DON ANTONIO

venerdì 16 settembre 2011

"…Sulla malattia e la sofferenza"Enzo Bianchi 15-06-03 Montericco Reggio Emilia

Io voglio innanzitutto ringraziare per questo invito. Dico anche la mia gioia per aver trovato tanti amici, non mi aspettavo di trovarli qui e spero di poter offrirvi semplicemente, non tanto delle riflessioni quanto piuttosto delle tracce per un cammino. Tracce perché continuiamo a farci domande, da cristiani, sul tema del male, della malattia, della sofferenza, della morte. Devo dire che ho accettato di essere qui semplicemente perché su questi temi per varie ragioni della mia biografia ho sostato a lungo interrogando le Scritture, interrogando la tradizione cristiana, ma, soprattutto , lo confesso grazie a una esperienza fatta per alcuni anni accanto a malati terminali di AIDS. Questo stare vicino a queste persone e averne accompagnato fino alla morte un buon numero, semplicemente perché anche lì ero stato trascinato da una serie di conoscenze, mi ha portato, con ogni probabilità, anche, a sollevare alcune questioni che io consegno a voi oggi. Essendo poi il mio intervento in tre tempi, questo mi da la possibilità di poter interrogarmi su tre temi. Il tema della malattia; il tema di come a volte il cristiano tenta risposte sulla malattia; e infine come si dovrebbe stare di fronte alla malattia e accanto al malato. Il senso della malattia: ha detto il cardinal Veieau sul letto d'ospedale durante la malattia che lo ha condotto alla morte: "…Noi preti sappiamo pronunciare belle frasi sulla malattia, io stesso ne ho parlato con calore, io voglio dire da malato ai preti di non dire più niente perché noi sovente ignoriamo quello che la malattia è. Al pensare quante volte ne ho parlato e ne ho parlato da insipiente ne piango ancora". Mi sembra importante ricordare questa testimonianza, proprio mentre mi assumo il rischio di parlare della malattia e della sofferenza. L'enigma del male, l'enigma dell'irriducibile sofferenza di cui parla Richeur, resiste ad ogni sapienza e sanziona lo scacco di ogni discorso, soprattutto del discorso concettuale. Più che parlare di malattia occorrerebbe osservare e ascoltare il malato, colui che nelle sua situazione di sofferenza è il vero maestro, colui che può rivelare noi a noi stessi, colui che rappresenta l'occasione per metterci allo stretto circa il serio della vita. Ho un certo timore, e, davvero con grande umiltà, noi osiamo dire qualcosa sulla sofferenza anche come cristiani, perché è comunque essenziale rischiare una parola su questa realtà che fa parte di ogni vita umana, perché la parola è ciò che l'uomo ha di specifico ed è nella parola come atto, soltanto nella parola come atto, che noi possiamo inventare, cercare, cammini di senso. In questa ottica dire una parola sulla malattia è una sfida perenne che l'uomo deve sempre raccogliere, nella coscienza che si tratta non di dare la risposta, ma, di far propria una ricerca inesausta e inesauribile ma altrettanto essenziale all'umanizzazione dell'uomo, quanto la domanda: " chi sono?". Ricordava Platone: "…Non conduce vita umana chi non si interroga su se stesso" e la domanda e la riflessione sulla malattia e più in generale sulla sofferenza è inerente a questo compito di diventare uomo. Dunque tra l'impotenza del mutismo e la presunzione arrogante delle parole certe e definitive ci è chiesto di osare una parola, una parola molto umile, che sorgendo dal silenzio riviva in se stessa il dinamismo pasquale della morte e resurrezione. Nella realtà più che la sofferenza astratta e singolare noi incontriamo uomini e donne sofferenti. La stessa malattia noi la vediamo nel volto e nel corpo delle persone malate. Persone afflitte da malattie diversissime. Si pensi alla specificità che comporta l'essere sieropositivi oppure portatore di handicap, o segnati da malattie psichiche. Si pensi a malattie mortali e a malattie che possono essere vissute come parentesi più o meno lunghe nell'arco della vita. Vi è poi una maniera assolutamente peculiare con cui ciascuno reagisce alla stessa malattia, maniera che è afferente alla biografia, all'esperienza personale del malato, al suo mondo di riferimenti culturali e religiosi. Lo dimentichiamo questo, ma è una verità. Quando ho sostato a lungo in india ho visto la malattia e la morte esser vissuto in modo molto diverso da come la viviamo noi qui in occidente. Se la malattia rischia di spersonalizzare il malato è anche vero che il malato personalizza la malattia, il che significa che ciascuno nella sua malattia ,a misura di ciò che gli è possibile e grazie all'aiuto di chi eventualmente lo assiste e lo accompagna, è chiamato alla responsabilità di dotar di senso la propria sofferenza. Ripeto, dotare di senso la propria sofferenza. Qui anche il cristiano non ha ricette e tanto meno garanzie che gli consentano di realizzare questo compito e di affrontare positivamente la malattia più degli altri uomini. L'esperienza mostra che il cristiano anche se nella malattia ha un punto di riferimento cui può costantemente rivolgersi deve confrontarsi non solo con lo scacco costituito dalla sua malattia, ma anche sostenere la sua fede e affrontare la crisi e la messa in discussione, così come deve passare dal sapere piuttosto astratto della necessità di portare la croce dietro a Gesù, all'assunzione non di una croce qualsiasi, ma della propria. I cammini che la malattia suscita e gli esiti a cui conduce, sono sempre imprevedibili. Non si può che condividere quanto scritto da Erica Shucards: "…Anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore." Non ha corsie preferenziali il cristiano nella malattia, ma piuttosto una strada che attraversi il dolore. Questa strada può essere una strada con Dio, ma non è ne garantita, ne certa, ne assicurata. Le tenebre sono sempre possibili e possono essere vissute come nascondimento di Dio. E' possibile poi cercare e trovare nuovamente Dio. Io credo che è essenziale ascoltare i racconti dei malati o le testimonianze narrative che i loro accompagnatori si premurano di consegnare ai lettori. Proprio per questo vent'anni fa esatti, proprio per il mio quarantesimo anniversario di vita, feci un lungo ritiro in un eremo radunando racconti di morte di tutte le tradizioni, convinto che quella fosse una strada di umanità. Nel caso si tratti di un malato che ha cercato di integrare la propria sequela del Signore nell'esperienza della sofferenza può anche essere una forma di trasmissione della fede. Un ministero ecclesiale fondamentale e che per molte ragioni si è rarefatto od è addirittura venuto a mancare in questi ultimi decenni. Il carattere completo e plurale del discorso sulla malattia ha come forma letteraria la narrazione, il racconto. Un libro come "La mort en tim" di Marie de Nezel dove l'autrice e psicologa in una unità di cure palliative guida per mano il lettore con infinita delicatezza all'incontro con volti e storie diverse di malati terminali è più istruttivo e vero che molti testi che si dicono di spiritualità cristiana sulla malattia. Quella è un opera così densa e di tale umanità che è anche autenticamente spirituale. Direi poi che questa pluralità e concretezza ha una specifica valenza per quanto riguarda la fede cristiana. L'atto per cui un uomo o una donna arrivano a dotare di senso cristiano la propria malattia e a viverla nella fede, va detto con chiarezza è un evento pneumatico, è una azione dello Spirito Santo che si innesta su un itinerario, un cammino umano di rapporto con la malattia che è accidentato e contraddittorio denso di incognite e di sorprese, di gesti di assunzione e di regressioni, di passi indietro di rifiuti, di momenti di pace e di momenti di ribellione, di sconforto e di volontà di combattere. Addirittura di derelizione fino alla disperazione. Il senso cristiano di quell'esperienza di malattia avviene nell'incontro tra lo Spirito Santo, la particolare umanità del malato , la sua fede, l'ambiente che circonda il malato stesso e soprattutto quelli che accompagnano il malato. Per questo è importante quando si parla sulla malattia o sull'attitudine spirituale di fronte ad essa uscire da quel linguaggio, purtroppo troppo presente ancora negli ambienti cristiani, linguaggio categorico,normativo, impositivo del "si deve". Bisogna. Non è solo un problema di correttezza di linguaggio, ma di rispetto di ciò che può essere solo un evento della libertà del malato il quale sorretto dalla fede illuminato dallo Spirito sta comunque all'interno di condizionamenti e limitazioni che la malattia gli impone. Quando un cristiano si interroga sulla malattia dovrebbe sempre percepire che la malattia sta come un evento all'interno di una vita. Dunque alla malattia no c'è nessuna precettistica da applicare. Il senso della malattia non è mai già dato, ma l'evento della malattia è un evento nel quale occorre, con fatica e pazienza trovare vie di senso.
Signore

Tu conosci il mio cuore

Tu sai che il mio unico desiderio

È di donare agli altri tutto quello che mi hai dato

Che i miei sentimenti e le mie parole

I miei svaghi e il mio lavoro

Le mie azioni e i miei pensieri

I miei successi e le mie difficoltà

La mia vita e la mia morte

La mia salute e le mie infermità

Tutto ciò che sono e tutto quel che vivo

Che tutto sia loro

Che tutto sia per loro

Perché tu stesso non hai disdegnato di prodigarti in loro favore.

Insegnami dunque Signore

Sotto l'ispirazione del tuo Spirito

A consolare coloro che sono afflitti

A ridare coraggio a quelli che non ne hanno a sufficienza

A rialzare quelli che cadono

A sentirmi debole con i deboli

E a farmi tutto a tutti.

Metti sulle mie labbra

Parole rette e giuste

Affinché cresciamo tutti nella fede

Nella speranza e nell'amore

Nella purezza e nell'umiltà

Nella pazienza e nell'obbedienza

Nel fervore dello Spirito e del cuore.

Donami la luce

E le competenze di cui ho bisogno

Aiutami a sostenere i timidi e i timorosi

E a venire in aiuto a tutti coloro che sono deboli.

Fa che sappia adattarmi a ciascuno dei miei fratelli

Al suo carattere

Alle sue disposizioni

Alle sue capacità come ai suoi limiti

Secondo tempi e luoghi come Tu giudicherai bene che sia

Signore.
Cerco ora di riesprimere alcuni nodi cruciali che hanno attraversato e segnato l'atteggiamento cristiano nei confronti della malattia. Certamente queste note sono state abbozzate per sfuggire al rischio di riflettere l'immagine di un Dio contro l'uomo, l'immagine di un Dio perverso, che dobbiamo confessare spesso traspare dietro alcune visioni cristiane della malattia e della sofferenza. Se è vero che le molte parole che la spiritualità ha speso sulla malattia per spiegarla o farla accettare vanno comprese storicamente, è anche vero però che queste parole, questi pensieri vanno sempre giudicati sul Vangelo. Certo alle nostre spalle c'è un cammino che noi oggi dobbiamo avere il coraggio di non percorrere più, e di cercare, invece, di aprire altri e nuovi cammini ispirati dal Vangelo. Vi presento un testo del tardo medioevo che è un efficace illustrazione di quelle che sono delle bestemmie teologiche e antropologiche. Questo testo, che era un testo consegnato a tutti i predicatori, diceva così: "…se l'uomo sapesse quanto la malattia gli è utile vorrebbe vivere sempre in malattia. Perché ? Perché la malattia del corpo è la salute dell'anima. Come? Perché attraverso la malattia corporale la sensualità si estingue, la vanità si distrugge, la curiosità è bandita, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l'orgoglio non c'è più, l'invidia viene rovinata, la lussuria impossibile. Così la malattia facendo odiare la vita dispone all'amore di Dio." Ma, vedete, c'è stato tutto un insieme di atteggiamenti che hanno dato a Dio il volto del Dio perverso. Penso ad una affermazione sentita tante volte nello spazio cristiano, detta al malato e ai parenti del malato. "Dio prova colui che ama" …l'avete sentita certamente, parola, attenzione, che sta in Pr 3,11-12, ma, quando la si legge intiera è "Dio prova colui che ama come un padre prova il figlio". Cioè Dio corregge l'uomo con l'amore di un padre verso il figlio e un padre manderà mai una malattia per suo figlio per provarlo. Un Dio così, voi capite, che è un Dio padre meno buono dei padri, pur cattivi, che noi abbiamo avuto nella vita. Aveva ragione Foierbach che diceva: "Quando l'immagine di Dio è un immagine più cattiva di quella di un padre terreno allora nasce un ateo". Attenzione dunque. La sofferenza e la malattia non corrisponde ad una attenzione privilegiata da Dio, ne si deve dire che Dio permette il male, semplicemente Dio è contro il male, non vuole il male, ma il male fa parte di questa creazione che è in attesa della redenzione finale. Dio non è mai colui che manda una malattia o per avvertire o per convertire, e mai la malattia e il dolore possono diventare soddisfazione per placare Dio, ne possono diventare riparazione per i peccati propri o altrui. Ancora recentemente, e non faccio il nome perché la mia intenzione non è polemica, un personaggio di grande carità, una persona alla quale va tutta la mia ammirazione per quel che ha fatto, però una persona prigioniera di questa tradizione, alla domanda di un giornalista: "Come lei interpreta la sofferenza?" questa persona ha risposto: "…ho detto a un malato di cancro che il suo cancro era un bacio di Dio e il segno che Gesù vuole portarlo sulla croce per baciarlo meglio. Ho detto a quel malato che, se il tuo cuore è puro, la sofferenza della malattia non è una tortura, ma è la condizione in cui tu capisci che Dio ti ama più degli altri". Ecco vedete queste sono davvero parole dette con buona intenzione, dette magari perché ispirate da una grande volontà di difendere Dio,ma non sono ne evangeliche ne cristiane e danno a Dio il volto del Dio perverso. Dio non è mai soggetto della malattia. Certo anche qui ci sono parole nella Bibbia che possono sembrare così: "…Io il Signore creo la felicità e provoco la disgrazia Is 45,7 " ma occorre decodificare altrimenti Dio è responsabile del male. L'apostolo Giacomo: "…Nessuno che è nella prova dica Dio mi prova" perché ciascuno è tentato dalla propria storia, è tentato da se stesso . E' estremamente importante che noi comprendiamo che Dio non invia la malattia per nessuna ragione e neanche si può dire che Dio semplicemente la permette, ma Dio, in realtà, di fronte alla malattia non può far nulla, perché la creazione (noi uomini ) siamo di fronte a lui in piena libertà. Non siamo qualcuno al quale Dio impone o sottrae. Dio rispetta la nostra autonomia umana la nostra fragilità, la nostra debolezza, e quando noi soffriamo, dice la grande tradizione cristiana, Lui è accanto a noi, Lui è vicino a Noi e ci sono anche alcuni testi dei padri della Chiesa che arrivano a dire con molta audacia, Lui soffre accanto a noi perché il suo amore è sempre compassione. Altro luogo critico:" la malattia avviene a causa del peccato". Voi tutti sapete che noi uomini siamo abitati da ancestrali sensi di colpa e che siamo già naturalmente portati a questa domanda "perché a me?", ci viene annunciata una malattia mortale, tra le reazioni possibili "perché a me", "che cosa ho fatto di male". Certamente il rischio allora è di vedere la malattia come un castigo di Dio. Si innesta su questo nostro senso di colpa, nelle profondità, l'immagine di un Dio il quale ci colpisce e chi di noi può dire d'aver sempre fatto il bene, chi di noi a un certo punto della vita non ha qualcosa del suo passato di cui rimproverarsi, ma in realtà ci sono parole di Gesù definitive su questo punto. Ve ne cito solo due, vi ricordate, quando i discepoli, uomini religiosi, portano un cieco dalla nascita da Gesù e gli fanno un domanda, permettetemi di dire, che quando ero ragazzo era la domanda normale in un paese di campagna per spiegare la sofferenza e la malattia: ha peccato lui o i suoi genitori? E Gesù deve rispondere:"…ne lui, ne i suoi genitori.." la malattia non dipende da un peccato, non è il meccanismo messo da Dio per colpire i peccati degli uomini. Che senso avrebbe un mondo, un umanità, in cui l'uomo che sbaglia è castigato da Dio. Che libertà? Se ci sarà un castigo per i nostri mali ci sarà nell'ultimo giorno, nell'aldilà, su questo ci sono parole della scrittura e il giudizio incombe, ma finché siamo uomini, finché siamo su questa terra, Dio castigarci non può, non può. Ricordate quando una torre cadde su alcuni abitanti di Gerusalemme gli chiesero di nuovo: "..ma che peccato avevano fatto"… no io vi dico che non è caduta per dei peccati fatti. Allora attenzione a non ricorrere a queste spiegazioni della malattia magari con buona intenzione, magari in un eccesso di voler difendere Dio, in realtà gli diamo il volto perverso. Ci sono altre parole: la sofferenza è desiderabile al fine di essere espiatoria. Chi conosce la sofferenza sa che la sofferenza schiaccia, isola, deprime, disumanizza. Questa è la verità della sofferenza. Il valore non è della malattia e della sofferenza, ma il valore vero che il cristiano trova è il valore dell'obbedienza a Dio inteso come un amore anche nella malattia, anche nel dolore. La vera sfida che è chiesta al cristiano nella malattia è come continuare ad amare e continuare ad accettare di essere amato. Questa è l'unica cosa che il vangelo chiede al cristiano. La vera sfida per ciascuno di noi nella malattia è continuare ad amare perché il dolore abbruttisce, il dolore ci fa diventare egoisti, il dolore ci provoca e fa pensare soltanto a noi stessi, il dolore ci rende, addirittura, a volte la presenza degli altri, insopportabile. Il vero compito all'interno della malattia è questa fatica del continuare a credere all''amore, all'amore attivo verso gli altri e credere all'amore degli altri verso di noi. In questo senso, allora, proprio perché la malattia se vissuta nell'amore diventa obbedienza a Dio, allora può essere offerta con tutta la vita a Dio, ma non semplicemente come dolore, non semplicemente come fatica, non semplicemente come malattia. Avete mai trovato una volta nel Vangelo Gesù che abbia chiesto a qualcuno nella malattia di rassegnarsi o di offrirla a Dio. Provate a cercare! E vedrete se questo linguaggio è presente nel Vangelo. Gesù chiede ogni volta che qualcuno è malato che questo malato mostri ,pur nella sua condizione, un desiderio di salvezza, ma di una salvezza che passa con la volontà di comunione con gli altri, di amore per gli altri. Ecco allora che noi dobbiamo certamente, come cristiani, cogliere nella malattia questo tragitto. Innanzitutto il tragitto della preghiera, preghiera che nel malato è lamento e anche protesta. Quando noi leggiamo le preghiere nel libro di Giobbe o nel libro di Geremia c'è una protesta, a volte c'è addirittura una contestazione di Dio e anche Gesù morendo sulla croce ha gridato al Padre perché! Perché! Se la preghiera è l'espressione di una relazione vitale del credente col suo Signore, è normale che nella situazione di crisi propria della malattia il credente si appelli a Dio, e cerchi di ritrovare un rapporto con Lui perché l'esperienza della fede, fede che viene messa alla prova, una esperienza che chiede: "colui che è stato accanto a me nella beatitudine e nella pienezza di vita è ancora accanto a me nella malattia financo nella morte e al di là della morte? E' una domanda a cui si risponde con la fede, ma la fede a caro prezzo non la fede che è una certezza a volte in cui in realtà non si vuole percepire il Dio vivente, ma un idolo che fa da tappabuchi alle nostre angosce. Ed è all'interno di questa ricerca fondamentale di senso, espressa con il linguaggio della preghiera, che si può certo domandare a Dio, domandare a Dio che la sofferenza e la malattia passi, che ci sia la guarigione. Anche Gesù di fronte alla morte ha chiesto, dicono i vangeli, più volte, con insistenza al Padre che se era possibile Lui non entrasse in quell'ora della vita segnata da violenza, da sofferenza, da tortura, fino alla morte ignominiosa in croce. Ma Dio non poteva far nulla, non avrebbe potuto togliere a Gesù quella condanna che era una necessità umana in un mondo ingiusto in cui il giusto perisce. Però, ci dicono i Vangeli che Dio gli ha mandato un angelo. Decodifichiamo: non ha avuto apparizioni, Dio gli ha permesso di comprendere che la sua morte aveva un senso, e Gesù ha potuto concludere " ma non la mia ma la tua volontà sia fatta", percependo tutto il senso di quel cammino di passione e morte che l'attendeva. Vedete, nella malattia è importante che noi continuiamo a confrontarci con Dio, ripeto, a costo della protesta, a costo di contestare Dio come ha fatto Giobbe, come ha fatto Geremia, esprimendo il proprio dolore fino a dire "maledetto il giorno in cui son nato. Non ci è chiesto di rassegnarci, ma ci è chiesto di continuare in quello scontro con Dio, a trovare un senso. Noi cristiani siamo certi di una cosa che Dio non esaudisce le nostre richieste, non può esaudirle, ma invia sempre lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono, dice Gesù nel Vangelo. Il dono dello Spirito Santo significa proprio dare un senso alla propria malattia. Quando si da un senso alla propria malattia e nella malattia si continua ad amare e ad accettare di essere amati si vive la stessa esperienza d'amore di Gesù sulla croce. Ricordatevi sempre questo: la croce non ha dato nessuna Gloria a Gesù, è Gesù che ha reso gloriosa la croce perché vi è salito sopra continuando ad amare e accettando di essere amato. La croce è uno strumento di esecuzione, non ci è chiesto neppure di amarla, ma ci è chiesto, come situazione in cui continuare ad amare e ad essere amati. Ecco perché anche la malattia è un cammino di sequela del Signore, non ci è chiesto altro. Amare il Signore con tutto il cuore, con tutte le forze, con tutta la mante e amare gli altri, gli uomini come se stessi. C'è un bellissimo testo di Gregorio Nazianzieno che dice: " Signore fa che io ti sappia amare con tutto il cuore, con tutta la mente quando la mente della vecchiaia vacillerà e con quelle poche forze che mi resteranno quando sarò malato, ma fa che continui ad amare Te e gli altri come te stesso e allora il cammino verso di Te è un cammino di speranza, io dico è un cammino di senso, un cammino che con tutto il prezzo e il dolore val la pena di essere percorso insieme agli altri perché se si ama gli altri son sempre accanto a noi, destinatari dell'amore, o sorgenti di amore per noi.

Io non so come…la notte è lunga

E il tempo un mostro

ma so che l'alba verrà

e la vita degna sarà in ogni uomo

e la terra non tremerà più

e la stella di Betlemme ricorderà,per sempre

che Cristo è veramente nato per tutti gli uomini

Io non so come…la guerra è sulla terra

E il male sconvolge la creazione

Ma so che verrà l'alba

E ogni uomo avrà il suo pane

E ogni uomo sulla spiaggia riconoscerà Cristo

Che mangia pesce e parla con lui

Io non so come…anche quest'anno è stato orrendo

Di massacri e di morti

Ma so che verrà l'alba eterna

La luce che attende ogni creatura

Fatta a immagine di Dio

Canto dell'universo

Io non so come…la notte è lunga

E il tempo un mostro

Ma so che verrà l'alba.
Ci avviamo alla conclusione del nostro itinerario. Che cosa deve fare il cristiano di fronte alla malattia? Innanzitutto il cristiano deve resistere alla sofferenza. Per il credente la malattia è un luogo in cui egli è chiamato ad ascoltare in modo nuovo e a camminare dietro al Signore in modo nuovo. Un osservatorio da cui rileggere se stesso, le proprie relazioni con gli altri e perché la malattia diventi questa occasione di approfondimento occorre che il malato cerchi, trovi, chieda che gli sia creato un clima di pace, di silenzio, sottratto a multiloquio e al vociare di chi sta attorno. Soprattutto il malato deve sfuggire al meccanicismo malattia – terapia come unica soluzione. Non deve essere disimpegnato il malato da una attiva partecipazione alla lotta contro il male. Non deve pensare che deve delegare tutto alla tecnica medica. Certo non c'è nessuna via di rassegnazione che il cristiano deve percorrere. Resistenza, nel vero senso del termine, di nuovo fare l'opzione per la vita e bisogna essere molto vigilanti per continuare a vivere le relazioni senza estraniarsi, senza congedarsi dal mondo dei sani, percependo se stessi semplicemente come malati. Ognuno di noi è ben più grande della sua malattia. Secondo punto: sottomettersi a Dio. Nella malattia il cristiano è chiamato a lottare, a impegnarsi in una lotta che può essere lunga e in cui è doveroso rivolgersi a Dio con il lamento "fino a quando…" "perché…". Questa dimensione di lotta non va ne negata ne colpevolizzata, è un cammino per dare il nome a tutto ciò che fa male, che è dolore e che scopriamo come sofferenza e malattia. Quando dico sottomissione è sottomissione nel senso che si continua a ringraziare Dio per il dono ella vita e ci si prepara a restituirgliela puntualmente. C'è una cosa molto bella nel libro di Giobbe: quando Giobbe termina la sua lotta con il Signore, senza essersi rassegnato in realtà comprende che il Signore Dio era una cosa diversa da come l'aveva pensato prima.Si dice nel testo dei settanta che nella sua carne malata e disfatta Giobbe vede ormai Dio per dire che quella vicenda di sofferenza umana, diventata luogo di dialogo con Dio, ha cambiato la visione che lui aveva di Dio. Terzo: dare il nome di croce alla propria malattia o sofferenza. Dare il nome è l'attività propria dell'uomo nei confronti della realtà. Dando il nome l'uomo ordina il creato, risponde alla vocazione creazionale che è custodia e governo della creazione. Dare il nome significa vivere una signoria. Nei confronti della malattia dare il nome di croce significa affermare che l'uomo è più forte del male che pure lo estenua e che pur nella malattia il primato e ciò che resta sarà soltanto l'amore. La situazione di debolezza e di impotenza nella malattia diventa occasione per il cristiano di partecipare a quella situazione in cui Cristo stesso è stato, ma continuando ad amare fino a vivere all'estremo l'amore. Don Moioli che era un professore di spiritualità della facoltà teologica di Milano, fu a un certo punto colpito da una malattia di tumore, di cancro, che in pochi mesi lo portò via giovanissimo. Io ho seguito quell'ultima fase in cui lui mi diceva che il suo grande sforzo era poter ascrivere la sua malattia nella croce. Dare il nome di croce, l'espressione sua, ma, ripeto, senza dolorismi, nel senso che ,tutto ciò che si vive si vive sotto il primato dell'amore. Quarto: organizzarsi nella malattia. Percepire che è un modo di vita diverso. Bisogna proibirsi di morire prima, di lasciarsi andare dimissionando dalla vita. Come è importante che noi ci prepariamo nella malattia. Organizzare e disciplinare il tempo. Certo, per quanto è consentito dalla situazione in cui ci si trova che spesso è la situazione ospedaliera. Nella malattia ci vuole un tempo per pensare, uno per leggere, uno per riposare, uno per ricevere i parenti e gli amici. In ogni caso mai fare del tempo una prigione. Il tempo che passa mentre noi neghiamo a noi stessi la vita. Quinto: imparare la lezione della debolezza. La debolezza e l'impotenza a cui la malattia costringe, fino ad essere a volte nelle mani degli altri, è una grande occasione per imparare la nostra verità umana, imparare l'obbedienza. Se la malattia è assunta come occasione di obbedienza, allora diventa anche una prassi di amore e solidarietà con gli altri. La mia esperienza, permettetemi di dirlo, è di persone che nella vita non parlerebbero neanche con il vicino dello stesso pianerottolo, una volta che sono in una corsia di ospedale fraternizzano come persone umili, semplici. Persone che avrebbero mai pensato di avere una parola da ascoltare o una parola da dire. E' una grande esperienza quella, l'esperienza della debolezza e dalla debolezza impariamo ad essere fraterni. E infine imparare che le malattia fa parte della nostra vita e che la malattia sta nella nostra vita. Noi dobbiamo avere costantemente davanti il pensiero della nostra debolezza e fragilità in modo che siano intaccati i nostri sogni di immortalità, combattute le nostre paure e i tentativi di rimozione nei confronti della morte. Certamente anche su questo è venuta meno l'arte della memoria mortis, forse perché di nuovo obbediva a una logica che non aiutava a cogliere il senso di un cammino, ma noi dobbiamo indubbiamente ripercorrere queste strade. Infine riconciliarsi con la propria esistenza, tornare al passato, rileggere la propria vita, far emergere il filo rosso che la unifica, riprendere le opzioni fondamentali della vita, credere alla continuità della storia degli uomini sapendo che noi siamo venuti nel mondo accogliendo le tracce di chi ci ha preceduto e ce ne andiamo lasciando delle tracce. Infine per noi cristiani credere alla vita eterna, esercitarci nella fede della vita eterna, imparare a credere alla vita eterna. Si tratta solo di credere a una cosa, di credere che l'amore è più forte della morte. Non pensate che la vita eterna sia un esercitare l'immaginario a come sarà di là e a eventuali immagini del paradiso. Si esercita a credere alla vita eterna chi crede e aderisce al fatto che l'amore è più forte della morte,è più forte dell'inferno, come dice la finale del Cantico dei Cantici. Allora anche la malattia se è un cammino di amore è anche un cammino verso la vita eterna che sarà la comunione dell'amore con tutti quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato perché nessun frammento dell'amore andrà perso. Il peccato si andrà perso, i sensi di colpa spariranno, il male che abbiamo fatto si scioglierà, ma nessun frammento dell'amore andrà perduto.
Uscire dalla vita
Uscire dalla vita
Come quando si esce di Chiesa in un finale d'organo

S'avventa l'anima a scale prodigiose

Trova il piede sulla soglia

Un bianco che vi palpita

E la luce è nuova

Ma uscire non è dato in rapimento

Ch'io possa almeno lasciarmi dietro la mia stanza

Un poco volgendo il capo a riguardarla

Al fine pulita

Sgombra d'ogni discordia

In ordine sereno

Come la Chiesa ora vuota

Le croci fanno una chiara ombra sul pavimento



http://www.santamaria.re.it/documenti/enzobianchi.htm







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