà, e pentirci. Ma se si tratta del caso dell'ultimo atto di
volontà, nel momento in cui l'anima si separa dal corpo, allora si può dire
che l'uomo ha veramente voluto il frutto tanto quanto l'atto.
“Il beato infatti preferisce Dio e la vita eterna, il dannato invece preferisce
l'inferno.
“La volontà del dannato è divisa, straziata. Egli soffre una pena che lo
affligge e che non vuole, di cui ha orrore: in realtà tende naturalmente a
Dio in virtù della struttura del suo essere; e per il fatto stesso che è stato
ordinato alla visione soprannaturale di Dio, per il fatto stesso che la vita
eterna (che egli rifiuta) gli è stata offerta, in altre parole, per il fatto stesso
che una felicità che sazi all'infinito la sua capacità di desiderio gli è stata
indicata come possibile (nell'istante stesso in cui la rifiuta) e ha risvegliato
la fame di tutto il suo essere, la beatitudine soprannaturale è divenuta per
lui l'unica meta nella quale la sua naturale ordinazione verso Dio può
essere soddisfatta, essa è diventata per lui un bene richiesto dal suo essere,
un bonum debitum (dovuto ontologicamente, non moralmente, senza
dubbio), un bene la cui assenza è una privazione, e la peggiore di tutte. .
“Ma, avendo rifiutato liberamente Dio come fine soprannaturale, Lo ha
nello stesso istante rifiutato come fine naturale. Egli Lo detesta con un atto
libero nel quale si è fissato, e preferisce alla vera beatitudine la falsa
beatitudine che ha scelto: il suo orgoglio. E' questo il suo fine ultimo,
voluto al di sopra di ogni cosa, anche a prezzo di ogni specie di sofferenze
e di privazioni: essere un dio attraverso la propria forza, ecco la sua
beatitudine. Egli non può revocare la sua scelta, perché questa riguarda il
fine ultimo, e fissa in lui la volontà in modo che tutti i susseguenti atti di
volontà saranno effettuati esclusivamente in virtù di quell'atto. Vi è
dunque strazio, ma non pentimento, egli non chiede perdono, rifiuterebbe
il perdono se gli fosse offerto, vuole continuare in quella condizione (58).
“Così l'eterna giustizia, se ricerchiamo delle immagini umane, si deve
considerare meno come la collera misteriosa che come la misteriosa
pazienza di Dio, il quale sopporta che la Sua misericordia in conclusione
sia rifiutata, e permette che una creatura sia, per sempre e per sua libera
scelta, il suo proprio dio” (59).
Come non soffermarci col ricordo nella cappella di San Zenone, a Santa
Prassede, per supplicare la piccola Vergine in mosaico nella sua nicchia:
Sancta Maria libera nos a poenis inferni?

b) La superattività del dannati.
Una perpetua agitazione, una prodigiosa attività, un formidabile spreco di
energia: tale è la condizione del dannati. Nei demoni perdono la ricchezza
e le risorse originali della loro natura angelica, né i reprobi perdono la
dignità della loro anima immortale creata ad immagine di Dio. Assieme
alla loro natura, lo slancio primitivo che li porta a desiderare ed a creare la
felicità, non può essere loro tolto, né vacillare in loro.
Sono i doni irrevocabili ed indistruttibili della bontà creatrice: essi
possono abusarne, ma non possono, senza negare se stessi, rifiutarli.
Senza dubbio la loro volontà è fissata immutabilmente nel male, come
quella degli eletti nel bene. Ma sotto la decisione fatale che li incatena alla
loro propria gloria come al loro fine ultimo, il loro libero arbitrio rimane
intatto; il libero arbitrio, infatti, riguarda la scelta e concerne la scelta del
mezzi in vista di un fine (60).
Va da sé che se il fine ultimo cui si tende è cattivo, tutta l'attività che esso
sviluppa sarà deviata.
San Tommaso distingue dunque nei dannati una volontà di natura ed una
volontà deliberativa. La volontà di natura, che persiste in loro, viene da
Dio stesso; essa è buona e tende all'essere ed alla felicità. Ma la volontà
deliberati va, in virtù della quale essi si sono definitivamente allontanati da
Dio, è in essi irrimediabilmente pervertita: perciò il bene che essi possono
volere, non lo vogliono in modo buono e per ragioni buone, ed anche
allora la loro volontà non è buona (61).
Di quale natura può essere la straordinaria esplosione di attività nella
quale sono impegnati i dannati? Come non sarà anarchica, dal momento
che ciascuno di essi cerca, in ultima analisi, di volgere tutte le cose alla
sua propria gloria? Un solo fine sarà in grado di coordinarla: l'odio
comune che essi hanno contro Dio e contro l'ordine universale della
creazione (62). Esso fallisce continuamente, ma continuamente rinasce ed
è loro necessario: inganna la loro profonda disperazione con del tentativi
sempre diversi. La speranza teologale, infranta per sempre in loro, cede
infatti il posto ad un moltiplicarsi di vane speranze. Piuttosto che al Sisifo
dell'Odissea, che ricomincia sempre lo stesso sforzo di spingere la sua
grossa pietra fino alla vetta di una montagna e viene meno all'ultimo
istante, bisogna pensare ad un'attività intelligente, inventiva, fertile di
ritrovati, di iniziative, di imprevisti, che si esercita in condizioni sempre
rinnovate in un modo sempre nuovo; pensiamo a quei progetti insensati di
cui Milton vorrebbe darci un'idea, quando tenta, senza riuscirei molto, di
descriverci il complotto degli angeli ribelli. L'inferno è una “storia”, non
una ripresa ciclica degli stessi avvenimenti. Il mito antico dell'eterno
ritorno, che inebria il Nietzsche di Zaratustra, e secondo il quale, una
volta che il numero delle trasformazioni possibili fra gli esseri sia esaurito,
tutto incomincerà da capo in modo identico, è un'assurdità. Agenti liberi
introducono, in realtà, continuamente nuovi effetti nella trama della
durata, dimodochè le circostanze non si ripetono mai immutate. L'attività
dell'inferno non è paragonabile al funzionamento di una macchina: è una
storia che si inventa e si svolge, un tentativo di rifare la creazione, di
costruire, di governare, di modificare incessantemente del mondi fittizi, di
cui potrebbe forse dare l'idea lo sforzo di Joyce che si ingegna, in
Finnegans Wake, di ricomporre e di confondere il tempo, la storia, il
linguaggio degli uomini per riportare, come è stato detto (63), la suprema
vittoria, quella dello scrivano che detronizza Dio (64).

7. “DIO È TROPPO BUONO PERCHÈ CI SIA UN INFERNO”

I) “Dio è troppo buono perché ci sia un inferno; è troppo buono per
tollerare un inferno, un inferno eterno!”. Ma è l'uomo che è responsabile
dell'inferno, non Dio. Per quanto Egli, nella sua bontà infinita, cerchi di
essere soccorrevole verso di noi, Dio non può tollerare che l'uomo Gli
voglia resistere. Si dice che “Dio è troppo buono per non perdonare? Ma è
proprio quello che fa: tutto, tutto perdona appena il cuore si pente. Se il
diavolo si pentisse, sarebbe immediatamente perdonato. Ma il peccato
senza pentimento non può essere perdonato, allo stesso modo che Dio non
può annientare Se stesso: il diavolo desidera un mondo per sé, un mondo
privo di Dio come lui, un fuoco quasi altrettanto penoso per lui quanto
quello della carità (e in cui tuttavia la pietà di Dio, che non è assente da
nulla, fa sì che si soffra meno di quanto si è meritato) (65). L'amore ha
creato tutto per diffondere la bellezza divina, esso non può essere vinto; se
mi rifiuto di manifestarlo in misericordia, lo manifesterò in giustizia.
Questo rifiuto è il mistero” (66).

2) Alla fine di Souvenirs d'enfance et de jeunesse, Ernest Renan scrive:
“Ricevo molte volte all'anno una lettera anonima che contiene queste
parole, scritte sempre con la medesima calligrafia: “Se però ci fosse un
inferno!”. Senza dubbio la persona pia che mi scrive vuole la salvezza
della mia anima, ed io la ringrazio. Ma l'inferno è un'ipotesi ben poco
conforme a ciò che, d'altronde, sappiamo della bontà divina”. E continua
con lo stesso tono divertito: “L'infinita bontà che ho incontrato a questo
mondo m'ispira là convinzione che l'eternità è piena di una bontà non
minore, nella quale ho una fiducia assoluta”.
“La bontà divina...”: quando Renan pronunzia queste parole, confessa, nel
medesimo libro, di essere entrato nella filosofia tedesca “come in un
tempio”, e di avere desiderato di essere “cristiano” come Herder, Kant,
Fichte.
“Ciò che, d'altronde, sappiamo della bontà divina...”. Ma che cosa
sappiamo della bontà divina? Quale libro, quale messaggio ce ne ha
rivelato le profondità infinite, le follie, se non il Vangelo? E quale libro,
nello stesso tempo, ci ha rivelato tanto i terribili rigori di Dio?

3) Apriamolo, per sfogliarlo quasi a caso: “Se il tuo occhio destro si
scandalizza, toglilo e gettalo lontano da te, poiché è meglio per te perdere
una sola delle parti del tuo corpo, che vedere tutto il tuo corpo gettato
nella Geenna” (Mt., V, 29); “Entrate per la porta stretta; poiché larga e
spaziosa è la via che porta alla perdizione; e molti la seguono?” (Mt., VII,
13); “Molti mi diranno in quel giorno: "Signore, Signore, non è forse in
nome Tuo che abbiamo profetizzato..., cacciato i demoni..., fatto del
miracoli? ". Allora dirò loro in faccia: "Non vi ho mai conosciuti"“(Mt.,
VII, 22-23); “Colui che mi rinnegherà davanti agli uomini, io lo
rinnegherò davanti a mio Padre che è nei cieli" (Mt., X, 33); “Colui che
ricerca la sua anima la perderà, e colui che perderà la sua anima per causa
mia, la ritroverà” (Mt., X, 39); “Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli
che strapperanno dal suo regno tutti gli scandali e gli autori di iniquità e li
getteranno nella fornace ardente in cui sarà pianto e stridore di denti” (Mt.,
XIII, 41-42, 50); “Allora, di due uomini che sono nei campi, uno sarà
preso e l'altro lasciato; di due donne intente a macinare, una sarà presa e
l'altra lasciata... Perciò dunque tenetevi pronti..., poiché è nell'ora in cui
non ve l'aspettate che verrà il Figlio dell'uomo” (Mt., XXIV, 40-44); “A
colui che ha, sarà dato, ed avrà in sovrabbondanza; ma a colui che non ha,
sarà tolto anche quello che ha” (Mt., XXV, 29). In san Luca troviamo gli
stessi avvertimenti: “Quelli che sono sul ciglio della strada sono quelli che
hanno udito, poi viene il diavolo che toglie la Parola dal loro cuore per
timore che credano e siano salvi” (VIII, 12); “Guai a te, Corozain, guai a
te, Betsaida... Nel giorno del giudizio, Tiro e Sidone saranno trattate con
meno rigore di voi” (X, 13-14); “Che accadano scandali è inevitabile, ma
guai a colui per colpa del quale accadono! Sarebbe meglio per lui che gli
si mettesse una pietra al collo e che. fosse gettato nel mare, piuttosto di
scandalizzare uno di questi piccoli. State bene in guardia!” (XVII, 1-3). E
in san Giovanni: “Non ho forse scelto voi Dodici? Eppure uno di voi è un
demonio” (VI,.7°); “Sono venuto in questo mondo per un giudizio: perché
coloro che non vedono, acquistino la vista, e perché coloro che vedono
diventino ciechi” (IX, 39); “Chi ama la sua vita la perde; chi odia la sua
vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (XII, 25).
C'è la parabola dell'uomo che è gettato fuori perché non ha voluto
procurare si l'abito nuziale (Mt., XXII, 11-14). C'è, contro gli scribi ed i
Farisei ipocriti, la serie delle sette maledizioni, che sono l'opposto di un
immenso Amore rifiutato, incapace di contenersi più a lungo:
“Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti
sono mandati, quante volte ho voluto riunire i tuoi figli, come una gallina
riunisce i suoi pulcini sotto le sue ali... e non avete voluto” (Mt., XXIII,
13-31, 37). C'è ancora quella parabola così sconcertante delle vergini
sagge e delle vergini stolte: “Signore, Signore, aprici! Ma egli rispose: " In
verità vi dico: lo non vi conosco! "” (Mt., XXV, 11-12). C'è infine la scena
sconvolgente del giudizio universale, la terribile equivalenza delle
sentenze e delle sanzioni: “Venite voi benedetti da mio Padre, prendete.
possesso del regno che vi è stato preparato fin dalla creazione del mondo”;
“Allontanatevi da me, maledetti, andate nel fuoco eterno che è stato
preparato per il Diavolo e per i suoi angeli” (Mt., XXV, 34, 41) (67). E
successivamente: “E questi se ne andranno ad una pena eterna ed i giusti
alla vita eterna” (XXV, 46) (68).

4) E c'è di più. Se è vero che il Verbo si è fatto carne, che il Figlio eterno
di Dio ha voluto venire in mezzo a noi per morire su di una croce
sanguinante, è possibile che una simile avventura, un annientamento così
inconcepibile, per parlare come l'Apostolo (Fil., II, 7), un sacrificio il cui
valore, poiché è teandrico, è assolutamente infinito, gli sia stato proposto
dal Padre celeste, e che egli abbia voluto compierlo liberamente, se non
per rimediare a quel male, esso pure infinito a suo modo, salvando gli
uomini dalla follia del peccato? Il mistero di una redenzione infinita
sarebbe forse spiegabile se non corrispondesse ad una miseria infinita?
Tali sono le due infinità che si contendono il cuore dell'uomo.

8. CONCLUSIONE
Abbiamo trattato il mistero terribile dell'inferno (69); non per dissi parlo:
sarebbe una follia. Esso è indissolubilmente legato ai misteri di quella
rivelazione che ci viene dall'alto ed alla quale tentiamo di aprire le nostre
anime. Bisognerebbe aderire profondamente a Dio, bisognerebbe, secondo il
detto dell'Apostolo, “essere con Lui un solo spirito” (I Cor., VI. 17),
perché i misteri incominciassero a chiarirsi allo sguardo della nostra
intelligenza, perché il mistero del male, considerato qui nel suo punto
supremo, cessasse di turbarci, di essere per noi quasi uno scandalo: uno
scandalo benedetto, messo sulla nostra strada per farei cadere nell'agguato
della fede e dell'amore. I santi hanno avuto talvolta, riguardo al mistero
dell'inferno, delle espressioni che fanno venire le vertigini. Riprendendo
l'invocazione delle Litanie: “Per i tuoi santi giudizi, liberami, o Signore”,
Angela da Foligno diceva: “Non vedo di più la bontà di Dio in un uomo
buono e santo, ed in molti uomini buoni e santi che in un dannato o nella
moltitudine del dannati. Questa profondità mi è stata rivelata una sola
volta, ma ne conservo sempre il ricordo e la gioia. E se tutto quello che
riguarda la fede venisse a mancarmi mi resterebbe tuttavia ancora
quell'unica certezza riguardo a Dio, quella del Suoi giudizi, della giustizia
del Suoi giudizi. Ma oh! quale profondità in questo! E tutto va a vantaggio
del buoni: ogni anima, infatti, che ha o che avrà la conoscenza di quei
giudizi e di quell'abisso, trarrà. frutto da tutto, attraverso a quella
conoscenza del nome di Dio” (70).
Per noi, la rivelazione dell'inferno, della sua coesistenza eterna con la
bontà infinità di Dio rimane un mistero che ci atterrisce per i bagliori che
getta negli abissi del nostro cuore. Ma sappiamo che non c'è alleanza
possibile fra il mistero e l’assurdo o la contraddizione, che l'uno è
adorabile, l'altro detestabile. Tutti coloro che rifiutano la rivelazione
dell'inferno, dichiarandola assurda, incominciano fatalmente col
deformarla e non si rifanno che a sue caricature.
Rimane il fatto che la luce che la manifesterà ci è ignota quaggiù. Essa è
nascosta dietro ad una tenda silenziosa, nel seno stesso della Trinità. Sarà
soltanto quando saremo passati dall'altra parte che si risolveranno gli
ultimi problemi, che cesserà per noi lo “scandalo”, che la bontà divina ci
apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma financo nella
pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere.
Finché vivremo il pensiero dell'inferno ci sconvolgerà: è una spina nel
nostro cuore che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una
fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli,
perché nessuno fra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà
infinita di cui l'Apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Gal.,
VI, 7).

II. LA PENA TEMPORALE DEL PECCATO.
La pena del senso, di cui abbiamo parlato, può, in due circostanze,
coesistere con la carità, e, in seguito a ciò, cessare di essere irreparabile ed
eterna per diventare espiabile e temporale: nel caso del peccato veniale, e
nel caso del peccato mortale che Dio ha perdonato.
I) O il peccatore non ha distrutto in sé la carità che lo dispone verso il suo
vero ultimo fine: la sua colpa ha influito soltanto, per incoerenza, sui
mezzi propri a condurvelo: è simile all'ammalato che, senza cessare di
desiderare più di tutto la salute, si permette talvolta di non attenersi al
regime impostogli. Ecco il peccato veniale: non c'è rottura con il fine
ultimo (aversio a Deo), ma semplice attaccamento disordinato alle
creature (conversio deordinata ad bonum creatum) (71).
La carità permetterà al peccatore di sconfessare e di purificare la sua
colpa, fin da quaggiù (72). Allora egli si aprirà pienamente al perdono
divino. Tuttavia dovrà riequilibrarsi con l'ordine della creazione, che è
buono in sé e che egli ha turbato. Ecco la pena del senso.
La carità che è in lui, gli farà d'altra parte desiderare questo ristabilimento
dell'equilibrio per mezzo della pena. Se egli è ancora nello stato di
passaggio, le penitenze che si imporrà, le sofferenze che accetterà con
amore, prenderanno un carattere di compenso, di soddisfazione (73); per
di più saranno meritorie e intensificheranno in lui la carità. Se è passato
nell'al di là, cioè nel purgatorio, continuerà ad invocare egli stesso
ardentemente quel ritorno all'equilibrio, che allora sarà per lui
esclusivamente un'espiazione ed una soddisfazione, senza che possa più
contribuire ad elevare in lui il livello della grazia.

2) Oppure il peccato è stato mortale, la carità è stata annientata. Ma Dio ha
perdonato. “L'universo non può perdonare, poiché non conosce né pietà né
misericordia, ma Dio lo può fare; la Sua misericordia non è contraria alla
Sua giustizia; essa è al di sopra della giustizia, e non le è opposta. "
Usando misericordia - dice san Tommaso (74) - Dio non agisce contro
giustizia, ma al di sopra della giustizia... Rimettere o perdonare infatti
significa donare liberamente... La misericordia non sopprime la giustizia,
essa ne è la pienezza”. Vi è stato un libero dono, non esiste più colpa,
quindi non esiste pena né ristabilimento di equilibrio dovuto riguardo a
Dio” (75). Quel raggio della Sua carità, che, nel momento in cui io lo
rifiutavo, Dio aveva liberamente ritirato da me, Egli ora me lo rende, per
cui eccomi nuovamente ordinato verso di Lui. Non vi è più rottura con
Dio, non vi è più obbligo della pena del danno.
Ma una pena del senso o un ristabilimento dell'equilibrio in rapporto
all'universo della creazione, può normalmente essere ancora dovuto.
L'uomo perdonato ed unito a Dio, che vuole ciò che la giustizia richiede
ancora, vi acconsente. Tale ristabilimento dell'equilibrio, se si compie
quaggiù, offre soddisfazione ed è meritorio, se viene differito o se rimane
incompiuto, diverrà nell'al di là puramente espiatorio.

3) Il modo con il quale Dio guarisce il corpo spiega quello con il quale
salva le anime (76). Talvolta la guarigione è improvvisa: come per la
suocera di Pietro (Lc., IV, 39); talvolta è progressiva, come per il cieco di
Betsaida (Mc., VIII, 22-25). La stessa cosa si può dire per le conversioni.
Alcune sono eccezionali e, in questo senso, miracolose; l'amore verso Dio
che annulla la colpa e la pena della dannazione s'accompagna, riguardo al
disordine del peccato, con una contrizione così profonda, così dolorosa,
che è sufficiente a compensare in un istante tutti i traviamenti del passato
(77); pensiamo alla peccatrice ai piedi di Gesù (Lc., VII, 47) o al perdono
del buon ladrone (Lc., XXIII, 43). .
Ma normalmente le conversioni sono progressive; la mozione della grazia
si conforma in esse al processo dell'agire umano che si porta prima sui fini
per passare successivamente all'uso del mezzi. Sotto la mozione della
grazia in un primo tempo operante, in cui l'uomo consente senza dover
deliberare, l'anima, in un primo tempo, ripara contemporaneamente in
modo definitivo la sua rottura verso Dio (aversio a Deo) con un atto di
carità (virtù teologale) e di contrizione (virtù morale di penitenza); e ripara
inizialmente il suo squilibrio riguardo all'universo (conversio in ordinata
ad creaturas) per mezzo di un atto di soddisfazione (virtù morale di
penitenza). Poi, in un secondo tempo, sempre sotto l'impulso della grazia,
ma unicamente cooperante, incomincia a deliberare e ad agire collo scopo
di liberarsi pienamente dalla pena del senso (78).

4) Il concetto di una pena temporale dovuta al peccato (respinto da Lutero
in forza della sua dottrina sulla giustizia imputativa) (79) è presente nella
Scrittura.
Le penalità nelle quali incorre il primo uomo dopo la sua caduta,
sopravvivono al perdono che Dio gli concederà (Gen., III, 16 e seguenti).
Maria, moglie di Aaron, deve essere segregata anche dopo l'intercessione
di Mosè in suo favore (Numeri, XII, 14). Mosè e Aaron, per avere esitato a
colpire la roccia, non entreranno nella terra promessa (Numeri, XX, 12).
Davide è perdonato del suo adulterio, ma non sfuggirà alle sofferenze (II
Samuele, XII, 13-14).
La penitenza, continuamente predicata nel Nuovo Testamento, e che
consiste, prima di tutto, in un rivolgimento del cuore, invita l'uomo, anche
giustificato, a fare delle rinunzie riguardo ai suoi beni temporali con
l'elemosina, riguardo ai suoi beni corporali con il digiuno, e riguardo ai
beni spirituali con l'umiltà della preghiera.
E come ci ha riscattati il Salvatore se non per mezzo di un amore che è
sceso fino alle opere, fino all'accettazione (non per dispensarcene, ma per
invitarci a sopportarle seguendo il suo esempio) delle privazioni, delle
sofferenze, della morte?
Le forme della pena temporale ristabiliscono di per sé l'equilibrio fra noi e
l'universo, a nostro danno, menomandoci per mezzo della sofferenza. Ma
chi le accetta con amore lancia nell'universo un atto buono, accresce
l'essere dell'universo; allora l'universo accrescerà l'essere di quell'agente
affinché la bilancia fra di loro rimanga stabile.
Al compenso dato attraverso la pena corrisponderà un sovraccompenso
attraverso l'amore (80).

NOTE
(1) Le sofferenze espiatrici del Cristo sono una conseguenza del nostri peccati.
(2) E' la bontà divina che, dando, per esempio, all'uomo la sua natura, è all'origine di
tutto ciò che è dovuto naturalmente a quella natura: “Così la misericordia appare in
ogni opera di Dio, come quella che ne è la prima radice, in quolibet opere Del
apparet misericordia quantum ad primam radicem ejus” (SAN TOMMASO, I, q. 21,
a. 4).In un certo senso l'amore stesso di Dio è presente all'inferno, ma come rifiutato.
Così si comprenderà quel passo di ISAAC IL SIRIANO: “Coloro che si troveranno
nella Geenna saranno flagellati dal flagello dell'amore. Quanto sarà crudele ed amaro
quel tormento di amore! Coloro che comprendono di aver peccato contro l'amore
subiscono una sofferenza più grande di quella prodotta dalle più terribili torture. Il
dolore che afferra il cuore colpevole contro l'amore è più acuto di ogni altra pena.
Non è giusto dire che i peccatori in inferno sono privati dell'amore di Dio... Ma
l'amore agisce in due modi differenti: diventa sofferenza nei reprobi e gioia nei beati”
(Cit. da VLADIMIR LOSSKI, Essai sur la théologie mystique de l'Église d'Orient,
Aubier, Paris 1944, p. 232).
(3) JEAN HERVÉ NICOLAS, Amour de Dieu et tremblement, in “La Vie
spirituelle”, ottobre 1958, p. 239.
(4) SAN TOMMASO, I-II, q. 79, a. 3 (V. indietro, p. 190).
(5) J. H. NICOLAS, op. loc. cit., pp. 231-32.
(6) Mentre Dio non vuole in alcun modo il male della colpa, si può dire che Dio vuole
“il male della natura ed il male della pena, in quanto egli tende al bene al quale quel
male è collegato; volendo la giustizia, vuole la pena, volendo la conservazione
dell'ordine naturale, vuole la corruzione di certi esseri” (SAN TOMMASO, I, q. 19, a.
9).
(7) Oserò citare questo fatto? Non sono le terzine che Dante ha scolpito sulla porta
del suo Inferno che hanno convertito un amico che mi è caro; ma è la certezza
spaventosa che è piombata improvvisamente in lui (egli ricorderà sempre il luogo ed
il momento) che l'inferno è un luogo in cui l'amore è reciprocamente rifiutato (V.
avanti, pp. 217-22).
(8) V. avanti, p. 296.
(9) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
cit, pp. 180-82 (V. indietro, p. 88).
(10) N. BERDIAEV, Esprit et liberté. Essai de philosophie çhrétienne, ed. “Je sers”,
Paris 1933, p. 341.
(11) IBID., p. 34D.
(12) IBID., p. 342.
(13) IBID.
(14) IBID., p. 340.
(15) IBID., p. 341.
(16) IBID.
(17) “La nuova anima cristiana non può più riconciliarsi moralmente con l'antica
escatologia. E' assai difficile ammettere una metafisica che faccia dipendere il destino
eterno dell'anima dalla vita temporale che trascorre dalla nascita alla morte. Con una
simile concezione la nostra breve vita terrestre sembrerebbe un tranello, e la dignità
dell'eternità rimarrebbe determinata da un'esperienza la cui durata è insignificante”
(“incubo religioso”) (IBID., p. 339). Per Berdiaev, la libertà, anteriore a Dio, non è un
dono che viene da lui. L'anima umana non è creata nel momento del suo
concepimento; essa è preesistente nel mondo spirituale (Platone). Essa non è destinata
né a reincarnazioni senza fine (contro Platone: “incubo occultista e teosofico”) né ad
annientarsi in Dio (“incubo mistico”), ma ad entrare un giorno nell'eternità e nel
Regno di Dio. (IBID., pp. 341-43. Qui Berdiaev non è fedele a Dostojevskij, v.
avanti, p. 222).A queste rivendicazioni della “nuova anima cristiana”, opponiamo
KIERKEGAARD: “Con tutti i suoi lumi, la nostra epoca, che trova degli
inconvenienti ad attribuire a Dio forme e sentimenti umani, non ne trova però a
vedere in Dio, come giudice, un semplice giudice di pace o un magistrato militare
sopraffatto da un così vasto processo...; così si conclude che accadrà la stessa cosa
nell'eternità, che è sufficiente unirsi, assicurarsi che i pastori predicheranno nello
stesso senso. Basta essere numerosi, molto numerosi, ed essere gomito a gomito, e
saremo garantiti dal giudizio dell'eternità. h! noi lo saremmo senza dubbio! se non si
diventasse individui che nell'eternità. Ma individui lo eravamo, e davanti a Dio lo
restiamo sempre; anche. l'uomo chiuso in un armadio di vetro è meno in soggezione
di quanto lo è ciascuno di noi davanti a Dio nella sua trasparenza. Questa è la
coscienza. E' essa che dispone tutto in modo che un rapporto immediato tiene dietro a
ciascuna delle nostre colpe, e che il colpevole stesso ne è il redattore. Ma lo si scrive
con un inchiostro che diventa leggibile soltanto controluce di fronte alla luce eterna,
quando l'eternità riesamina la coscienza. In fondo, entrando nell'eternità, siamo noi
stessi che portiamo e consegniamo la lista minuziosa delle nostre più piccole
mancanze, commesse od omesse. La giustizia nell'eternità, dunque, potrebbe
esercitarla anche un bambino: poiché tutto, anche le nostre minime parole, è
registrato. Il colpevole che quaggiù è in cammino verso l'eternità ha la stessa sorte di
quell'assassino che, in treno, fugge a tutta velocità il luogo del delitto ed il suo delitto
stesso. Ahimè! lungo la strada che lo porta, corre il filo telegrafico che trasmette la
sua segnalazione e l'ordine di arrestarlo alla prossima stazione. Qui vi, quando scende
dal vagone, è già prigioniero (egli stesso ha, per così dire, causato l'epilogo)” (s.
KIERKEGAARD, Traité du désespoir, [Vie Krankheit zum Tode], Gallimard, Paris
1932, pp. 238-40).
(18) F. DOSTOJEVSKIJ, I fratelli Karamazov, lib. V, cap. 4, La rivolta.
(19) V. indietro, p. 58.
(20) V. avanti, p. 244, nota 69.
(21) Un po' più avanti Dostojevskij ricorda la leggenda della Vergine che supplica
perché il Padre perdoni persino ai carnefici di suo Figlio, ed ottiene che ci sia ogni
anno una tregua per i dannati dal venerdì santo alla Pentecoste. Sulla questione di una
mitigazione possibile delle pene dell'inferno: cfr. c. JOURNET, Destinée d'Israel,
Luf, Paris 1945, pp. 416-27.
(22) SAN TOMMASO, III, q. 84, a. 8.
(23) Come vediamo, qui viene ripresa l'idea di Berdiaev.
(24) F. DOSTOJEVSKIJ, I fratelli Karamazov, lib. VI, cap. 3.
(25) B. PASCAL, Pensées, n. 515.
(26) T. DELAPORTE, Pamphlet contre les catholiques de France, n. 131.
(27) J. MARITAIN, L'immortalité du soi, in De Bergson à Thomas d'Aquin, Essai de
métaphisique et de morale, La Maison Française, New York 1954, pp. 143-44.
(28) ID., p. 144.
(29) IBID., pp. 144-46.
(30) Moralium (lib. XXXIV, cap. 19 [16], n. 36; P.L., tomo LXXVI, col. 738): “I
cattivi non 'hanno peccato che per un certo tempo, perché sono vissuti per un certo
tempo, ma la loro aspirazione era di vivere senza fine, per poter rimanere senza fine
nelle iniquità. Il loro desiderio è di peccare più che di vivere: se essi desiderano di
vivere sempre, è per non interrompere il loro peccato finché la loro vita dura” (Cfr.
testo parallelo in Dialogorum, lib. IV, cap. 44; P.L., tomo LXXVII, col. 4(4).
(31) SAN TOMMASO, I-II, q. 87, a. 3, ad I.
(32) Avisos, in Obras de Juan de la Cruz, cit., tomo IV, p. 240.
(33) La spiegazione di SANTA CATERINA DA SIENA è diversa; secondo lei il
cattivo ricco non agisce certamente per carità, ma per timore di vedere i suoi tormenti
crescere per la dannazione del suoi fratelli (Dialogo, Lethielleux, Paris 1913, tomo II,
p. 130).
(34) “Dio può perdonare come vuole e non tralascia di farlo. Ma il peccato che erge
attualmente la creatura contro di lui non è suscettibile di perdono poiché è tanto un
rifiuto al perdono quanto alla sottomissione. Il perdono è atto di amore... e il dannato
si pone egli stesso ostinatamente fuori dell'amore” J. H. NICOLAS, La Vie
spirituelle, 1958, p. 239.
(35) YAHYA ( +872).
(36) “In peccato mortali sunt duo, scilicet aversio ab incommutahili bono, et
conversio ad commutabile bonum inordinata” (SAN TOMMASO, III, q. 86, a. 4).
(37) “In quolibet autem peccato mortali principalis ratio mali et gravitas est ex hoc
quod (homo) avertit se a Deo” (ID., II - II, q. 20, a. 3. Cfr. il nostro studio di molti
anni fa: La peine temporelle du péché, in “Revue Thomiste”. 1927, pp. 20-39 e 89-
103).
(38) Cfr. SAN TOMMASO (I-II, q. 87, a. 1): “Utrum reatus poenae (cioè l'obbligo
alla pena) sit effectus peccati?”. R.: “Quicumque peccat, contra aliquem ordinem agit;
et ideo ah ipso ordine consequens est quod deprimatur”. E più sotto (ID., a. 3):
“Manente autem causa, manet effectus; unde quamdiu perversitas ordinis remanet,
necesse est quod remaneat reatus poenae”.
(39) Cfr. IBID. (I-II, q. 87, a. 4: “Utrum peccato debeatur poena infinita secundum
quantitatem?”. Ed ecco la risposta: “Ex parte aversionis respondet peccato poena
damni, quae etiam est infinita; est enim amissio infiniti boni, scilicet Del. Ex parte
autem inordinatae conversionis respondet ei poena sensus, quae etiam est finita”.
(40) Cfr. IBID. (I-II, q. 87, a. 3): “Utrum aliquod peccatum inducat reatum aeternae
poenae?”. R. “...Si per peccatum corrumpatur principium ordinis quo voluntas
hominis subditur Deo, erit inordinatio, quantum est de se, irreparabilis, etsi reparari
possit virtute divina... Et ideo quaecumque peccata avertunt a Deo, charitatem
auferentia, quantum est de se, inducunt reatum aeternae poenae”.
(41) IBID. (a. 5, ad. 3): “Aeternitas enim poenae non respondet quantitati culpae, sed
irremissibilitati ipsius”.
(42) IBID., I, q. 64, a. 2, ad. 3.
(43) S. KIERKEGAARD, Traité du désespoir, cit.
(44) LOU ANDREAS SALOMÉ, Frédéric Nietzsche, Grasset, Paris 1932, p. 29.
(45) ID.
(46) “Sic, non esse accipit rationem boni” (SAN TOMMASO, IV Sent., dist. 50, q. 2,
a. 1, quaest. 3).
(47) s. KIERKEGAARD, Traité du désespoir, cit., p. 75.
(48) J. MARITAIN, Le péché de l'ange, in “Revue Thomiste”, 1956, p. 233.
(49) Sull'insegnamento di san Tommaso sulla pena del senso o del fuoco, v. Les
anges et le cosmos, in “Nova et Vetera”, 1953, pp. 146-47.
(50) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
cit., pp. 72 c sgg. 173, 182 sgg.
(51) ID., p. 183. (V. indietro, p. 210).
(52) IBID., p. 184.
(53) IBID., p. 75. (V. indietro, p. 57).
(54) IBID., pp. 185-86.
(55) IBID., pp. 73-74.
(56) Cfr. J. H. NICOLAS, La Vie spirituelle (1958, pp. 237-38): “Il peccato è un
abuso di libertà. L'essere libero deve da se stesso e attraverso ad una sua propria
decisione entrare in un ordine che è al di sopra di lui e che lo coinvolge. In questo
modo fa suo quell'ordine e il bene che lo polarizza, guadagnando il diritto a riceverne
la sua parte. Questo è il merito. Ma questo privilegio non esiste senza una terribile
contropartita: l'uomo può, per la medesima facoltà, sottrarsi all'ordine, cercare di
imporre il suo proprio ordine, di cui sarà il centro, di cui il suo bene particolare
(quello che egli si è scelto) sarà il principio regolatore. Un tale disordine colpisce
prima di tutto il peccatore stesso: l'ordine imposto da Dio non è arbitrario, esso è
quello, il solo, nel quale la creatura libera può trovare il proprio compimento. La
dannazione sanziona la sconfitta del peccatore nel porsi al di fuori di Dio”.
(57) v. le pp. su Les anges et le cosmos, in “Nova et Vetera”, 1953, p. 139.
(58) Cfr. SAN TOMMASO, IV Sent. (ist. 50, q. 2, a. 1, quaest. 2): “Mali igitur non
poenitebunt per se loquendo de peccatis, quia voluntas malitiae peccati in eis
remanet...”.
(59) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
cit., pp. 189-90.
(60) Cfr. SAN TOMMASO, Compendium theologiae, cap. 174.
(61) ID., IV Sent., dist. 50, q. 2, a. 1, quaest. I.
(62) “Fra i demoni può esserci, non la pace, ma la concordia. Questa non risulta
dall'amicizia che hanno fra loro, ma dalla comune malizia che fa sì che odino gli
uomini e si oppongano alla giustizia di Dio... Che gli inferiori obbediscano ai
superiori non è un vantaggio per questi ultimi, poiché fare il male è una miseria, e
comandare nel male non serve ad altro che ad accrescerlo” (IBID., I, q. 109, a. 2, ad.
2-3).
(63) J. PARIS, James Joyce par lui-meme, Seuil, Paris 1957, p. 188.
(64) V. avanti, p. 297.
(65) Cfr. SAN TOMMASO, I, q. 21, a. 4, ad. L
(66) J. MARITAIN, Réponse à Jean Cocteau, Stock, Paris 1926, p. 15.
(67) E' tutto l'orrore dell'inferno, che comprende soprattutto la pena del danno, ma
anche la pena del senso, quella cui Gesù allude nel Vangelo parlando del fuoco (V.
Les anges el le cosmos, “Nova et Vetera”, 1953, pp. 143-45).
(68) Si potrebbero citare molti altri passi del Nuovo Testamento. Per esempio, san
Paolo: “Tu fai conto... di sfuggire al giudizio di Dio? Oppure disprezzi le ricchezze di
bontà, di pazienza, di longanimità, senza riconoscere che quella bontà ti esorta al
pentimento? Per la tua ostinazione e per l'impenitenza del tuo cuore, accumuli contro
di te un tesoro di collera per il giorno della collera, quando sarà rivelato il giusto
giudizio di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue opere...” (Rom., II, 3-6); il
Signore “illuminerà i segreti delle tenebre e renderà manifesti i disegni del cuori” (1
Cor., IV, 45); “Non sapete che gli ingiusti non ereditano nulla del regno di Dio? Non
vi ingannate! Né impudichi, né idolatri, né adulteri, né depravati, né infami, né ladri,
né avidi e neppure ubriachi, insultatori, o rapinatori erediteranno il regno di Dio”
(IBID., VI, 9- 10): “Dobbiamo comparire tutti davanti al tribunale del Cristo affinché
ciascuno riceva ciò che avrà fatto mentre era nel suo corpo, sia in bene che in male”
(II Cor., V, 10); ed ecco il testo più esplicito: “Il Signore Gesù apparirà dall'alto del
cielo con gli angeli della sua potenza, in mezzo ad una fiamma ardente, farà giustizia
di coloro che non conoscono Dio e di coloro che non ubbidiscono al Vangelo... Quelli
subiranno secondo giustizia una perdita eterna, allontanati dalla presenza del Signore
e dalla gloria della sua potenza...” (II Thess., I, 7-9).
Troviamo la stessa dottrina nell'Apocalisse: “Ma i vili, i rinnegati, i depravati, gli
assassini, gli impuri, i maghi, gli idolatri, in una parola tutti gli uomini menzogneri
hanno il loro posto nello stagno ardente di fuoco e di zolfo: è la seconda morte”
(XXI, 8).
(69) Non possiamo adottare come nostro questo passo di PADRE TEILHARD DE
CHARDIN: “Mi avete detto, mio Dio, di credere nell'inferno. Ma mi avete proibito di
pensare con assoluta certezza, riguardo ad un solo uomo, che egli sia dannato. Non
cercherò dunque qui di considerare i dannati, e neppure di sapere in qualche modo se
ne esistano; ma accettando sulla vostra parola l'inferno come un elemento strutturale
dell'universo, pregherò, mediterò, fintantoché, in quella cosa terribile, appaia per me
un complemento fortificante, anzi beatificante riguardo alle prospettive che mi avete
aperte sulla vostra onnipotenza” (Le milieu divin, Seuil, Paris 1957, p. 189). Oltre al
fatto che ci pare queste righe rassomiglino troppo ad una scappatoia, noi non
crediamo, secondo le parole sottolineate da Teilhard stesso, che l'inferno, che è il
risultato del peccato mortale, possa essere un elemento strutturale dell'universo. Una
tale asserzione ci pare inconsciamente blasfema. Si è visto sopra (p. 89), che il male
non è una parte dell'universo; ciò è vero a fortiori riguardo all'inferno dove si
perpetua il male della colpa.
(70) Libro della Beata Angela da Foligno, fine della I parte, verso la metà del VII
passo.
(71) “Quando vero fit coordinatio citra aversionem a Deo, tunc est peccatum
veniale”, SAN TOMMASO (I-II, q. 72, a. 5).
(72) Soprattutto nel momento in cui sente. venire la morte (Cfr. SAN TOMMASO,
De malo, q. 7, a. 2). Altrimenti sconfessare le sue colpe veniali sarebbe il suo primo
atto quando entra nel purgatorio (ID., q. 7, a. 2, obiez. e risp. ad. 16). .
Ciò che SANTA CATERINA DA GENOVA chiama la “ruggine del peccato” non è
altro che la pena del senso: “Le anime che sono nel purgatorio si trovano senza la
colpa del peccato. Di conseguenza, non c'è ostacolo fra Dio e loro, fuorché quella
pena che le trascina...” (Traité du purgatoir, in Sainte Catherine de Génes, Desclée
De Brouwer, Paris 19,60, p. 20'5).
(73) La pena satisfatoria, in quanto sofferenza, contrasta con la volontà, è un male
(fisico o ontologico); in quanto liberamente scelta o sopportata, può divenire un gran
bene (morale) (SAN TOMMASO, I-II, q. 87, a. 6).
“La pena afflittiva ristabilisce l'equilibrio nella creazione per mezzo di un meno (che
viene introdotto nell'autore del male). La pena satisfatoria, o volontariamente
accettata, ristabilisce l'equilibrio nella creazione per mezzo, contemporaneamente, di
un meno e di un più, che è l'amore. Essa comporta così un elemento di
supercompensazione” (J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la
philosophie morale, cit., p. 186).
(74) SAN TOMMASO, I, q. 21, a. 3. ad. 3).
(75) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières dc la philosophie morale,
cit., p. 188.
(76) Cfr. SAN TOMMASO, III, q. 86, a. 5, ad. I; I-II, q. 113, a. 10.
(77) “Quando lo spirito si stacca dal peccato, accade che la sua disapprovazione
(displicentia) per il suo peccato, e la sua adesione a Dio siano così ardenti che
scompare ogni obbligo di pena... L'amore di Dio è sufficiente per fissare lo spirito
dell'uomo nel bene, soprattutto se è ardente, e la disapprovazione della colpa passata,
quando è intensa, si accompagna con un grande dolore. Di conseguenza, l'ardente
amore di Dio e l'odio del peccato passato liberano dall'obbligo di una pena che sia
satisfatoria o purificatrice. Se l'intensità non è tale da annullare totalmente la pena,
per lo meno essa la diminuisce in proporzione” (ID., III Contra Gentiles, cap. 158).
(78) “Talora Dio travolge il cuore dell'uomo con un'emozione tale che egli riacquista
immediatamente una perfetta guarigione spirituale: non soltanto il peccato è rimesso,
ma, nello stesso tempo, tutti gli avanzi del peccato; pensiamo alla Maddalena. Talora,
invece, la colpa viene rimessa, in un primo tempo, dalla grazia operante, poi, in
seguito, per mezzo della grazia cooperante; scompaiono successivamente gli avanzi
del peccato” (IBID., III, q. 86, a. 5, ad.1. V. anche IBID., a. 4, ad. 2).
(79) Cfr. La peine temporelle du péché, in “Revue Thomiste”, gennaio-febbraio 1927,
p. 21.
(80) Cfr. J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie
morale, cit., pp. 73, 186.


CAPITOLO OTTAVO

LE PROVE DELLA VITA PRESENTE
Quando si è parlato del male della natura, del male supremo che è il
peccato, del male della sua pena eterna o temporale, non si è detto tutto.
Rimangono ancora per l'uomo innumerevoli mali, fra i quali la sofferenza
e la morte, che un puro filosofo potrebbe considerare come naturali, ma
che, agli occhi della fede cristiana (e di conseguenza della teologia e della
filosofia cristiana) rivestono un carattere penale nella misura nella quale
sono effetto del peccato. Qual è la prima origine di tali mali?
I. LA LORO PRIMA ORIGINE
Tutte le prove della nostra vita umana sono dovute al peccato, ma in modi
diversi: alcune dipendono dal peccato originale, altre dai nostri peccati
personali.

a) La giustizia originale e le sue prerogative.
Nei racconti ingenui e nello stesso tempo misteriosi della creazione sono
racchiusi del profondi dati teologici. Dal seno della Sua bontà infinita, Dio,
creando l'uomo avrebbe potuto, senza alcun dubbio, affidarlo alle sole
risorse della sua natura sensibile e ragionevole; ma Egli ha fatto di più: ha
profuso in lui i doni della santità e della giustizia originale. Il primo di
questi doni era soprannaturale, cioè quello della grazia santificante, che
rendeva l'uomo partecipe della natura divina e lo preparava all'incontro
con la visione beatifica. Questa grazia (ed è in ciò che differiva dalla
nostra) era inoltre trasformatrice. Essa rafforzava intensamente il triplice,
ma fragile dominio naturale dell'anima sul corpo, della ragione sulle
passioni, dell'uomo stesso sul mondo esterno. Di qui tre doni
preternaturali: non malattie né morte; non ignoranza né turbamenti
passionali; non conflitti con il mondo esterno che si presentava come un
giardino, non perché fosse diverso da oggi, ma perché il rapporto che lo
legava all'uomo era diverso da quello di oggi. Così la condizione del primo
uomo non era la condizione drammatica, naturale per un essere composto
di spirito e di corpo, di ragione e di passioni; era, al contrario, una
condizione di armonia, ed Adamo doveva trasmetterla a tutti i suoi
discendenti (I).

b) Gli effetti irrimediabili della caduta.
Si potrebbero considerare gli effetti della caduta originale nei bambini che
muoiono prima di essere stati battezzati (2). Tenteremo di definire qui la
sua risonanza sugli uomini che vivono nel tempo.
La caduta sopraggiunge privando irrimediabilmente l'uomo della grazia
originale e delle prerogative che ne derivano. Immediatamente sorgono i
conflitti fino allora dominati, che oppongono fra loro l'anima ed il corpo, la
ragione e le passioni l'uomo ed il mondo esterno. Se si considera, come
potrebbe farlo un puro filosofo, soltanto la costituzione essenziale
dell'uomo, spirito e corpo, posto perciò al fulcro di due mondi, questi
conflitti potrebbero sembrare normali e naturali, per lo meno in un primo
momento. Ma se si crede alla rivelazione giudaico-cristiana, e si considera
la vera condizione esistenziale dell'uomo, caduto per sempre per sua colpa
da un primitivo stato di felicità, quei medesimi conflitti porteranno
nettamente l'impronta di un carattere penale. Di qui derivano le sanzioni
del Genesi (III, 17-19): «Sia maledetta la terra per causa tua!... Mangerai il
pane (3) con il sudore della tua fronte, finché, ritornerai alla terra donde tu
fosti tratto». E il grande insegnamento dell'Apostolo: «E' per questo che,
come per mezzo di un uomo solo il peccato è entrato nel mondo, e con il
peccato la morte, e così la morte è passata in tutti gli uomini, perché tutti
hanno peccato...» (Rom., V, 12). E più oltre: «Poiché il compenso del
peccato è la morte» (VI, 23) (4). Così ci è rivelato il senso profondo della
credenza che vede nella malattia una specie di impero e di presa di
possesso del demonio; e si può pure credere che è la visione di tutta la
rovina dell'umanità che turba Gesù quando piange sulla morte di Lazzaro
(Gv., XI, 35).

Senza dubbio la grazia santificante sarà nuovamente offerta, agli uomini
nello stesso giorno successivo a quello della caduta, ma senza le
prerogative trasfiguratrici dello stato di innocenza che sono per sempre
perdute e che lasceranno il posto a virtù più misteriose, capaci di rendere
gli uomini simili alloro Salvatore crocifisso. Al tempo della grazia
adamitica succederà il tempo della grazia cristica. Col battesimo, scrive
san Tommaso, il Cristo libera immediatamente l'uomo «da tutto ciò che
affligge la sua persona stessa, cioè, da una parte, dalla colpa del peccato
originale, e dall'altra, dalla pena che ne consegue, cioè dalla privazione
della visione divina. Ma le penalità della vita presente, quali la morte, la
fame, la sete, ecc. colpiscono la natura umana, da cui derivano come dal
loro principio, da quando essa è privata della giustizia originale; ed è per
questo che quelle miserie, defectus, scompariranno soltanto al momento
della suprema riparazione della nostra natura per mezzo della risurrezione
gloriosa» (5).

c) E' possibile per la ragione ammettere il fatto di una catastrofe iniziale?
Agli occhi della fede e del pensiero teologico e filosofico che essa ispira,
le prove della vita presente appaiono dunque come delle pene. Accade la
stessa cosa agli occhi della semplice ragione?
Se, come abbiamo detto, la vita dell'uomo, orizzonte fra due mondi, è per
natura drammatica, il triplice conflitto fra l'anima ed il corpo, la ragione e
le passioni, l'uomo ed il mondo esterno che ora ci strazia, potrà, almeno a
tutta prima, apparire normale e naturale; e il fatto di una caduta iniziale,
lungi dall'essere evidente come pretendeva Pascal, potrà rimanerci
nascosto.
Tuttavia, riflettendo con maggiore attenzione, da una parte sul disegno
divino generale di subordinare le realtà inferiori alle superiori, e dall'altra
sulla dignità eminente della nostra anima spirituale, potrà sembrare che il
peso del corpo sull'anima, delle passioni sulla ragione, dell'universo
sull'uomo sia troppo pesante, troppo opprimente, sovente troppo funesto,
per non lasciare intuire uno stato primitivo più felice, distrutto da qualche
misteriosa catastrofe.
Tale è il pensiero di san Tommaso: «Le miserie o difetti della vita
presente, se si considera la natura umana in senso assoluto con ciò che essa
comporta di debolezza, appaiono come naturali all'uomo. Tuttavia,
considerando da una parte la divina provvidenza e dall'altra la dignità della
parte superiore della nostra natura, si può stabilire con sufficiente
probabilità, satis probabiliter probarì potest, che queste miserie hanno un
carattere penale.
«E, poiché la pena segue il peccato, si può concludere che il genere
umano è stato or1ginariamente corrotto da qualche peccato» (6).

d) Molteplicità delle nostre miserie.
Le pene di questa vita sono corporali e spirituali.
«Fra le pene corporali - scrive san Tommaso - la prima è la morte, verso la
quale tutte le altre, come la fame e la sete, ecc. sono ordinate. Fra le pene
spirituali, la prima è la debolezza della ragione, la quale fa sì che l'uomo
non giunga, se non con difficoltà, alla conoscenza del vero (7), scivoli
facilmente nell'errore e non riesca a vincere totalmente gli appetiti brutali,
ma ne sia sovente annebbiato» (8).
Il regno delle miserie umane non ha limiti: male dell'ignoranza e
dell'errore, male della tentazione e dello scandalo, male del dolore e della
morte che non risparmia neppure i bambini, male della sofferenza morale:
solitudine, lutti, angosce di ogni genere, agonie, ecc.
Come potranno le riflessioni che esporremo in questo capitolo essere
esaurienti? Il loro unico scopo sarà di indurre a fare un passo avanti nella
visione del mistero del male, di cui abbiamo detto che non si può
considerarlo se non alla luce del mistero di Dio. Ma prima di tutto
dobbiamo richiamare l'attenzione su un duplice fatto.

e) Le pene di questa vita sono aggravate dalla nostra malizia, ma possono
essere trasfigurate dalla fede.
Le pene di questa vita sono innumerevoli e strazianti: esse colpiscono così
brutalmente, così ciecamente, sconvolgono così totalmente la nostra
ragione e lasciano il nostro spirito così sovente senza luce che l'unica via
d'uscita è pensare che esse possono procurare delle ricompense infinite per
l'al di là. Questa è la risposta della fede: «lo credo - dice l'Apostolo - che le
sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che deve
essere manifestata in noi» (Rom., VIII, 18).

I) Ma nell'immensità delle nostre sventure (e questa è la prima cosa da
ricordare) le pene che ci vengono dal peccato originale, da sole,
conterebbero ben poco. La marea delle sofferenze che si sferra contro
l'umanità è il risultato diretto od indiretto delle sue proprie azioni
volontarie, del suo orgoglio, delle sue ambizioni, delle sue gelosie, del suoi
odii, delle sue crudeltà, delle sue follie, assai più che dell'eredità di Adamo
(9).
Abbiamo parlato del peccato per dimostrare che esso non può in alcun
modo avere Dio come autore; l'altro lato del problema del peccato rivela la
serie infinita delle rovine fisiche e morali che esso attira sull'umanità.
Quando Dostojevskij, per renderci intollerabile la visione del male,
incomincia a descrivere la sofferenza del bambini, dove va a cercare i suoi
esempi se non nelle piccole vittime della crudeltà e del sadismo degli
uomini? Ma c'è qualcosa di peggiore che straziare il corpo di un bambino:
turbare la sua anima: «Se qualcuno scandalizza uno di questi piccoli che
credono in Me, sarebbe meglio per lui che gli si legasse al collo una
macina di mulino e che lo si gettasse in fondo al mare» (Mt., XVIII, 6).
I peccati degli uomini, prima di aumentare così tragicamente la loro
sventura, incominciano con l'offendere Dio. E la Sua pazienza nel
sopportarli, come sappiamo, deriva dal fatto che Egli è abbastanza forte
«per far volgere tutto il male che ci piacerà di introdurre nel mondo verso
un bene maggiore (nascosto nel mistero della trascendenza, e di cui nulla
nella natura ci lascia intravedere in che cosa possa consistere).L'uomo di
fede, per avere un'intuizione della sua grandezza e per meravigliarsene,
misura la grandezza dal male che un tale bene ricompenserà» (10).

2) Un secondo fatto la cui portata è inconcepibile, è che le sofferenze di
quaggiù, sia che derivino dal peccato originale per via ereditaria, o che
siano una conseguenza del peccati personali commessi da noi o da altri,
quando sono accettate nella luce della fede, possono essere trasfigurate:
cesseranno da quel momento di essere puramente afflittive per diventare
soddisfattorie o compensatorie ed anche meritorie di un più grande amore
e della vita eterna.
Accresciuti da una parte all'infinito dai nostri. peccati personali, ma
dall'altra parte in grado di essere illuminati dalla grazia: tali sono i mali
della vita presente.

2. IL MALE DELL'IGNORANZA E DELL'ERRORE
Quando san Tommaso pensa alle miserie della vita presente, è rattristato
prima di tutto dalla debolezza della nostra ragione, non soltanto pratica ma
anche speculativa.
a) L'innocenza originale non era senza nescienza, ma senza ignoranza.
Non immaginiamo, come fecero sia Hegel che Kierkegaard, ciascuno per
proprio conto, che lo stato di innocenza escludesse la possibilità di
distinguere il bene dal male (Il): come sarebbe stato in tal caso possibile il
peccato, che è la rivolta cosciente contro l'ordine divino? La conoscenza
del bene e del male vietata all'uomo (Gen., II, 17) non è quella che sa
distinguere il bene dal male, ma quella che pretende decidere e
sperimentare a suo modo ciò che è bene e ciò che è male (12). Senza
dubbio Adamo non era onnisciente, c'era in lui molta nescienza; ma se si
contrappone la nescienza, che significa semplicemente assenza,
all'ignoranza, che significa privazione (13), non vi era in lui ignoranza;
egli sapeva ciò che doveva fare. «Quanto alla sua intelligenza, per la
stabile armonia e la perfetta subordinazione delle facoltà di cui per grazia
la natura umana godeva all'alba della creazione, dobbiamo concepirla
come incomparabilmente forte nella sua linfa vitale e nelle sue energie di
sviluppo che non erano allora turbate da nessuna lesione. Quell'intelligenza
vergine si trovava di fronte alla conoscenza di tipo umano In uno stato
inimmaginabile di semplicità e di inesperienza: tuttavia le sue concezioni
erano ricche di immense virtualità» (14). Il peccato del primo uomo, come
quello dell'angelo, non presupponeva in lui alcuna ignoranza, ma la sola
assenza, nel momento dell'azione, della considerazione della regola (15).

L'ignoranza è conseguenza del peccato originale (16); essa si è diffusa nel
corso del secoli per l'accumularsi delle nostre negligenze, delle nostre
passioni, del nostri errori. E' divenuta una specie di patrimonio di sventura
per l'umanità; non è colpevole in ciascuno di noi se non quando è
volontaria; cessa di esserlo dal momento in cui diventa invincibile.


http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx




Nessun commento:

Posta un commento