DON ANTONIO

mercoledì 14 settembre 2011

La vita non è tolta, ma trasformata. Joseph Ratzinger, Sulla settimana santa, Queriniana, Brescia 1971, pag. 34-37

Il brano che proponiamo è una riflessione scritta nel 1971 da Joseph Ratzinger, allora docente di Teologia dogmatica e Storia del dogma all’Università di Ratisbona. Il futuro Papa Benedetto XVI, meditando sul mistero della morte, ci spiega che – da quando Cristo è disceso agli inferi e ha condiviso il nostro destino – ciò che ci attende oltre quella soglia estrema non è più la solitudine, l’assenza di amore, ma una vita trasformata e accompagnata dalla sua mano sicura.
Si tratta naturalmente di una meditazione ispirata dalla fede, e non per tutti riuscirà credibile e convincente. Tuttavia essa contiene un insegnamento importante anche per chi non crede. Dice Ratzinger: «Si dà un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere cacciata via mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama».
Per il cristiano, quella di Dio è la presenza ultima, che porta a compimento ogni presenza amorevole sperimentata nel corso della nostra vita. Per il non credente, questa presenza possiamo essere noi stessi, nel momento in cui assistiamo con amore una persona che soffre. Esiste un limite oltre il quale la ragione – declinata come scienza, come azione, persino come religione – non basta più a vincere l’angoscia: quello è il momento di una presenza che sappia comunicare com-passione, un “esserci” al di là dei mezzi materiali spesso limitati su cui possiamo contare.
Come altre volte, dedichiamo il brano a tutti coloro che – per professione o nel tempo libero – fanno dell’aiuto agli altri una delle ragioni profonde del proprio essere al mondo.
La morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, rovescio dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini. (...)
Si dà un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere cacciata via mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma solo l’estraneità della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? (...)
Una cosa è certa: si dà una notte nel cui abbandono buio non penetra parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi provocata da questa solitudine. Per questo motivo nell’Antico Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: sheol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può accedere ad essa, è l’inferno.
«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile ed inaccostabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende, e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è penetrato in esso e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e può amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: «Ai fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata» prega la Chiesa nella liturgia funebre.


http://www.fondazionegraziottin.org/it/articolo.php?EW_CHILD=10697

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