DON ANTONIO

sabato 17 settembre 2011

La speranza non delude.di Ermenegildo Manicardi

Negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila i Vescovi italiani avanzano una considerazione che non lascia tranquilli e merita la massima considerazione pastorale. «Non è cosa facile, oggi, la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta talvolta negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna». 1

A fronte della sfida contemporanea, onestamente raccolta negli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del Duemila, vorremmo riflettere sulla sintesi che Paolo concentra nel grido: «la speranza non delude» (Rm 5,5). Qual è il fondamento della speranza e quali sono le condizioni indispensabili al suo sorgere? Quali sono i luoghi e i mezzi della sua crescita? A quali peculiari prospettive apre la speranza cristiana? Proviamo a rispondere, cercando di tenere presenti in particolare le impegnate affermazioni sulla speranza distribuite dall’Apostolo nella Lettera ai Romani.



1. La speranza d’Abramo «nostro padre» (Rm 4)

Una prima qualificazione della speranza è presentata da Paolo nell’argomentazione biblica, che completa la riflessione sulla giustificazione «lontano dalle opere della legge» (cf Rm 1,18-4,25) a partire da quello che la Scrittura dice su Abramo (4,1-25). In questo testo si parla non solo della giustificazione ottenuta da Abramo attraverso la fede, ma anche della promessa che lo rese padre di molti popoli. Il passaggio tra questi due livelli è assicurato dal fatto che la fede del Patriarca assunse anche i chiari colori della speranza: Abramo «ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli» (4,18).

Già questo primo passo della Lettera ai Romani designa con chiarezza il luogo da cui sorge la speranza cristiana: essa è un arricchimento della fede a partire da circostanze di difficoltà reali. La speranza non nasce dall’individuazione di possibilità ottimistiche o di prospettive rosee, ma essa ha il suo vero ambiente nella percezione di difficoltà reali. In questo passo non si parla semplicemente della fede d’Abramo, ma anche della sua «speranza contro ogni speranza» proprio perché la situazione in cui egli si trova al momento in cui riceve la promessa del figlio, è contraria al contenuto di quanto gli è promesso. La dimensione specifica della speranza è indicata, in questo caso, per il fatto che Abramo sia riuscito a sperare la generazione d’Isacco, quando già il suo corpo era segnato dalla morte, mentre ormai era invecchiata anche Sara, la moglie sterile da sempre.

La speranza permette di superare una situazione che sembra chiusa, offrendo un rimando a un’altra prospettiva. La speranza indica chiaramente una dimensione della fede e precisamente il fatto di credere possibili realtà al di fuori delle leggi dell’esperienza comune. L’atteggiamento della speranza completa egregiamente il credere d’Abramo: il «padre dei credenti» è diventato «padre di molti popoli» perché «credette sperando contro ogni speranza».

Il testo, che stiamo esaminando, dà anche la motivazione dello sperare contro ogni speranza. La forma di questa fede accresciuta proviene ad Abramo dal percepire che Dio, nel quale crede, «dà la vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (v. 17).

Con l’uso di questa terminologia Paolo rende il personaggio biblico di Abramo adatto a esprimere la speranza che il credente riceve dalla risurrezione di Gesù. In questo modo Abramo diventa figura dei credenti che sperano in riferimento alla risurrezione di Gesù e alla sua capacità di vivificare.

L’atteggiamento della speranza accompagna necessariamente, secondo Paolo, la maturità della fede. Esso è dato come dono, ma richiede anche una maturazione.


2. La speranza attuale dell’uomo giustificato (Rm 5)

Già in questo primo testo appaiono le condizioni e il fondamento della speranza. Una trattazione più articolata della speranza, però, è inserita nella pericope che presenta la condizione attuale dell’uomo che credendo è anche giustificato (5,1-11).



2.1. Il credente e la speranza della gloria di Dio

La speranza è anzitutto uno degli elementi che caratterizzano la situazione dell’uomo giustificato dalla fede. «Giustificati dunque dalla fede abbiamo pace nei riguardi di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (…) e ci vantiamo in vista speranza della gloria di Dio (oppure: appoggiandosi sulla speranza della gloria di Dio» (5,1-2).

L’idea di «vantarsi della speranza» non connota solo un atteggiamento di fiducia e sicurezza, ma anche in qualche misura d’esultanza e di gioia. Potremmo, infatti, leggere il nostro passo, che elenca giustizia, pace e vanto in parallelo con la dichiarazione che il Regno di Dio «non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (14,17). «Noi ci vantiamo» equivale allora a «siamo sicuri e siamo gioiosi». Se in Rm 4 abbiamo visto come la speranza è uno scatto di qualità della fede, provocato da una reale difficoltà, in questo ulteriore passo costatiamo che la speranza non è comunque un atteggiamento malinconico, rassegnato o rivendicativo, ma comporta un elemento di sicurezza, gioia e vanto.

Rm 5,1-2 indica anche il riferimento della speranza: si tratta della «speranza della gloria di Dio». Il cristiano giustificato si sente sicuro e gioioso. Adesso per lui si è allontanata la situazione in cui si trovava, come uomo, quando ancora non gli è stato donato il vangelo. Senza il vangelo «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (3,23). Nella gloria, di cui adesso il cristiano si può vantare, Paolo distingue due stadi: la gloria presente, della quale il cristiano già dispone, e quella futura che il cristiano nel presente può soltanto attendere. Le due dimensioni non sono nettamente separate: posso attendere la gloria futura solo in quanto mi appoggio su quella concessami al presente. E’ dal «già ora» che ha senso parlare di speranza.2 Chi, credendo, ha ricevuto il dono della giustificazione si apre all’attuale rivelarsi di Dio e, al tempo stesso, s’incammina a raggiungere la completa manifestazione divina.

In questa prospettiva il vanto del giustificato non si appoggia sulle proprie opere. Egli si vanta fondandosi su quella gloria, che certamente prima dell’ascolto del vangelo l’uomo non aveva.



2.2. Un cammino concreto: la resistenza provata opera la speranza

La presentazione del vanto della speranza della gloria, possibile all’uomo in quanto giustificato, sarebbe piuttosto astratta, se Paolo non si ponesse la questione delle difficoltà concrete, le quali appesantiscono inevitabilmente la vita del cristiano. Speranza e trionfalismi non vanno certo d’accordo. Il «vanto», di cui Paolo ha appena parlato, è da combinare con la «tribolazione». Dice, infatti, l’Apostolo: «Non soltanto, però, ma ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione opera resistenza, la resistenza a sua volta (opera) resistenza provata, la resistenza provata infine opera la speranza» (5,3-4).

Lo scopo di questi versetti è impedire l’ingenuità e l’equivoco di una speranza a buon mercato. Il vanto in questione si realizza nelle tribolazioni, quando l’uomo credente – anche e proprio nei momenti della prova – guarda verso la gloria, presente e futura, del Dio in cui spera.

Le parole adoperate da Paolo meritano attenzione. La «tribolazione» – thlipsis è un termine caratteristico del linguaggio apocalittico – non designa semplicemente la persecuzione, anche se ovviamente non la esclude, ma in genere indica il periodo d’angoscia che inaugura la fase ultima del tempo escatologico. Nel tempo che precede immediatamente la fine, le tribolazioni sono strumenti capaci di dare un contributo al maturare della speranza, passando per alcuni gradini di crescita.

La tribolazione conduce la speranza a uno «stare sotto». Il vocabolo greco hypomoné, che la Bibbia C.E.I traduce con «pazienza», può essere tradotto anche con varie espressioni: «resistenza», «costanza», «tenuta». Il termine che preferiamo è «resistenza» perché l’etimologia di hypomoné indica la capacità di resistere sotto una pressione, senza tentare fughe. Senza tribolazioni pressanti, il cristiano non potrebbe né realizzare né mostrare la «capacità di stare sotto» e di «resistere» (cf già 1Ts 1,3). E’ dentro a una situazione di tribolazione che appare questa qualità dell’uomo. Questa resistenza è stata ricevuta dall’uomo per la grazia di Dio; essa è il segno che le virtù soprannaturali sono talmente presenti in lui, che egli riesce ad avere una forza che supera le sue sole possibilità native.

Il terzo sostantivo della catena – ossia dokimé – è piuttosto difficile da rendere in italiano. Forse possiamo tradurre con «resistenza misurata dalla prova».3 Il termine deriva dal verbo dokimázo che significa «mettere alla prova», «misurare», «collaudare», «discernere». Si potrebbe perciò anche tradurre dokimé semplicemente con «la prova» e comprendere alla luce del contesto «resistenza misurata nella prova». L’avere mostrato la capacità di resistere nella prova porta, di fatto, a un nuovo livello. La persona cresce nella sua qualità di credente passando dal livello 0 (la speranza) al livello 1 (la resistenza), poi al 2 (la resistenza provata). E’ a questo punto che si giunge al livello 3, ossia di nuovo alla «speranza».

Che la tribolazione operi la resistenza e che la resistenza messa alla prova («misurata») operi la speranza non è per Paolo un circolo vizioso. Si tratta per lui piuttosto di abbozzare un progresso illimitato, a spirale che si dilata, pagato con la costanza: si parte dalla speranza e si arriva alla speranza per ripartire ancora da essa. E’ uno dei tanti casi del realismo e radicalismo così tipici nel loro presentarsi insieme (!) dell’impostazione spirituale di Paolo.4

2.3. Il fondamento oggettivo della speranza:
morte di Gesù e dono dello Spirito

La speranza del cristiano (vv. 1-2) ha una verifica personale nelle difficoltà incontrate in questo tempo escatologico (vv. 3-4). Il volontarismo soggettivo dell’impegno però non basta: la speranza credente ha il suo fondamento oggettivo nell’amore di Dio, versato nei nostri cuori dallo Spirito Santo e rivelato nella morte di Cristo (5,5-8). Le affermazioni di Rm 5,5-8 tolgono una possibile ulteriore ingenuità (rispetto a quella smascherata in 5,3-4): che cioè la «tenuta» del credente, nelle tribolazioni e nei momenti della prova, sia qualcosa che viene dal soggetto, per così dire una prestazione di autosufficienza.

Dice Paolo: «La speranza poi non fa vergognare, perché l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La frase vuole assicurare che la speranza, maturata nella tribolazione escatologica, non delude. Il verbo «far vergognare» (kataiscy´nein)5 indica che la speranza del cristiano non è vuota. La speranza farebbe vergognare se, dopo tutte le tribolazioni superate, risultasse inconsistente. La rassicurazione è fatta dando la motivazione oggettiva dell’impossibilità di rimanere delusi, che consiste nell’amore di Dio versato nei nostri cuori. Le tribolazioni affrontate danno la solidità soggettiva, personale della nostra speranza (vv. 3-4); ma se poi la speranza, pur soggettivamente solida, deludesse nella realtà delle cose? E se cioè la speranza fosse soltanto testardaggine? La solidità oggettiva della speranza è data dal fatto incontrovertibile: l’amore di Dio versato nei nostri cuori.

L’amore di Dio Padre, che già nel passato si è realizzato nella morte in croce del Figlio suo, opera adesso i suoi effetti per mezzo dello Spirito Santo presente nei nostri cuori.

Più in concreto l’amore di Dio versato nei nostri cuori può essere inteso in due modi. La prima possibilità interpretativa è pensare che l’amore di Dio è versato nei nostri cuori per il fatto che noi, rispondendo alla Pasqua di Gesù, sentiamo d’amare Dio. L’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori perché anche noi, rispondendo al dono fatto a noi dal Padre nella Pasqua del Figlio (cf Rm 5,6-8), ci sentiamo mossi ad amare Dio a nostra volta. Quest’esperienza dell’amore di Dio ha un aspetto trascendente (perché coinvolge Dio), ma anche un aspetto esperimentabile: la morte di Cristo ci fa sentire l’amore di Dio per noi e questo sentire ci spinge a nostra volta ad amare. Il «versare» sarebbe allora il moto con cui l’uomo, sapendosi salvato dalla morte di Cristo, si rivolge a Dio con amore. Si osservi che «il versare» dell’amore corrisponde molto bene al «versarsi del sangue» di Gesù sulla croce.6

C’è anche una seconda possibilità di interpretare l’amore di Dio versato nei nostri cuori, prediletta da qualche esegeta. Nell’ambito del pensiero paolino,7 si può fare riferimento anche al dono dello Spirito Santo e al fatto che la sua presenza ci dà di riconoscere Dio come Padre. In questo senso è possibile che ciò che permette al cristiano di avere speranza e di sapere che essa non delude, è il fatto che spinto dallo Spirito può gridare con il cuore «Abbà, ossia: Padre!».



2.4. La sfida di «credere sperando contro ogni speranza»

Possiamo ormai tentare un bilancio delle affermazioni di Rm 5,1-12 sulla speranza. Si tratta di determinazioni decisive e che ci danno, forse, da pensare non poco per quanto riguarda la nostra esistenza concreta. La speranza è un costitutivo essenziale dell’esperienza di fede: assieme alla pace essa appartiene ai tratti distintivi della vita dell’uomo giustificato. Il dono della speranza, però, non sottrae al collaudo delle difficoltà e delle tribolazioni. Queste sono affrontabili in forza della speranza ricevuta, ma al tempo stesso sono proprio le tribolazioni che conducono alla pienezza della speranza.

Il fondamento della speranza però non è la capacità ascetica dell’uomo, ma l’amore che Dio ha versato nel nostro cuore mostrandocelo soprattutto nella morte del Figlio per gli empi. Guardando a questa morte e accogliendo il dono dello Spirito che ci fa gridare Abbà, noi riconosciamo Dio come Padre e scopriamo che il senso della nostra vita è la speranza, anche se questa – come per Abramo – dovesse essere «un credere sperando contro ogni speranza».



3. L’attesa della creazione e la speranza futura (Rm 8)

Nel cap. 8 della Lettera ai Romani Paolo allarga la prospettiva della speranza e dall’uomo giustificato passa alla speranza di tutta la creazione. Attorno al credente e guardando verso di lui, tutta la creazione che si sente sottomessa alla caducità anela a trovare nell’uomo credente che raggiunge la piena redenzione la sua dimensione più profonda di speranza.

«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (Rm 8,19-22).

La piena redenzione si ha quando l’uomo non sperimenta semplicemente la remissione dei suoi peccati già ora concessa, ma arriva alla risurrezione della carne. Adesso l’uomo geme ancora, così come geme la creazione: «essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,23).

Di fronte a un testo di questa profondità ci sentiamo quasi smarriti. La speranza della creazione è collegata alla chiarezza della vita cristiana che lascia trasparire il destino di trasfigurazione cui gli uomini tutti (e, in loro, tutta la creazione) sono chiamati.

E’ in questa prospettiva che prende pieno valore il nesso tra la speranza, l’esistenza cristiana e la vita consacrata. La speranza del cristiano si trova al centro dell’attesa di tutta la creazione.

Il coinvolgimento del corpo, nello speciale legame della castità perfetta, pone il religioso e la religiosa al centro della speranza della risurrezione dei corpi trasfigurati, in quella realtà nuova dove «non prenderanno moglie né marito» (Mc 12,25).



4. Lieti nella speranza (Rm 12)

In sintesi si deve dire dei cristiani che sono «salvati in speranza» (Rm 8,24). Da questa situazione deve scaturire una gioia. E’ la speranza che dà alla gioia una permanente che non può venire dalle mutevoli circostanze in cui viviamo.

All’inizio della parte esortativa della Lettera ai Romani abbiamo non a caso la raccomandazione alla gioia a causa della speranza: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rm 12,12-13). In queste cinque esortazioni, evidentemente collegate, l’idea della speranza si collega con la tribolazione e si completa con la preghiera, la sensibilità fraterna e la condivisione.

Anche oggi sarebbe utopico pensare di testimoniare speranza senza che essa si mostri nella nostra forza di fronte alle fatiche e come generosità attenta a tutti i fratelli, perché finalmente egocentrismo e autoreferenzialità sono superati. Chi pensasse di mostrare la speranza con una pura dichiarazione d’intenti e di prospettive mancherebbe penosamente il bersaglio. Certo occorre parlare della speranza, ma la parola decisiva è «comunicare speranza» e quindi condividere quello che di essa si ha nel cuore. Lo stesso Pietro raccomanda di mostrare le ragioni della speranza che è in noi con mansuetudine e dolcezza. «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo» (1Pt 3,15-16).



5. Il Dio della speranza e lo sperare dell’uomo (Rm 15)

Sul finire della lettera Paolo arriva alla bella definizione «il Dio della speranza» (Rm 15,13), che si collega alla definizione «il Dio della pazienza» (Rm 15,5) e affiancata anche alla classica qualificazione «il Dio della pace» (Rm 15,33; cf anche Rm 16,20 e Fil 4,6; 1Ts 5,23 e Eb 13,20).

Le dimensioni di Dio non sono quelle della fede. Sono piuttosto quelle della speranza, di una freccia in movimento. Dove tutto il nostro vivere non è circoscritto dai nostri limiti, ma, a partire da quello che siamo, ci apriamo all’infinito per noi e a vantaggio degli altri.

I consacrati tra i credenti devono essere quelli che maggiormente mostrano di aver buttato l’ancora in un altro mondo. Attraverso la speranza si compie il celebre detto di San Tommaso d’Aquino: «l’atto di fede non termina nell’enunciato, ma nella realtà stessa che da esso è dichiarata». Attraverso la speranza vissuta, la fede rende presente l’oggetto creduto e lo rende comunicabile a coloro con cui entreremo in autentica comunione.



http://www.usminazionale.it/sup_03_2002/manicardi.htm



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