DON ANTONIO

martedì 20 settembre 2011

MALATTIA E SOFFERENZA: RIPENSARE LA SPIRITUALITÀ di Luciano Manicardi

Il corpo: soggetto della vita spirituale
L'incarnazione, al cuore della rivelazione cristiana, afferma che Dio incontra l'uomo nel corpo e che il corpo è la via dell'uomo per incontrare Dio (1). "Entrando nel mondo Cristo dice: 'Tu non hai voluto né sacrificio né offerta per i peccati, un corpo invece mi hai preparato'" (Eb 10,5). Il cammino di Dio verso l'uomo, dall' atto creazionale e attraverso l'intera storia di salvezza, è il continuo tendere di Dio alla corporeità: "Il fine di tutto l'agire di Dio è la corporeità", ha affermato il teologo Friedrich Oetinger (2). "Noi siamo stati santificati per mezzo dell'offerta del corpo di Cristo", prosegue la Lettera agli Ebrei (Eb 5,10), ovvero, la salvezza non è ottenuta da Cristo mediante la via religiosa dell'economia sacrificale, ma attraverso la via esistenziale del dono, dell' amore e dell' offerta di sé che avviene nel corpo. Oramai, nel Verbo fatto carne (cf. Gv 1,14) il corpo è patrimonio comune di Dio e dell'uomo.
Vivere la condizione umana è vivere la corporeità. E vivere l'obbedienza a Dio significa, per il cristiano, passare attraverso l'obbedienza al proprio corpo. Del resto, come suggerisce il testo della Lettera agli Ebrei, il corpo, nella visione cristiana, non è opacità (come nella visione platonica), ma trasparenza dello spirituale: "Tu mi hai preparato un corpo". Il corpo è rimando di trascendenza, trasparenza del "tu" di Dio. Non un fastidioso fardello, non la prigione dell' anima, ma responsabilità che personalizza. Possiamo dire che il corpo che noi siamo (nel cristianesimo non è possibile pensare il rapporto tra l'uomo e il corpo in termini di avere, di possesso), ma che non viene da noi, è la nostra inscrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è più inalienabilmente mio, non viene da me ma mi rinvia ad altri da me, e mi rinvia anzitutto all'incontro di due corpi che ha dato alla luce il mio corpo, e rinvia al Dio signore e creatore del corpo. Giovanni Paolo II ha affermato: "Il Creatore ha assegnato all'uomo come compito il corpo" (3). A ciascun cristiano è chiesto di divenire il proprio volto - l'elemento più personalizzante del corpo -, realizzando quell'unicità creata e voluta da Dio, e tutto questo in riferimento all'uomo compiuto (cf. Ef 4, 13), Gesù Cristo. L'immagine e somiglianza con Dio trova proprio nella corporeità il suo culmine. Del resto, tutta l'esperienza della salvezza, dalla creazione all'incarnazione fino alla resurrezione della carne ha il suo centro nel corpo: "Caro cardo salutis", "La carne è il cardine della salvezza" (4). Alla luce di questa visione si comprende come l'esperienza spirituale sia essenzialmente un' esperienza corporea: non solo non si tratterà di fuggire o negare o, ancora meno, disprezzare il corpo, ma di imparare ad abitarlo in tutta la sua potenzialità relazionale. "Corporeità" indica dunque il soggetto umano nella sua integralità, e designa il corpo individuale della persona come luogo di incontro di una storia che lo precede e in cui si inserisce (un corpo di tradizione), di una società e una cultura in cui egli si situa (un corpo sociale e culturale), di una natura e di un creato che lo accolgono (un corpo cosmico e di natura). "Il più 'spirituale' non avviene, dunque, altrimenti che nella mediazione del più 'corporeo'" (5).
Il lavoro spirituale della vigilanza e della preghiera non può astrarre, pertanto, dal lavoro di ascoltare il proprio corpo, di aprirsi alla memoria di cui esso è portatore, perché noi siamo anche la storia del nostro corpo. E questa storia, che per il credente è anche la storia della relazione di Dio con noi, non risale solo al giorno della nostra nascita, ma al momento del nostro concepimento e ai mesi di vita intrauterina. In noi si sono così depositate tracce di una memoria profonda di ciò che abbiamo patito e sperimentato, vissuto e provato, e che vengono portate alla luce dalle esperienze che facciamo nell' oggi: il corpo è così il libro del tempo su cui restano incise emozioni, sofferenze ed esperienze di un passato che non è tanto dietro, quanto dentro di noi. La valenza spirituale del corpo è dunque evidente: esso è il nostro modo di essere al mondo, di prendervi parte, di rispondere ai suoi molteplici richiami e alle sue sollecitazioni di gioia o di dolore, cose tutte che plasmano il nostro corpo, fino a renderlo immagine del nostro carattere. Il nostro corpo, che abbiamo ricevuto, è anche costruito da noi e dai nostri incontri, dagli altri e dagli eventi, e il credente lo costruisce anche con Dio, e nella fede vuole fare in modo che l'umanità di Gesù plasmi la sua umanità. La parola facies, "faccia", deriva dal verbo facere, che designa un' attività, e visus, "viso", deriva dal verbo videre, "vedere", e indica che altri ci vedono: noi siamo costruiti dalle relazioni che viviamo; lo sguardo dell'altro, a partire da quello dei genitori fino a quello di Dio che nella fede sentiamo su di noi (si pensi all' esperienza di Maria nel Magnificat: "Ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua serva" [Lc 1,48]), dà forma alla nostra persona.
Dalla concezione biblica discende pertanto una visione unitaria dell'uomo, in cui il corpo non è il rivestimento esteriore di un principio spirituale, né tanto meno uno strumento, ma è in se stesso buono, tanto che se ci si attiene a Paolo, non esiste un peccato del corpo, ma "contro il corpo" (1Cor 6,18), cioè contro la dignità e il valore della persona visibile e chiamata ad agire nel mondo. Non può allora stupire che per la Bibbia il corpo sia il luogo di culto e di preghiera per eccellenza, anzi, sia il soggetto della vita spirituale. L'orante dei salmi prega coinvolgendo tutto il proprio corpo per esprimere la sua totalità di partecipazione alla lode divina (cf. Sal 6,3; 35,10); Paolo si rivolge ai cristiani di Corinto . Dicendo loro: "Non sapete che siete tempio di Dio?" (1Cor 3,16), "Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo?" (1Cor 6,19). E li esorta: "Glorificate Dio nel vostro corpo" (1Cor 6,20). La preghiera è anche preghiera del corpo, dei sensi, preghiera in cui interiorità ed esteriorità non sono contrapposte, ma in ascolto reciproco, in reciproca interazione: "L'una dimensione prega l'altra di donarle ciò che non è capace di donarsi da sé" (6). È attraverso il corpo e i sensi che il mondo fa esperienza di noi e che noi facciamo esperienza del mondo. Vi è un infinito mistero in ogni nostro senso: nella vista, nell'olfatto, nel gusto, nell'udito, nel tatto. Un mistero afferente all'alterità, la quale ci raggiunge, ci ferisce, ci inabita attraverso i sensi. I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì risiede la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo ha a che fare con i sensi corporei attraverso i quali esso viene esperito da noi: del resto, il significato di un fenomeno è inseparabile dall'accesso che vi conduce. Il corpo ci ricorda l'evento e la realtà spiritualissima per cui ciò che noi siamo sta nello spazio di una relazione e, in definitiva, è dono. "Noi siamo un dialogo" (7) ci dice il nostro corpo. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo.
Questo discorso sul processo che dai sensi conduce al senso ci dice l'intenzionalità del corpo, ovvero il fatto che attraverso il corpo noi impariamo e attribuiamo significati al reale: con la vista non vediamo solo colori e forme, ma cogliamo emozioni e messaggi; con il tatto non ci limitiamo ad afferrare oggetti, ma a ricevere e trasmettere tenerezza o altri sentimenti... Quanto all'ascolto, poi, che certamente, nella rivelazione biblica è il senso umano privilegiato perché quello che consente la relazione di Dio con l'uomo, l'alleanza e la conversione, esso tende a inscrivere nel corpo umano, cioè nell'uomo intero e in tutte le sue relazioni, la parola e la volontà divina. Questa è la logica dello Shema' Jisra'el ("Ascolta, Israele": cf. Dt 6,4-9) per cui i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, proclamati in casa e lungo la strada, appesi come pendaglio tra gli occhi, ripetuti ai figli, scritti sugli stipiti delle porte... Attraverso i sensi la parola di Dio raggiunge l'uomo in tutti gli ambiti del suo vivere: personale, familiare, sociale, politico. Un detto rabbinico risalente a rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: "Se la Torà è fissata nei duecentoquarantotto organi del tuo corpo, tu la custodirai, altrimenti la dimenticherai" (8). Chi infatti si dedica alla Torà, afferma la tradizione ebraica, ne porta i segni nella sua persona:
Proprio come il fuoco lascia un segno sul corpo di chi opera con esso, così le parole della Torà lasciano un segno sul corpo di chi opera con esse. Proprio come coloro che lavorano con il fuoco sono riconoscibili, così i discepoli dei sapienti sono riconosciuti dal loro modo di camminare, dal loro modo di parlare e dal loro modo di vestire (9).
Le cose non stanno diversamente per la tradizione cristiana che attesta nel modo più chiaro possibile che il corpo è il luogo dell'incontro fra Dio e uomo e che l'eucaristia coinvolge tutti i sensi nell' esperienza spirituale dell'incontro nella fede con il Signore morto e risorto. Gusto e olfatto, tatto, vista e udito sono vivificati dallo Spirito santo e divengono capaci di esperienza spirituale. Certo, i sensi devono essere purificati, tenuti vivi, risvegliati, destati perché sono sempre a rischio di idolatria: la vista deve restare aperta all'invisibile, l'udito dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell'ineffabile, il tatto dovrà accogliere che vi sono realtà inattingibili... E tuttavia i sensi, nella loro materialità e corporeità, hanno un' attitudine intrinsecamente spirituale. Sì, essi possono intontirsi e chiudersi: Gesù parla di occhi che non vedono, di orecchi che non sanno ascoltare, di cuori che si induriscono, in una parola, di corpi che si ottundono. Per svolgere la loro funzione spirituale essi devono restare aperti allo Spirito santo. L'uomo spirituale è appunto colui che tende con tutto il suo essere all' acquisizione dello Spirito. E l'uomo spirituale non sarà rivelato dai riti che pratica o dal contenuto più o meno spirituale delle parole che pronuncia ma, come ricorda un testo della tradizione cristiana orientale, dal suo corpo:
Quando lo Spirito pone la sua dimora in un uomo, questi non può più arrestare la sua preghiera, perché lo Spirito non cessa di pregare per lui. Che lui dorma o vegli, la sua preghiera non si separa dal suo cuore. Mentre mangia, mentre beve, mentre riposa, mentre lavora, mentre è sprofondato nel sonno, il profumo della preghiera esala spontaneamente dal suo cuore (10).
È il corpo che rivela i frutti dello Spirito.
La parola della croce
È Paolo l'autore neotestamentario che maggiormente ha elaborato e approfondito una vera e propria teologia crucis. In particolare, è nel discorso presente nella Prima lettera ai Corinti 1,17-2,16 che l'Apostolo formula l'idea della croce come potenza e sapienza di Dio. Ed è lì che si trova l'espressione unica ed esclusiva di Paolo, "la parola della croce" (1Cor 1,18) (11).
Anzitutto Paolo, quando parla della croce, parla sempre del Crocifisso, di Cristo, non della croce del cristiano (come, ad esempio, in Marco 8,34). Inoltre, sempre egli sottolinea che Gesù non è semplicemente morto, ma che è morto crocifisso. Nella Lettera ai Filippesi 2,8 l'espressione "e alla morte di croce" che specifica il precedente "facendosi obbediente fino alla morte", probabilmente è un'aggiunta della stessa mano di Paolo a un inno cristologico già utilizzato nella comunità cristiana e ripreso dall' Apostolo. Questa specificazione non vuole sottolineare tanto l'inusuale misura di sofferenza e di umiliazione che la morte di croce comportava, ma soprattutto il suo aspetto di scandalo: è il Messia che è morto crocifisso. Questo è scandalo, "lo scandalo della croce" (GaI 5,rr). Dire che il Messia e Salvatore è morto crocifisso significa affermare che è morto nella vergogna, nell'infamia, come maledetto da Dio, scomunicato dal suo gruppo religioso, ritenuto pericoloso per la società civile. Gli storici e i letterati romani dell' epoca parlano della croce come del "supplizio più crudele e orrendo" (12), della "pena estrema e massima riservata agli schiavi" (13): la morte cui conduceva era la "mors turpissima crucis" (14).
Plauto parla spesso della mala crux, della croce come sommo male, "maxima mala crux" (15). La morte di croce poteva essere augurata come macabra e somma ingiuria per i nemici, come mostra un graffito ritrovato sui muri di Pompei: "Che tu sia crocifisso". "Dal III secolo a.c., il termine crux diviene una volgare ingiuria negli strati bassi della popolazione; lo si incontra sulle labbra degli schiavi e delle prostitute... L'insulto 'in malam maximam crucem' significava, press'a poco, 'va' al diavolo'" (16). Per la società romana del tempo la croce era dunque il simbolo più disgraziato, terribile e umiliante. Eppure Paolo ne fa l'elemento decisivo centrale dell' agire salvifico di Dio verso l'umanità.
Di più. Per il giudeo, il crocifisso è un maledetto da Dio, come sta scritto nella Lettera ai Galati 3, I 3 (che cita Deuteronomio 21,23): Cristo "è diventato lui stesso maledizione per noi come sta scritto: 'Maledetto chi pende dal legno'". Sono significative le parole dell'ebreo Trifone nel Dialogo scritto da Giustino: "Che il Messia debba essere crocifisso e morire così vergognosamente e ignominiosamente della morte maledetta dalla Legge, noi non possiamo neppure arrivare a concepirlo" (17). Il giudeo Paolo, fariseo osservante, ha vissuto sulla sua pelle questo sconvolgimento teologico e personale al momento della sua "conversione": l'incredibile, anzi l'abominevole, il Messia crocifisso, diviene il centro della rivelazione del volto di Dio. Lo scandalo diviene rivelazione, la disgrazia si fa grazia. Ora, la parola della croce è appunto il vangelo, il messaggio che ha al suo cuore la croce e tutto ciò che essa significa. Senza la croce non c'è vangelo, così come non si dà evangelizzazione scissa dalla croce di Cristo.
Ovvio che quando si parla di croce si intende sempre il Crocifisso, colui che vi è steso sopra, il Figlio di Dio che con la sua vita di amore, di donazione, di obbedienza al Padre, rende sensato anche "il legno criminale" (18). Che questo evento sia rivelazione del volto di Dio e salvezza dell'umanità, Paolo lo connota come follia di Dio. La follia (moria), quella insipienza e idiozia sempre connotate negativamente e fuggite come ripugnanti, trovano per la prima volta un'accezione positiva nella penna di Paolo che parla della pazzia di Dio come più sapiente della sapienza umana e del mondo.
Il cuore del vangelo è scandalo, e oramai tutta la fede cristiana è sotto il segno di questo paradosso scandaloso: si tratta di credere l'incredibile (il Rivelatore di Dio è l'appeso alla croce), di amare chi non è amabile (il nemico), di sperare l'insperabile (la salvezza del mondo sgorga dalla potenza di Dio manifestata nella croce). La croce contesta la razionalità pagana e la religiosità che si nutre di segni e portenti. Alla religiosità che cerca lo straordinario, il miracolistico, Paolo oppone la rivelazione della croce di Cristo; a chi è fiero della propria razionalità e della propria cultura, a chi pone la fiducia nelle facoltà intellettuali, Paolo oppone la rivelazione della croce di Cristo (cf. 1Cor 1,22). E invita a trovare lì, nella croce stessa, che umanamente esprime debolezza e follia, la potenza e la sapienza. Nel testo della Prima lettera ai Corinti Paolo afferma che la potenza di Dio non si manifesta nella resurrezione come correttivo della morte di Cristo, ma è già presente nella crocifissione. Nella debolezza e sconfitta estrema cui Dio espone la propria onnipotenza nel Cristo crocifisso, proprio lì va riconosciuto il gesto radicale della potenza di Dio nel suo agire di svuotamento, di abbassamento, di condiscendenza verso gli uomini. È la potenza dell' amore. Oramai, non esiste più un luogo senza Dio: Dio, in Cristo, ha abitato gli inferi dell' esistenza, e per il credente non esiste più cielo chiuso, ma anche la situazione di inferno esistenziale, di tunnel di sofferenza che non ha fine, di male irrimediabile, può essere vissuta come luogo che è stato abitato da Cristo e dunque come occasione di comunione con lui.
La potenza di Dio che si manifesta nella croce di Cristo (cioè, nel Cristo crocifisso) è potenza di salvezza, cioè che dispiega energie di vita nel credente che, dando il nome di croce alla propria sofferenza e unendosi così al Crocifisso, vede agire in lui anche la potenza dell'amore più forte della morte, la potenza della resurrezione. La croce è allora veramente capace di farci conoscere Dio. Scrive Gregorio di Nissa: "La croce è teologa per coloro che hanno uno sguardo penetrante e proclama con la sua forma la potenza sovrana di colui che compare su di lei ed è tutto in tutti" (19). La paolina "parola della croce" mostra così la croce come il luogo della grazia, non certo come un modello da imitare eticamente o da perseguire in una visione masochista. Allora, la parola della croce diviene non solo l'annuncio del Crocifisso, ma anche l'eloquenza della croce, ciò che la croce dice e annuncia. Ed essa annuncia che i pensieri di Dio non sono i nostri, che le sue vie non sono le nostre, che le nostre immagini di Dio devono sempre essere convertite e purificate alla luce del Crocifisso, unica vera, definitiva icona di Dio.
"Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne" (Col 1,24)
È difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito del vangelo, della vita e della predicazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza. E che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermzioni, che poi ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una "spiritualità", erano tratte o fatte derivare da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse a essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l'autorità della parola di Dio contenuta nella Scrittura dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare. E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, e acquisiscono così, a basso prezzo, quell'autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà. Sappiamo, ad esempio, che il paradosso espresso da Paolo nella Seconda lettera ai Corinti 12,10 con le parole: "Quando sono debole - o 'malato' -, allora sono forte", estrapolato dal contesto in cui esso manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale e nella propria personale sequela del Crocifisso la sua preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa "spina nella carne" che lo affligge, ha potuto essere utilizzato per fondare affermazioni non equilibrate sulla malattia e sulla sofferenza. Questo testo tardomedievale ne è una buona espressione:
Se l'uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l'infermità del corpo è la salute dell'anima... Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l'orgoglio svuotato, l'invidia allontanata, la lussuria bandita ... Facendo odiare il mondo essa dispone all'amore di Dio (20).
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee.
È il caso della Lettera ai Colossesi 1,24, normalmente tradotto: "Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa". Questa traduzione sembra implicare l'idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l'ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: "Io trovo la mia gioia nelle [mie] sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa". Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è a essa che manca qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla partecipazione dell'Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è "nella mia carne", cioè alla "mia povera persona umana", come traduce Rinaldo Fabris (21), che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo.
Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama "tribolazioni di Cristo nella mia carne", e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l'annuncio del vangelo e a causa sua e per la chiesa (22).
Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080-1149/1150), commentando la Lettera ai Colossesi, si chiede "dove" manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde:
Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, anzi, in essa tutte le sofferenze trovano la loro pienezza. Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa (23).
La tradizione cristiana fin dall'antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e a esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d'Aquino, nel suo commento alla Lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell' Apostolo:
Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (passio) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (passiones) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: "Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo" (1Gv 2,2) (24).
Del resto, proprio la Lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell' agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto:
Piacque a Dio di fare abitare in lui [il Figlio] tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo (Col 1,19-20).
Insomma:
Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché 1'Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta e la lettera non cessa di dire il contrario (25).
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l'espressione tradotta dalla Bibbia CEI con "patimenti di Cristo", andrebbe più correttamente resa con "tribolazioni di Cristo". Il termine greco thlipsis non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell' Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni, eccetera. La passione e morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come "sangue", "morte", "croce", "morte in croce", mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall' evento pasquale di Cristo e segnano in particolare l'attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito. Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende diakonos, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l'annuncio e la predicazione della parola di Dio (cf. Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (pathémata: "Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi") e incontra tribolazioni (thlipseis: "Completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne") che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l'edificazione della chiesa. E in quel vivere le sofferenze in Cristo e per i cristiani delle sue comunità, egli trova anche la sua paradossale gioia nelle tribolazioni. Capiamo allora che l'espressione "tribolazioni di Cristo" designa le tribolazioni che l'Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio" che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (GaI 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell' Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia - disegno che ha per destinatarie tutte le genti -, ha nel Cristo morto e risorto il protagonista centrale. "Ciò che manca", dunque, "alle tribolazioni di Cristo", ha a che fare con l'attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio.
Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza a ogni carne e fino ai confini del mondo (26).
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all'interno di corrette coordinate di teologia biblica.
Offrire a Dio la sofferenza?
Un' espressione che ricorre frequentemente nei discorsi spirituali cristiani circa la sofferenza e la malattia è quella che chiede o invita a offrire a Dio la sofferenza (27). Che cosa significa questa espressione? La risposta che viene da un malato grave è molto netta: "Non si offre qualcosa di cattivo", ha detto un malato di cancro intervistato da André Sève,
Cristo non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma gli ha offerto ciò che egli diventava in quelle sofferenze: un essere che andava fino al fondo, fino all'estremo, fino al punto più profondo dell'amore, fino a quei vertici di amore che sono capaci di salvare (28).
Questa affermazione sposta l'accento dalla sofferenza all' amore, e questo spostamento è equilibrato ed equilibrante dal punto di vista umano e teologico. Umano: è l'amore che può dare senso anche all'insensatezza della sofferenza. Teologico: la rivelazione cristiana afferma che è l'amore che salva, non la sofferenza. La sofferenza può, infatti, abbrutire, mentre l'amore può umanizzare anche chi vive gravi situazioni di dolore. Questo è verificabile anche nella vita e nella morte di Gesù. Non è la croce e non sono le sofferenze patite nella passione e sulla croce che hanno reso grande Gesù, ma è l'esatto contrario: è la vita di Gesù, l'intera vita di Gesù traversata dall'amore, spesa nell'amare, che ha dato senso anche a quell'abominio che era, che è e che sempre resterà la croce. Strumento di tortura e di pena di morte che uomini comminano ad altri uomini, la croce appare simbolo delle situazioni di sofferenza che disumanizzano, simbolo degli inferi dell' esistenza. Non la croce, ma colui che vi è appeso è veramente importante e decisivo: quella morte diviene eloquente alla luce della vita precedente che la illumina con la luce dell' amore e della dedizione incondizionata agli altri. Il Cristo Signore, colui che "ha fatto bene ogni cosa" (Mc 7,37), che "è passato facendo il bene, guarendo e liberando" (At 10,38), colui che è il "maestro buono" (Mc 10,17), che ha amato i suoi fino all'estremo, fino al punto di non ritorno (cf. Gv 13,1), dà senso alla croce, ovvero anche alle sofferenze fisiche, psichiche, morali, che si sintetizzano nella realtà della croce. Cristo non ha offerto le sue sofferenze, ma ha offerto se stesso, ha fatto della sua vita un' offerta a Dio trovando la propria gioia nell' amare gli altri e questo l'ha fatto sempre, non solo sulla croce: la croce è il culmine di una vita spesa per gli altri, nell'amore e nella dedizione. Il rischio insito nell'atteggiamento ispirato alla disposizione di offrire a Dio la sofferenza è quello del dolorismo, del pensare che la sofferenza in quanto tale abbia un valore salvifico e sia gradita a Dio e, connesso a questo, c'è il rischio dell'immagine di un Dio perverso, sadico, che si compiace della sofferenza che l'uomo patisce fino ad accettarla come offerta gradita. In sostanza il problema è questo: come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta l'umanità del suo figlio, l'uomo? Come può il Dio Padre di Gesù Cristo gradire come offerta ciò che è male per la sua creatura?
Un passaggio del teologo Xavier Thévenot mi pare impostare correttamente la questione:
La consegna spirituale "offri le tue sofferenze" deve conoscere un processo di chiarificazione. La potenza di questa formula è notevole in quanto decentra da sé la persona sofferente e le fa cogliere in un istante che ciò che ha gusto di morte può diventare il luogo di uno scambio con Colui che lei ama. Ma allo stesso tempo, essa rischia di far dimenticare che la gioia di Dio non potrebbe mai consistere nel ricevere ciò che è cattivo, ma nell'accogliere come un dono ciò che costruisce l'uomo sotto l'effetto del suo amore divino riconosciuto. Il "piacere" di Dio è di vedere che la sua presenza misteriosa manifestata nel suo Figlio e attraverso 1'azione del suo Spirito è capace di permettere a quella persona schiacciata dal dolore, di lottare contro le forze di disunione che la sofferenza sviluppa e di ritrovare poco a poco il gusto della vita. Se colui che soffre ha qualcosa da offrire nella sua prova, non sono le sue miserie, le sue malattie, le sue sofferenze - tutte cose che dispiacciono a Dio, come mostra l'atteggiamento di Gesù nel vangelo -, bensì è questo lavoro discreto di Dio in lui. È questa scoperta stupefacente e talvolta anche meravigliata che, se ci si rimette nelle mani di Dio, la vita può ancora sgorgare anche quando il male sembra sommergere tutto (29).
Di fronte alla sofferenza il problema non è anzitutto quello di "offrirla", quasi santificandola immediatamente: e se dietro a questo atteggiamento vi fosse la rimozione della fatica che essa chiede, ovvero, quella di assumerla, di darle un senso, di integrarla nella propria vita, accettando che essa susciti in noi reazioni di rivolta e ribellione? Probabilmente, l'espressione "offrire a Dio le sofferenze" esprime in modo maldestro e troppo abbreviato qualcosa di più complesso e vero: fare, anche della malattia e della sofferenza, un cammino in cui si conosce qualcosa della vicinanza e della consolazione di Dio; continuare, pur con tutte le difficoltà e le intermittenze dovute alla gravità della sofferenza, a nutrire fede, speranza e carità anche nella prova. Ma in verità, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, bensì ciò che ne abbiamo fatto: al cuore di ciò che quella espressione significa in profondo, non vi sono le sofferenze, ma il lavoro interiore e di fede che abbiamo compiuto e che abbiamo lasciato compiere a Dio in noi.
Qui, noi raggiungiamo anche il senso propriamente cristiano dell'offerta. Un senso che ci è svelato dall'eucaristia. L'eucaristia è forse un' offerta che l'uomo fa a Dio? Ha scritto Joseph Ratzinger:
Nell'eucaristia non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta l'uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Dio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro - quasi che ciò non fosse già per principio suo! -, bensì facendoci regalare qualcosa di suo, e riconoscendolo così come unico Signore ... Permettere a Dio di operare su di noi: ecco la quintessenza del sacrificio cristiano (30).
È Dio che donandoci il suo Figlio unigenito ha offerto a noi la via che ci insegna a vivere e anche ad assumere le contraddizioni della vita cercando di amare sempre e di fare di ogni situazione un' occasione per amare. Gesù al Getsemani non ha offerto la sua sofferenza al Signore, ma ha pregato per essere liberato dalla sofferenza e dalla morte ignominiosa, quindi ha rimesso tutto al Padre nell' atteggiamento di dono di sé, di vita spesa per gli altri e per Dio che ha contraddistinto tutta la sua esistenza. Atteggiamento di offerta, questo, che arriva a comprendere e abbracciare anche il momento della sofferenza e della morte. Tutto può essere vissuto evangelicamente, anche la sofferenza: forse è questo che tenta di esprimere l'espressione "offrire a Dio la sofferenza". Più che offrire a Dio la sofferenza, si tratta di rielaborare dall'interno, nella fede, con l'amore, la sofferenza stessa, nella convinzione che il senso della vita sta nell' amore con cui Dio ci ha amati in Cristo e nell' amore che noi sappiamo vivere e trasmettere. Il filosofo Gabriel Marcel ha scritto:
Io sono incline ad affermare che la sofferenza è un male, ma che 1'anima umana, in certe condizioni, può liberamente, cioè con un atto libero, trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l'anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi su se stessa o sulla sua ferita (31).
Per fare questo lavoro occorre però una base salda che l'uomo non può darsi da se stesso: il cristiano riconosce questa base nell'esperienza di amore di Cristo per lui, un amore più forte della sofferenza e della morte.
La realtà umana e spirituale evocata dall'inadeguata espressione" offrire a Dio la sofferenza", implica l'esperienza di fede di un amore preveniente e di un essere amati anche nella propria malattia e situazione infelice. Insomma, è la passione dell'amore che dà senso alla passione del soffrire. Amare implica sempre una sofferenza. A volte avviene che persone molto malate o gravemente sofferenti sappiano irradiare una luminosità, una gioia di vivere e una capacità di amore che il semplice contatto con loro, il restare accanto a loro anche per poco tempo si rivela essere un' esperienza spirituale e umana di profondo arricchimento: quelle persone hanno saputo innestare la sofferenza nell' amore e far prevalere la passione dell' amore sulla passione del soffrire. E ci trasmettono l'insegnamento grande: l'amore dà senso, e la vita, in tutti i suoi aspetti, ha senso quando diviene un capolavoro di donazione e di amore. Perché allora è una vita beata. E la beatitudine può essere sperimentata, sulle tracce di Cristo, anche nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle afflizioni. Quando si entra nella comprensione della liberante parola: "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20,35), allora il senso della vita tutta, ogni suo momento, è trovato nella capacità di fame un' offerta, un dono. Di fare di sé un' offerta. Fino a trasfigurare ciò che bene non è, come la sofferenza e la malattia.
La volontà di Dio
È sempre molto difficile osare una parola sulla sofferenza, sulla malattia, sulla morte. È difficile avere una parola all'altezza di eventi così gravi come la sofferenza e, soprattutto, la morte. È difficile pronunciare una parola umana, ma anche una parola teologicamente adeguata. Impreparazione e improvvisazione possono portare il visitatore o l'accompagnatore di un malato a pronunciare parole non solo insensate teologicamente e non fondate biblicamente, ma anche offensive o imbarazzanti per la sensibilità del malato. Dire al malato il "privilegio" della sua sofferenza perché questa è segno della predilezione divina, oppure perché questa avvicina maggiormente e unisce misticamente a Cristo crocifisso, o dare l'impressione che la sofferenza in quanto tale sia un valore salvifico in sé, tutto questo significa sostituirsi con violenza al malato nel lavoro di interpretazione dell' evento della sua malattia e veicola !'immagine di un Dio perverso, che certamente non è il Dio narrato da Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi atti, e infine nella sua morte.
Occorrerebbe poi prestare molta attenzione al ricorso alla categoria della "volontà di Dio". Troppo facilmente e velocemente si attribuisce alla volontà di Dio un male, una malattia, una sofferenza, una morte invitando così a un atteggiamento di rassegnazione fatalistica. E così si confonde il Dio cristiano con il fato pagano. "Bisogna accettare la volontà di Dio": questa frase detta al capezzale di un malato, che cosa rivela? L'imbarazzo di chi non sa che cosa dire e pur tuttavia si sente in dovere di dire qualcosa, quasi temendo che il silenzio possa essere una sua personale sconfitta? Spesso il silenzio partecipe è denso di forza comunicativa molto più di qualsiasi parola! Oppure rivela una necessità ("Bisogna") a cui nessuno può sottrarsi e così chiude un discorso troppo rischioso se intrapreso e approfondito? Ma il linguaggio del "si deve", "bisogna", "occorre", "è necessario", elimina l'unica cosa veramente essenziale: la libertà dell'uomo chiamato a scegliere e a situarsi responsabilmente davanti a Dio nelle diverse contingenze e, in particolare, in emergenze così ardue come una malattia. E poi, soprattutto, il riferimento alla "volontà di Dio" che può solo essere accettata, sembra indicare qualcosa di già fissato, di prestabilito, che cade dall'alto, e che non lascia alcuno spazio alla risposta umana, al suo necessario e faticoso articolarsi soprattutto di fronte a eventi dolorosi e tragici come malattie e sofferenze.
Va qui denunciata una concezione purtroppo diffusa della "volontà di Dio" che non risponde in nulla alla rivelazione evangelica. Concezione visibile anche in rapporto al discorso della vocazione che ogni credente è chiamato a cercare e discernere. La vocazione non è un già-dato, prestabilito dagli imperscrutabili disegni celesti e che il credente deve "trovare", "scoprire", quasi come per magia o per fortuna, in una logica da "gratta e vinci". La vocazione, in verità, avviene nell'incontro fra le esigenze evangeliche e la precisa creaturalità della persona. Così, anche di fronte a una malattia da assumere, il "fare la volontà di Dio" avviene all'interno di un plesso di elementi quali la condizione psicofisica del malato, la sua fede, l'ambiente che gli sta accanto e il tipo di accompagnamento e di assistenza di cui gode... In ogni caso, non risponde certo né alla lettera né allo spirito del vangelo l'affermare che Dio vuole la sofferenza dell'uomo. Dio vuole la libertà dell'uomo e la sua umanizzazione; Dio vuole la felicità dell'uomo, una felicità trovata nell' amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni. Una distorsione del messaggio evangelico diffonde l'idea che la volontà di Dio consista unicamente nella "croce", nel "rinnegamento di sé", nell"'umiliarsi", dimenticando che non queste dimensioni di per sé sono ciò che immette nella comunione con Dio, ma solo l'amore, la libertà con cui una persona sceglie di amare e donare la vita accettando anche le sofferenze (e dunque le umiliazioni, i rinnegamenti di sé, la croce) che questo comporta. Non la sofferenza, ma l'amore salva! Non la croce di per sé, che è strumento di morte, salva, ma la vita di colui che vi è steso sopra, la quale dà anche senso alla croce.
Se ci volgiamo al Nuovo Testamento noi vediamo che ciò che Dio vuole è "la salvezza di tutti gli uomini" (1Tm 2,4), è che "chiunque crede nel Figlio abbia la vita eterna" (Gv 6,40), è che "nessuno di questi piccoli si perda" (Mt 18,14). La volontà di Dio è espressa nella vita di Gesù Cristo, l'uomo secondo il cuore di Dio, che cioè adempie l'intenzione di Dio. Così la volontà di Dio non schiaccia, ma eleva l'uomo, non lo paralizza, ma lo dinamizza, non lo disimpegna, ma lo responsabilizza, non lo rende supino, ma suscita la sua libertà, non deprime la sua umanità, ma la esalta. Il Dio rivelato da Gesù Cristo non vuole sacrifici cruenti, ma il libero dono di sé per amore. Così il Cristo, entrando nel mondo, può dire: "Non hai voluto né sacrifici né offerta ... allora ho detto: 'Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà '" (Eb 10,5-7). La volontà, cioè l'intenzione profonda che guida Dio nel suo rapporto con gli uomini, è la salvezza, l'amore, la preoccupazione amorosa. Certo, questo incontrare l'uomo là dove l'uomo è, dunque anche negli inferi dell'esistenza, nel male, nella sofferenza, nella morte, porta Dio stesso, nel suo Figlio, ad abitare queste realtà che ora possono essere vissute dal credente con una speranza nuova. Dio non è un dio sadico che vuole la sofferenza né del suo Figlio Gesù Cristo, né dei suoi figli, gli uomini. Anzi, vuole mostrare che la sofferenza e la morte non hanno l'ultima parola sull'uomo, ma possono essere risignificate in Cristo, vivificate dall' amore. Il Cristo che al Getsemani prega: "Abba, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36; cf. Lc 22,42: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia, non la mia ma la tua volontà sia fatta"), non indica certo che il Padre voglia la morte cruenta del Figlio, ma che il Figlio, nell' amore per il Padre e nella dedizione alla sua missione, si dispone a viverne anche un esito non voluto e non desiderato facendo la volontà di Dio, cioè amando e donando fino alla fine. La croce è innalzata dagli uomini, è segno del peccato e della violenza umana, dell'inimicizia di cui gli uomini si fanno portatori contro Dio, è un evento non-divino, e tuttavia Gesù arriva a viverla nella libertà e nell' amore. Ha scritto il teologo Dietrich Bonhoeffer:
Certamente non tutto quello che accade è semplicemente "volontà di Dio". Ma alla fine comunque nulla accade "senza che Dio lo voglia" (Mt 10,29); attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio (32).
È stato così per Gesù di fronte alla croce, è così per il cristiano di fronte alle situazioni di malattia, sofferenza e morte che incontra nella sua esistenza. Il cristiano ogni giorno prega le parole del Padre nostro che dicono: "Sia fatta la tua volontà", preghiera che equivale alla domanda dello Spirito santo. Infatti, lo Spirito santo, che è l'intenzione profonda che muove Dio nel suo agire per gli uomini e per il mondo intero, attua e interiorizza negli uomini "la volontà del Padre rinnovandoli dalla vetustà alla novità di Cristo" (33). La volontà di Dio, infatti, si è pienamente manifestata nella vita di Gesù Cristo, nella sua umanità, nella sua persona. E lo Spirito santo è l'energia divina che ci rende simili al Cristo.
È utile riflettere su queste considerazioni che Dietrich Bonhoeffer rivolse nel 1941, in una lettera circolare, ai suoi ex studenti del seminario di Finkenwalde, oramai dispersi, in occasione della morte di alcuni loro compagni arruolati nell' esercito tedesco:
Di fronte alla morte, non possiamo dire fatalisticamente: "È volontà di Dio". Dobbiamo aggiungere subito il contrario: "Non è volontà di Dio". La morte dimostra che il mondo non è quel che dovrebbe essere, ma che ha bisogno di redenzione. Solo Cristo vince la morte. Nella sua morte, le due espressioni "è volontà di Dio" e "non è volontà di Dio" raggiungono il massimo del paradosso e dell'equilibrio. Dio accetta di lasciarsi coinvolgere in qualcosa che non è la sua volontà e da quel momento in poi la morte deve servire Dio nonostante tutto... Solo nella croce e nella resurrezione di Gesù Cristo la morte è stata ridotta sotto il potere di Dio e costretta a servire il piano di Dio. Non una resa fatalistica, ma una fede viva in Gesù Cristo, che è morto e ancora è risorto per noi, può veramente sbarazzarci della morte (34).
Giustizia, amore e sofferenza di Dio
Che rapporto vi è tra la giustizia di Dio, così spesso affermata nella Scrittura, e la sofferenza? Può essere utile cercare di comprenderlo partendo da una riflessione sullo Spirito di Dio. Nell' Antico Testamento lo Spirito (ruach) santo, lo Spirito di Dio, designa la libera volontà di Dio di entrare in relazione e comunione con la creazione, soprattutto con gli uomini e anzitutto con Israele. Il termine ruach ha senso solo relazionale: la ruach di Dio non è un' entità a sé, ma esprime la presenza attiva del Dio trascendente. Il significato primitivo del termine è quello di "aria", "atmosfera", "spazio", "vuoto", "spazio vitale", tuttavia, il vocabolo mostra anche un altro significato: pathos, "emozione", "passione" (35). Abbinato ad altri termini indica particolari emozioni come "amarezza" (Gen 26,35), "dolore" (Pr 14,10), "esasperazione" (Es 6,9), "afflizione" (1Sam 1,15)... Anche applicato a Dio questo vocabolo può significare pathos. In Isaia 63,10 si dice che i figli di Israele "si ribellarono a Dio e contristarono il suo santo Spirito". Qui la ruach di Dio è lo spirito che può essere toccato dal dolore, è vulnerabile. Il profeta può essere chiamato 'ish ha-ruach, "uomo dello Spirito" (Os 9,7), cioè del pathos divino, che condivide il pathos divino. Pathos che è la volontà di Dio di partecipare con compassione alle sofferenze dell'uomo. Dio prende così sul serio gli uomini che egli soffre con loro e nei loro peccati viene ferito nel suo amore (36). Lo Spirito di Dio fa sì che Dio non stia fuori del raggio della sofferenza umana. Lo Spirito esprime l'intenzionalità di Dio tutta rivolta all'uomo e alla storia e al mondo; designa la preoccupazione di Dio per il mondo. Questa rivelazione, presente soprattutto nei libri profetici, mostra che il rapporto di Dio con il mondo è di interessamento e di compassione. Alla luce della compassione di Dio si comprende anche la sua ira; la collera di Dio nasce dalla sollecitudine divina per l'uomo: ira e compassione sono correlate. Abacuc dice: "Nell'ira ricordati di avere clemenza" (Ab 3,2). L'ira di Dio esprime la sua sofferenza di fronte al male: essa va letta come manifestazione dell'amore di Dio ferito dall'ingiustizia umana, come sdegno di fronte alla catastrofe del peccato, dell'oppressione, del male. E non è una reazione emotiva o irrazionale di Dio, ma tende a ristabilire la giustizia.
Possiamo verificare tutto questo nella concezione che la Bibbia presenta della giustizia di Dio. Apparirà che la giustizia di Dio si declina come:
1) sofferenza di fronte all'ingiustizia;
2) con-sofferenza di fronte all'oppresso;
3) sofferenza di fronte al fallimento dell'uomo.
1) Tipico della concezione biblica della giustizia è che essa non corrisponde a un atteggiamento di asettica oggettività, ma è impegno appassionato del giudice in favore di colui il cui diritto è calpestato. "Nella Bibbia il giudice non è soltanto una persona che ha la facoltà conoscitiva di esaminare un caso e pronunciare una sentenza; è anche una persona che soffre e pena di fronte all'ingiustizia" (37). La Bibbia, che crede che Dio è "il giudice giusto", afferma che Dio manifesta questa sua giustizia con l'ira: "Dio è giudice giusto, ogni giorno si accende il suo sdegno" (Sal 7,I2).
L'ira di Dio non rinvia al capriccio di Dio, non è un suo difetto di giustizia, ma è espressione del pathos di Dio che è stato ferito dal male perpetrato. Il profeta, che condivide lo scandalo divino di fronte al male e all'ingiustizia, grida, con l'intero suo ministero, che Dio non è indifferente al male! Il grande male è l'indifferenza al male, è l'abitudine al male fino a non vederlo, a non denunciarlo, a farsene complici. La giustizia di Dio è dunque anzitutto sofferenza di fronte all'ingiustizia.
2) Il profeta è una persona che soffre per il danno che è stato arrecato a un altro. La giustizia diviene così compassione verso l'oppresso, verso la vittima del male. La rivelazione biblica presenta Dio come colui che" conosce le sofferenze" del suo popolo (Es 3,7) e che "in tutte le sue [del popolo] sofferenze ha sofferto con loro" (Is 63,9). Dai capitoli iniziali del libro dell'Esodo si evince che Dio è il liberatore di Israele facendosi consofferente con il suo popolo e condiscendente nei confronti del suo popolo. Il Dio biblico èil Dio che consoffre con l'uomo sofferente. È il Dio il cui ascolto del grido dei sofferenti diviene visione, cioè esperienza di sofferenza, passione divina e responsabilità dei sofferenti stessi, e il cui vedere le angosce e l'oppressione dei sofferenti diviene ascolto delle loro sofferenze, diviene un far risuonare in sé, nella vibrazione della compassione, la voce della sofferenza altrui. Nei capitoli 2 e 3 dell'Esodo abbiamo due passaggi singolarmente complementari: in Esodo 2,24-25 si dice, letteralmente, che "Dio ascoltò il lamento [dei figli di Israele] ... Dio vide e Dio conobbe". In Esodo 3,7 la successione dei verbi "ascoltare" e "vedere" è invertita: "Il Signore disse: 'Ho visto l'afflizione del mio popolo in Egitto e ho ascoltato il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze"'. Il conoscere, in cui sfociano la visione che ascolta la sofferenza e l'ascolto che vede il sofferente, indica sia la compartecipazione, la con-sofferenza, che la presa in carica, l'assunzione di responsabilità per il sofferente; i sensi (ascolto, vista) si mobilitano per fare l'unico atto sensato di fronte all'insensatezza della sofferenza di chi soffre: essergli accanto e farsi suo prossimo.
3) Vi è un ultimo aspetto di sofferenza implicato nella giustizia di Dio: la sofferenza di fronte all'ingiusto. Il peccato, il male, l'apostasia feriscono Dio. Il profeta piange di fronte alla rovina a cui il peccato ha condotto il suo popolo; Gesù piange su Gerusalemme perché il suo peccato le prepara giorni di rovina (cf. Lc r 9,4 r -44). La giustizia di Dio si configura così come sofferenza di fronte al fallimento dell'uomo che ha peccato (38).
Una bella pagina di Origene sottolinea l'aspetto della con-sofferenza di Dio che emerge dalla rivelazione biblica. Così egli parla di questa "passione di Dio":
Quando mi rivolgo a uno e lo supplico d'un favore, che abbia compassione di me, se è privo di pietà non lo tocca nessuna delle parole che gli dico; se invece è di animo sensibile e non ha alcuna durezza di cuore, mi presta ascolto, prova compassione per me e si dispiega dinanzi alle mie preghiere un'interiore tenerezza. Riguardo al Salvatore, fai conto che accada la stessa cosa. Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell'amore. Persino il Padre, il Dio dell'universo, "pietoso e clemente" (Sal 103,8) e di gran benignità, non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti "il Signore tuo Dio ha sopportato i tuoi costumi, come un uomo sopporta quelli di suo figlio" (Dt 1,31). Quindi Dio prende i nostri costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre è impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s'immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini (39).
Il Padre, dice Origene, soffre per amore. Giustizia e sofferenza si incontrano nell'amore. Se ci volgiamo al Nuovo Testamento, noi vediamo che l'amore e la giustizia di Dio si sono manifestati in Cristo: "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo..." (1Gv 4,9-10; cf. Gv 3,16); "Si è manifestata la giustizia di Dio ... Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Gesù Cristo" (Rm 3,21.26). Ma quale giustizia, nel senso di principio di corrispondenza e di equivalenza, vi è nell' evento del dono del Figlio all'umanità? Quell'evento parla di un amore non contraccambiabile e di un dono che non può essere ripagato. Dice Paolo: "Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). Il punto di incontro fra giustizia e amore di Dio è la sofferenza: il Dio che soffre diviene il Dio che s'offre, che si dona in nome della sua giustizia e del suo amore. È di fronte alla sofferenza dell'uomo che tanto la giustizia quanto la bontà di Dio sono messe in crisi, ma è dall' amore e dalla giustizia di Dio, divenute sofferenza di Dio in Cristo Gesù, che prendono nuova luce l'amore e la giustizia dell'uomo. Da questo eccesso divino possono nascere una giustizia e un amore traboccanti. Diviene possibile l'eccesso di amore che consiste nell'amare il nemico (cf. Lc 6,27-28); diviene possibile l'eccesso di giustizia che mira a fare all' altro ciò che si vorrebbe venisse fatto a noi (cf. Lc 6,31). Diviene possibile vivere la paradossale giustizia dell'amore (amate i nemici, fate del bene a chi vi odia) e il paradossale amore della giustizia (ciò che volete che gli uomini facciano a voi, voi fatelo a loro). In un unico mistero di passione che è sofferenza e amore. Il Dio giusto e consofferente è - dice Giovanni - il Dio che" è amore" (1Gv 4,8.16).

[1] Per una trattazione più ampia cf. L. Manicardi, Il corpo, Qiqajon, Bose 2005.
[2] Citato in J. Moltmann, Dio nella creazione, Queriniana, Brescia 1986, p.283.
[3] Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, Città Nuova-Libreria Editrice Vaticana, Roma 19872, p. 235.
[4] TertuIIiano, Sulla resurrezione dei morti 8,2.
[5 ] L.-M. Chauvet, "Editoriale. La liturgia e il corpo", in Concilium 3 (1995), p. 13.
[6] C. Chalier, Sagesse des sens, p. 37.
[7] F. Holderlin, Festa di pace, in Id., Le liriche, Adelphi, Milano 1993, p. 604.
[8] Citato in C. Chalier, Sagesse des sens, p. 110.
[9] Sifre Devarim 343.
[10] Si tratta di un passo della prima collezione dei discorsi di Isacco (1,35). Cf. Isacco di Ninive, Un'umile speranza, a cura di S. Chialà, Qiqajon, Bose 1999, p. 165.
[11] Cf. E. Bianchi, "Io non ho voluto conoscere altro che Cristo crocifisso! (ICor 2,2)", in Parola, Spirito e Vita 18 (1988), pp. 127-147.
[12] Cicerone, Contro Verre V,64,165.
[13] Ibid. V,66,169.
[14] Tacito, Storie IV,3,11.
[15] Plauto, I Menecmi 66,849; Id., Poenulus 347. Altri riferimenti in M. Hengel, Crocifissione ed espiazione, Paideia, Brescia 1988, p. 40, n. 16.
[16] Ibid., p. 42.
[17] Giustino, Dialogo con Trifone 90,1.
[18] Seneca, Lettere 101,14.
[19] Gregario di Nissa, Omelia sulla resurrezione I, PG 46,624.
[20] Citato in 1. Noye, S.v. "Maladie", in DS X, Paris 1977, col. 143.
[21] Le lettere di Paolo III, a cura di R. Fabris, Boria, Roma 1980, p. 93.
[22] Saint Paul, Epitre aux Colossiens, a cura di J.-N. Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 135.
[23] Erveo di Bourg-Dieu, Lettera ai Colossesi, PL 181,1325.
[24] S. Thomae Aquinatis, Super Epistolam ad Colossenses lectura, in Id., Super Epistolas s. Pauli lectura II, a cura di P. Raphaelis Cai, Marietti, Taurini-Romae 1953, p. 137.
[25] Saint Paul, Épìtre aux Colossiens, p. 135.
[26] P. Iovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della Thlipsis nelle lettere di san Paolo, Edi Oftes, Palermo 1985, p. 154.
[27] Cf. Ch. Delhez, "Peut-on offrir ses souffrances à Dieu?", in Vie consacrée 3 (2002), pp. 148-160.
[28] L'intervista è stata pubblicata su La Croix il 20 aprile 1988.
[29] X. Thévenot, Souffrance, bonheur, éthique. Conférences spirituelles, Salvator, Mulhouse 19902, p. 27.
[30] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 229-230.
[31] G. Marcel, La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier, Paris 1964, pp. 142-143.
[32] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, p. 226.
[33] Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 17,1.
[34] Citato in R. S. Anderson, La fede, la morte e il morire, Claudiana, Torino 1993, p. 129.
[35] Cf. D. Lys, "Rùach". Le souffle dans l'Ancien Testament, Presses universitaires de France, Paris 1962.
[36] Cf. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia I9752.
[37] A. J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Boria, Roma 1981, p. 87.
[38] Cf. E. Bianchi, "Giustizia e perdono alla luce della Bibbia", in Associazione Biblia, L'esercizio della giustizia nella Bibbia. Alti del Convegno nazionale di Biblia (Milano, 23-25 aprile 1994), Biblia, Settimello 1996, pp. 211-231.
[39] Origene, Omelie su Ezechiele 6,6.

http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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