DON ANTONIO

giovedì 22 settembre 2011

NELLA MALATTIA di Luciano Manicardi

La malattia come evento spirituale
Che significa parlare della malattia come evento spirituale? Anzitutto non significa discettare su un'ipotetica "spiritualità del malato". Sono i malati stessi a rifiutare questa ipotesi ghettizzante, stando almeno alle parole dell'Union catholique des malades:
Non abbiamo bisogno di una farmacia spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono una cappella d'infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di una spiritualità ecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una nuova scuola di spiritualità, in cui tutti i problemi della vita siano esaminati e adattati alla situazione di coloro che hanno familiarità con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto attraverso un'ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta di rivolgersi a noi e di parlarci "in quanto malati" come se non si volesse sapere null' altro di noi; prima di essere malati, siamo degli uomini e dei figli di Dio ... Dovunque altrove, nella famiglia, nella professione, nella città, siamo forzatamente distaccati dalle attività comuni, un po' messi a parte, se non tenuti in disparte. Il sentimento di questa distinzione, di questo isolamento e di questa inutilità è forse ciò che vi è di più penoso nella malattia. Perché volerei mettere ancora a parte anche nella chiesa (1)?
Unica è infatti la spiritualità cristiana, e il battezzato, con il suo sensus fidei, cercherà di vivere in Cristo ogni situazione della sua vita.
La malattia si presenta come evento spirituale anzitutto in quanto fa emergere o risveglia nei malati stessi una dimensione spirituale prettamente antropologica che si pone sul piano del senso della vita e dei valori dell' esistenza. Mostrando che l'uomo non ha potere su di sé, che la vita e la salute non sono realtà scontate né dovute né immediatamente disponibili, la malattia guida l'uomo a un ri-centramento, a considerare ciò che nella vita è veramente serio ed essenziale. Nella malattia emerge la domanda spirituale dell'uomo, o meglio, l'uomo stesso si manifesta come domanda di senso, come bisogno di riconoscimento personale, come appello che chiede ascolto, come desiderio di gratuità, come esigenza di presenza. Il malato non è riducibile alla parte del corpo o all' arto menomato, ma è una totalità sofferente. La malattia, infatti, investe il piano fisico e psichico dell'uomo, e mette in crisi i valori e le scelte, le relazioni e le attività che hanno presieduto a un'intera vita. Insomma, questa dimensione spirituale è a monte delle forme religiose del trascendente e diviene nel malato il compito umanissimo di dotare di senso la malattia (2).
Questo faticoso cammino non è certo risparmiato al cristiano il quale non conosce vie che aggirino o evitino il dolore, ma solo una via che lo attraversa insieme con il Dio a cui egli può sempre rivolgersi con la preghiera. Il senso cristiano dell' esperienza di malattia non è già dato, non è una ricetta da applicare impersonalmente, ma avviene nell'incontro fra lo Spirito santo e la particolare umanità del malato, la sua fede, l'ambiente familiare ed ecclesiale che gli è vicino. In base alle sue particolari condizioni psicofisiche e alla sua fede, il malato cercherà di vivere anche la malattia nella fede del Cristo che ha condiviso la totalità della condizione umana, anche la sofferenza e la morte. Allora la malattia potrà essere non solo subita, ma anche vissuta, e vissuta spiritualmente come un'immersione battesimale, come una partecipazione all' evento pasquale. Si tratterà di dare il nome di croce alla propria malattia, cioè di vivere con Cristo nella malattia come nella salute (cf. 1Ts 5,10). Il Cristo crocifisso, infatti, ha abitato le situazioni infernali della sofferenza e della disperazione umana. Allora la malattia può diventare, per il cristiano, una via di coinvolgimento con la morte e resurrezione di Cristo. Il teologo Xavier Thévenot ha distinto tre tempi nella sofferenza accostandoli in modo suggestivo al triduo santo:
Un tempo di "siderazione" in cui si è paralizzati dallo shock, dallo "stupro" della disgrazia che ci coglie (la perdita di un figlio, essere colpiti da una malattia grave, restare handicappati da un grave incidente). All'inizio, una vera sofferenza è sempre troppo forte. Poi, il tempo dell'elaborazione del lutto, in cui si impara a liberarsi dai propri sogni attraverso la rivolta, la depressione, la regressione, eccetera. Un terzo tempo, infine, che è quello del lavoro di Pasqua. Si ritrova qui la struttura del triduo pasquale. Il venerdì santo, in cui si è come schiacciati dall' eccesso rappresentato dal male; il sabato santo che è il tempo del silenzio in cui si riorganizza la propria vita, la propria memoria, le proprie speranze; il tempo di Pasqua che è un tempo di speranza, ma una speranza che non si confonde con il riposo completo. È ancora un lavoro, l'intraprendere un cammino. Il Dio in cui si trova riposo non è affatto un Dio di tutto riposo (3).
Ecco la malattia come evento spirituale! Lo Spirito di Dio e lo spirito dell'uomo (cf. Rm 8,16) cooperano all' elaborazione del senso della malattia: l'uomo assume coscientemente la propria debolezza e infermità aprendosi con la fede e la preghiera all' azione dello Spirito santo che viene in aiuto alla sua debolezza (cf. Rm 8,26) e lo porta a leggere la propria malattia come debolezza in Cristo (cf. 2Cor 13,4).
La reazione alla malattia
Chi legge il libro di Giobbe si trova di fronte alla reazione rabbiosa, alla protesta e alle bestemmie di un uomo di fronte alle sventure della vita e massimamente di fronte alla malattia che l'ha colpito. La malattia sconvolge il quadro familiare in cui Giobbe vive innestando conflitti e tensioni, incomprensioni e insofferenze nelle relazioni con le persone vicine. Il disfarsi del corpo di Giobbe si accompagna ad alterazioni psichiche e alla messa in questione dell'immagine di Dio, creatore del corpo umano stesso. E così vediamo Giobbe che accusa, maledice, protesta contro Dio, così come arriva a litigare e combattere con gli amici che, venutolo a trovare, ben presto si trasformano in suoi nemici (4).
Ora, noi sappiamo che il difficile iter di assunzione di una malattia grave comprende diverse tappe tra cui c'è il momento della protesta, dell'aggressione, della rivolta. È un momento di sfogo emotivo, di scoppio violento dei sentimenti di chi si rende conto di essere effettivamente stato colpito da una malattia grave o di restare paralizzato a causa di un incidente, eccetera. L'aggressione, la rabbia, non avendo un oggetto preciso contro cui indirizzarsi, si scagliano indistintamente contro tutto ciò che si presenta a tiro e tutti possono esserne bersaglio. Tutto può divenire occasione di rimostranza e di lamento. L'aggressione può anche essere portata contro di sé con desideri o manifestazioni di autodistruzione. È dunque particolarmente importante, in questa fase, la vicinanza intelligente delle persone che accompagnano il malato. Non si tratta tanto di zittire le imprecazioni del malato, di soffocare con imbarazzo i suoi lamenti per non disturbare gli altri o per non far fare brutta figura ai parenti, di correggere le cose sconvenienti che il malato pronuncia. Non si tratta cioè di ergere barriere per fermare ciò che deve trovare sfogo. È vero che il malato può dire cose irrazionali o ingiuste, ma è ancor più vero che questa fase di ribellione è un passo importante nel cammino di assunzione della crisi che la malattia comporta, e rientra nella resistenza a cui il malato è chiamato. Il malato cerca, in quel modo, di esprimere ciò che sta accadendo alla sua vita, di dire il proprio dolore, ed è indubbio che questa operazione costituisca la tappa iniziale del cammino verso una possibile guarigione. Il nostro dramma, rispetto a Giobbe e all'uomo biblico in genere, è che l'età moderna ha perso completamente la capacità di esprimere e dare forma ai sentimenti e agli affetti fondamentali della nostra esistenza e del nostro corpo. Nei salmi spesso l'uomo malato grida, urla, sfoga la propria angoscia, chiede "perché", protesta contro Dio: noi oggi, invece, siamo privi di questa facoltà di esprimere la nostra sofferenza. Prima di morire fisicamente moriamo della morte della parola in noi, siamo monchi della capacità di esprimere la sofferenza. La società moderna inibisce la manifestazione del dolore, soffoca la protesta, spegne il lamento, anestetizza e sterilizza non solo gli ambienti ospedalieri, ma anche le emozioni e i sentimenti dei malati. Non si può non ricordare qui come il Salterio sia una riserva di linguaggio e una scuola che può insegnare al malato le parole, la grammatica e la sintassi dell' esprimere la propria sofferenza (5).
E come dimenticare le parole di Giobbe stesso ai suoi amici: "Al malato è dovuta la pietà degli amici, anche se ha abbandonato il timore di Dio" (Gb 6,14). E Dio stesso, stando alla finale del libro di Giobbe, gradisce maggiormente le invettive di Giobbe piuttosto che le prediche dei suoi amici (cf. Gb 42,8). Quando il malato vive questi momenti cosi critici, chi gli è vicino e l'accompagna è chiamato al faticoso compito di accoglierlo cosi com'è, per ciò che sente e per come esprime ciò che sente. Quando l'accompagnatore, o colui che sta accanto al malato accetta come un semplice fatto che il malato senta ciò che sente e lo esprima, il malato si sente autorizzato a smettere di tentare di convincerlo e può tentare di cominciare a comprendere che cosa c'è dietro ai suoi sentimenti cosi irrazionali. Quando è chiaro, le risposte diventano evidenti e il malato non ha bisogno di consigli o di risposte di altri. Potrà dare la sua risposta.
Il momento dell' espressione della collera e della protesta sono manifestazioni di vitalità, di reazione e non di resa alla malattia. Allora le lacrime, il pianto, il grido, divengono valvole di sfogo importanti attraverso cui il malato, esprimendo - anche se non con linguaggio discorsivo - la propria sofferenza, manifesta un potere sulla sua malattia. Accogliere il malato anche nella sua ribellione diventa cosi un fattore essenziale per i suoi accompagnatori, affinché il malato stesso non si rinchiuda nella prigione dell'isolamento di chi si ribella contro tutti e contro tutto e neppure resti preda delle spire dell' autodistruzione.
Malattia e preghiera
L'etimologia collega la preghiera alla precarietà. La malattia, che fa sentire all'uomo la precarietà del suo esistere, il suo essere sovrastato da forze che lo dominano e la sua condizione di corpo minacciato, è una situazione in cui a volte anche l'uomo non credente vede sorgere in lui un' apertura al trascendente, una preghiera, o almeno un' attività linguistica che ha un "dio" come destinatario sia di suppliche che di invettive, di invocazioni e di bestemmie. Per il cristiano la preghiera è ricerca di integrazione fra la vita tutta e tutte le situazioni esistenziali, dunque anche la malattia, e il Dio rivelato in Gesù Cristo (6).
Se la preghiera è l'eloquenza della fede, la malattia, che mette in crisi l'integrità psicofisica dell'uomo, costituisce anche una prova della fede, dell'immagine di Dio che il malato nutre, e segna l'inizio di un cammino per rifare l'unità spezzata fra la propria vita personale e l'immagine di Dio, tra fede e vita. Che altro è, infatti, la preghiera se non il cammino in cui il credente, a partire dalle prove della propria vita, purifica e converte le proprie immagini di Dio ponendole davanti al Cristo crocifisso, piena e definitiva rivelazione del volto di Dio?
L'esempio di Paolo è significativo. Afflitto da una "spina nella carne" che con tutta probabilità consiste in una malattia, egli prega intensamente il Signore di liberarlo da questa sofferenza, ma la sua preghiera incontra questa risposta del Signore: "Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza" (2Cor 12,9). La preghiera di Paolo resta non esaudita, ma non inefficace: essa infatti porta Paolo ad accogliere la volontà di Dio e a mutare la sua immagine di Dio vedendosi maggiormente conformato all'immagine di Dio che è il Cristo crocifisso. La preghiera cristiana aiuta la conformazione del credente al Cristo crocifisso.
Abbiamo qui un criterio importante della preghiera cristiana e della preghiera di domanda in particolare. La preghiera esprime una relazione filiale e manifesta la fiducia con cui un figlio si rivolge al Padre: in questa relazione tutto può essere chiesto, anche - ovviamente - la guarigione, non solo la forza di sopportare la prova. Del resto, quando l'uomo prega porta tutto se stesso nella preghiera, anche il desiderio di pienezza di vita, anche le persone con cui vive o ha vissuto, anche la sua storia passata e il suo anelito di futuro. L'Antico e il Nuovo Testamento sono pieni di domande di guarigione rivolte a Dio e a Gesù e la tradizione cristiana ha forgiato quell'immagine del "Cristo medico" cui sono rivolte bellissime preghiere e in base alla quale Ambrogio scrive: "Cristo è tutto per noi. Se vuoi curare una ferita, egli è il medico; se bruci dalla febbre, egli è la fonte d'acqua; se hai bisogno di aiuto, egli è la forza; se temi la morte, egli è la vita" (7).
Al tempo stesso, la relazione di filialità espressa nella preghiera all'Abba, trova per il cristiano un esempio normante nella preghiera del Figlio, Gesù Cristo. E la preghiera di Gesù al Getsemani chiede sì che, se possibile, il calice passi da lui, ma subito aggiunge: "Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36), "Non come voglio io, ma come vuoi tu" (Mt 26,39). Vi sono un modo e un contenuto che rappresentano i limiti al cui interno la preghiera cristiana di domanda deve sempre accettare di avvenire: modo e contenuto che si sintetizzano nella croce di Cristo. La preghiera cristiana non chiede che Dio faccia la volontà dell'uomo, ma porta l'uomo a discernere e a sottomettersi alla volontà di Dio. La preghiera del malato è dunque anche una lotta nella quale egli potrà arrivare a dare il nome di croce alla propria malattia che non guarisce.
In questo suo cammino faticoso è certamente consigliabile al malato la preghiera dei salmi: questi, infatti, rappresentano una riserva di linguaggio estremamente ricca per uomini moderni che sono incapaci di "dire" la sofferenza, di "dire" il proprio corpo (il malato che prega nei salmi sempre legge e dice il proprio corpo, mostrando così che pregare è leggere la propria situazione esistenziale davanti a Dio per vivere in obbedienza a Dio), e di dirli "davanti a Dio". I salmi, in cui spesso l' orante prega a partire da una situazione di sofferenza, sono al tempo stesso una testimonianza e un modello: testimonianza di chi si trova nella malattia o l'ha traversata, modello per chi oggi vive un' analoga esperienza e, mediante l'appropriazione, trova nelle parole del salmo le parole con cui dire la sua situazione. Certo, normalmente la malattia fa emergere la qualità e la misura di preghiera cui si era abituati: se non si è mai pregato, sarà difficile inventare la preghiera nei momenti più critici. Ma anche quando non si sa o non si riesce a esprimere verbalmente una preghiera, per mancanza di forze, per impotenza, la fede riconosce che il malato, nella sua stessa debolezza e fragilità, è supplica vivente rivolta al Signore, è preghiera.
L'accompagnatore poi, che ha a lungo ascoltato il malato, può arrivare a discernere se è possibile proporre al malato di pregare insieme, di ascoltare insieme la parola del Signore contenuta nella Scrittura, nei vangeli. E comunque l'accompagnatore potrà sempre pregare intimamente, in cuor suo, di fronte alla non disponibilità del malato. Di certo, l'accompagnatore è chiamato a stare vicino al malato anche nella distanza da lui, e questo con l'intercessione. Nell'intercessione, nel ricordare davanti al Signore il malato, l' orante ottiene in dono uno sguardo rinnovato e purificato su di lui, uno sguardo più conforme allo sguardo di Dio stesso.
E non si dimentichi mai che la preghiera per il malato e con il malato non può non rivestire una dimensione ecclesiale: una comunità cristiana locale che si riunisca in preghiera attorno a un malato riconosce nella sua persona il sacramento del Cristo che edifica la comunità con la potenza della sua debolezza.
I salmi dei malati
All'interno del Salterio vi sono alcuni salmi pronunciati da uomini malati (8). Vi possiamo annoverare almeno i salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri salmi (ad esempio, salmo 107,17-22), e ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per "dirci nella malattia", per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dare forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza, per parlare a Dio o, almeno, cercarne il volto, nella situazione di angoscia e dolore. Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di "linguaggi della sofferenza", estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell'afasia, nell'incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l'uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (cf. Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in salmo 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso salmo 88)9, è protesta che chiede conto a Dio ("Perché": Sal 22,2; "Fino a quando?": Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (cf. Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (cf. Sal 5,2), è pianto (cf. Sal 6,7-9).
Chi prega, infatti, nei salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo. L'esperienza di malattia costringe l'uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l'orante dei salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all' orizzontalità che anticipa la morte (cf. Sal 6,3; 102,4). Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l'orante che si sente privato dell'integrità della vita (cf. Sal 13,4; 38,11; 88,10). L'orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell' angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell' aridità di chi soffre la sete (cf. Sal 31,10: accanto a "occhi" e "ventre" è ovvio che l'ebraico nefesh significa" gola", non" anima" come traduce la Bibbia CEI). Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l'uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell' energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno (cf. Sal 22,15; 38,11; 102,5). La carne in cui non c'è più nulla di sano (cf. Sal 38,4.8), i fianchi che ardono infiammati (cf. Sal 38,8), il ventre torturato dalla pena (cf. Sal 31,10), le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l' orante cerca di ritrovare davanti a Dio l'unità vitale infranta dalla malattia. Pregare i salmi manifesta dunque un aspetto liberante che
consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter "parlare" ciò di cui abbiamo preso l'abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale (10).
E i salmi ci ricordano che l' orante è un corpo orante:
Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all' anima, ma al contrario, perché l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di "mormorio", "sussurro". Il corpo è il luogo dell' anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: "Tutte le mie ossa diranno: 'Chi è come te, Signore?'" (Sal 35,10) (11).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l' orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: nel salmo 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui sta il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto sta il tempo di Dio, colui "i cui anni non hanno fine" e a cui egli si rivolge chiedendo che "presto" intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere... Le notti insonni, l'alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l'angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con cui si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il salmista nella sua malattia.
Nei salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l'orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell' esistenza di un uomo. Là dove c'è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi salmi l'orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cf. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di "morte nella vita" (12).
La supplica, dunque, linguaggio dell'uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita ("Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore": Sal 115,17-18).
Ma forse, l'elemento che più colpisce all'interno dei salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso. Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l' orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all'interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose. Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l'uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimesso nelle mani del Signore della vita e recuperato al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All' orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i salmi, "perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie" (Sal 103,3)13.
Fede e guarigione
Carissima Chiara, condivido la tua convinzione che lo sviluppo e l'evoluzione delle malattie subisce forti influssi da parte del cervello delle persone ammalate. In particolare questo è vero quando si tratta di patologie nelle quali è coinvolto il sistema immunitario come appunto la xxx. Ne consegue che nella storia della tua malattia ha certamente influito 1'atteggiamento "attivo" da te sempre mantenuto nel contrastarne la progressione... La tua fiducia tanto volitiva da apparire talvolta caparbia, indipendentemente da quale ne sia la fonte (la fede in un Dio misericordioso, il tuo forte carattere, la tua formazione o altro), secondo il mio modesto parere di medico curante ha senza dubbio contribuito a migliorare la prognosi inizialmente pessimistica dell'illustre immunologo (un' aspettativa valutata al di sotto dei dieci anni) che per primo confermò il mio sospetto clinico ... Non so se fede e volontà possano effettivamente modificare l'attività del sistema immunitario tanto da alterare l'evoluzione naturale di malattie come la xxx, posso comunque testimoniare che l'evoluzione della tua malattia è stata fortemente condizionata dal tuo modo di affrontarla (14).
Con queste parole dello specialista che l'ha seguita fin dagli inizi della sua malattia vent' anni prima, termina il libro di Chiara M. in cui l'autrice presenta, attraverso stralci dai suoi diari e brani di lettere scritte a diversi amici (tra cui spicca Chiara Lubich), la vicenda drammatica e luminosa dell'insorgere e aggravarsi di una rara malattia sempre vissuta nella fede cristiana e con fiducia verso il futuro. Un libro che costituisce una testimonianza di fede preziosa capace di dare conforto e speranza a chi vive situazioni di malattia che conducono a gravi forme di disabilità, ma anche e soprattutto una lezione di fede e di essenzialità verso chi è in buona salute.
E le parole finali del medico curante pongono l'accento sull'impatto che la fede può avere nel decorso di una malattia. Ora, che il "fattore fede" (si tratti semplicemente di fede-fiducia nella medicina, nel metodo terapeutico usato, nel personale medico curante o di fede religiosa) intervenga nel processo di guarigione di una persona è asserito in ambito medico soprattutto là dove si attua un approccio olistico alla malattia in cui il medico e il personale curante si aprono anche al mondo spirituale e psichico del paziente e tengono conto del rapporto di interazione mente-corpo. Allora si può vedere come il "fattore fede" possa intervenire nella guarigione del paziente o in una prolungata remissione della malattia o in una sopravvivenza molto più lunga rispetto a quella deducibile dalle statistiche o ipotizzata inizialmente dai medici (15).
Ora, il rapporto tra fede e guarigione è attestato esplicitamente più volte nei vangeli: Marco 9,23-24 (prima della guarigione del ragazzo epilettico Gesù dice al padre del ragazzo: "Tutto è possibile a chi crede" e questi risponde: "Credo! Aiuta la mia incredulità!"); Matteo 15,28 (alla donna cananea che lo supplica di guarire sua figlia, Gesù dice: "O donna, la tua fede è grande"); 8,13 (la guarigione del servo del centurione è preceduta dalle parole di Gesù: "Va', ti avvenga come hai creduto"); 9,22 (la guarigione della donna emorroissa è accompagnata dalle parole di Gesù: "Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata"); 9,28-29 (a due ciechi che lo supplicano Gesù chiede: "Credete che io possa fare ciò?" ed essi rispondono: "Si, Signore"; e Gesù a loro: "Vi avvenga secondo la vostra fede"); Luca 17, 19 (al lebbroso che, vistosi guarito, torna a ringraziarlo, Gesù dice: "La tua fede ti ha salvato").
Gli stessi racconti evangelici delle guarigioni operate da Gesù presentano una struttura dialogica in cui Gesù non guarisce in modo magico, ma sempre costruendo una relazione autentica con il malato o con colui che intercede per il malato, sicché l'uomo non è mai puramente passivo in queste narrazioni, ma opera in sinergia con Gesù con la fede e la preghiera. Questo è talmente vero che alcuni di questi racconti, come la guarigione della figlia della donna straniera (una sirofenicia in Marco 7,24-30, una cananea in Matteo 15,21-28) autorizzano la domanda: chi ha compiuto il miracolo e chi ha creduto?
In Marco 7,24-30 Gesù, di fronte a una donna sirofenicia che lo supplica di guarire la figlia, reagisce ricordando alla straniera che l'economia della salvezza conosce la priorità di Israele sulle genti. "Prima" Israele, poi le genti: "Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". La donna riprende logica e immagini di Gesù, operando però una variante che spiazza Gesù stesso e che si rivela vincente. Poiché sul piano dei tempi della storia di salvezza (prima i giudei, poi i pagani) la donna non ha alcuna possibilità di vittoria, ella, riprendendo la parola di Gesù sui cagnolini sposta la questione sul piano dello spazio delle genti: "I cagnolini sotto la tavola". La donna mostra il suo rispetto per il piano di salvezza, accoglie le parole di Gesù (anche quella sui" cani", termine applicato in ambiente giudaico alle genti) e, con umiltà, sposta il discorso sul terreno dello spazio che appartiene alle genti. A quel punto Gesù sposa le parole e il comportamento della donna e, dichiarandosi vinto, le annuncia la guarigione della figlia a causa della parola che lei stessa ha pronunciato. La redazione di Matteo (15,21-28) sottolinea l'ostinazione della donna che non si scoraggia di fronte al rifiuto di risponderle anche una sola parola da parte di Gesù, poi al fastidio che provoca nei discepoli, e infine alle parole di Gesù che sembrano escludenti e senza speranza per lei. Ma è Gesù che deve poi arrendersi e riconoscere la grandezza della fede della donna: la testardaggine si è rivelata segno di fede grande, coraggiosa e perseverante. La guarigione avviene conformemente alla volontà della donna ("Ti avvenga come vuoi"). Quasi che Gesù dicesse: "Sia fatta la tua volontà". Anche qui sorge la domanda: a chi va attribuita la guarigione? Chi la compie (16)?
Ora, secondo questi racconti evangelici la fede comporta alcuni elementi.
La volontà di guarire. Il desiderio di vivere e l'atto di concentrare le proprie energie interiori e spirituali verso questo fine è un elemento spesso attestato nei racconti di guarigione. La volontà di vivere non è un' astrazione teorica, ma una realtà anche fisiologica che possiede caratteristiche terapeutiche (17).
La collaborazione per guarire. Nelle guarigioni di Gesù è sempre attiva la sinergia tra malato e Gesù. In Marco 8,22-26 questa collaborazione è plasticamente espressa: il cieco si lascia condurre fuori dal villaggio, si lascia mettere la saliva sugli occhi, risponde alle domande che Gesù gli pone, accetta la ripetizione dei gesti terapeutici. Insomma si lascia prendere per mano da Gesù (cf. Mc 8,23).
La preghiera. La preghiera (si pensi soprattutto ai salmi) come protesta e invocazione, come espressione di speranza o grido angosciato che crede e cerca un interlocutore capace di intervenire, è passo importante di guarigione, esprime la volontà di non darla vinta al male, è reazione vitale e atto in cui si nomina ciò che sta avvenendo alla propria vita e lo si porta davanti a Dio.
L'abbandono fiducioso. Rimettersi al Signore in un abbandono fiducioso e sereno (cf. Sal 131; Rm 8,35) comporta l'accettazione di sé e la gratitudine per il Signore, e questo diviene forza vitale nel credente: "Per avere un effetto risanatore, la fede deve essere un abbandono fiducioso alla provvidenza di Dio" (18).
Credere anche quando tutto sembra perduto. La fede cristiana, che crede la resurrezione dai morti e confessa il Crocifisso-Risorto quale salvatore del mondo, è forza capace di traversare le tenebre, è luce nelle tenebre. Si può applicare alla fede e alla sua forza terapeutica quanto fu scritto da una vittima della shoah: "Credo al sole anche quando non brilla, credo all' amore anche quando non si mostra, credo in Dio anche quando tace" (19).
L'intercessione. La fede degli altri, di coloro che portano il malato a Gesù o pregano Gesù perché guarisca il malato sono un elemento che interviene con efficacia nei racconti evangelici e che mostra come la struttura dialogica dei racconti di guarigione sia la struttura stessa dell' amore. E che la forza della fede è nell'amore che la abita e la muove.
[1] L. Lochet, "Au service des malades: l'Union catholique des malades", in La Vie Spirituelle 353 (1950), pp. 63-64.
[2] Cf. V. E. Frankl, Homo patiens.
[3] X. Thévenot, "Une véritable provocation au changement", in L'Actualité Religieuse dans le Monde 75 (I990), pp. 26-27.
[4] Cf. G. Ravasi, Giobbe, Boria, Roma I979; Ph. Nemo, Giobbe e l'eccesso del male, Città Nuova, Roma I98I; M. Ciampa, Domande a Giobbe. Modernità e dolore, Bruno Mondadori, Milano 2005.
[5] Cf. B. Bozak. "Suffering and the Psalms of Lament. Speech for the Speechless, Power for the Powerless", in Église et Théologie 23 (1992), pp. 325-338.
[6] Cf. E. Bianchi, s. v. "Preghiera", in Dizionario di teologia pastorale sanitaria, a cura di G. Cinà, E. Lacci, C. Rocchetta e L. Sandrin, Edizioni Camilliane, Torino 1997, pp. 927-937.
[7] Ambrogio, Sulla verginità 16,99.
[8] Cf. H. Duesberg, Le Psautier des malades, Éditions de Maredsous, Maredsous 1952; L. Manicardi, "Il Salterio dei malati", in Parola, Spirito e Vita 40 (1999), pp. 41-63.
[9] Cf. Id., '''Perché, Signore, mi respingi?' (Sal 88)", in Parola, Spirito e Vita 30 (1994), pp. 61-80.
[10] M. Collin, Le livre des Psaumes, Cerf, Paris 1995, pp. 52-53.
[11] P. Beauchamp, "La prière à l'école des Psaumes", in Concordance de la Bible. Les Psaumes, a cura di O. Odelain e R. Séguineau, Desclée de Brouwer, Paris 1980, p. XVII.
[12] Cf. H.-J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, pp. 270-272.
[13] Cf. G. Angelini, La malattia, un tempo per volere. Saggio di filosofia morale, Vita e Pensiero, Milano 2000, pp. 163-170.
[14] Chiara M., Crudele dolcissimo amore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 251-252.
[15] Cf. Th. A. Droege, The Faith Factor in Healing, Trinity Press lnternational, Philadelphia I99I; H. Benson, The Mind-Body Effect, Simon & Schuster, New York I979; N. Cousins, Head First: the Biology of Hope and the Healing Power of the Human Spirit, Penguin Books, New York I990.
[16] Cf. E. Pousset, "Les récits de guérison dans les évangiles synoptiques. Essai de lecture et conséquences théologiques", in Atelier de théologie du Centre Sèvres, La guérison du corps, MédiaSèvres, Paris 1992, pp. 95-110.
[17] Cf. N. Cousins, La volonté de guérir, Seuil, Paris 1980.
[18] K. Rahner, "Potere di guarigione ed energia risanatrice della fede", in Id., Saggi di spiritualità, Edizioni Paoline, Roma 19692, p. 505.
[19] Citato in B. Siegel, L'amour, la médecine et les miracles, Robert Laffont, Paris 1989, p. 184.
http://www.ministridimisericordia.org/Ilproblemadelmaleedeldolore/tabid/550/Default.aspx

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