DON ANTONIO

giovedì 22 settembre 2011

9.IL MALE.Saggio teologico del cardinale Charles Journet Professore al Seminario Maggiore di Priburgo

g) Dio poteva fare questo nostro mondo migliore?

I) Dio poteva per la Sua potenza assoluta, fare del mondi migliori del
nostro. Ma, poteva Egli, potrebbe anche ora rendere migliore di quello che
è questo nostro mondo che ha creato secondo la sua potenza ordinata?

Non è questione di sapere se Dio potrebbe aggiungergli delle nuove parti,
delle specie più numerose e più nobili, includerlo in un insieme più vasto e
più ricco: poiché in questo caso avremmo un altro mondo (140).

E' questione di sapere se le cose di questo mondo, essendo quello che
sono per la loro essenza, potrebbero essere migliori per la loro
disposizione, per le loro qualità; e tale problema si pone soprattutto a
proposito degli esseri liberi: gli uomini potrebbero essere più virtuosi, più
saggi? (141). Il livello dell'ordine interno dell'universo potrebbe essere
elevato e riflettere maggiormente la bontà del fine supremo? (142).

A questa domanda, bisogna rispondere senza esitare: sì. Dio poteva, Dio
potrebbe fare questo nostro mondo migliore. Con questo però non resta
facilitata la risposta al problema del male. Ma noi non cerchiamo una
risposta facile, bensì una risposta vera, e questa obbliga il nostro spirito,
una volta ancora, a sprofondarsi nella trascendenza del mistero di Dio.
2) Tutto il corso degli avvenimenti della natura è retto dall'onnipotenza
divina che non viola le nature, ma prepara delle cause necessarie per gli
effetti necessari, delle cause contingenti per gli effetti contingenti, delle
cause fortuite per gli effetti fortuiti (143). E noi sappiamo che il divenire
dell'universo non è l'attività di una macchina, ma è lo svolgimento di una
storia (144). Ma allora, invece di lasciare agire la sua potenza ordinaria,
Dio non potrebbe intervenire, non diciamo sempre (perché allora avremmo
un altro mondo e bisognerebbe cambiare le nature) ma più sovente,
secondo la Sua potenza straordinaria, per modificare il corso degli
avvenimenti, evitare certi casi che ci sono di scandalo (come, per esempio,
quando una chiesa crolla su di una folla di fedeli in preghiera), prevenire
innumerevoli disgrazie che cadono sui buoni non meno che sui cattivi? Sì,
Dio lo potrebbe.

Ed anche sul piano della libertà, in questo mondo dell'umanità decaduta e
riscattata che è la nostra, Dio non potrebbe frenare il progresso del male?
Sappiamo che Egli non vuole in alcun modo il peccato. Perché allora
permette simili trionfi del peccato? Perché concedere al male tante vie di
accesso, attraverso le quali si introduce nella Sua opera? Perché lasciargli
il campo libero, assicurargli un così terribile fair play, permettergli di
sviluppare la sua spaventosa dialettica? Dio che ha creato la terra ed
imposto del limiti al mare (Giob., XXXVIII, I - II), non potrebbe uscire
dal suo silenzio ed infrangere più sovente la violenza del male? Impedire
certe cose troppo orribili? (145). Sì, lo potrebbe. Ma contemporaneamente
scomparirebbe anche dalla terra un certo grido della nostra angoscia verso
di Lui, una certa illimitatezza del nostro abbandono, e quel qualche cosa
che san Paolo ha tanto amato in Abramo, nostro padre nella fede: “Ha
sperato contro ogni speranza” (Rom., IV, 18).
3) Il mondo nel suo complesso sarebbe migliore? Forse. Ma Dio, se crea, a
che cosa è tenuto, in ragione della Sua giustizia, della Sua sapienza, della
Sua bontà infinita? E' tenuto a fare un mondo buono, nel quale il male non
possa alla fine prevalere sul bene. Esiste forse un grado, un livello di bontà
del mondo che non sia infinitamente inadeguato ad esprimere la bontà
infinita? Esiste un mondo migliore di qualche altro mondo, che Dio dovrà
scegliere sotto pena di essere riprovevole? Ecco che ricompare l'illusione
che fa credere che la giustizia, la sapienza, e soprattutto la bontà, saranno
tanto più grandi in Dio quanto migliore sarà il mondo che creerà (ma
allora dovrebbe creare un mondo infinitamente buono) e che, se decide di
creare, è costretto a fare il migliore del mondi possibili.

h) Dio che poteva creare il nostro mondo “migliore”, poteva crearlo
“meglio”?
San Tommaso distingue accuratamente due proposizioni che sono confuse
in Leibniz: I) Dio poteva fare delle cose migliori; 2) Dio non poteva fare
meglio le cose che ha fatto (146).
In altre parole, Dio poteva mettere nel nostro mondo più giustizia, più
sapienza, più amore; ma non poteva impiegare più giustizia, più sapienza,
più amore nel fare questo mondo. Dato il livello di essere e di bontà, data
la qualità, l'intensità, il colore del bene comune finale al quale Dio (tenuto
conto da tutta l'eternità del liberi sì che diciamo al Suo amore, e del liberi
no che opponiamo alle Sue premure) decide di elevare l'universo, è
assolutamente certo che è con una giustizia, una sapienza, un amore
propriamente infiniti, che Dio ordina tutto a quel bene comune finale, le
cose necessarie e le cose contingenti, le cose libere e le cose fortuite, i
progressi del bene e le stragi del male.

i) L'atto creatore, identico a Dio quanto alla sua origine, è completamente
libero quanto al suo termine.
Volgiamo ancora una volta il nostro sguardo verso il mistero divino. Che
Egli crei o no, che crei un certo mondo o certi altri mondi migliori, Dio,
poiché è l'Essere assoluto, non ne sarà né diminuito né accresciuto. Il
Gaetano esprimeva questo sublime mistero, dicendo che l'atto di volere il
mondo, l'atto creatore, è una “perfezione volontaria completamente
libera”, vale a dire, che può essere o non essere, senza nulla aggiungere né
togliere a Dio. L'atto creatore, identico all'essenza divina dal lato del suo
principio, è completamente libero dal lato del suo termine o del suo punto
di applicazione, e può, senza esserne in nulla modificato intrinsecamente,
se si esercita, fare uscire il mondo dal nulla (147). Il mondo, qualunque
mondo possibile si consideri, non sarà mai altro che una mescolanza di
potenza e di atti d'essere e di non-essere: rappresenterà sempre una realtà
sufficiente, perché Dio possa dire: “Che esso sia!”, e una parte sufficiente
di nulla per non essere identico, adeguato, né, di conseguenza, necessario
alla gloria di Dio. Dio è in uno stato di indifferenza dominatrice assoluta,
nella libertà più totale, riguardo a tutti gli universi possibili. Tutto ciò che
sarà tenuto a fare, essendo la Sapienza infinita, sarà, se crea, di predisporre
l'universo, col male che lo sconvolge, a qualche trionfo finale del bene.

Se si domanda: per quale ragione Dio, che nella Sua sapienza infinita
poteva parimenti creare e non creare, decide di creare? La sola risposta
che si possa dare, ed è sufficiente, è questa: per comunicare una certa
partecipazione del Suo infinito splendore. E se si domanda: per quale
ragione decide di creare un certo mondo piuttosto di un certo altro mondo,
inferiore o migliore? La risposta è simile: per comunicare una certa
partecipazione del Suo infinito splendore, piuttosto di una certa altra,
inferiore o migliore.

j) Un paragone.
Desiderate un paragone che possa aiutare l'immaginazione? Eccone uno
che ci suggerisce san Paolo. Immaginiamo uno scultore il cui pensiero sia
diventato così ricco che ha perduto la speranza di esprimerlo
sufficientemente nella pietra. Così Michelangelo, alla fine della sua vita,
diceva che tutta la pittura e tutta la scultura erano troppo povere per
attrarre l'anima che si era finalmente volta verso l'Amore che morì in
Croce. Questo scultore, che dominasse in modo tale il fine ed i mezzi della
sua arte, potrebbe con un'assoluta indifferenza, rinunciare od acconsentire
a scolpire e, nel secondo caso, scegliere qualunque soggetto: vaso, busto,
statua, gruppo, tutte cose parimenti inadeguate al suo ideale. Tuttavia le
opere che uscirebbero dalla sua mano, testimonierebbero tutte, secondo i
loro pregi ed in misura differente, una suprema maestria.

k) Il concetto del migliore del mondi possibili è contraddittorio.
Il concetto del migliore del mondi possibili è, per definizione,
irrealizzabile (come quello del moto più veloce possibile) poiché
“qualunque cosa Dio abbia fatto, potrebbe fame una migliore” (148), e ciò
indefinitamente. Esigere da Dio, perché della filosofia del lumi, e lo
slancio che l'anima ha in questo senso ha il valore di una testimonianza
(151).

Ma il mistero di Dio, quale si rivela alla riflessione, a partire dalla
creazione del mondo, attraverso le Sue opere (Rom., I, 20), vi si trova
svalutato ed in modo particolare a proposito della questione del male. Il
filo conduttore di tutta l'opera, che sostiene l'argomento dall'inizio alla
fine, è che, se Dio è infinitamente buono, non ha potuto fare che le cose
migliori. Neppure per un istante Leibniz ha pensato di confutare questo
principio del suo avversario: nessuna asserzione gli è sembrata più sicura.

Leibniz suppone dunque in Dio un'inclinazione che lo porta
necessariamente a creare il migliore del mondi. Essa non è indubbiamente
paragonabile all'inclinazione essenziale che lo porta ad amare Se stesso. E'
un'inclinazione che vuole che fra diversi partiti in sé possibili, Dio, in
ragione della Sua stessa bontà e della Sua sapienza infinita, voglia
necessariamente scegliere il migliore. Essa non rappresenta, secondo
Leibniz, né una costrizione, né una schiavitù, né un bisogno, né una
necessità metafisica, che dovrebbe estendersi indistintamente a tutto ciò
che non implica una contraddizione. Ma rappresenta una necessità morale,
una fortunata necessità che è tutta a lode di Dio (152).

Ma è precisamente qui che si nasconde il sofisma, l'antropomorfismo, di
cui Leibniz è vittima. Se c'è necessità morale od obbligo per un essere di
scegliere di fare il bene ed il meglio, questo si verifica perché per
quell'essere esiste una necessità morale od un obbligo, facendo il bene ed
il meglio, di divenire migliore, di tendere verso il sommo Bene, in
direzione del quale è ordinato come la potenza all'atto, l'inferiore al
superiore, l'imperfetto al perfetto.
Dove si sopprime la necessità morale o l'obbligo di diventare migliore,
non si sopprime indubbiamente la possibilità, ma si sopprime la necessità
morale di fare il bene.

b) Passare dalla “convenienza” dell'atto creatore alla sua “necessità
morale”, significa varcare un abisso.
Non si sopprime neppure la convenienza che c'è nel fare del bene. Dove si
trova la somma ricchezza, la somma attuazione, si trova di conseguenza la
somma convenienza a darsi, ad effondersi al di fuori (153), ma senza
l'ombra di un obbligo. Se non sia soggetto a biasimi, che faccia il migliore
del mondi possibili, significa esigere da Lui che faccia ciò che non è
fattibile e che realizzi l'assurdo.

Tuttavia la tesi, secondo la quale fra la moltitudine infinita del mondi
possibili, ce n'è uno che è il migliore, ed in considerazione del quale Dio
era moralmente tenuto ad uscire da Se stesso per creare, è la chiave di
volta della Teodicea e di tutti gli argomenti che Leibniz oppone a Bayle.
Perché bisognava che questa tesi racchiudesse in sé una duplice
incoerenza: quella dell'Assoluto moralmente tenuto a creare, e quella del
migliore del mondi possibili?

Leibniz ammette che c'è un'infinità di mondi possibili, incominciando dal
nostro mondo e scendendo verso il nulla; ma ammette pure che non ci sia
più alcun mondo possibile partendo dal nostro mondo e risalendo verso
Dio. Orbene, la prima distanza fra il nostro mondo ed il nulla, sebbene
divisibile all'infinito, è finita; mentre l'altra è propriamente infinita. Come
non lo colpisce quest'incoerenza? Il fatto è questo: egli per non sapersi
alzare attraverso ad un punto di vista metafisico (o attraverso un punto di
vista di fede teologale) abbastanza forte fino al mistero della sovrana
indifferenza del Creatore, è costretto a sostenere che il nostro mondo è il
migliore del mondi, e che, se qualche mondo migliore fosse possibile, e
Dio non lo avesse realizzato, Dio non sarebbe esente da biasimo, Dio non
sarebbe Dio (149).

4- LA “TEODICEA” DI LEIBNIZ
Così, alla soglia del XVIII secolo, la Teodicea, con un'intenzione
manifestamente teista, oppone un simulacro del vero Dio agli attacchi del
Dizionario storico e critico di Bayle (150).
a) Il filo conduttore della “Teodicea”.

Le profondità del duplice mistero di Dio e del male si sono velate di fronte
allo sguardo intellettuale di Leibniz. Senza dubbio la Teodicea è un'opera
scritta a gloria di Dio, del Dio c'è creazione di un mondo, ciò accadrà per
un atto di sovrana libertà. Ma ci sarà una necessità metafisica che questo
mondo sia volto verso Dio secondo il modo in cui la perfezione divina può
essere partecipata da ciascuna delle sue creature; e ci sarà la necessità
metafisica che questo mondo sia buono, che non sia affatto cattivo, che il
male, per quanto vasto, per quanto profondo, per quanto terribile possa
essere, non vi prevalga.

Fra il punto di vista di coloro che riconoscono in Dio una suprema
convenienza a comunicare Se stesso al di fuori, ed il punto di vista di
quelli che presuppongono in Dio una necessità morale di comunicare Se
stesso al di fuori, c'è un abisso. Leibniz l'ha varcato; e non si è reso conto
che in quell'istante distruggeva il mistero della trascendenza divina e
trasformava il vero Dio in un simulacro (154).

Tali sono le adorabili profondità dell'abisso della libera volontà di Dio e di
ciò che san Paolo chiama: “Il decreto della sua volontà” (Ephes., I, II).

c) Origini del concetto leibniziano del “male metafisico”.
Leibniz, per non essersi elevato fino al mistero della libertà dell'atto
creatore, era costretto, di fronte a coloro che prendevano lo spunto del
male per contestare o l'onnipotenza o l'immensa bontà divina, a
presupporre come tesi che Dio abbia creato il migliore del mondi possibili.

L'assioma, che Leibniz suole addurre e secondo il quale “un bene minore è
un male, se impedisce un bene maggiore”, minus bonum habet rationem
mali (155), che valore ha? Non può significare che un bene minore sia in
sé un male. Vuoi dire semplicemente che un bene minore può essere
accidentalmente un male, e cioè nell'esatta misura con la quale si
accompagna, hic et nunc, nell'essere nel quale sopraggiunge, con una
privazione, con l'assenza di una cosa dovuta.

Ma il Dio di Leibniz è tenuto a creare il migliore del mondi. Ogni
creazione di mondi inferiori, per quanto buoni essi fossero, sarebbe per
Lui cattiva, poiché Gli impedirebbe di fare ciò che è tenuto a fare. Sempre
per il Dio di Leibniz, i titoli all'esistenza del migliore del mondi
rappresentano qualcosa di buono e di legittimo; i titoli all'esistenza di tutti
gli altri mondi rappresentano soltanto un tentativo di usurpazione,
qualcosa di cattivo e d'illegittimo. Soltanto il miglior mondo è un bene, ed
ogni mondo inferiore un male, in rapporto alla scelta dell'azione
creatrice. Ma, ammesso ciò, come trattenersi dal dire che soltanto il
migliore del suoi mondi è un bene e che ogni mondo inferiore è un male in
se stesso e metafisicamente?

Seguendo questa strada Leibniz, a quanto pare, sbocca nel suo strano
concetto del “male metafisica”, che, egli dice, “consiste nella semplice
imperfezione” (156), e che gli fa considerare come un male ciò che non è
una privazione, ma una semplice limitazione, essenziale in ogni creatura in
quanto tale. “C'è - egli scrive - un'imperfezione originale [sic] nella
creatura prima del peccato, perché la creatura è limitata in modo essen-
ziale, donde deriva il fatto che essa non può sapere tutto e che può
sbagliarsi e commettere altri errori”; dimodochè “la sorgente del male
dev'essere ricercata nella natura ideale della creatura” e “nella regione
delle verità eterne” (157).

Si assiste qui ad uno strano rovesciamento dell'ottimismo. In questo
migliore del mondi, ogni creatura, per il fatto stesso che è creatura, è un
male. Dio solo è buono. Come può allora il Genesi (I, 31) dire: “Dio vide
tutto ciò che aveva fatto; ciò era molto buono”?

5. UN MONDO CON IL MALE PUÒ ESSERE
INCOMPARABILMENTE MIGLIORE DI ALTRI MONDI SENZA IL
MALE
I) Leibniz lo sa (158). Egli cita il Felix culpa, che si canta “la vigilia di
Pasqua nelle chiese del rito romano” (159). Si potrebbe soltanto
domandare a che cosa si riducono le prospettive insondabili aperte
dall'Exultet per gli occhi che non sanno vedere in Gesù Cristo altro che il
fondatore di una religione naturale. Né il mistero delle profondità
dell'Incarnazione redentrice, né il mistero relativo alle profondità del
peccato, può prendere, davanti allo spirito di Leibniz, le sue vere
proporzioni.

2) E' nel mondo della fede, nella rivelazione giudaico-cristiana che il Felix
culpa ci introduce direttamente. Le certezze metafisiche che ci sono
apparse (e cioè che Dio è infinitamente potente e buono, che Egli non
potrebbe né creare un mondo di per sé cattivo, né creare il migliore del
mondi possibile, che Egli non permetterebbe che il male intervenisse nella
sua opera se non fosse abbastanza potente e buono per ordinarlo verso
qualche bene misterioso) sono verità incontrollabili che rimangono
definitivamente acquisite; ma, toccate dal raggio della rivelazione divina,
richiederanno di essere trasferite dal piano delle cose della ragione al
piano delle cose della fede, dal piano del mondo della natura al piano del
mondo della grazia. La potenza e la bontà divina, di cui ci parla la
rivelazione, si pongono infatti ad un punto dove la ragione non giunge. Si
tratta della potenza e della bontà di un Dio in tre persone che, in un primo
istante del tempo, fa liberamente emergere il mondo dal nulla; che creando
il primo uomo lo riveste del doni della giustizia originale, gli concede
l'amicizia divina, lo esenta dalla sofferenza e dalla morte; di un Dio che
non permette l'irruzione del male della colpa in quel primo universo di
creazione, se non in previsione dell'instaurazione di un universo di
redenzione che sarà, nel complesso, migliore, in cui il capo dell'umanità
non sarà più Adamo, cioè un puro uomo, ma il secondo Adamo, cioè il
Verbo fatto carne. Di conseguenza il mistero del male dell'uomo, male
della colpa e male della pena, richiederà di essere esaminato alla luce di
questi dati della rivelazione. Ed è fino a questo livello supremo che
dovranno ritrovarsi le certezze metafisiche che abbiamo ricordate, e che
non possiamo rinnegare.

3). Ma prima, la considerazione del male della natura, potrà trattenerci un
istante. Dire che un mondo con il male può essere migliore di un mondo
senza male propone allo spirito del problemi pressanti (anche quando esso
è metafisicamente costretto a riconoscerlo) incominciando dal piano del
male della natura. Esso vorrà sapere, per quanto è possibile, come si
spiega un assioma in apparenza così paradossale, cogliere al vivo come la
soppressione del mali porterebbe con sé la soppressione di grandi beni. Gli
antichi Dottori ricordavano a questo proposito alcune considerazioni di
ordine molto generale: non ci sarebbero nuove generazioni senza le
distruzioni di cose antiche, non ci sarebbero erbivori senza la distruzione
del vegetali, non ci sarebbe sensibilità senza la vulnerabilità, ecc. I punti di
vista moderni sulla formazione del mondo e sull'evoluzione della vita
sembrano in grado di allargare un po' questi dati, di dissipare delle
obiezioni troppo meschine, di portare della luce.

Dopo un breve capitolo sul male della natura, parlerò, come teologo, del
male riguardante l'uomo, prima del male della colpa, poi del male della
pena.

NOTE

(1) L'acosmismo, che nega la realtà del male e persino quella del mondo per
glorificare l'assoluto, rappresenta la conclusione del pensiero vedantino. Quando,
arrestandosi a metà strada dal suo procedimento, lascia il posto ad un Signore
personale, Içvara si studia di dimostrarlo privo di ogni male. (Gfr.: OLIVIER
LACOMBE, L'Absolu selon le Védànta, Geuthner, Paris 1937, p. 256). All'ateismo,
che nega l'assoluto per divinizzare il mondo dell'immanenza, l'uomo, la volontà di
potenza, accade così di finire nella disperazione e nel riconoscimento dell'assurdità
radicale di tutte le cose; esso sfida il male senza poterlo abolire. Fra queste due
posizioni estreme, il panteismo appare come un compromesso instabile per
definizione. (V. avanti, p. 99).
(2) BOSSUET, Traité du libre arbitre, cap. 4, princ. e fine.
(3) “Omnia quae corrumpuntur, privantur bono. Si autem omni bono privabuntur,
omnino non erunt” (SANT 'AGOSTINO, Confessioni, lib. VII, cap. 12).
(4) “Nec malum unquam potest esse, ubi bonum est nullum” (Enchiridion, n. 13).
(5) “Omnis natura, etiam si vitiosa est, in quantum natura, bona est ". Disprezzeremo
dunque l'avvertimento di ISAIA.(V, 20): “Disgrazia a coloro che chiamano male ciò
che è bene e bene ciò che è male”? Se l'uomo è un bene, perché è un essere, un uomo
cattivo sarà dunque un male-che-è-un-bene? Agostino risponde: “Il cattivo non è né
un male per il fatto che è uomo, né un bene per il fatto che è ingiusto; esso è un bene
per il fatto che è uomo, un male per il fatto che è ingiusto”. La sentenza profetica
cadrebbe su colui che dicesse: è un male essere uomo, è un bene essere ingiusto
(IBID.).
(6) SAN TOMMASO, op. cit., (I, q. 48, a. 3): Se il male ha il bene per soggetto?
(7) “Se Dio esiste, donde vengono i mali?, fa dire Boezio a qualche filosofo. A ciò si
può rispondere, al contrario: Se il male esiste, Dio esiste. Non 'c'è male senza bene, di
cui il male è privazione. E senza Dio, quel bene non esisterebbe” (ID., III Contra
Gentiles, cap. 71).
(8) “Basta che ci siano delle cose perché Dio sia inevitabile. Se concediamo ad un filo
di muschio, alla più piccola formica, il loro valore di realtà ontologica, noi non
possiamo più sfuggire alla mano impressionante che ci ha creati” (J. MARITAIN, Les
degrés du savoir, Desclée De Brouwer, Paris 1932, p. 212).
(9) “Il male si distrugge esso stesso, e, se è totale, non è più sopportabile”
(ARISTOTELE, Etica Nicomachea, cap. V [XI], n. 5).
(10) SAN TOMMASO, op. cit., (I, q. 49, a. 3). “Il male non toglie tutto il bene, ma
un bene particolare di cui è la privazione. La cecità toglie la vista, non l'animale. Essa
scomparirebbe se l'animale scomparisse. Il male integrale non può dunque esistere;
distruggendo tutto il bene, distruggerebbe se stesso” (IBID., in IV Etica Nicomachea,
lib. IV, lett. 13, ed. Pirotta, n. 808).
(11) “Summum ergo malum nullum modum habet; caret enim omni bono. Non est
igitur” (SANT 'AGOSTINO. De diversis quaestionibus LXXXIII liber, n. 6).
(12) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 49, a. 3.
(13) “Il fatto che le cose sono in lotta le une contro le altre, dimostra che una cosa
può benissimo insorgere contro l'ordine cui è predisposta una causa particolare, ma
non contro l'ordine avuto di mira dalla causa universale di tutto l'essere” (SAN
TOMMASO, op. cit., I, q. 103, a. 8, ad. 3). Il De potentia, (q. 3, a. 6), sviluppa questo
punto di vista. Gli antichi filosofi, dice san Tommaso, non considerando se non i
principi particolari della natura e, vedendoli contrari gli uni agli altri, sono venuti
nella conclusione di stabilire due principi supremi, sono stati vittime di diversi errori.
Hanno badato soltanto alla diversità del contrari, non all'elemento più profondo che è
loro comune... Hanno badato soltanto ai rapporti delle cose particolari fra loro, non ai
rapporti che esse hanno con l'ordine di tutto l'universo; di conseguenza hanno pensato
che una cosa nemica di un'altra o meno perfetta di un'altra, sia di per sé cattiva. Per
Pitagora, la donna era imperfetta, dunque cattiva; i manichei consideravano cattivi gli
essere corruttibili, inferiori agli incorruttibili, gli esseri visibili inferiori agli invisibili,
l'Antico Testamento inferiore al Nuovo, e li facevano derivare non dal Dio buono ma
da un principio contrario.
(14) V. Indietro, p. 43.
(15) “Gli atti e le disposizioni cattive sono specificate non dalla privazione nella
quale consiste la ragione stessa del male, ma da qualche oggetto al quale tale
privazione si congiunge, sed ex aliquo obiecto, cui conjungitur talis privatio” (SAN
TOMMASO, op. cit., I-Il, q. 79, a. 2, ad. 3).
(16) “Ho consultato i libri di tutti i dottori del mondo: la fede che essi professano si
schiera sotto uno di questi due capisaldi: gli uni dicono che tutto il bene e tutto il
male che sono nel mondo derivano da Dio, gli altri dicono che il bene che è nel
mondo e la speranza che l'anima possiede di salvarsi hanno Dio come causa, che le
miserie del corpo e tutti i pericoli dell'anima hanno come causa Ahriman, e che tutto
dipende dalla distribuzione di questi due principi fino in ogni atomo di ogni creatura”
(Une apologétique mazdéenne du IX siècle, Skand-Gumanik Vicar, La solution
décisive des doutes, testo trascritto, tradotto ed annotato da P. J. nE MENASCE, o.P.,
Friburgo, [Svizzera] 19\:;, p. 117).
(17) P. J. DE MENASCE, Note sur le dualisme mazdéen, in Satan, “Etudes
Carmélitaines”, Desclée De Brouwer, Paris 1948, pp. 130-33. [Il corsivo è nostro].
(18) H. C. PU;ECH, Le manichéisme, son fondateur, sa doctrine, ed. Civilisations du
Sud, Paris 1949, p. 74.
(19) ID., p. 73.
(20) Sulla critica del manicheismo da parte del mazdelsmo, v. P, J. DE MENASCE,
Une apologétique mazdéenne..., cit., pp. 226-61.
(21) H. C. PUECH, op. cit., p. 69.
(22) ID., p. 153.
(23) IBID., p. 69.
(24) Un'età dell'oro che risulta dall'ateismo: sappiamo con quale seduzione
Dostojewsij, nell'Adolescente, ha rivestito quest'ultima tentazione dell'ateismo.
(25) Citato da M. M. COTTIER, O.P., L'athéisme moderne, Brève esquisse
historique, in “Nova et Vetera”, 1960, n. l, p. 42.
(26) Cfr. prima, p. 49.
(27) “Ogni agente agisce per un fine, mira ad un bene che è il suo fine; nessuna
privazione è desiderata, essa sopraggiunge come il rovescio d'un effetto prodotto.”.
(SAN TOMMASO, II Sent., dist. 1, q. 1, a. 1, ad. 2).
(28) “voluntas est causa mali... per accidens quidem, in quantum voluntas fertur in
aliguid quod est bonum secundum quid, sed habet conjunctum quod est simpliciter
malum” (ID. De malo, q. l, a. 3),
(29) “Aliter causatur malum in actione, et aliter in effectu” (IBID. I, q. 49, a. 1). “San
Tommaso distingue il male che colpisce l'azione o l'operazione degli esseri, male
dell'azione, ed il male che colpisce l'essere stesso dell'agente, male dell’essere.
Insegna in linea totalmente generale che il male dell'azione deriva sempre da un certo
difetto presupposto nell'essere o nelle forze operative dell'agente” (J. MARITAIN,
Saint Thomas d'Aquin et le problème du mal, cit., p. 230).
(30) “Malum, quod in quadam privatione consistit, habet causam deficientem, vel
agentem per accidens” (SAN TOMMASO, op. cit., I-II, q. 75, a. lt
(31) “... non agendo sed deagendo” (ID., q. 1, ad. 8).
(32) “Voluntas... est causa mali secundum utrumque praedictorum modorum, scilicet
et per accidens, et in quantum est bonum deficiens” (IBID., q. 1, a. 3).
(33) “Agostino paragona questa mancanza al silenzio ed alle tenebre; questa
mancanza è infatti semplice assenza, defectus ille est negatio sola” (IBID., q. 1, a. 3.
Cfr. IBID., I-II, q. 75, a. 1, ad. 3. V. infra, p. 182).
(34) IBID., (q. i, a. 3, ad. 13). Nel De civitate Del, (Iib. XII, cap. 7), parlando del
peccato degli angeli, sant'Agostino scrive: “Non si cerchi dunque la causa efficiente
della volontà cattiva: tale causa non è efficiente, ma deficiente; non c'è qui
produzione, effectio, ma defezione, defectio... Voler cercare delle cause efficienti e
non soltanto deficienti a tali defezioni, significherebbe volere vedere le tenebre, voler
ascoltare il silenzio”. Il problema: Come il male morale si produce nella volontà, è
uno degli argomenti affrontati da J. MARITAIN, nel suo profondo studio su Saint
Thomas d'Aquin et le problème du mal, cit. (cap. 7, p. 23(}).
(35) “Non itaque insanio, nec dico: Malum creat Deus” (SANT ' AGOSTINO. Opus
imp. contra Julianum, lib. V, fine).
(36) La volgata dice: “creans malum”. San Tommaso applica questa frase al male
della pena: Dio vuole, vale a dire crea, l'ordine contro il quale urta il peccatore” (SAN
TOMMASO, op. cit., q. 1, a. 1, ad. 1. V. avanti, p. 91-93). Non crediamo - che i
“Semiti” per non aver distinto espressamente ciò che Dio vuole e ciò che permette,
abbiano potuto credere che Dio consideri con lo stesso occhio il bene e il male, la
virtù ed il peccato.
(37) “Malum... quod ex defectu agentis causatur, non reducitur in Deum sicut in
causam” (ID., I, q. 49, a. 2).
(38) Nell'opera De diversis quaestionibus LXXXIII liber, (q. 21), SANT
'AGOSTINO prova: “Che Dio non è l'autore del male. In che modo il non-essere
potrebbe derivare da Colui che è l'autore di tutte le cose, dalla bontà del quale
soltanto deriva l'essere di tutto ciò che esiste? Tutto ciò che viene meno si allontana
dall'essere e tende al non-essere. Essere, senza venire meno in nulla:. ecco il bene; il
male è il venire meno a qualcosa. Ma Colui che ignora il non-essere non può essere la
causa del venire meno, della tendenza al non-essere. Egli è la causa stessa dell'essere.
E' causa soltanto del bene, e per questo è il bene supremo. Colui che è l'autore di tutto
ciò che esiste, non è l'autore del male: le cose infatti, in quanto esistono, sono buone”.
Questo passo di sant'Agostino è richiamato da SAN TOMMASO, op. cit., (I, q. 40, a.
2, sed contra). E nel medesimo articolo, san Tommaso spiega che “con lo scopo di
assicurare il bene dell'ordine universale, Dio, in via di conseguenza e come per
accidente, causa la corruzione degli esseri particolari”; che “il male che consiste nella
corruzione degli esseri risale a Dio come alla sua causa, reducitur in Deum sicut in
causam”. Così Dio non può essere la causa del male fisico, in quanto vi tenda e lo
cerchi; ma Dio è la causa del male perché vuole il bene di cui quel male è il rovescio.
Ecco il duplice aspetto del significato di questa parola: Dio permette il male fisico.
(39) Çankara per testimoniare dell'innocenza di Içvara riguardo al male considerato
nella sua totalità concreta, fa appello al concetto di permesso, anujna, sviluppato nel
contesto della sua metafisica (O. LACOMBE, L'Absolu selon Védanta, cit. p. 256).
(40) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 48, a. 5.
(41) ID., (I, q. 49, a. 2). Qui vengono presi in considerazione anzitutto i mali
corporali. Bisognerà, approfondendo il mistero del male della pena, includervi anche
il male della dannazione, come san Tommaso ammonisce. (IBID., q. 1, a. 5).
(42) PLATONE, Repubblica, II, 379 c; 380 a.
(43) Le leggi, (X, 903 c). Il punto di vista della subordinazione delle parti al bene
dell'insieme diventerà tradizionale nella philosophia perennis per giustificare il male
fisico. Mia sarà sorto un nuovo problema: la persona spirituale dell'uomo può essere
trattata come una parte del cosmo? (V. indietro, p. 59).
(44) MARC 'AURELIO, Pensieri, lib. V, n. 8.
(45) PLOTINO, III, 2, Della Provvidenza I, nn. 7-8.
(46) IBID., n. 16..
(47) Parlando ai tempi nostri della “religiosità cosmica” che è, secondo lui, “la
religiosità del sapiente”, ALBERT EINSTEIN scrive che essa risiede nello stupore
estatico di fronte all'armonia delle leggi della natura, nella quale si rivela una ragione
così superiore che tutti i pensieri ingegnosi degli uomini ed il loro ordine non sono, in
confronto, che un riflesso del tutto trascurabile. Tale sentimento è il leitmotiv della
sua vita e del suoi sforzi nel limite entro il quale egli ha capacità di elevarsi al disopra
della schiavitù del suoi desideri egoistici, ed è, senza dubbio, parente prossimo di
quello di cui furono pieni gli spiriti religiosi in ogni tempo. (Come io vedo il mondo,
Flammarion, Paris 1958, pag. 21).
Affascinato dall'ordine del cosmo, Einstein ne deduce un determinismo universale
che dichiara incompatibile con l'esistenza di una religione morale e di un Dio
personale. Il principio di causalità, esclusivamente limitato a spiegare il legame fra
due fenomeni e privato di ogni portata metafisica, è divenuto incapace di far salire
l'intelligenza dal mondo a Dio. L'intelligenza, se non il cuore dell'uomo, è diventata
atea. La scienza ha detronizzato la sapienza.
(48) “Non enim in puniendo intendit malum eius quod punitur” (SAN TOMMASO,
De malo, q. 1, a. 3, ad. 10. V. avanti, p. 216).
(49) ID., I-II, q. 75, a. 1.
(50) “E' impossibile che Dio sia, per sé o per altri, causa di rivolta contro l'ordine che
è in lui stesso” (IBID., I - II, q. 79, a. 1. V. avanti, p. 186).
(51) “Et sic patet quod Deus nullo modo est causa peccati” (IBID.; cfr. anche I, q. 19,
a. 9; q. 49, a. 2). Il peccatore è “come il servitore che agisce contro l'ordine del suo
padrone” (IBID., I-II, q. 79, a. 1, ad. 3). “Coloro che non sono con Dio. sono, per
quanto dipende da loro, contro Dio, per il fatto che contrastano la volontà divina
antecedente” (IBID., l Sent., dist. 47, q. 1, a. 2, ad. 1).
(52) IBID., (dist. 46, q. 1, a. 3): “Malum non est pars universi, quia neque habet
naturam substantiae neque accidentis, sed privationis tantum” (V. avanti, p. 244, nota
69).
(53) PLOTINO, III, 2 De Providentia I, n. 17.
(54) ID., III 3 De Providentia II, (n. 4, p. 54). All'obiezione: “Se gli uomini sono
cattivi indipendentemente da loro stessi e senza volerlo, nessuno può dichiararli
responsabili del torti che fanno, neppure colui che ne è la vittima”, la risposta è
questa: “Sono cattivi indipendentemente da loro stessi, è vero, poiché ogni colpa è
involontaria; ma ciò non impedisce che essi siano degli esseri che agiscono. per se
stessi, ed è appunto negli atti che commettono per se stessi che commettono delle
colpe. Non sarebbero in errore se non fossero loro che agiscono. Il principio della
necessità della loro colpa non è fuori di loro stessi, per lo meno non lo è totalmente”
(IBID.. III 2 De Providentia 1, n. 10): Si riconosce qui la dottrina che viene dagli
stoici e che ricomparirà in Spinoza.
(55) Sul bene che talvolta precede il male e talvolta lo segue, v. SAN TOMMASO, I
Sent., dist. 46, a. 2.
(56) ID., I, q. 19, a. 9, ad. 2.
(57) ID., I Sent., dist. 39, q. 2, a. 2.
(58) Troviamo le medesime affermazioni nel Corano: “Al tuo Signore tutto risale..., è
lui che fa vivere e che fa morire” (LIII, 42-44); “E' lui che mi farà morire, poi mi
risusciterà” (LVIII, 81).
(59) SAN TOMMASO, De malo, I, q. 19, a. 8; dr. ID., q. 22, a. 4.
(60) IBID., I, q. 22, a. 2, ad. 4. (V. avanti, p. 128).
(61) SANT 'AGOSTINO, De Genesi ad litteram, lib. I, n. 33.
(62) J. MARITAIN, Neuf leçons sur les notions premières de la philosophie morale,
cit., p. 72.
(63) San Tommaso riprende, precisandola, la dottrina di Pietro Lombardo. “Le due
prime proposizioni, egli dice, essendo affermative non si oppongono
contraddittoriamente, di modo che il principio del terzo escluso non è violato”. Alla
domanda: E' bene che esistano i mali? “No, risponde san Tommaso, ma il bene è
questo:. che i mali siano occasioni di bene, et ideo hoc bonum est, mala esse
occasiones bonorum” (I Sent., dist. 46, q. l, a. 4, ad. 2 e a. 2).
(64) “Deus igitur neque vult mala fieri; neque vult mal a non /ieri; vult permittere
mala fieri. Et hoc est bonum” (ID., I, q. 19, a. 9, ad. 3. Cfr. IBID., De malo, q. 2, a. l,
al IV sed contra).
(65) IBID., l, q. 22, a. 2, ad. 2. Cfr. IBID., q. 48, a. 2, ad. 3.
(66) IBID.
(67) “Neque enim Deus... ullo modo sincret mali aliquid esse in operibus suis...”
(Enchiridion, cap. Il, n. 3).
(68) “Melius enim judicavit de malis bene facere, quam mal a nulla esse permittere”
(ID., cap. 27 n. 8).
(69) “Quanto al buono ed al cattivo, essi non indicano nulla di positivo per lo meno
nelle cose considerate in se stesse, e non sono altro che del modi di pensare o del
concetti che noi formiamo, perché paragoniamo le cose fra loro” (SPINOZA,
Ethique, ed. Garnier, p. 424).
(70) CALVINO, Institution chrétienne, Genève-Paris 1888, lib. III, cap. 23, nn. 8 e 9.
(71) ID., n. 7. (V. avanti, p. 187).
(72) Cfr. VIRGILIO, Eneide, X, 100: “Tum Pater omnipotens, rerum cui prima
potestas”.
(73) “Neque enim Deus omnipotens, quod etiam infideles fatentur, rerum cui summa
potestas, cum summe bonus sit, ullo modo sineret mali aliquid esse in operibus suis,
nisi usque adeo esset omnipotens et bonus, ut bene faceret et de malo” (Enchiridion,
cap. 11).
(74) “Melius enim judicavit de malis bene facere, quam mala nuna esse permittere”
(ID., cap. 27). .
(75) IBID., cap. 104.
(76) “Hoc ergo ad infinitam Del bonitatem pertinet, ut esse permittat mala, et ex eis
eliciat bona” (SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 2, a. 3, ad. 1).
(77) ID. (I, q. 22, a. 2; cfr. q. 48, a. 2, ad. 3).Anche quando un essere inferiore
distrugge un essere superiore, quando un leone divora un uomo, quando i microbi
consumano un polmone, quando una pianta mangia una mosca oppure si dissolve nei
suoi elementi chimici, è il bene dell'ordine universale che è preferito al bene degli
esseri particolari, è la trasformazione delle specie chimiche e delle specie viventi che
si cerca attraverso a quelle distruzioni.
(78) IBID., III, q. 1, a. 3., ad. 3.
(79) Pensiamo a Federico Nietzsche, a Carlo Marx, a Augusto Comte.
(80) J. MARITAIN, La signification de l'athéisme contemporain, Desclée De
Brouwer, Paris 1949, pp. 10-16.
(81) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 1, a. I.
(82) SAN TOMMASO, De potentia, q. 1, a. 5.
(83) ID., De malo, I, q. 25, a. 3; De potentia, q. I, a. 7.
(84) “Unde convenientius dicitur quod ea non possunt fieri, quam quod Deus ea non
possit facere” (ID., De malo, I, q. 25; a. 3).
(85) PLATONE, Timeo, 37 d.
(86) SAN TOMMASO, op. cit. (I, q. 46, a. I, ad. I). Questo possibile appartiene al
principio di non-contraddizione, e le verità geometriche che Remi Poincaré opponeva
precisamente alle regole arbitrarie del gioco dell'oca, misurano la nostra intelligenza,
le s'impongono. L'essere si divide in essere di ragione ed essere reale e quest'ultimo
si suddivide in essere possibile ed in essere esistente. Sulla distinzione fra l'universo
di esistenza, e l'universo d'intelligibilità, da una parte, e l'essere di ragione dall'altra,
vedi, per esempio: J. MARITAIN, Le réalisme critique, in Les degrés du savoir,
Desclée De Brouwer, Paris 1932, pp. 253-63. (V. avanti, p. 109 nota 104, p. 110 nota
105).
(87) SAN TOMMASO distingue le idee divine, seguendo la maniera di Platone,
secondo che esse sono: l. O solamente principium conoscitivum e “ragioni” delle cose
speculative; 2. Oppure principium factionis ed “esemplari” delle cose create (op. cit.,
I, q. 15, a. 3. V. avanti, p. 206).
(88) J. MARITAIN, Le songe de Descartes, Corréa, Paris 1932, p. 216. (Cfr. p. 220:):
“Per abolire il principio di identità, come per abolire la possibilità di una formica,
bisognerebbe abolire prima l'essenza divina. L'eterna verità di questo principio non
dipende dalla volontà divina e dalla libertà creatrice, ma dipende dalla necessità
divina, intendo dire dalla conoscenza che Dio ha necessariamente della Sua essenza
infinitamente necessaria, e che di conseguenza si estende a tutto il possibile e a tutto
il creabile, ma senza dubbio non come su un oggetto specificatore, ma come su di un
oggetto specificato e materialmente raggiunto”.
(89) SAN TOMMASO, De potentia, q. 1, a. 2.
(90) Che ci sia una linea fra ciò che Dio poteva fare e ciò che ha fatto, fra la sua
potenza assoluta e la sua potenza ordinata, corrisponde alla dottrina costante della
Chiesa. (Cfr. la VIl proposizione di Abelardo, condannata nel concilio di Sens nel
1140): “Dio non può fare o omettere che ciò che fa, nel modo col quale lo fa, nel
tempo nel quale lo fa” (Denz., n. 374); e la XXVII prop. di Wicleff, condannata al
Concilio di Costanza nel 1418: “Tutte le cose accadono per una necessità assoluta”
(Denz., n. 6(7). V. avanti, p. 125.
(91) ADAM-TANNERY, I, p. 152 (Citato da J. MARITAIN, op. cit., p. 217).
(92) J. MARITAIN, op. cit., p. 222. (La citazione di san Tommaso è presa dal De
Veritate, q. 23, a. 6. Cfr. op. cit., p. 337). Leibniz dirà egli pure che ciò significa
“disonorare” Dio: “Perché non sarebbe dunque altrettanto buono il cattivo principio
del manichei quanto il buon principio degli ortodossi?” (Teodicea, nn. 176-77. V.
avanti, p. 134, nota 152).
(93) SAN TOMMASO, De malo (I, q. 25, a. 5). Pensiamo a Platino, oppure ad
Avicenna stesso, che “pone l'esistenzializzazione del possibili come una necessità
eterna ed assoluta del pieno sviluppo in atto dell'essenza divina [...]. Ibn Sina
riprenderebbe, certamente per suo conto, la grande affermazione musulmana che Dio
è creatore del male come del bene, ma dandole, anche qui, un senso che non è più il
suo senso tradizionale. Dio, essere necessario, è creatore del male, nella misura in cui
il male non può non inserirsi nell'emanazione necessaria d'ogni cosa esistente
incominciando dal primo essere. Dunque, il problema del male morale in quanto tale
non può essere posto. Nel pensiero di Ibn Sina il problema del male resta assai vicino
al problema del male come viene considerato da Plotino” (L. GARDET, La pensée
religieuse d'Avicenne (Ibn Sina), Vrin, Paris 1951, pp. 68-135).
(94) ID.
(95) SPINOZA, Court traité (Garnier, Paris 1904, parte I, cap. 4, p. 75). Sembra
evidente che Spinoza intenda confutare Descartes. Ma scambia il bambino con
l'acqua del bagno, la dottrina giudaico-cristiana della onnipotenza con quella di
Descartes.
(96) ID., Pensées métaphysiques, stesso vol., parte II, cap. 9, p. 490.
(97) ID., Éthique, pp. 63-64.
(98) IBID., p. 102.
(99) J. MARITAIN, Le songe de Descartes, cit., p. 221.
(100) SPINOZA, Court traité, cit., parte I, cap. 6, pp. 84-85.
(101) IBID., parte I, cap. 10, pp. 94-95.
(102) ID., Pensées métaphysiques, cit., parte II, cap. 8, pp. 478-79.
(103) ID., Éthique, cit., p. 103.
(104) IBID., p. 204. Non è forse quest'idea che il bene ed il male siano degli “esseri
di ragione”, comoda, troppo comoda, per risolvere il problema del male, che
ritroviamo in HENRY BERGSON? All'obiezione: Non poteva Dio, in virtù della sua
onnipotenza, creare un mondo migliore? egli risponde: No! “Che cosa significa
esattamente l'onnipotenza? Abbiamo dimostrato (nell'Evolution créatrice) che l'idea
del nulla è qualcosa di simile all'idea di un quadrato rotondo che sfuma di fronte
all'analisi per non lasciare dietro di sé altro che una parola; infine ch'essa è una
pseudo-idea. Non si potrà forse dire la stessa cosa dell'idea del tutto, se si pretende di
designare con questa parola non soltanto l'insieme del reale, ma anche l'insieme del
possibile? Quando mi si parla della totalità dell'esistente, a rigore, mi rappresento
qualche cosa, ma nella totalità dell'inesistente non vedo che un'accozzaglia di parole.
Qui dunque si fa derivare un'obiezione da una pseudo-idea, da una entità verbale”.
(Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932, pp. 278-80).
Rispondiamo che la pseudo-idea consisterebbe nel voler fare un tutto del creatore e
del creato, del possibile e dell'esistente: queste due totalità non si possono sommare.
La pseudo-idea consisterebbe ancora nell'immaginare un Dio costretto a creare, ed a
creare proprio quel tal mondo; in altri termini sarebbe come immaginare un assoluto,
che per essere tale, si deve aggregare alla sua creazione. Si troverà in JACQUES
MARITAIN, De Bergson à Thomas d'Aquin, cit., una critica dell'analisi bergsoniana
dell'idea del nulla (pp. 32-35), e una critica dell'idea bergsoniana del possibile (pp.
42-47). Henry Bergson opta per un ottimismo empirico che si impone “senza che la
filosofia debba patrocinare la causa di Dio. Si potrà dire. che se la vita è buona nel
suo insieme, sarebbe tuttavia stata migliore senza la sofferenza, e che la sofferenza
non può essere stata voluta da un Dio d'amore? Ma nulla prova che la sofferenza sia
stata voluta. Abbiamo dimostrato come ciò che appariva da un lato come un'immensa
molteplicità di cose, nel numero delle quali c'è effettivamente la sofferenza, può
essere presentato d'altra parte come un atto indivisibile, dimodochè eliminarne una
parte significherebbe sopprimere il tutto” (Les deux sources... cit., p. 280). Si
riconosce qui l'argomento del sacrificio della parte (o anche della persona umana) al
bene del tutto, presentato con la delicatezza di pensiero naturale all'autore.
(105) Vi sono degli esseri di ragione che non possono esistere perché sono
intrinsecamente contraddittori (il circolo-quadrato, il migliore del mondi), e vi sono
altri esseri di ragione che non possono esistere soltanto perché la loro posizione
nell'esistenza è incompatibile con una delle loro note oggettive: “Applicando nel loro
concetto una relazione con qualcosa di reale raggiunto dallo spirito, si dice che quegli
esseri di ragione sono fondati nella realtà... Dire che Nettuno è osservato da un
astronomo significa stabilire in Nettuno una relazione di ragione, ma è ben reale che
l'astronomo osserva Nettuno. Il male è un essere di ragione, in questo senso: che per
pensare la mancanza del bene che dovrebbe essere in un soggetto, io sono costretto a
concepire tale mancanza come qualche cosa. Ma il male esiste molto realmente e
molto positivamente nel senso che il soggetto in questione è veramente privato o
mutilato del bene che dovrebbe essere in lui” cit., pp. 261-62).
(106) N. BERDIAEV, Esprit et liberté, Essai de philosophie chrétienne, ed. “Je sers”,
Paris 1933, pp. 175-76.
(107) V. la Lettera di Dostojevskij a V. A. Alexeiev, datata da Petersbourg, 7 giugno
1876: “Nella tentazione del diavolo sono riassunte tre idee colossali del mondo:
diciotto secoli sono passati da allora, ed ancor ora non esistono problemi più difficili,
vale a dire più contorti, che non riusciamo mai a risolvere. Le pietre ed i pani (vale a
dire il problema sociale attuale, l'ambiente). Non è una profezia, esso è sempre
esistito... Tu sei il Figlio di Dio, di conseguenza Tu puoi tutto... Ordina che d'ora
innanzi la terra produca senza fatica; insegna agli uomini una scienza ed un ordine
che facciano sì che la loro vita d'ora in poi sia assicurata. Non vedi che i principali
vizi e mali umani sono nati dalla fame, dal freddo, dalla miseria e dalla lotta
impossibile per l'esistenza? Questo era il primo problema che lo spirito del male
aveva posato al Cristo. Ammettete che è difficile risolverlo. Il socialismo attuale, in
Europa, ed anche presso di noi, elimina ovunque il Cristo, si preoccupa soprattutto
del pane, fa appello alla scienza, ed afferma che tutti i mali dell'umanità hanno
un'unica causa: la miseria, e la lotta per l'esistenza: siamo afferrati dall'ambiente. Il
Cristo a queste cose risponde: "L'uomo non vive di solo pane"; in altri termini, egli
risponde con l'assioma delle, origini spirituali dell'uomo. L'idea del diavolo poteva
essere adatta soltanto all'uomo bruto. Quanto al Cristo, egli sapeva che non si fa
rivivere l'uomo soltanto con il pane. Se non vi è in più la vita spirituale, l'ideale di
bellezza, l'uomo cadrà nella malinconia, morirà, perderà la ragione, si ucciderà o si
tufferà in fantasie pagane. E, poiché il Cristo portava in se stesso e nel suo verbo
l'ideale della bellezza, stabilì che la miglior cosa era insediare nelle anime l'ideale
della bellezza; portando questo nelle loro anime, gli uomini diventeranno tutti fratelli,
gli uni verso gli altri, ed allora, senza dubbio, lavorando gli uni per gli altri,
diventeranno ricchi. Mentre invece, se si dà loro il pane, andranno a rischio di
diventare nemici a causa della noia. Ma se si desse la bellezza e nello stesso tempo il
pane? Allora si toglierebbe all'uomo il lavoro, la sua personalità, il sacrificio del suo
bene in favore di un altro; in breve, gli si toglierebbe tutta la vita, l'ideale della vita. E'
per questo che è meglio proclamare solo un ideale spirituale”. Questa “lettera inedita”
tradotta dal russo da M. WILCZKOWSKI, è riprodotta nel primo ed unico numero
della rivista “Les mains libres” (Desclée De Brouwer, Paris 1955, pp. 97-99).
(108) “Ci glorifichiamo anche delle tribolazioni, sapendo che' la tribolazione genera
la costanza, la costanza genera una virtù provata, la virtù provata genera la speranza.
E la speranza non delude affatto, perché l'amore di Dio è stato versato nel nostro
cuore dallo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rom., V, 3-5).
(109) N. BERDIAEV, De la destination de l'homme, Essai d'éthique paradoxale, ed.
“Je sers”, Paris 1935, p. 40.
(110) Riguardo all'Ungrund di BOEHME, vedasi ALEXANDRE KOYRÉ, La
philosophie de Iacob Boehme (Vrin, Paris 1929, p. 323): “L'Ungrund è nell'assoluto
ciò che è in lui eternamente mistero, non rivelato e non espresso: è là sua" coscienza";
è ciò che è.. prima" di manifestarsi e di esprimersi; “prima" che il suo essere assoluto
si rivolga a se stesso e si dia a se stesso. Il che non significa che l'assoluto potrebbe
esistere realmente senza manifestarsi ed esprimersi, senza rivolgersi e generarsi
eternamente, ma soltanto che, sebbene illumini e penetri eternamente il suo proprio
mistero, rimane eternamente "in se stesso" un mistero da illuminare e da penetrare...
L'Ungrund è il fondo eternamen1e fecondo della vita dell'assoluto, il germe assoluto,
che in quanto germe, non esiste ancora, e non è ancora nulla, ma che contiene in sé
tutto ciò che sarà... L'Ungrund è questo germe assoluto... in quanto noi lo
consideriamo in ciò che in lui... eternamente rimane del non-essere e non si realizza
mai”.
(111) N. BERDIAEV, cit. (p. 42). “Nel Boehme, l'Ungrund, cioè secondo me, la
libertà iniziale, è situata in Dio, mentre per me essa è situata fuori di Dio” (ID., Essai
d'autobiographie spirituelle, Bucbet-Chastel, Paris 1958, p. 221).
(112) “Il Dio della Bibbia, il Dio della rivelazione non è affatto un atto puro; in lui si
manifesta una vita affettiva ed emotiva, un dramma inerente ad ogni vieta, un
movimento interiore, sebbene queste cose appaiano sotto una forma esoterica” (ID.,
De la destination de l'homme, cit., p. 45).
(113) IBID.
(114) IBID., pp. 42-43.
(115) Esso altera il dogma all'inferno. (V. avanti, pp. 217-18).
(116) Come quello di Arthur Shopenhauer o di Éduard von Hartmann.
(117) “Bonumquod occasionatur ex malo, quod est... aliqua perfectio ad quam
materialiter malum se habet, sient persecutio ad patientiam, vel aliis infinitis modis”
(SAN TOMMASO, l Sent., dist. 46, q. l, a. 3).
(118) “Deus... vult permiuere mal a fieri. Et hoc est bonum” (ID., I, q. 19, a. 9, ad. 3).
(119) “Fare meno bene di quanto si poteva fame significa mancare contro la saggezza
o contro la bontà” (LEIBNIZ, Teodicea, n. 201).
(120) “Ex hoc volumus benefici esse, non principaliter ut aliis bona velimus; sed,
quia volumus quod nos decet, sequitur aliorum bonus” (GAETANO, I, q. 19, a. 2, n.
5).
(121) La supposizione di un mondo creato da sempre, che dal solo punto di vista della
metafisica ed indipendentemente dai dati della rivelazione appare come
semplicemente possibile quando professa un puro concetto della trascendenza divina,
appariva come necessaria ai filosofi del paganesimo presso i quali il concetto della
trascendenza era alterato.
(122) Le azioni divine, sia necessarie, sia libere, sono Dio stesso; esse non devono
essere ordinate ad un fine, Ma le opere divine esistono in vista di un fine. Dio, dice
SAN TOMMASO, le vuole per il loro fine “vult ea quae sunt ad finem, ordinari in
finem” (I, q. 19, a. 5). “Ciascuna di esse tende verso la sua propria perfezione, che è
un'immagine della perfezione e della bontà divina” (ID., I, q. 44, a. 4). ..
(123) “Etiam in agendo intendunt aliquid acquirere” (IBID.).
(124) “Sed primo agenti, qui est agens tantum, non convenit agere propter
acquisitionem alicuius finis; sed intendit solum communicare suam perfectionem,
quae est ejus bonitas” (IBID.).
(125) Commentaire sur le Timée, cit. da P. DE LABRIOLLE, La réaction paienne,
L'artisan du livre, Paris 1934, p. 484.
(126) Secondo SAN TOMMASO (op. cit., I, q. 46, a. 1-2), che si oppone su questo
punto, da una parte agli averroisti, e dall'altra agli agostiniani, la ragione non può né
dimostrare che il mondo è eterno, né dimostrare che non lo è. Esso poteva esistere da
sempre, dipendente da Dio, sospeso a Dio. Allora sarebbe eterno, non certamente
dell'eternità di Dio, che è assenza di successione, ma di un'eternità di cui è capace una
creatura, cioè di un'eternità di successione, di un'eternità d'indigenza seguendo
Platone; BOEZIO, Philos. Consol. (lib. V, prosa 6, n. 14), oppone qui Dio che è
eterno, al mondo che è perpetuo. Soltanto la rivelazione può risolvere
definitivamente la questione ed insegnarci che il mondo ha avuto un principio.
(Nell'Antico Testamento, Genesi, I, 1; Il Mac., VII, 28. Nel Nuovo Testamento, Gv.,
XVII, 5, 24; Ephes, I, 3; I Petr., I, 20). Le considerazioni dedotte dall'entropia del
mondo non possono fornire che argomenti probabili. (V. avanti, p. 146, nota 8).
(127) Il pensiero di ECKHART assomiglia soltanto apparentemente a quello di quei
filosofi. Dichiarare, come egli fa, che “Dio appena è esistito ha creato il mondo”, e
che “si può concedere che il mondo sia stato creato ab eterno”, significa, attenendosi
al senso consueto di tali proposizioni, dichiarare che il mondo non è incominciato
temporalmente, il, che è un errore in materia di fede, ed è per questo che quelle
proposizioni sono condannate da Giovanni XXII, (Denz., nn. 501-2). Ecco ciò che in
realtà ha detto Eckhart.
Ma che cosa ha voluto dire? Egli commenta il testo biblico: In principio Deus
creavit... Questo principio, dal seno del quale Dio ha creato, e dal quale l'atto creativo
è partito, è l'essenza divina, il nunc aeternitatis, 1'unico istante dell'immobilità eterna.
“Non bisogna immaginare”, egli dice, “che Dio attendesse che venisse il momento di
creare il mondo”. Questo è l'errore che vuole dissipare nello spirito del suoi uditori.
Crede di riuscirvi dicendo che Dio ha creato ab aeterno; il che non significa, secondo
il suo modo di vedere, che il mondo sia comparso ab aeterno. Si chiarirebbe, a
quanto pare, il suo pensiero, dicendo che, secondo lui, il mondo esiste ab aeterno
Del, ma che non esiste ab aeterno sui (Cfr. G. THERY, Le procès d'Eckhart, in “Vie
Spirituelle”, maggio 1925, p. 178).
SAN TOMMASO (op. cit., I, q. 46, a. 1, ad. 6), aveva scritto: “Sebbene Dio abbia
avuto la volontà eterna di produrre un effetto, non ne consegue che egli abbia
prodotto un effetto eterno... Dio crea contemporaneamente la sostanza del mondo ed
il tempo. Non si deve dunque immaginare che egli agisca dopo di non aver agito,
come se tutto ciò accadesse, per lui, nel tempo. Ma bisogna pensare che egli ha dato
al mondo il tempo come ha voluto e quando l'ha voluto”. E' il pensiero sviluppato da
SANT 'AGOSTINO (Confessioni, lib. XI, capp. 13-14, nn. 15-17): “Non c'è dunque
tempo nel quale non abbiate fatto nulla, poiché avete fatto il tempo stesso”.
(128) Bisogna distinguere con SAN TOMMASO (I Contra Gentiles, cap. 82), due
specie di indifferenza o di indeterminazione. Da una parte, l'indifferenza di povertà e
di imperfezione: ad esempio, quella di un'intelligenza che non si è ancora liberata
dall'incertezza. Dall'altra parte, l'indifferenza di pienezza e di perfezione; questa è di
una forza così perfetta, così sicura di sé, che può servirsi di qualunque mezzo per
raggiungere il suo fine. Ciò che la volontà divina vuole necessariamente è la bontà
infinita. Essa la raggiunge necessariamente, ed è, di conseguenza, necessariamente
compiuta: finis ejus a nullo aliorum dependet, quum tamen ipsa fini suo perfectissime
sit unita. Che essa voglia o no il mondo, ciò non può avvicinarla o allontanarla dal
suo fine. Essa si trova dunque in un’indifferenza dominatrice assoluta di fronte a tutto
il creato.
(129) Essa compare presso di lui come minore, per esempio, nel Compendio:
“Chiunque non sceglie il partito migliore, manca di potenza o di conoscenza o di
bontà. Dio non ha scelto il partito migliore, creando il mondo. Dunque Dio ha
mancato di potenza o di conoscenza o di bontà”. Questa è l'obiezione della quale
Leibniz negherà la minore. Leibniz, come filosofo, iscrive come maggiore, il
principio universale. Ma nel sillogismo teologico, è sempre la proposizione rivelata
(in questo caso l'onnipotenza e la bontà divina) che figura come maggiore. La minore
è semplicemente un mezzo di ricerca del contenuto della maggiore rivelata (V. SAN
TOMMASO, I, q. l, a. 4, ad. 2; e F. MARIN SOLA, L'évolution homogène du dogme
catholique, St. Paul, Friburgo 1924, tomo I, pp. 118-S8).
(130) Egli cita san Tommaso con deferenza, ma evidentemente senza averlo studiato.
(131) SAN TOMMASO, op. cit., q. 1, a. 5.
(132) ID., I, q. 25, a. 5.
(133) Sulla condanna di Abelardo, v. indietro, p. 104.
(134) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 25, a. 5.
(135) ID., I, q. 25, a. 6.
(136) ID., De potentia, q. I, a. 5.
(137) Con questo, san Tommaso esclude un modo antropomorfico di oppone la
potenza assoluta (che sarebbe tutto ciò che Dio può fare senza tenere conto della sua
sapienza e della sua giustizia) alla potenza ordinata che sarebbe tutto ciò che Dio fa'
tenendo conto della sua sapienza e della sua giustizia.
(138) SAN TOMMASO, op. cit., I, q. 25, a. 5, ad. 1.
(139) La distinzione fra potenza divina assoluta e potenza divina ordinata e la
suddivisione di questa in potenza ordinaria e potenza straordinaria, si ritrova, ma in
una prospettiva deformante, in SPINOZA, Pensées metaphysiques, cit., parte II, cap.
9, pp. 481-82.
(140) SAN TOMMASO, I Sent., dist. 44, q. l, a. 2; ID., I, q. 25, a. 6, ad. 3.
(141) IBID., I, q. 25, a. 6.
(142) IBID.
(143) IBID. (I, q. 19, a. 8). Ciò che è caso fortuito in rapporto alle cause particolari, è
ordinato, provisum, in rapporto alla causa universale di tutto l'essere (IBID., I, q. 22,
a. 2, ad. 1).
(144) “Il sistema solare non è una macchina, come non lo è l'universo stesso. Esso è il
risultato della lunga evoluzione storica di un'immensa quantità di fattori che hanno
agito gli uni sugli altri non unificati anticipatamente nella causalità di qualche agente
naturale che sarebbe la causa propria dell'unità del tutto. Senza dubbio la causa prima
intelligente ha diretto quell'evoluzione storica secondo un piano creatore, ma Dio non
è un orologiaio, è un creatore di nature. Il mondo non è un orologio, ma una
repubblica di nature; e l'infallibile causalità divina, per il fatto stesso che è
trascendente, fa accadere gli avvenimenti secondo le loro proprie condizioni:
necessariamente gli avvenimenti necessari, contingentemente gli avvenimenti
contingenti, fortuitamente gli avvenimenti casuali” (J. MARITAIN, Réflexions sur la
nécessité et la contingence, in Raison et raisons, Luf, Paris 1947, p. 62).
(145) Penso alla storia sconvolgente della zattera della Medusa. Oppure alla pagina in
cui P. LENZ racconta l'arrivo a Dachau, nel novembre 1942, di seicento o settecento
prigionieri, per la maggior parte russi, asserragliati in vagoni chiusi con catenacci, nei
quali si erano verificate delle scene di antropofagia (Christus in Dachau oder
Christus der Sieger, Vienna 1957, p. 355). E' il male inventato dal libero arbitrio
dell'uomo, non il male della natura, che è il più spaventoso.
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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